LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » Serie Tv http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 STORIE (IN) SERIE n. 14 – 13 Reasons Why http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/04/29/storie-in-serie-n-14/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/04/29/storie-in-serie-n-14/#comments Sat, 29 Apr 2017 09:54:50 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7497

Storie (in) Serie # 14

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

Il nuovo appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato a 13 Reasons Why, una serie Netflix

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13 Reasons Why: Ascolta

di Carlotta Susca

All’inizio di 13 Reasons Why, Clay Jensen riceve una confezione di audiocassette numerate, una mappa e un foglio di istruzioni. Il suo stupore nel verificare il contenuto della scatola fa capire subito che l’ambientazione della serie TV di Netflix (2017) è contemporanea e che la scelta del supporto tecnologico è volutamente retrò: lo era già per i lettori del libro omonimo di Jay Asher (pubblicato nel 2007), lo è ancor di più per il pubblico dell’adattamento televisivo.

Nel registrare i tredici lati delle audiocassette e nel preparare il contenuto della scatola prima di togliersi la vita, Hannah Backer ha voluto far sì che i suoi destinatari, un gruppo selezionato di amici e conoscenti, fossero costretti a un rito: ascolto individuale, solitario; percorso nei luoghi indicati (quasi un pellegrinaggio); trasferimento del pacco al successivo destinatario. La difficile riproducibilità delle cassette, la loro consistenza e fragilità assegnano al supporto un valore aurale: sono le stesse cassette che passano di mano in mano, non copie dello stesso contenuto. Con la costrizione al trasporto della scatola, alla materialità degli oggetti (gli stessi per tutti), Hannah impone un rallentamento e una dilazione temporale, dà valore al contenitore a cui affida il racconto dei motivi che l’hanno condotta al suicidio.

La sua protesta è contro la facilità con cui le informazioni sbagliate e false si diffondono e, all’opposto, contro l’omertà con cui si nascondono informazioni essenziali: per questo da una parte rallenta la diffusione della sua storia all’interno del circolo dei destinatari; dall’altra parte mette a nudo i segreti che hanno contribuito alla sua decisione, mettendo i suoi ascoltatori di fronte alle proprie responsabilità in maniera collettiva.
Gli spettatori ascoltano la voce di Hannah per la prima volta insieme al suo undicesimo destinatario, Clay Jensen, e insieme a lui si chiedono quale sia la colpa che gli è valsa l’inserimento nella lista dei responsabili: c’è chi ha trasformato un bacio nel racconto di sesso facile, chi ha rincarato in vario modo la dose di infamie, chi si è negato nel momento del bisogno. Clay non sembra capace di nessuna di queste cose, e infatti la sua responsabilità è meno concreta, è una colpa per difetto e non per eccesso, per troppa gentilezza.
13 Reasons Why è un ottimo modo per sensibilizzare contro il bullismo e la violenza senza forzature didascaliche, anzi in modo spietato, brutale, come nella scena del suicidio, che è quasi intollerabile. Il modo in cui la storia è raccontata costringe a una visione compulsiva, complice la scelta degli attori: Katherine Langford è una Hannah magnetica, e la delicatezza dei tratti di Dylan Minnette rende Clay un punto di vista (e di ascolto) particolarmente adatto a veicolare gli spettatori nella storia e a farli precipitare (in tutti i sensi) verso il terzultimo episodio per capire quale sia la sua colpa.
Sebbene gli adolescenti di 13 sembrino più maturi dei loro omologhi reali, la narrazione restituisce una architettura che tenta di mettere ordine; la scansione del racconto è implacabile: un responsabile per ogni lato di ogni cassetta. E se a volte è frustrante che i personaggi non si parlino, la dilazione delle informazioni segue un solo imperativo: ascolta.
Che non sia prevista consolazione è evidente sin dall’inizio, e alla scoperta delle cause del suicidio di Hannah si accompagna la constatazione che qualsiasi indelicatezza possa contribuire a minare un equilibrio precario, ecco perché l’ascolto è l’unica arma contro il pregiudizio e la diffamazione. Di più: è l’unico modo per entrare in contatto con altri esseri umani.

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Storie (In) Serie

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STORIE (IN) SERIE n. 13 – Una serie di sfortunati eventi http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/02/17/storie-in-serie-n-13/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/02/17/storie-in-serie-n-13/#comments Fri, 17 Feb 2017 14:55:23 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7428 Storie (In) Serie

Storie (in) Serie # 13

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

Il nuovo appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato alla nuova serie TV prodotta da Netflix: Una serie di sfortunati eventi

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Visor in fabula, o dell’occhiolino di Barney Stinson
La promozione intelligente di Una serie di sfortunati eventi

di Carlotta Susca

La campagna di Netflix per Una serie di sfortunati eventi (USA, gennaio 2017) è perfetta al punto da superare narrativamente il prodotto che promuove: basta scorrere la pagina Facebook italiana di Netflix per ritrovare video e immagini che mettono in atto giochi intertestuali in grado di coinvolgere e gratificare un target abituato a fruire narrazioni seriali e a mischiare riferimenti culturali pop per produrre senso (ironicamente).

In uno dei video promozionali, Neil Patrick Harris, che interpreta il villain della serie, giocando sul trasformismo del suo personaggio (il conte Olaf, che si traveste per tormentare i tre giovani protagonisti), garantisce agli spettatori di parlare a nome proprio:

«Hi, it’s me, Neil Patrick Harris, not Count Olaf, I swear, not Count Olaf, actually me, encouraging you to watch A series of unfortunate events, and I wish you well».

In quanto sé stesso, sottolinea, incoraggia gli spettatori a guardare la nuova serie TV prodotta da Netflix, ma alla fine del suo messaggio strizza l’occhio esattamente come il suo personaggio precedente più famoso, Barney Stinson, lo sciupafemmine di How I Met Your Mother (anche qui era trasformista per mettere in atto le molteplici strategie di conquista contenute nel Playbook, il suo manuale per la seduzione truffaldina). La strizzata d’occhio di Barney Stinson (una rottura della quarta parete, il contraltare ironico dello sguardo in camera di Kevin Spacey/Frank Underwood in House of Cards) rafforza nello spettatore la tendenza a compiere quella che in Lector in fabula Umberto Eco chiama «passeggiata inferenziale», cioè una deviazione da ciò che legge/guarda per attingere a informazioni contenute altrove, ma attive nel testo a livello potenziale. Chi abbia visto How I Met Your Mother inevitabilmente pensa a Barney Stinson quando vede Neil Patrick Harris, e nel video promozionale l’attore rende questa inferenza parte del messaggio, gratificando lo spettatore e moltiplicando la confusione su chi parli veramente.

Netflix Italia ha anche diffuso un video in cui Giovanni Mucciaccia, presentatore di Art Attack!, declina i suoi consigli di bricolage in chiave gotica, con riferimenti a Una serie di sfortunati eventi, e ha pubblicato sulla pagina Facebook titoli di giornale relativi a eventi che avrebbero impedito la visione della serie TV; ha diffuso una galleria dei travestimenti del Conte Olaf in cui il suo viso viene riconosciuto dal sistema di tag di Facebook: l’ultima fotografia (come direbbe lui: «wait for it…») è quella di Barney Stinson.

Facendo leva sulla caratteristica diegetica del travestimento dell’antagonista, la strategia promozionale ha allargato il tema del camuffamento e del riconoscimento mancato/suggerito anche al livello paratestuale della promozione, per cui il corpo dell’attore diventa la manifestazione dell’identità recitata, che diventa inscindibile da quella reale. A lieve rinforzo del richiamo intertestuale a Barney Stinson, il personaggio della madre di Una serie di sfortunati eventi è interpretato da una delle protagoniste femminili di How I Met Your Mother, Cobie Smulders (il suo personaggio era quello di Robin Scherbascky).

La serializzazione audiovisiva dei romanzi di Lemony Snicket (al secolo Daniel Handler) è una rimediazione (il passaggio dal medium cartaceo a quello televisivo) che mette in scena i propri artifici: il Conte Olaf ironizza sull’inutilità del cinema (quando puoi avere tanto buon intrattenimento direttamente a casa tua, fruibile dal divano, dice ammiccando) e, nell’ultima puntata, facendo un bilancio delle disavventure dei tre perseguitati «orfani Baudelaire», fa confusione sulla loro durata (giorni? Un anno? «Una stagione?»), sovrapponendo questo livello di ironia metatestuale a quello relativo ai libri, che già confondevano i piani attraverso l’uso dello pseudonimo dell’autore (Lemony Snicket), la presenza costante di biblioteche come fonte di informazioni, la scelta di nomi di ispirazione letteraria (Baudelaire, Poe, Orwell).

Una serie di sfortunati eventi non è piacevole quanto la sua campagna promozionale: tanti riferimenti intertestuali attivano un orizzonte d’attesa che viene frustrato dalla ripetizione di uno schema sempre identico per ogni coppia di puntate e dall’ossessivo monito del narratore intradiegetico che suggerisce di interrompere la visione di una storia tanto cupa e priva di sollievo. Eppure viene mostrata una linea narrativa che sembra convergere verso quella principale, promettendo la possibilità del lieto fine, ma la storia degli orfani Baudelaire fino alla fine della prima stagione mantiene la promessa più volte ribadita: è priva di speranza. Ma non è la mancanza di happy ending a lasciare insoddisfatti, bensì l’infelice costruzione della storia, il cui intreccio è ripetitivo e il cui andamento è lento in maniera esasperante. Già la sigla ironicamente allontana gli spettatori («Look away, look away»), ma se si sta al gioco accettando di non distogliere lo sguardo è perché si rimane in attesa delle strizzate d’occhio di Barney, che non arrivano. Una serie di sfortunati eventi è costruita per i giovanissimi e non interviene alcun livello narrativo a soddisfare il pubblico smaliziato che ne apprezza i teaser. Peccato.

