LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » simona lo iacono http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 PER PAOLO BORSELLINO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/07/19/per-paolo-borsellino/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/07/19/per-paolo-borsellino/#comments Mon, 19 Jul 2021 05:00:01 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=2320 BorsellinoIN MEMORIA DI PAOLO BORSELLINO

Il 19 luglio del 1992, moriva Paolo Borsellino. Dopo aver pranzato a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, si era recato insieme alla sua scorta in via D’Amelio, dove viveva sua madre.

Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell’abitazione, con circa 100 kg di esplosivo a bordo, deflagrò al passaggio del giudice, uccidendo anche i cinque agenti di scorta Emanuela Loi (prima donna della Polizia di Stato caduta in servizio), Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L’unico sopravvissuto fu Antonino Vullo, ferito mentre parcheggiava uno dei veicoli della scorta.

In memoria e onore di Paolo Borsellino – eroe italiano e vittima della mafia – dedichiamo questo spazio di Letteratitudine, rimettendo in primo piano questo post pubblicato originariamente nel 2010 e dedicato alla sua figura.

All’interno del post, in cui ragionavamo anche sul senso e sul valore della memoria, c’è un bel racconto della scrittrice e magistrato Simona Lo Iacono.

Massimo Maugeri


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FUOCHI D’ARTIFICIO

di Simona Lo Iacono

I pochi gesti che compio stamattina non hanno niente a che fare col buio. Sono gesti intagliati in un sole che assorbe tutto.
Apro il balcone mentre alle mie spalle lei dorme ancora. Conosco la piega che prende il lenzuolo tra i due seni, l’arsura che le si incolla sulle gambe e le fa spostare il ginocchio in su. Non ha mai saputo che la osservo per ore mentre dorme, e neanche i miei figli lo sanno, perché il sonno è un segreto che può violare solo chi ama, ma di nascosto, senza farsene accorgere. Sarebbe come rubare l’anima mentre si acquatta e impigrisce, e io non ho mai saputo sottrarre niente a nessuno. Non ora, poi, che la notte è un nemico che mi inchioda solo poche ore, e insiste a trasformarsi in una veglia perpetua e piangente, che consumo bevendo caffè, lucidando i ricordi e assestando gli ultimi colpi a queste carte.
Nei primi tempi le impilavo ovunque, in spiaggia, tra le sdraio che lei ha sempre voluto di fronte, a specchio, per guardarmi lavorare. E in bagno, dove lasciavo che la sigaretta mi pencolasse consumandosi da sola, sbriciolando cenere e saliva. Poi, col tempo, ho preso a selezionare. Pochi documenti, scelti col fiuto di un presentimento.
Ma questa mattina non cederò ai presentimenti. Scenderò in mare con la barca. Slitterò piano sulle onde.
Il giornale lo comprerò prima. All’edicola sotto casa, da solo.
Non voglio che i ragazzi mi accompagnino. Fa caldo, ed è una bella domenica. Che stiano a letto ancora un’ora.
Citofoneranno alle nove, come al solito. E come al solito vedrò avvitarsi sulla mia ombra la loro, tesa come un legaccio.
Li osservo cingermi a cerchio, fare scudo sul niente.
La calma ci fa paura più di ogni altra cosa, più del traffico che esplode a mezzogiorno, o più dell’autostrada che cuoce imbrumandosi di un odore greve, di spazzatura.
A volte ne ridiamo. Fingiamo di essere sulla volante solo per gioco, o per una vacanza, dice qualcuno. E se la sirena urge sul cielo, ci cantiamo sopra, azzardiamo una barzelletta.
Siamo bravi a distrarre la morte.
Giovanni ci sapeva fare più di ogni altro. Non faceva scongiuri ma sosteneva con una punta di orgoglio che nessuno, ormai, muore così. Coi fuochi d’artificio che bombardano l’aria. E intanto accarezzava la borsa porta documenti, faceva schioccare la serratura con due dita. Salta in un secondo, diceva. Ma non rideva più.
La barca è pronta. Solo un giro nel porto ho detto, ma seguendo i gabbiani che si inarcano verso gli scogli. Voglio vederli planare.
Intanto a casa le melanzane friggono sull’olio. Lei sa rosolarle perfettamente, lasciando che la crosta che le circonda crocchi tra le labbra. Mi ama silenziosamente questa donna china sulla padella, che non chiede niente se non vedermi tornare.
La cingo da dietro e le bacio la nuca, i resti delle melanzane ancora tra i denti.
Vado a riposare, le dico, e nel sorriso che adesso copre coi capelli, leggo tutti questi anni. Ti sveglio alle quattro, risponde. E io sussulto. E’ come se contasse alla rovescia.
L’ultimo abbraccio glielo do sull’uscio di casa. I ragazzi già mi aspettano con la portiera aperta, le pistole d’ordinanza sotto le camicie estive.
Bacio di fretta anche i miei figli perché ultimamente so che il tempo è spigoloso, tende trappole e salta segnali.
E poi. Mia madre mi aspetta. Avrà messo la vestina nera, come la chiama lei. Le calze, anche se è luglio.
L’agente scelto mi dice: aspetti dottore, lei rimanga qui che citofono io.
Mia madre è pronta già da mezz’ora, e posso quasi vederla rispondere sì scendo, tremare un poco sulle gambe, sovrapporsi al viso di mia moglie, e dei miei figli, i loro occhi che inondano adesso questa macchina, le melanzane che ballano sull’olio, la barca che pedina gabbiani.
Allora è vero, era un conto alla rovescia, anche se non è come immaginavo, non è un boato, piuttosto un respiro lungo a scuoterci, e lapilli che infestano l’aria, e poi i balconi delle case, e l’agente scelto che viene spinto in avanti, mentre di tutto quello che credevo di ricordare non resta che questa stanchezza forse un po’ perplessa e triste, nomi, una data, un luogo, fuochi d’artificio, come diceva Giovanni.