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STORIE (IN) SERIE n. 12 – L’imprevedibilità nelle serie TV http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/12/21/storie-in-serie-n-12/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/12/21/storie-in-serie-n-12/#comments Wed, 21 Dec 2016 14:51:44 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7387

Storie (In) Serie

Storie (in) Serie # 12

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

Il nuovo appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato al tema della… imprevedibilità nelle serie TV (con riferimenti a Westworld, Stranger Things, The O.A.)

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L’imprevedibilità nelle serie TV
Westworld, Stranger Things, The O.A.

di Carlotta Susca

Le regole della narrazione non bastano a costruire storie coinvolgenti: in un contesto in cui lo storytelling è il paradigma di ogni comunicazione che tenti di essere efficace, concetti come la sospensione dell’incredulità, la struttura in tre atti e i trucchi della sceneggiatura sono noti e interiorizzati al punto da non essere più efficaci.
Nell’impossibilità di collocare in compartimenti stagni i romanzi e le serie TV (così come le mission aziendali, la pubblicità, i video su YouTube), occorre riflettere su come una comunicazione narrativamente costruita si collochi nel bagaglio di storie che danno forma alla percezione individuale del mondo. La familiarità del pubblico con le strutture delle storie cresce in maniera esponenziale e i narratori non possono ignorare l’allenamento costantemente esercitato dal loro pubblico potenziale attraverso la somma di letture, visioni, ascolti.
Come riuscirebbero i narratori a stupire e avvincere il pubblico se si limitassero a seguire pedissequamente regole codificate da Aristotele in poi?
Dalle serie TV provengono alcune soluzioni interessanti per spiazzare gli spettatori e invogliarli a proseguire la visione mettendo in pratica la cooperazione interpretativa di cui parla Umberto Eco in Lector in fabula, impegnandoli nello sforzo di comprendere. L’espressione inglese “to make sense” è cristallina nel descrivere il processo di comprensione di un messaggio (con l’ovvio corollario che un senso deve essere sotteso, ché da comunicazioni insensate siamo infestati).

La teoria dell’informazione di Shannon indica come lo svolgimento di una comunicazione possa essere misurato in termini di prevedibilità: il contenuto informativo è tanto maggiore quanto meno prevedibile, e questo è applicabile anche alle storie. Una comunicazione narrativa dovrebbe essere costruita in modo da accogliere il fruitore (lettore, spettatore o ascoltatore) nel «mondo scritto» (cfr. le Lezioni americane di Calvino) ma anche da evitare di fornirgli immediatamente le coordinate per una comprensione totale: a differenza di un messaggio informativo, la narrazione dovrebbe avvincere e imbrigliare in un tentativo di costruzione di senso che proceda per indizi, improvvise illuminazioni e una tensione costante.
La struttura aristotelica in tre atti e l’arco narrativo del protagonista, variamente esplorati da Joseph Campbell (L’eroe dai mille volti), Christopher Vogler (Il viaggio dell’eroe), Gustav Freytag (Technique of the Drama) – ma anche dallo scrittore statunitense Kurt Vonnegut, che riporta gli alti e bassi dei personaggi su assi cartesiani –, se applicate alla lettera alle narrazioni contemporanee le depotenzierebbero perché le renderebbero prevedibili. Se bastasse collocare le storie nello schema “Boy Meets Girl” (situazione di partenza media, incontro, perdita, riconquista) o “Man in the Hole” (situazione di partenza sfortunata, conquista faticosa del benessere, minaccia, risoluzione), non ci sarebbero molte possibilità combinatorie da sfruttare per costruire prodotti narrativi coinvolgenti.
Nelle serie TV più recenti, la rottura delle regole sembra quasi un presupposto programmatico: non c’è arco di trasformazione del personaggio in BoJack Horseman (ne parlavamo qui) né in Vinyl (i loro protagonisti non fanno che cadere sempre più in basso, senza redenzione); non si va oltre il primo atto in Love, produzione originale Netflix che sfilaccia il modello della storia d’amore, annacquandolo e indugiando nelle pieghe della quotidianità. Se in questi casi è la struttura narrativa tradizionale a collassare, in altri viene meno la collocazione in un genere definito e codificato.

Westworld (2016, HBO, in Italia Sky Atlantic) è un western inserito in una cornice fantascientifica, e costantemente impegnato a confondere la mappa e il territorio.

Come in Jurassic Park, il parco di Westworld è un’esperienza immersiva: l’ambientazione da Vecchio West è realizzata grazie a un territorio vastissimo che può impegnare i visitatori per diversi giorni, e gli automi che lo popolano sono personaggi di linee narrative attentamente costruite in una cabina di regia. Il risvolto fantascientifico, che implica una riflessione sullo sviluppo della coscienza degli automi, sfocia nei modelli di Matrix e The Truman Show (e se ci fosse una realtà sovraordinata e fossimo tutti personaggi?). La tensione narrativa è nel mistero rappresentato da un labirinto e dall’identità di Arnold, deus ex machina; i colpi di scena comprendono la sovrapposizione di piani temporali differenti e la definizione identitaria dei personaggi, sempre in bilico fra libero arbitrio e predeterminazione. La costruzione per enigmi ricorda Lost (e J.J. Abrams è fra i produttori di Westworld), ma la tenuta narrativa della serie ideata da Jonathan Nolan e Lisa Joy è migliore rispetto a quella di Lost, caposaldo della serialità contemporanea multistrand (Lost era viziato da una struttura divergente che ha progressivamente lasciato cadere molti degli indizi proposti nelle stagioni iniziali). Mancano le unità di luogo (al punto che le ambientazioni sono agli antipodi: il polveroso West e laboratori asettici) e di tempo (le linee sono sovrapposte e, dato che gli automi non invecchiano, ricostruire la fabula non è semplicissimo, a vantaggio dei colpi di scena finali).

Stranger Things (2016, Netflix) mescola modelli cinematografici degli anni Ottanta, il realismo della periferia americana, la fantascienza e il fantasy.


Fra le regole della sceneggiatura indicate da Blake Snyder in Save the Cat! viene indicata la necessità di evitare il “doppio abracadabra”, cioè l’inserimento nella stessa storia di troppi elementi che mettano a dura prova la sospensione dell’incredulità: Stranger Things contravviene a questa regola combinando la presenza di un universo parallelo («The Upside Down») popolato da una creatura fantasy (il “Demogorgon”) ed esperimenti paranormali ascrivibili alla fantascienza. La densità narrativa che ne deriva ha pagato nella risposta del pubblico e della critica: la serie TV ha vinto numerosi premi, fra cui il Critics’ Choice Awards.

Il recentissimo The O.A. (2016, Netflix) è definito dalla sua indefinibilità.

Anche in questo caso, il “doppio abracadabra” è costitutivo, strutturale: la protagonista Prairie ricompare dopo una sparizione di più di sette anni, guarita dalla cecità, ma già dalla prima puntata – un lungo prologo al racconto intradiegetico – la storia si sposta in Russia per comprendere il racconto di un’educazione autoritaria ma rimpianta, scontri fra mafia e imprenditori, un viaggio sotto copertura, esperimenti di pre-morte condotti su cavie umane. La narrazione è condotta sempre in bilico fra lo strano e il meraviglioso (cfr. Todorov, La letteratura fantastica) e infatti Prairie chiede ai suoi interlocutori di sospendere il giudizio e immedesimarsi completamente nel racconto, finché non siano completamente avvinti dalla storia.
Lo sforzo di comprensione richiesto agli spettatori è notevole, e non tutti lo riterranno ricompensato dalla visione, ma senza dubbio The O.A. si colloca in un contesto in cui le serie TV operano al rialzo, addensando il materiale narrativo, operando per continui spiazzamenti, disegnando una delle tendenze della serialità contemporanea, quella all’accumulazione e sovrapposizione.

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STORIE (IN) SERIE n. 11 – BoJack Horseman http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/10/24/storie-in-serie-n-11/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/10/24/storie-in-serie-n-11/#comments Mon, 24 Oct 2016 15:24:23 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7319

Storie (In) Serie

Storie (in) Serie # 11

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

Il nuovo appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato alla serie televisiva animata per adulti BoJack Horseman

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BoJack Horseman: la narrazione stratificata

Bojack Horseman.png

di Carlotta Susca

Le serie TV sono da tempo in una fase in cui, se vogliono rappresentare realisticamente il mondo, non possono ignorare la familiarità del pubblico con le serie TV precedenti. Quella che è stata considerata una caratteristica tipicamente postmoderna, cioè la narrazione di secondo livello che presuppone una competenza narrativa diffusa (Umberto Eco scriveva che era impossibile dire «Ti amo disperatamente» senza pensare a Liala), è una diretta conseguenza della massiccia diffusione delle storie dovuta all’evoluzione tecnologica, che consente una moltiplicazione di letture e visioni e ascolti. Una parte degli effetti della globalizzazione è proprio la condivisione di un patrimonio di conoscenze (tutti conoscono Homer Simpson).

Alcuni prodotti finzionali scelgono di mettere tra parentesi la competenza del pubblico intradiegetico. Per esempio, nel mondo postapocalittico di The Walking Dead, nessuno pronuncia la parola «zombie» perché si finge che quel filone narrativo non sia mai esistito, e che Rick Grimes & co. affrontino una minaccia inedita.

Un esempio più recente è la serie TV della HBO Westworld, in cui la possibilità che i robot sviluppino una coscienza è un filone tematico trattato come se fosse nuovo, come se la distopia a cui assistiamo fosse ambientata in un mondo in cui nessuno ha mai letto le storie di Philip K. Dick e di Isaac Asimov – un mondo in cui Dick e Asimov non sono esistiti, probabilmente, altrimenti i creatori dei robot sarebbero leggermente più attenti ai primi segnali di pensiero autonomo nelle loro creature.