Via D’Amelio, 19 Luglio 1992. Paolo Borsellino.

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SCRIVI IL TUO SOGNO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/05/04/scrivi-il-tuo-sogno/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/05/04/scrivi-il-tuo-sogno/#comments Sat, 04 May 2019 07:44:10 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8146

La nuova puntata della rubrica “Letteratura è diritto, letteratura è vita” a cura di Simona Lo Iacono: un progetto “da sogno” nel carcere minorile di Bicocca

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di Simona Lo Iacono

Sembrava l’ultimo giorno di prove. Avevo radunato gli abiti di scena, avevo recitato per l’ultima volta la mia parte accanto a loro. Salutandoli, mi sentivo triste.
I sei detenuti del carcere minorile di Bicocca erano stati bravi.
Avevano indossato il pigiama a righe del detenuto, la toga dell’avvocato, la divisa della guardia. Tra sobbalzi di ilarità e qualche confidenza, avevano inscenato con me  “I civitoti in pretura” di Nino Martoglio.
La recita faceva parte del mio progetto “A partire dalle parole”. E’ dalle parole infatti, che costruiamo noi stessi, le nostre scelte, il nostro destino. E “I civitoti in pretura” era proprio una commedia sull’importanza del linguaggio.
Sembrava calare il sipario,  dunque. Il momento dei saluti pareva arrivato.
Rientrando a casa, i loro volti sbucavano dal  tergicristalli che lavava ritmicamente la pioggia del cruscotto. Ognuno di loro aveva speranze, progetti, potenzialità nascoste e talenti da mettere a frutto. Ognuno di loro viveva la reclusione con la sofferenza di chi è separato dal mondo in una fase della vita – la giovinezza – in cui tutto ti invoca, in cui tutto implora il tuo nome.
Fu così che mi venne l’idea.
Scrivere i propri sogni. Metterli sulla carta, leggerli e scrutarli come se iniziassero a sbocciare dalla penna. Dirli e, per questo, farli esistere, immetterli nella realtà con il fiato, con il dolore, con la voglia di essere liberi.
E proposi alla casa di reclusione un altro piccolo progetto… “Scrivi il tuo sogno”. I sei detenuti erano invitati a sognare, e a scrivere il proprio sogno. Ed era quasi Pasqua.
Ritornai a Bicocca cantando. Avevo sei quaderni e sei penne per loro. Su ognuno avevo scritto un mio pensiero sull’importanza del sogno. “Se sogni, scopri la tua identità”. O anche: “I tuoi sogni ti renderanno libero”. E, infine: “I sogni ci salvano la vita”.
Li incontrai per ascoltarli. Per sentirmi dire quale fosse la loro idea di futuro.
Mi lasciarono senza parole.
Maturità, sofferenza. Rimpianto per il tempo perduto.
Ma, anche, speranza.
Dissi loro che gli elaborati sarebbero stati pubblicati sul blog Letteratitudine, dove tenevo una rubrica di diritto e letteratura. Mi pareva che la pubblicazione restituisse loro uno sguardo, prefigurasse la realizzazione dei loro desideri.
Avevo scritto a Massimo Maugeri sapendo che avrebbe accolto con gioia la proposta. Da sempre, è un fautore della rinascita attraverso la scrittura. E il suo ultimo romanzo,  “Cetti Curfino”, era proprio un inno alla salvezza attraverso le parole.
Dopo qualche giorno è arrivato il primo elaborato. A scriverlo è Nicolas Sanzaro. Posso fare il suo nome perché autorizzata sia da lui che dal magistrato di sorveglianza, oltre che dalla casa di reclusione di Bicocca.
Nicolas parla di progetti. Parla di avere capito in carcere cosa voglia dire rischiare di perdere l’amore della famiglia.
Scrive: “Io ho le idee chiare, ho pagato e sto pagando, ma per fortuna le persone che amo hanno fiducia in me… ho trovato la forza di recuperare e mi sto impegnando per alzarmi perché nella vita non è mai troppo tardi… Ad oggi, dopo avere avuto la possibilità di fare un corso di cucina, voglio metterci tutto me stesso, per crearmi un futuro, un lavoro degno, che mi permette di camminare a testa alta”.
Nicolas dice anche di avere scoperto questa vocazione in carcere, e che se non fosse stato recluso non avrebbe capito: “Questa opportunità di lavoro come cuoco se non mi trovavo in questa brutta esperienza non l’avrei mai avuta, e quindi lo vedo come un segno che riguarda il mio futuro, come un regalo che devo saper apprezzare, ed io ho sempre apprezzato i regali”.
Il suo sogno è lavorare come cuoco, andare a Londra, amare. “Questa è la vera ricchezza. Avere una famiglia e tanto amore che ti circonda”.
Ha capito che l’illegalità non ripaga, che non sottrae solo tempo, ma anche progettualità. Dice: “quando non si rispetta la legge ci si trova chiuso e senza nulla, e da lì inizi a capire che il piacere non sono i soldi…non c’è prezzo per pagare la nostra libertà”.
Caro Nicolas, ecco il tuo sogno pubblicato. Ricordati che adesso è scritto, e che tutto ciò che si scrive si adempie con la forza di una profezia.
Io, qui fuori, ti aspetto per riabbracciarti.
E per frequentare il tuo ristorante.