Altre narrazioni contemporanee, invece, articolano uno dei propri livelli interpretativi proprio facendo leva sulla competenza narrativa degli spettatori, affidando una parte della comprensione all’enciclopedia di conoscenze condivise dal pubblico. Nel caso di BoJack Horseman, serie originale di Netflix creata da Raphael Bob-Waksberg, il livello intertestuale è esplicitato dalla premessa narrativa: il protagonista era la star di una sitcom andata in onda negli anni Ottanta, e le sue vicende riguardano la ridefinizione identitaria a partire o a prescindere da quella fama diffusa quanto lontana. In pratica, è come se gli spettatori potessero osservare la vita di Jerry Seinfeld oggi nella sua quotidianità. Ma l’addensamento narrativo inevitabile in operazioni di questo tipo non può esaurirsi in una mise en abyme, e così anche parte di quello che accade nel presente narrativo di BoJack Horseman allude agli stilemi della sitcom in un citazionismo intelligente, che costringe lo spettatore a rimanere vigile. Come spiegare altrimenti la linea narrativa che coinvolge il personaggio di Vincent Adultman? Si tratta evidentemente di due-tre ragazzini uno sulle spalle dell’altro, con una scopa per braccio e un impermeabile che inequivocabilmente completa il mascheramento, eppure la scaltra (gatta) Princess Carolyn non sembra notare alcunché di strano nel suo accompagnatore, anche quando si verifica la più classica della commedia degli equivoci (con ‘Vincent’ che recita contemporaneamente la parte dell’adulto e del bambino). Il topos del doppio ruolo è rappresentato anche nella puntata in cui Todd, in carcere, accetta di entrare in due bande rivali e si finge integrato nei due gruppi nella stessa serata, con l’ovvia conclusione di confondere i travestimenti e farsi scoprire.

Risultati immagini per BoJack Horseman

Un altro percorso intertestuale è legato alla scelta dei doppiatori: come in teatro il corpo degli attori ha una valenza semiotica oltre che fenomenologica, anche nelle serie TV gli spettatori possono ricollegare la voce dei personaggi ai ruoli precedentemente interpretati dai doppiatori. La voce di BoJack è quella di Will Arnett, che in Arrested Development era il fannullone Gob Bluth, Diane è doppiata dalla Annie di Community, e soprattutto le caratteristiche di Todd sono amplificate dalla voce di Aaron Paul (con l’inevitabile richiamo a Jesse Pinkman in Breaking Bad).

Lungi dall’essere un catalogo di stilemi e citazioni, Bojack Horseman ha una autonomia narrativa e porta avanti un racconto originale, non confezionato nella classica struttura del viaggio dell’eroe – e nemmeno finalizzato a veicolare lo stesso messaggio –: il protagonista non trova redenzione, e il suo arco narrativo è un’unica lunga discesa (come quella di Don Draper in Mad Men e quella di Richie Finestra in Vinyl). Il tema della serie di Bob-Waksberg è la rappresentazione di una sensazione profondamente umana, come espresso dallo stesso creatore: «It’s that general feeling of “I don’t belong here.” [BoJack is] someone who looks around at everyone at a party and simultaneously feels smarter and stupider then everybody there».

Oltre al piano tematico, BoJack Horseman è godibile su numerosi altri livelli: i personaggi che popolano questo mondo non sono animali antropomorfi, ma ibridi che mantengono alcune delle caratteristiche dell’animale di cui hanno, in parte, le fattezze (principalmente la testa): per esempio una semi-gallina può espellere un uovo se spaventata, come in una delle primissime puntate. Nel caso, più esplorato, di Mister Peanutbutter, il personaggio dalla testa canina mantiene il carattere allegro del labrador, la tendenza alla torsione dello stomaco, l’idiosincrasia per i postini e l’incapacità di seguire una partita di tennis (la pallina è troppo invitante), eppure è sposato con l’umana Diane e conduce una vita normale sotto quasi tutti i punti di vista. La costruzione di un mondo ibrido umano-animale consente declinazioni ironiche nei nomi dei negozi (Beast Buy), sovrapposizioni più puntuali (il direttore editoriale della Penguin è un pinguino) e più articolate (la MNSBC diventa MNSBSea e il suo anchorman è una balena).

Solo pochi cenni alla riflessione sulla scrittura e la lingua (ma ci sarebbe da dire anche della sigla – perfetta): Diane è la ghost writer di BoJack, quest’ultimo rimprovera Mr Peanutbutter per il mix di metafore, il gufo Wanda Pierce riferisce un racconto per dimostrare che le narrazioni hanno bisogno di tempo. In questi e in numerosissimi altri casi la scrittura e la creazione di storie sono esplorate in maniera penetrante.

La densità di informazioni, citazioni e assi interpretativi di BoJack Horseman è emblematica: le serie TV sono un terreno di sperimentazione vivacissimo ed estremamente interessante. Nei casi meglio riusciti – e questo ne è uno – anche il livello superficiale della storia è godibile (per quanto triste senza scampo), ma tutti gli altri concorrono a definire una esperienza di fruizione stimolante come poche.

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STORIE (IN) SERIE n. 10 – Netflix http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/09/12/storie-in-serie-n-10/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/09/12/storie-in-serie-n-10/#comments Mon, 12 Sep 2016 16:03:17 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7264 Storie (In) Serie

Storie (in) Serie # 10

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

Il nuovo appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato al “caso Netflix”

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Con Netflix le serie tv possono somigliare un po’ di più ai romanzi. Parola di E.M. Forster

di Carlotta Susca

Nelle lezioni tenute al Trinity College di Cambridge nel 1927 (poi pubblicate con il titolo Aspects of the Novel), Edgar Morgan Forster suggerisce un confronto tra il romanzo e il dramma: in «Pattern and Rhytm», lo scrittore sostiene che una struttura narrativa troppo rigida, per quanto sia in grado di conferire Bellezza, nel romanzo lo fa in maniera tirannica, a scapito della mimesi – e quindi dell’immedesimazione dei lettori. Nell’opera drammatica, invece, suggerisce Forster, la rigidità della struttura (una trama in cui tutto torni, costruita come un meccanismo perfetto) è giustificata, perché «la Bellezza può essere una imperatrice sul palco» (p. 145).

Cosa ha a che fare questo con le serie tv?

Se seguiamo il ragionamento di Forster scopriamo anche che una narrazione televisiva, così come una rappresentazione teatrale, consente agli sceneggiatori e allo showrunner di costruire un meccanismo narrativo in cui tutto torni, in cui i singoli elementi trovino una propria collocazione e nulla sia superfluo: gli spettatori saranno più propensi ad accettare la perfezione compositiva perché la storia è messa in scena, proposta per immagini e non per parole. Dalla lettura di un libro ci si aspetta qualcosa che ecceda la scrittura, che sporchi la letteratura di vita: se il romanzo deve essere mimetico, non può essere basato sulla perfezione strutturale, perché la vita non lo è.

È anche vero che applicare le idee di Forster sulla narrazione drammaturgica alle serie televisive non è così scontato, se l’autore accomuna il pubblico del cinema all’uomo delle caverne nell’incapacità di seguire una trama e nella preferenza di una semplice storia che risponda a una serie di ‘E poi?’ (p. 87). Ma ci troviamo nel 1927, il cinema non ha sviluppato appieno le sue potenzialità, e comunque l’autore di Passaggio in India è abbastanza lungimirante da concludere il saggio con l’idea che la letteratura debba fare i conti con le narrazioni audiovisive («will it be killed by the cinema?», p. 151).

Fra l’idea che uno spettacolo teatrale consenta l’utilizzo di una struttura in cui tutto torni (Forster fa l’esempio di una clessidra e di una coreografia di ballo) e quella del cinema ridotto a storia lineare (una serie di ‘E poi?’), le serie tv si collocano nel mezzo: sono uno spettacolo ben costruito, montato, fruito in differita, e in molti casi vanno oltre la mera storia, sviluppano una vera e propria trama (grazie anche ad analessi e prolessi, ossia flash back e flash forward – e flash sideways, come per l’ultima stagione di Lost).

Le narrazioni seriali consentono una struttura altamente formalizzata: si pensi ad House of Cards, che suggerisce il modello della battaglia, poi delle geometrie escheriane, infine di Agar.io, un gioco in cui occorre inglobare gli avversari e sapersi ridimensionare per sfuggire allo stesso destino (ne parlavamo qui).

Ma per cogliere la struttura e per seguire una trama occorre attivare la memoria: «ogni azione o parola in una trama deve contare; deve essere funzionale e scarna; anche quando è complessa dovrebbe essere integrata e priva di fronzoli» (p. 88).

Se la fruizione frammentata e settimanale di una narrazione audiovisiva si presta più alla costruzione di una storia (caratterizzata da cliffhanger – finali a effetto – ed elementi volti solo a risvegliare l’attenzione dello spettatore), il binge watching si presta al dipanarsi di una trama perché lo spettatore, decidendo autonomamente i tempi di visione, riesce a esercitare al meglio la sua capacità mnemonica, rilevando incongruenze e binari narrativi morti.

Con la modalità di pubblicazione di tutte le puntate di una stagione contemporaneamente, Netflix ha compiuto un passo avanti nell’evoluzione della serie tv da storia – intrattenimento fine a se stesso – a trama – concatenazione narrativa coerente e coesa. E trattandosi di prodotti audiovisivi, le serie televisive possono sfruttare questa nuova possibilità di fruizione (che consente di fare affidamento sulla memoria dello spettatore) e anche i vantaggi che Forster attribuiva all’opera drammatica, ossia la possibilità di Bellezza formale che deriva da un meccanismo narrativo altamente formalizzato.

Risultati immagini per stranger thingsPrendendo esempi che sono agli antipodi, le telenovelas sono il regno della storia («la narrazione di eventi disposti in una sequenza temporale», p. 44, in cui l’attenzione del lettore è «dirottata verso altro, e la sequenza temporale procede», p. 48), e infatti la loro fruizione è parcellizzata in ‘dosi’ quotidiane, che coprono una durata di diversi anni di visione, in cui è impossibile tenere a mente tutti i trascorsi dei personaggi (di qui i frequenti improbabili riassunti-spiegoni). All’estremo opposto le serie televisive prodotte da Netflix, fruibili in maniera personalizzata, con tempi decisi autonomamente, consentono la costruzione-gioco di House of Cards, la complessità multistrand di Sense8, il citazionismo di Stranger Things: modelli narrativi con trame coese che possono anche rimandare ad altro, che rendono disponibile una modalità di fruizione di secondo livello. Liberata dalla necessità di tenere a mente per un lungo periodo i dettagli della storia, la memoria dello spettatore può lavorare in maniera intertestuale, cogliere il disegno di fondo, operare confronti.

Risultati immagini per sense8

La modalità distributiva di Netflix, lungi dall’essere un vezzo privo di conseguenze, potrebbe farsi agente di trasformazioni sui versanti della sceneggiatura e della percezione del pubblico, contribuendo all’evoluzione delle serie tv, a tutti gli effetti un genere narrativo.

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Nota:

L’edizione citata è: E.M. Forster, Aspects of the Novel, edited by O. Stallybrass, Penguin Books, Harmondsworth, 1974, traduzioni mie.

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STORIE (IN) SERIE n. 9 – Vinyl: chiediamo il bis http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/07/01/storie-in-serie-n-9/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/07/01/storie-in-serie-n-9/#comments Fri, 01 Jul 2016 16:31:33 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7193 Storie (In) Serie

Storie (in) Serie # 9

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

Il nuovo appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato a Vinyl

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di Carlotta Susca

La seconda stagione di Vinyl era stata annunciata precocemente dopo la programmazione negli USA della prima puntata, il 14 febbraio scorso, nonostante i dati di visione fossero inferiori alle aspettative: solo 764.000 spettatori. A distanza di due mesi, la HBO aveva annunciato il cambio di showrunner; al posto di Terence Winter (The Sopranos, Boardwalk Empire, The Wolf of Wall Street, 4 Emmy) avrebbe coordinato i lavori sulla seconda stagione Scott Z. Burns (The Bourne Ultimatum, Side Effects).

È invece di qualche giorno fa la notizia della cancellazione della serie televisiva, un piccolo capolavoro ideato da Winter, Rich Cohen, Mike Jagger e Martin Scorsese: «Ovviamente, non si è trattato di una decisione facile. Rispettiamo enormemente il team di creativi e il cast per il loro duro lavoro e la passione per questo progetto».

Pur con la consapevolezza della mancanza di un seguito, la visione di Vinyl è fortemente consigliata: per le inquadrature bellissime (il pilot era diretto da Scorsese), gli anni Settanta vividi, colorati. Per l’argomento: la caduta e ripresa dell’immaginaria etichetta discografica American Century, che lasciamo nel momento in cui, con la sotto-label Alibi, sta per inaugurare e cavalcare l’esplosione del punk, grazie all’autenticità nichilista dei Nasty Bits e del loro frontman britannico Kip Stevens, interpretato dal figlio d’arte James Jagger.

Per i modi in cui il periodo storico si riverbera nelle trame secondarie, fra cui quella di Devon, la moglie del protagonista interpretata da Olivia Wilde (Dr. House), con un passato nella factory di Andy Warhol e la rinuncia alla vita bohémien per dedicarsi a una tranquillità familiare che si traduce nella rinuncia alle proprie ambizioni e al proprio talento, un personaggio femminile ipnotico e rappresentativo del confine fra autodeterminazione e vincoli sociali, che le impongono un ruolo erroneamente reputato una scelta consapevole.

Per la musica che spazia dal rock di un imbolsito Elvis Presley al blues nero dei club fumosi, comprendendo i New York Dolls, Otis Redding, David Bowie, Alice Cooper, i Velvet Underground e un ampio spettro delle sonorità degli anni Settanta.

Per i percorsi lavorativi e personali di Clark e Jamie: ambizioso ma rigido il primo, interpretato da Jack Quaid (Hunger Games), con uno sviluppo narrativo che lo porta a riconquistare con il sudore e la creatività uno status lavorativo dignitoso – ma anche per lui il percorso, come sempre, è più interessante dell’arrivo –; libertina e ribelle la seconda, interpretata da Juno Temple (al debutto televisivo), rappresentante delle groupie al servizio della band per qualsiasi necessità, che brucia la propria credibilità di talent scout quando ottiene come effetto collaterale della sua indipendenza il rischio dell’overdose dell’artista che ha contribuito a lanciare.

Per il protagonista Richie Finestra, ultimo di una serie di bad guys che hanno consolidato la dignità dell’antieroe nell’immaginario degli spettatori seriali: un leader in crisi, dipendente dalla cocaina, inaffidabile e subdolo (perde in un casinò gli ultimi soldi raggranellati per la sopravvivenza dell’etichetta e fa ricadere la colpa sul collega e amico fraterno Zak), padre assente che ha tradito il patto borghese condiviso con Devon. Quella di Richie (Bobby Cannavale) è una discesa continua: come il suo omologo Don Draper, la cui caduta era sottolineata e ribadita dalla sigla di Mad Men, il percorso narrativo del protagonista di Vinyl reitera un movimento verso il basso che però sembra escludere epifanie e riabilitazioni. Richie Finestra commette un omicidio, viene incastrato da inequivocabili intercettazioni, è costretto a stringere un accordo con l’FBI per incastrare dei mafiosi con cui è costretto a mettersi in affari, viene lasciato da sua moglie e continua a sprofondare, a ogni puntata, più in basso. Ma la sua riabilitazione non deve passare che dalla musica, dalla capacità di anticipare le mode sonore, di intercettare i gusti di un pubblico pronto ad abbracciare il movimento che saprà meglio interpretare lo spirito del tempo. Quel movimento è il punk, e il CBGB ne diventerà il fulcro: la prosecuzione della storia avrebbe potuto esplorare ancora meglio le dipendenze degli artisti, se già nel finale di stagione Kip Stevens viene buttato sul palco da una iniezione di cocaina, antidoto alla catatonia da eroina.

Vinyl rimane, nella sua unica stagione, un drama storico su un decennio che ha posto le basi musicali di una rivoluzione che passa per il disincanto, che fotografa una caduta destinata, per un breve momento, ad arrestarsi e a congelarsi in un successo, nella vittoria della perseveranza ottusa di Richie, che ha sbagliato tutto ma non la creazione di un’etichetta con un focus chiaro, con un progetto: una prassi editoriale non comune, visionaria, che fa guadagnare a Richie e alla Alibi Records tutta la simpatia possibile.

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STORIE (IN) SERIE n. 8 – Ritorno a Twin Peaks http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/05/28/storie-in-serie-n-8/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/05/28/storie-in-serie-n-8/#comments Sat, 28 May 2016 10:21:23 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7159 Storie (In) Serie

Storie (in) Serie # 8

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

L’ottavo appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato a Twin PeaksSegnaliamo che domenica 29 maggio 2016, nel corso del BGeek di Bari si terrà alle 13 (in zona Winterfell) un panel dedicato a Twin Peaks

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di Carlotta Susca

Se manca poco al momento in cui non aver visto Lost sarà una infamia omologa al non aver letto la Recherche, la mancata visione di Twin Peaks potrebbe equivalere a un buco su Edgar Allan Poe o sul gotico inglese.

Narrazione che ha precorso l’autorialità televisiva, la serie di David Lynch e Mark Frost è stata un momento fondativo verso il romanzo seriale, oltre che un esperimento di colonizzazione dell’immaginario di un pubblico sempre più vasto.

La prima puntata di Twin Peaks, andata in onda negli Stati Uniti in fascia serale l’8 aprile 1990, ha superato gli indici di ascolto dei precedenti quattro anni di programmazione su ABC, dimostrando, con le parole di Alan Wurtzel, vicepresidente senior del broadcast all’epoca, che «se c’è una lezione da imparare da questa stagione, è che tutti gli show devono avere la capacità di distinguersi».

Nell’anno in cui Dale Cooper e Laura Palmer colonizzarono le menti di milioni di telespettatori, David Lynch aveva già diretto il cupo Eraserhead, un sogno kafkiano dai personaggi iconici (la donna del termosifone, dalle guance soradimensionate, il feto alieno e Henry Spencer, un giovanissimo Jack Nance che avrebbe ritrovato Laura Palmer «wrapped in plastic»), lo struggente The Elephant Man, Dune e Blue Velvet. Protagonista di questi ultimi Kyle McLachlan, il futuro agente speciale Dale Cooper, ossia il personaggio con cui gli spettatori sarebbero entrati in una Twin Peaks sconvolta dall’assassinio della reginetta della scuola.

Da premesse narrative così poco adatte a un pubblico di massa, Lynch, con Mark Frost (già autore di Hill Street Blues) ha tirato fuori un prodotto di consumo in grado allo stesso tempo di soddisfare gli spettatori più sofisticati, grazie alla giustapposizione di elementi e linee narrative profondamente diversi, in una stratificazione che pesca in acque profonde, per citare il titolo del libro di Lynch sulla meditazione (edito in Italia da Mondadori nel 2008).

Gli intrighi orditi dai ‘catttivi’ di Twin Peaks e le relazioni sentimentali intrecciate fra i suoi abitanti provengono dalle soap opera, ironicamente rappresentate dal serial diegetico Invitation to Love, di cui si vedono scene trasmesse sui televisori dell’immaginaria cittadina nordamericana – e, come nella migliore tradizione del play nel play, i frammenti della narrazione di secondo livello riprendono temi del ‘vero’ Twin Peaks. Ma a questo filo si intrecciano quello comico surrealista, rappresentato dal vicesceriffo imbranato e incline alla commozione Andy Brennan (Harry Goaz) e dalla sua fidanzata, la querula segretaria Lucy Moran (Kimmy Robertson), e soprattutto il filo metafisico, su cui si basa la soluzione del crimine.