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NATI DENTRO di Simona Lo Iacono http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/04/06/nati-dentro-di-simona-lo-iacono/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/04/06/nati-dentro-di-simona-lo-iacono/#comments Fri, 06 Apr 2018 14:53:55 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7758 Proponiamo una nuova puntata della rubrica “Letteratura è diritto, letteratura è vita“, pubblicando un breve racconto inedito della scrittrice e magistrato Simona Lo Iacono (curatrice della rubrica) intitolato “Nati dentro“. Un racconto struggente che riguarda la tematica delle madri detenute e dei bimbi costretti a vivere in carcere.

Segue un approfondimento giuridico.

Ne approfittiamo per segnalare questa puntata radiofonica di Letteratitudine perfettamente in tema (e disponibile per l’ascolto), dove Rosella Postorino – in conversazione con Massimo Maugeri – parla del suo romanzo “Un corpo docile” (Einaudi Stile Libero)

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NATI DENTRO

di Simona Lo Iacono

Immagine correlataIl primo rumore a cui hai dato un nome è stato quello del cancello della sezione 22. Un clangore ferroso, lontano, che per anni è stato il suono dell’ora in cui andare a letto. Ogni sera alle 18, dopo la cena e dopo l’ultimo giro d’ispezione. Le luci si smorzano fino a spegnersi del tutto. Le chiavi tintinnano nel buio.
Non ti è mai sembrato un carcere. Né sapevi cosa fosse, fino a che, molti anni più tardi, non te lo hanno detto. Per te era lo spazio concesso, il ritmo del giorno. Niente più che la vita che ti era stata data.
D’altra parte sei nato qui, tua madre è entrata due mesi prima del parto.
Quando sei venuto alla luce eri già detenuto, anche se nessuna sentenza aveva mai decretato la tua condanna.

Ora che cresci in una sola stanza non sai che il mondo è più grande. Misuri le emozioni sui due metri per tre che ti è dato fare dalla mattina alla sera. Non hai termini di paragone e pensi che la scoperta delle cose sia osservare le ombre che fuoriescono dalla tenda. Smontare la caffettiera che si scalda sul fornelletto. Dire alle folate di vento settembrino che ti portino in alto, tra le nuvole di quello spicchio di cielo che ti sovrasta.