Sì, perché Twin Peaks è fondamentalmente una detective story basata sul wodunit, il modello classico in cui l’arco narrativo è teso alla scoperta del responsabile della brutale uccisione di una adolescente: Who Has Done It?, Chi ha ucciso Laura Palmer? è il tormentone che ha accompagnato la messa in onda della prima stagione e di parte della seconda, prima che la produzione premesse per la risoluzione del crimine, decretando così un calo degli spettatori.

Alla scoperta del villain – e le cose non sono affatto così semplici, dato che coinvolgono una Loggia nera e una Loggia bianca, un nano che parla al contrario e la raccolta di garmonbozia, un concentrato di paura che assomiglia alla crema di mais – l’interesse del pubblico era soddisfatto, e l’allontanamento dei due showrunner per protesta e per altri impegni (Lynch stava girando Wild At Heart, Palma d’oro nel 1990) ha causato lo sfilacciamento della trama il rafforzamento di linee narrative che dello sperimentalismo precedente mantenevano solo una forzatura eccentrica.

Nella seconda stagione, dopo lo svelamento e la cattura del killer di Laura Palmer a metà della programmazione, prendono piede la regressione adolescenziale di Nadine (Wendy Robie), la cui superforza e iperattività sessuale non possono che risultare sopra le righe, e la sottotrama ridicolmente noir in cui è coinvolto James Hurley (James Marshall).

Il finale di stagione riannoda ciò che sembrava irrimediabilmente sfilacciato, consegnando agli spettatori un finale interamente basato sull’elemento metafisico, con l’addentramento di Dale Cooper nella Loggia Nera, un labirinto di specchi e Doppelgänger in cui il tempo scorre diversamente che nel nostro mondo – che per le anime perdute è un negozietto in cui fare la spesa (cioè in cui raccogliere il nostro terrore).

È qui che una versione di Laura Palmer annuncia a Cooper: «I’ll see you again in 25 years».

Il prequel Fire Walk With Me, stroncato in maniera pressoché unanime a Cannes nel 1992, ha contribuito a chiarire le vicende dell’assassinio di Laura, che si vede rappresentato con violenza disturbante: con il ritorno alla trama principale, i fan hanno ritrovato parte delle atmosfere di Twin Peaks, sebbene rovesciate nel suo doppio ormai corrotto Deer Meadow (sceriffo respingente, diner inospitale), e hanno fatto conoscenza con l’agente dell’FBI Phillip Jeffries (David Bowie), che è stato nella Loggia nera (e conosce il futuro di Cooper).

Venticinque anni sono passati, e non invano: nel 2017 andrà in onda la terza stagione di Twin Peaks sul canale via cavo Showtime, preceduta dalla pubblicazione di The Secret Lives of Twin Peaks, scritto da Mark Frost e propedeutico al ritorno nella cittadina statunitense, al confine con il Canada, assediata dal Male.

Domenica 29 maggio 2016, nel corso del BGeek di Bari si terrà alle 13 (in zona Winterfell) un panel dedicato a Twin Peaks, per riannodare i fili della trama e analizzare le (scarse) informazioni sul momento televisivo che farà terminare un cliffhanger lungo venticinque anni.

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STORIE (IN) SERIE n. 7 – Il gioco si fa semplice: House of Cards http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/04/08/storie-in-serie-n-7/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/04/08/storie-in-serie-n-7/#comments Fri, 08 Apr 2016 15:55:50 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7102 Storie (In) Serie

Storie (in) Serie # 7

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

Il settimo appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato alla quarta stagione di “House of Cards (con Kevin Spacey nel ruolo di Frank Underwood e Robin Wright nel ruolo di Claire Underwood).

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di Carlotta Susca

C’è un nuovo gioco che vediamo nella quarta stagione di House of Cards, un gioco che continua la serie metaforica delle strategie di Frank Underwood (di cui si è già parlato qui). L’antieroe al potere passa dai videogiochi sparatutto al modellismo strategico, fino ad approdare, nella terza stagione, a Monument Valley, una app basata sulle geometrie di Escher: le sue strategie si fanno via via più raffinate, la scalata al vertice degli USA richiede la capacità di immaginare percorsi apparentemente impossibili, di raggiungere punti che sembrano inaccessibili. Ma poi la necessità di mantenere il potere, di proteggere la posizione conquistata e difendere la fortezza rendendola impenetrabile alla democrazia riporta la strategia a un livello metaforico più semplice, rappresentato dalla app a cui gioca il candidato alla presidenza diretto avversario di Frank Underwood: William “Will” Conway. Il governatore di New York mostra a Frank Agar.io, un gioco che consiste nell’inglobare i pallini più piccoli e nell’evitare di farsi inglobare dai più grandi: non importa quanto imponente sia il proprio diametro, potrebbe sempre comparire un nemico di rango superiore – come sempre, nella vita e nei videogiochi.

È inevitabile che l’avanzamento di una serie televisiva porti la narrazione su livelli differenti e costringa gli sceneggiatori ad allargare l’universo narrativo: per Frank Underwood, già leader della nazione più potente della terra (della sua versione finzionale e distopica), si è optato per la comparsa di un avversario di pari diametro. Non solo: Agar.io consente anche la divisione del proprio avatar circolare in unità più piccole e più agili; è quello che accade con l’equa distribuzione del potere tra Frank e la first lady Claire, candidata alla vicepresidenza. Il protagonista si raddoppia e la narrazione si apre a possibilità che contemplino l’analisi di una diarchia, mentre un nuovo nemico compare a rilanciare la sfida su un livello basico: chi ingloberà chi?

Come ogni reality insegna, lo storytelling di una sfida deve basarsi su opposizioni nette: l’eleganza e l’esperienza vs la giovinezza e la trasparenza; una vita sacrificata alla carriera vs la famiglia tradizionale. Da qui si ripartirà nel 2017 con la quinta stagione di House of Cards, portando il gioco a un livello nuovo in cui probabilmente i pallini più piccoli avranno la stessa importanza riservata a Lucas Goodwin, morto senza che la narrazione si soffermasse su di lui più del tempo necessario a farne un accidente sul percorso di Underwood e uno strumento per il rilancio di Claire, prontamente paladina del movimento contro le armi.

Eppure la scena di apertura della quarta stagione, con Lucas per protagonista, ha una potenza quasi inedita nella narrazione televisiva: il giornalista in disgrazia, incarcerato per aver indagato su Underwood, usa le parole, il suo strumento di lavoro ormai spuntato, per descrive al compagno di cella una scena di seduzione, ad usum della sua masturbazione disperata. Con la sua morte si riorganizza il fronte giornalistico, controparte positiva allo strapotere politico: un pallino troppo piccolo per inglobare i due maggiori contendenti (dai significativi nomi Underwood – monogramma un cristallino FU, Fuck You – e Will, incarnazione della volontà di potenza), e nemmeno giocare è lo scopo dei giornalisti statunitensi. Smantellare il gioco è l’unica possibilità, se vincere è impossibile con quelle regole, come dimostra l’esperienza politica di Heather Dunbar, sconfitta per non aver accettato di giocare sporco.

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STORIE (IN) SERIE n. 5 – Fear The Walking Dead http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/10/12/storie-in-serie-n-5/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/10/12/storie-in-serie-n-5/#comments Mon, 12 Oct 2015 14:44:03 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6913 Storie (In) Serie

Storie (in) Serie #5

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

Il quinto appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato al prequel di “The Walking Dead”: “Fear The Walking Dead”

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Astinenza da zombie? Fear The Walking Dead e l’inizio dell’apocalisse

a cura di Carlotta Susca

Era molto difficile che il prequel di The Walking Dead potesse aggiungere qualcosa a quanto già ampiamente sviscerato nella serie basata sui fumetti di Robert Kirkman: la proposta di uno spin off che anticipasse gli eventi postapocalittici in cui si trovano coinvolti Rick Grimes e «his people» è stata sicuramente frutto di una strategia per affiliare alla serie chi avesse perso le prime cinque stagioni e, spaventato dall’ardua impresa di una maratona di 67 puntate angoscianti, avesse bisogno di essere catapultato fra gli zombie fino a non poterne fare a meno.

Eppure, sebbene di ripetizione si tratti, sebbene i dilemmi morali e lo spaesamento dei personaggi siano gli stessi nelle due serie, collocare gli eventi dello spin off all’inizio della fine del mondo consente di vedere l’invasione dei walkers con occhi ancora stupiti e riconsiderare i diversi tempi e motivazioni necessari e sufficienti al cambiamento per i vari personaggi. Chi si assume per primo l’onere della violenza? In che modo si stabiliscono le dinamiche di gruppo?

Se nelle prime puntate di Fear The Walking Dead i protagonisti sono più concentrati sui loro drammi familiari e sul tentativo di conciliazione all’interno di una famiglia allargata, il primo scontro avviene con il modus operandi della terza famiglia che si unisce al gruppo, quella dei salvadoregni Salazar, il cui capofamiglia si è già trovato a compiere scelte (im)morali preferendo trovarsi dalla parte dei cattivi. La tortura di un soldato appare subito una soluzione praticabile: lo è immediatamente per Daniel Salazar, abituato agli estremi rimedi adottati in patria, ma non tarda ad esserlo per tutti gli altri, nessuno dei quali attua una opposizione convinta.

Con Travis Manawa, il cui unico dramma era nel mediare fra le sue due famiglie, avviene la conversione più radicale e il definitivo passaggio al nuovo regime di violenza. Il pubblico sa che la sua compassione ha messo a rischio la vita di Ofelia Salazar, sparata dal soldato che lui ha liberato e di cui si era fidato. Ma il suo figliastro Nick e la sua ex moglie non lo vedono da qualche giorno, e lo conoscono come persona mite e moderata, finché, nel momento in cui tutti si riuniscono per la fuga e il finale di stagione, non lo ritrovano già trasformato: quasi ammazza con le sue nude mani il soldato che ha poc’anzi liberato. Così lo conosce per la prima volta Victor Strand, il personaggio che compare verso la fine della serie in impeccabile completo e cravatta.

Bastano pochi giorni di lontananza o una conoscenza tardiva per avere a che fare con un uomo già adatto al nuovo contesto, un professore di liceo che ha abbandonato la mitezza e le sovrastrutture e che si lascia andare alla vendetta e all’ira.

Anche l’elaborazione del lutto richiede tempi più lunghi rispetto a quelli a cui The Walking Dead ci ha ormai abituati, tanto che una morte è sufficiente per rendere tragico il finale di stagione: anche quando siamo portati a incitare i personaggi alla corsa e alla fuga, loro indugiano ancora troppo, mossi da pietà e altruismo; non si sono ancora adeguati ai nuovi ritmi del loro nuovo mondo, e ricordano agli spettatori che c’è pur sempre stata pietà nel mondo postapocalittico di Rick Grimes, che la morte non era una consuetudine da subito.

Il primo personaggio che abbiamo conosciuto in Fear The Walking Dead è il tossicodipendente Nick; con lui si conclude la prima stagione, e con la sua riflessione: finalmente tutto il mondo si sente come lui, privato del futuro, senza sapere cosa fare. Come se Walking Dead fosse una poderosa metafora dell’astinenza.

La miniserie si chiude con una prospettiva di salvezza. Sarebbe stato facile immaginare un finale alla Dead Set, con la (non) morte di tutti i personaggi, in quello che sarebbe un ben più realistico scenario nel caso in cui qualcuno degli spettatori si trovasse a vivere in un mondo postapocalittico.

Ma l’universo zombie creato da Kirkman è destinato all’espansione: oltre alla seconda serie di Fear, già annunciata (qui un video), sono già partiti i mini episodi Fear The Walking Dead – Flight 462, che prevedono la convergenza con la serie ‘classica’. Le 16 nuove incursioni, brevissime, nel mondo dei walkers consentiranno a una ulteriore fetta di pubblico di affezionarsi alla serie, la cui sesta stagione andrà in onda su AMC dall’11 ottobre (di seguito, uno dei trailer).

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STORIE (IN) SERIE n. 4 – True Detective (seconda stagione) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/09/01/storie-in-serie-n-4/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/09/01/storie-in-serie-n-4/#comments Tue, 01 Sep 2015 16:57:44 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6872 a cura di Carlotta Susca Era un’impresa difficile [...]]]> Storie (In) Serie

Storie (in) Serie #4

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

Il quarto appuntamento dello spazio di Letteratitudine incentrato sulle Serie Tv è dedicato alla seconda stagione di “True Detective

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True Detective: da Carcosa a Vinci.
Il groviglio investigativo della seconda stagione

Storie (in) Serie #4


a cura di Carlotta Susca

Era un’impresa difficile reggere il confronto con la prima stagione di True Detective: la coppia composta da Rust Cohle (uno strepitoso Mattew McConaughey) e Marty Hart (Woody Harrelson) è diventata oggetto di parodia come qualsiasi contenuto abbastanza popolare da essere inglobato e risputato in numerose varianti; i paesaggi desolati e bruciati della Lousiana erano un marchio visivo riconoscibilissimo, peculiare; il piano sequenza di più di 6 minuti aveva confermato l’alto livello registico; la sigla valeva da sola la visione della stagione, sia per la parte audio (Far From Any Road, The Handsome Family) che – e, forse, soprattutto? – per la parte visiva, una sovrapposizione di immagini che creavano corrispondenze fra i protagonisti e il paesaggio, a indicare l’importanza dei luoghi, a suggerire che un’indagine, per dei veri detective, non possa prescindere dal tessuto sociale nel quale è calata.

Eppure la prima, osannata, stagione, peccava dal punto di vista narrativo per una accelerazione fastidiosa nella conclusione, che, chiudendosi sulle vicissitudini dei due protagonisti – mirando a raccontare le loro storie più che l’indagine – risultava superficiale e sbrigativa nella definizione del tessuto sociale corrotto solo intravisto nel corso del peregrinare investigativo di Rust e Marty.

È forse di qui che ha origine il netto cambiamento avvenuto nella seconda stagione, da poco conclusasi: dalla necessità di delineare con più particolari il groviglio di concause (direbbe Gadda) legato a un delitto e dall’ovvio confronto con la stagione precedente, che imponeva di evitare una duplicazione di vicende e relazioni. Ecco dunque che la coppia diventa un quartetto di protagonisti, e le dinamiche fra loro si fanno meno nette. Ray Velcoro (un Colin Farrell il cui sguardo buono annulla ogni dubbio sulla reale natura del suo personaggio), Ani Bezzerides (Rachel McAdams), Paul Woodrugh (Taylor Kitsch) e un sorprendente Vince Vaughn nei panni di Frank Semyon sono solo i veicoli attraverso cui entrare nel ventre corrotto di Vinci, la città californiana scenario delle vicende.

Dove, quindi, nella Louisiana accecata da un sole senza scampo il paesaggio dominava incontrastato e la rete dietro ai delitti era a maglie larghe, adattata alla bassa densità abitativa dei luoghi, la California brulica letteralmente di vita: le frequentissime inquadrature dall’altro, soprattutto notturne, abbondano nella seconda stagione di True Detective, e la storia che viene seguita è una zoomata all’interno di club, residenze private e ville teatro di scambi sessuali e ricatti. Se nella prima stagione si raccontava la storia dei detective e si intravedeva solamente la sovrastruttura criminale i cui omicidi erano solo un effetto collaterale, nella seconda stagione domina incontrastato proprio quel sostrato di relazioni intricate, e i singoli personaggi sono parte di vicende estremamente ramificate.

Era inevitabile che fosse penalizzata la capacità di identificazione del pubblico con le singole storie: ciascuna avrebbe potuto costituire – in tempi non troppo lontani, in cui le narrazioni seriali erano dilatate e sospese, e ben puntellate da cliffhanger al termine di puntate diluite –  un racconto a sé, ne conterrebbe tutti gli elementi. Sarebbero stati possibili focus monografici su ciascuno dei personaggi principali perché ci sarebbe stato materiale narrativo a sufficienza, tanto che il risultato dell’averlo concentrato in una stagione di otto episodi crea a tratti confusione e spaesamento (ne sono una prova i numerosi commenti negativi, alimentati anche dall’odiosa abitudine corrente di ‘recensire’ le singole puntate – come se si pubblicassero commenti ai singoli capitoli di un libro prima di avere una visione d’insieme).

La storia di Ray Velcoro, il rapporto conflittuale con l’ex moglie, l’incertezza sulla paternità, il rapporto intenso con il figlio e la relazione di confronto con il genitore, con la tentazione del male e l’intuizione del bene sarebbe potuta essere centrale in un racconto poliziesco, così come le vicende di Ani Bezzerides, il cui rapporto con il padre rappresenta la continua dialettica fra scelte di vita ed educative intergenerazionali e la loro impossibile trasmissione in eredità, dato che ogni decisione deve essere maturata autonomamente e rende inevitabile l’uccisione dei padri e dei loro modelli di vita.
L’omosessualità di Woodrugh e i suoi trascorsi bellici sono elementi sufficienti per la struttura di una storia a sé; su tutte, le vicende di Frank Semyon si sarebbero prestate a un racconto su ascesa, declino e compromessi, sulle logiche del lato oscuro del potere, sulla comprensione di limiti e opportunità. Il personaggio interpretato da Vince Vaughn è forse il più interessante, così come il suo rapporto con la compagna Jordan.
Eppure tutti questi personaggi sfaccettati e tridimensionali sono per lo spettatore forse solo punti di vista all’interno della città, il modo per visitare i luoghi del potere e intravedere le relazioni fra politica e criminalità, per scoprire in che modo soldi, diamanti e sesso costituiscono merce di scambio.

Se la densità del materiale narrativo penalizza la fruibilità della storia, l’idea sottesa alla seconda stagione di True Detective merita sicuramente la visione, considerando però che è proprio dal confronto con la prima che si trae il meglio, dalla comprensione che sia possibile proseguire qui l’indagine interrotta, anche se in un altro luogo e con un’altra vicenda, addentrandosi ancora di più in quel labirinto che prima era Carcosa e ora diventa Vinci, ma è sempre parte di un groviglio di relazioni che reggono la società, e di cui i delitti sono solo manifestazioni accidentali.

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STORIE (IN) SERIE n. 3 – Wayward Pines http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/07/29/storie-in-serie-n-3/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/07/29/storie-in-serie-n-3/#comments Wed, 29 Jul 2015 13:44:28 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6864 a cura di Carlotta Susca Per fare un esempio: come è possibile la costruzione di una statua in un mondo postapocalittico in cui l’umanità [...]]]> Storie (In) Serie

Storie (in) Serie #3

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

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Una vacanza deludente a Wayward Pines.
La serie prodotta da Shyamalan non regge il confronto con Twin Peaks

a cura di Carlotta Susca

Per fare un esempio: come è possibile la costruzione di una statua in un mondo postapocalittico in cui l’umanità è ridotta a qualche migliaio di persone e le risorse contingentate?
Il problema principale di Wayward Pines è l’inverosimiglianza derivante dalla sciatteria della sceneggiatura, da numerose leggerezze nella costruzione della storia, da un acceleramento nel finale che è sintomo di una distribuzione delle informazioni narrative sbilanciata.

La serie tv prodotta per la Fox da M. Night Shyamalan si annunciava come una nuova Twin Peaks, il che aveva generato allo stesso tempo aspettative e predisposizione alla delusione. Come sarebbe stato possibile ricreare la cittadina di David Lynch e riproporre la complessità dell’agente speciale Dale Cooper (un Kyle MacLachlan che attendiamo con ansia nella terza stagione a venticinque anni di distanza)?
I punti di contatto fra le serie sono nell’unità di luogo (con piccole escursioni al di fuori): le vicende si svolgono quasi esclusivamente a Twin Peaks, nello Stato di Washington, e a Wayward Pines, in Idaho (i due Stati sono adiacenti). Ma le affinità si esauriscono qui. Se David Lynch ha costruito una storia che funziona a più livelli, e che può essere interpretata sia in senso letterale, come rappresentazione di un male concreto, che in senso metaforico (la violenza domestica e i demoni interiori), i segreti nei boschi di Wayward Pines sono frutto di una rappresentazione distopica.
Quella che in Lynch era l’universale riflessione sul Male, sulla sua pervasività e sulla sua presenza tangibile sotto la superficie linda di una cittadina modello, nella serie prodotta da Shyamalan perde ogni elemento metaforico e trova tutte le spiegazioni nel genere fantascientifico.

Nelle prime quattro puntate – un lungo primo atto di presentazione del mondo ordinario (sebbene a sua volta straordinario), per dirla con Christopher Vogler – Ethan Burke (Matt Dillon) cerca di penetrare i misteri di Wayward Pines, una località da brivido in cui i sorrisi tesi degli abitanti e i convenevoli stucchevoli sono monitorati da telecamere e microfoni, e in cui i microchip tracciano ogni spostamento. La tensione narrativa è concentrata nella comprensione della verità: si tratta di un esperimento sociologico? O forse stiamo guardando il mondo dal punto di vista di un protagonista inattendibile, con una mente confusa e paranoica?
Con la quinta puntata la serie cambia completamente genere, storia e tensione narrativa; non c’è più da chiedersi cosa si celi nella cittadina da incubo: con Ethan apprendiamo (e con suo figlio Ben ri-apprendiamo, e poi ancora) che Wayward Pines è una serie di genere fantascientifico, che i misteri riguardano la natura della cittadina, ultimo baluardo della civiltà, che la fortificazione delle mura serve più a tener fuori le ‘aberrazioni’ (involuzioni dell’uomo) che a tener dentro gli ignari pupazzetti nelle case da bambola.
Ed ecco una nuova occasione mancata: avendo, come pubblico, le stesse informazioni di Ethan, potevamo osservare gli abitanti dal punto di vista opposto, comprendere le ragioni del potere e considerare dissidenti quelli che prima avremmo visto come eroi.
Ma il cambio di prospettiva è stato vanificato dalla lentezza della storia nelle puntate successive alla rivelazione e dalla disarmante superficialità nella costruzione dei personaggi: Pam Pilcher (Melissa Leo) senza alcun motivo passa dall’essere un’infermiera inquietante a rivestire il ruolo di governante benevola e amorevole.

Il finale a sorpresa – che da Shyamalan ci si aspetta –, lungi dall’essere inatteso ma coerente è un epilogo incollato malamente e completamente ingiustificato. Se il messaggio è quello che una cattiva educazione produce mostri e che un modello di comportamento, se applicato senza la motivazione per cui era nato, è vuoto e inutile, la sua messa in scena narrativamente non funziona.
L’ellisse nella storia circa la presa del potere da parte della Prima Generazione avrebbe forse richiesto una ulteriore puntata, e l’impressione, dopo una serie che annovera episodi dalla narrazione diluita, è che il finale sia affrettato piuttosto che inaspettato; l’effetto è simile a quello delle ultime puntate del primo True Detective, ma senza i personaggi, i dialoghi, le ambientazioni e le soluzioni registiche che ne facevano una serie straordinaria.

La permanenza in Wayward Pines è dimenticabile, il ritorno a Twin Peaks sarà eccitante e la cittadina di Lynch non ha rivali.

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STORIE (IN) SERIE n. 2 – La serie perpetua – Community e la consapevolezza di essere personaggi http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/06/22/storie-in-serie-n-2/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/06/22/storie-in-serie-n-2/#comments Mon, 22 Jun 2015 17:27:38 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6825 Storie (In) SerieStorie (in) Serie #2

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

La serie perpetua – Community e la consapevolezza di essere personaggi

a cura di Carlotta Susca

Cosa succede a un personaggio quando è consapevole di essere tale? Come si struttura una serie televisiva i cui protagonisti non siano gioiosamente inconsapevoli dell’esistenza di tutte le altre serie simili a quella di cui fanno parte?
In molti degli universi seriali di cui siamo fruitori, i protagonisti portano avanti il proprio ruolo ignorando i loro omologhi (il bello, la svampita, la secchiona…), ma se nella vita vera ci capita di sottolineare le similitudini con situazioni viste al cinema o lette nei romanzi, può capitare che anche i personaggi siano a conoscenza delle citazioni presenti nelle loro vicende, e che, consapevoli di essere parte di uno show, siano anche portati a renderlo interessante, a preoccuparsi della mancanza di trama di qualche puntata.

È ciò che accade nella meravigliosa Community, ideata da Dan Harmon e composta (per il momento) da sei stagioni dalle vicende travagliate: prima della quarta Harmon è stato licenziato dalla NBC, per tornare come showrunner della quinta e poi cercare una nuova piattaforma per la sesta, che è andata in onda su Yahoo Screen, on demand (nell’ultima puntata Harmon fa in modo che siano gli stessi personaggi a prendere le distanze da quella quarta stagione apocrifa).


I personaggi, quindi – un settetto scombinato, male assortito eppure affiatatissimo – sanno di essere parte di uno spettacolo? A dire il vero solamente Abed, il cinefilo onnivoro con probabile diagnosi da Asperger (un must delle comedy, a quanto pare, se si pensa a The Big Bang Theory e a Sheldon), che non solo riconduce ogni situazione a qualcosa di già visto, ma che favorisce il riprodursi di schemi narrativi collaudati, e che conia il mantra adatto alla prosecuzione di Community: «six seasons and a movie» (al punto che la sesta stagione si conclude con un invito alla battaglia, #andamovie: fan, unitevi e reclamate il seguito!).

Harmon non si limita a citare classici della rappresentazione dell’adolescenza (Breakfast Club), capolavori immortali (Il Padrino, Quei bravi ragazzi) e personaggi che conosce chiunque (Gollum): impasta la sua materia narrativa con topoi da cassetta (lo scambio di corpi di Tutto accadde un venerdì) e la plasma in forme sempre diverse. L’avvocato non laureato Jeff, l’attivista svampita Britta, l’ex promessa sportiva Troy, il tardone Pierce, la madre Shirley, la dolce Annie – e, ovviamente, Abed, il deus ex machina –  sono trasposti in personaggi di plastilina, player di un videogioco alla Super Mario, marionette tipo Muppet, cartoni animati in una puntata di G.I. Joe.

Community gioca con le forme ma senza mai cedere sul piano della credibilità: la puntata in stop motion è ciò che vede Abed durante una crisi natalizia, e tutti i suoi amici si prestano al gioco facendo proseguire la storia a scopi terapeutici, recitando la parte di personaggi di plastilina, dando la loro voce alla creazione di Abed in quella che, di fatto, è la puntata che noi vediamo. (Non a caso il nickname di Abed nella puntata G.I. Joe è «quarta parete»: quella che non solo sfonda, ma riprende, facendone un documentario).

La giustificazione narrativa al cartone animato è il delirio comatoso di Jeff, che si rifugia nell’infanzia televisiva mentre è privo di sensi per aver ecceduto con alcol e farmaci nel tentativo di negare il suo quarantesimo compleanno, e riporta i suoi compagni di studio nella poco credibile ambientazione di G.I. Joe, dove nessuno muore – quindi, nessuno invecchia (ché Jeff teme più il decadimento della scomparsa).
Ma nel corso delle stagioni gli attori vanno via, e i personaggi devono uscire di scena: Pierce è portato via dal già riluttante attore Chavy Chase, a cui la quarta stagione non deve essere andata giù; Troy e Shirley seguono di poco, e se Pierce trova la conclusione in un funerale, Troy semplicemente scompare, mentre Shirley è funzionale a un parodico, volutamente orribile spin-off.
La consapevolezza di essere parte di uno show fa sì che i personaggi, alla chiusura della sesta stagione, sappiano quanto sia difficile che segua una settima («I mean, what show ever peaks after season six? Simpsons, Seinfeld, South Park, Friends. Those shows weren’t hemorrhaging characters every year»): ciascuno immagina una sua personale settima stagione, ma quello che rimaneva del settetto di partenza, trasformato alla fine come la nave di Teseo, non può continuare a trovare giustificazioni diegetiche all’immobilismo nel college statale di Greendale.

Eppure Community potrebbe continuare a trasformarsi: lo ha già fatto. Dalle dinamiche liceali delle prime stagioni alle vicende di un gruppo di adulti responsabili (?), da Breakfast Club a The Office.
Purché ci sia Dan Harmon, purché ci sia Abed «quarta parete» Nadir.

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STORIE (IN) SERIE n. 1 – Nessun potere è legittimo – Le ascese politiche in “House of Cards” e “Game of Thrones” http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/05/23/storie-in-serie-n-1/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/05/23/storie-in-serie-n-1/#comments Sat, 23 May 2015 10:05:08 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6791 Storie (In) SerieStorie (in) Serie #1

(Qui, l’introduzione di Massimo Maugeri)

Nessun potere è legittimo – Le ascese politiche in House of Cards e Game of Thrones

a cura di Carlotta Susca

C’è chi sostiene che Game of Thrones sia più realistico di House of Cards nel mostrare i meccanismi della presa del potere (e del suo mantenimento): Frank Underwood rischierebbe di sembrare bidimensionale nella sua cattiveria senza cedimenti. Lo abbiamo visto piangere, è vero, abbiamo assistito a un momento di debolezza, alla fine della seconda stagione, quando, come sempre gli accade, si infila in quello che ha tutta l’apparenza di un vicolo cieco da cui neanche lui, un supereroe con il potere di manipolare gli altri, sembra in grado di trovare una scappatoia. Magari un’uscita laterale predisposta da tempo, costruita senza che nessuno se ne accorgesse, un cunicolo stretto e tortuoso ma che conducesse al livello successivo, come nei videogiochi.

Nella terza stagione vediamo Frank – le cui iniziali, F. U., sembrano l’ennesima allocuzione allo spettatore e al mondo, l’ennesima beffa – alle prese con una app che rappresenta perfettamente il modo di agire di questo antieroe della politica: Monument Valley. Si tratta di un gioco nei cui livelli il personaggio (una principessa senza memoria, Ida) si muove solo se in grado di creare delle strade dove non sembra ce ne siano, dove solo applicando le costruzioni prospettiche di Escher è possibile spostarsi da un punto all’altro, avanzare e raggiungere l’obiettivo. Questa capacità immaginativa in grado di piegare la realtà al proprio volere è perfettamente in linea con Underwood (un politico da sottobosco, nomen omen), un uomo la cui logica è impeccabile e implacabile, soggetta a regole proprie.

Ma la carriera politica richiede una raccolta di consensi. Se il percorso escheriano porta Frank nel punto più alto, non basta a farvelo rimanere. Alla fine della prima stagione, nel bel mezzo del giuramento da vicepresidente degli Stati Uniti, la sua sicumera è tale che, guardando in camera, rimarca l’ironia insita nell’essere arrivato a quel punto senza essere stato votato («la democrazia è così sopravvalutata») (fa effetto che nella rappresentazione delle alte cariche statunitensi venga espressa in maniera così netta la componente arrivista, egoistica, malvagia del potere).

Come mantenere quel ruolo così duramente e freddamente conquistato? Quale legittimazione, se non quella democratica, può garantire continuità alla carica?

Game of Thrones fornisce un campionario di forme di legittimazione possibili. In quella che si configura come una quête cavalleresca, ciascun contendente cerca una motivazione per rivendicare il proprio diritto al trono: il sangue, il possesso di creature magiche, il volere dell’unico dio, l’abilità diplomatica, il matrimonio. E nessuna di queste carte è valida in maniera assoluta, basti pensare alla rivendicazione di sangue: il fratello di Robert Baratheon, Stannis, sarebbe il legittimo erede perché nessuno dei figli del re defunto è davvero suo, né una eventuale discendenza naturale al di fuori del matrimonio riuscirebbe ad essere vista come qualcosa di diverso da un errore. Ma Robert aveva a sua volta usurpato il trono dei Targaryen, e questo farebbe di Daenerys la legittima erede. Insomma: ogni fonte di legittimazione è opinabile, e in qualsiasi momento inizi la storia raccontata c’è sempre un prima con le sue dinamiche e le ragioni dei suoi protagonisti. Ai popoli vessati viene solo imposto di inchinarsi al nuovo sovrano, pena la morte, e se è pur vero che alcuni sudditi non dimenticano, quanto in là dovranno andare con la memoria nel rintracciare la famiglia meritevole della propria lealtà? Ed è poi sulla lealtà che si fondano i regni?

Frank Underwood deve ancora trovare la fonte della legittimazione nel suo potere, il suo tempo è poco e di leali sostenitori non è rimasto forse più nessuno. Neanche Claire.

Chi volesse lasciare commenti, opinioni, o considerazioni può farlo partecipando al forum di Letteratitudine dedicato a “Storie (in) Serie” e serie tv.
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STORIE (IN) SERIE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/05/22/storie-in-serie/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/05/22/storie-in-serie/#comments Fri, 22 May 2015 16:23:51 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6789 Storie (In) Serie

di Massimo Maugeri

È da tempo che medito sulla possibilità di dedicare uno spazio di Letteratitudine alle Serie Tv che,  a detta di molti (e con riferimento a quelle prodotte negli ultimi anni), rappresenterebbero la nuova frontiera della narrazione. È innegabile che molte delle serie che sono andate in onda in questi ultimi anni sono di altissima qualità e hanno attratto una enorme fetta di pubblico. Basti pensare (giusto per citarne alcune delle più seguite) a: “House of Cards“, “Game of Thrones“, “The Walking Dead“. (Va subito precisato che qualità e abilità narrativa non risiedono solo nelle produzioni americane. Valga per tutti l’esempio della serie francese “Les Revenants).
Più volte, qui a Letteratitudine, ci siamo interrogati sul rapporto tra “letteratura e cinema” (non dimentichiamo, peraltro, la sezione “Letteratitudine Cinema” curata dalla critica cinematografica Ornella Sgroi). Anche la relazione tra “romanzi e serie tv” è molto stretta: “House of Cards” nasce dagli omonimi romanzi dello scrittore britannico Michael Dobbs; “Game of Thrones” deriva dal ciclo di romanzi “Cronache del ghiaccio e del fuoco” di George R. R. Martin; la produzione di “Les Revenants” si è avvalsa della collaborazione (nel ruolo di sceneggiatore) dello scrittore francese Emmanuel Carrère; qui in Italia aspettiamo la serie tv tratta dalla saga de “L’amica geniale” di Elena Ferrante (per la sceneggiatura di Francesco Piccolo); di recente la Amblin Entertainment, la casa di produzione di Steven Spielberg, e il canale americano SyFy hanno annunciato la collaborazione per realizzare una serie tv tratta dal noto romanzo di Aldous HuxleyIl mondo nuovo” (classico della letteratura distopica). E poi (per rimanere in casa nostra)… come non pensare alla serie televisiva de Il commissario Montalbano tratta dai romanzi di Andrea Camilleri? Insomma: di esempi non ne mancano e potremmo farne tanti altri (e se guardassimo al passato, pensando alle serie tv storiche prodotte nei decenni precedenti, il campo si allargherebbe ulteriormente). In ogni caso, più di che competizione tra romanzo e serie televisiva (con vittoria della seconda sul primo), forse sarebbe opportuno parlare di commistione e di reciproco supporto (le serie tv di successo contribuiscono moltissimo alla vendita dei romanzi da cui sono tratte).
C’è da dire, inoltre, che il mondo di Hollywood guarda con molta attenzione al fenomeno in questione (e già da parecchi anni). Le stelle del grande schermo non ci pensano due volte a tuffarsi nel mare delle opportunità offerte dal piccolo schermo (le serie tv, oggi, sono guardate – ancora più dei “movie” – su diversi supporti: dai megaschermi casalinghi degli home theatre a quelli dei pc, dai tablet agli smartphone, ecc.). Giusto per fare un esempio, (il due volte Premio Oscar) Kevin Spacey non ci ha pensato due volte nell’accettare il ruolo di protagonista (Frank Underwood) nella citata serie “House of Cards” (peraltro affiancato dalla ottima Robin Wright): e milioni di persone in tutto il mondo sono rimaste incollate ai teleschermi per assistere all’ascesa politica del cinico e senza scrupoli deputato del Partito Democratico Frank Underwood che, da capogruppo di maggioranza al Congresso, conquista lo scranno di Presidente degli Stati Uniti d’America.
Sono tante le star di Hollywood che farebbero “carte false” (giusto per rimanere in tema con “House of Cards”) per accedere al ruolo di protagoniste di serie televisive da primato. Matt Dillon, per esempio, è il protagonista di “Wayward Pines” (adattamento televisivo del bestseller “I misteri di Wayward Pines“, romanzo di Blake Crouch), serie appena approdata in tv. Si è parlato di evento “epocale”, giacché la serie sta andando in onda in contemporanea mondiale in 125 paesi (a partire dal 14 maggio di quest’anno). “Quando ho letto gli script dei primi due episodi ho creduto davvero di essere finito dentro un libro“, ha affermato Dillon. “Ho pensato: wow, qui dentro c’è davvero un mondo“. E alla domanda ‘preferisci recitare in un film o in una serie?’, Dillon risponde così: “Amo il cinema, mi piace la magia del grande schermo e il modo in cui un film possa realmente cambiarti la vita. Tuttavia, la televisione ha un incredibile potenziale creativo perché, grazie alla serialità, permette di raccontare storie impensabili per un film. Che poi è la parte più bella del mio lavoro, raccontare storie“.
Raccontare storie, dunque. E qui torniamo a Letteratitudine… e a questa rubrica dedicata alle serie tv.

Il titolo è “Storie (in) Serie” ed è stato proposto da Carlotta Susca (foto accanto), a cui ho affidato il coordinamento della rubrica (uno spazio che sarà arricchito da recensioni, interviste e contributi di vario genere incentrati sulle serie tv ).
Ho conosciuto Carlotta nel 2012, nel corso dell’evento “k.Lit – Il Festival dei Blog Letterari“, e ho avuto modo di apprezzare il suo ottimo saggio “David Foster Wallace nella casa stregata” (Stilo). Tra le altre cose, Carlotta è una delle anime di “STORIE (IN) SERIE” (la rassegna dedicata alle Serie Tv organizzata a Bari) e dunque un grande conoscitrice delle tematiche in questione.
Ringrazio, dunque, Carlotta per la collaborazione… e ringrazio voi, amiche e amici di Letteratitudine, che vorrete seguirci in questa nuova avventura di… Storie (in) Serie.

P.s. Lascio la sezione commenti “aperta” per vostri eventuali contributi.

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Carlotta Susca (1984) è una consulente editoriale e organizzatrice di eventi sulla narrazione nelle sue varie forme, anche quelle seriali; è docente del laboratorio di Editoria libraria e multimediale presso l’università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’ e insegna editoria e scrittura in vari corsi e workshop.
È autrice del saggio David Foster Wallace nella casa stregata. Una scrittura fra postmoderno e nuovo realismo (Stilo Editrice) e collabora con alcuni blog, per cui recensisce libri, film e serie tv.

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