Non soffri per ciò che non hai. Non lo conosci, e non fai paragoni che potrebbero ferirti. Solo ogni tanto, e per una specie di nostalgia dell’infinito che qualcuno deve averti messo nel cuore, pensi a un luogo senza recinzioni, ma poi ti ritrai spaurito, perché non hai dimestichezza con ciò che non si misura e che non ti reclude.

Le compagne di cella di tua madre le chiami tutte zie. Solo alcune sono con te da quando sei nato. Altre le hai perse, la condanna che dovevano scontare non ha avuto la pazienza di attendere che il tuo primo incisivo spuntasse, che lo svezzamento attecchisse come un’erba di campo, che pochi volontari portassero in cella qualche gioco sorprendente come le costruzioni.

Si tratta di cubetti che si incastrano gli uni sugli altri, e che possono incolonnarsi fino a creare un grattacielo, un ponte, un treno. La scatola riporta le istruzioni, mostra come costruire strutture incredibili che tu non hai mai visto, che somigliano a un sogno.
Dopo averle messe su, stai a contemplarle qualche minuto, poi le distruggi con un pugno arrabbiato.
Raccogli i pezzi e fai a modo tuo, costruisci una stanza di due metri per tre, ci metti due grate, un bagnetto, i letti a castello.
Ti riconosci, finalmente, e quando ti chiedono cosa hai fatto di bello rispondi, semplicemente, casa.

(Riproduzione riservata)

© Simona Lo Iacono

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UN APPROFONDIMENTO DI NATURA GIURIDICA SUL TEMA DELLE DETENUTE MADRI

In Italia esistono ancora 60 bambini detenuti con le madri.

E ciò nonostante il Parlamento abbia approvato la legge 21 aprile 2011, n. 62, con la quale ha inteso valorizzare il rapporto tra detenute madri e figli minori.

La legge si è concentrata sulla acclarata necessità di conciliare, da un lato, l’esigenza, di limitare la presenza nelle carceri di bambini in tenera età, dall’altro, di garantire la sicurezza dei cittadini anche nei confronti delle madri di figli minori, le quali abbiano commesso delitti.

Secondo i dati statistici pubblicati dal Ministero della giustizia sul proprio sito Internet (serie storica semestrale degli anni 1993-2012), erano 57 le detenute madri nelle carceri italiane al 30 giugno 2012 (ultimo dato disponibile) e 60 i bambini di età inferiore a tre anni presenti negli istituti. Alla stessa data risultavano funzionanti 16 asili nido.

Il dato non è mutato nonostante la promulgazione della legge.

Il limite all’effettività della normativa in materia  è  rappresentato soprattutto dal fatto che la detenzione domiciliare dovrebbe essere scontata in strutture ad hoc.

La legge e il decreto attuativo dispongono infatti esplicitamente che la costruzione delle case famiglia dovrà avvenire senza oneri per l’amministrazione penitenziaria, sia sotto il profilo della realizzazione sia sotto il profilo della gestione.

L’art. 4, comma 2, della legge n. 62 del 2011, in particolare, stabilisce che il Ministro della giustizia «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, può stipulare con gli enti locali convenzioni volte ad individuare le strutture idonee ad essere utilizzate come case famiglia protette».

Considerate le difficoltà economico-finanziarie degli enti locali anche a seguito del loro riassetto attraverso la legge n. 56 del 2014, cd. legge Delrio, e la legislazione successiva, ad oggi nessuna casa famiglia protetta risulta istituita.

Una felice eccezione è “La casa di Leda”,  casa protetta per donne detenute con figli minori, servizio volto ad assicurare il benessere dei bambini e sostenere le madri nelle loro funzioni genitoriali, creato in una villa confiscata alla delinquenza organizzata.

La struttura può ospitare 6 utenti in pena alternativa alla detenzione o agli arresti domiciliari con 8 figli minori da 0 a 10 anni. Gli ospiti sono seguiti da educatori e operatori.

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DIRITTO E LETTERATURA: una Lectio Magistralis di Simona Lo Iacono http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/12/21/diritto-e-letteratura-una-lectio-magistralis-di-simona-lo-iacono/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/12/21/diritto-e-letteratura-una-lectio-magistralis-di-simona-lo-iacono/#comments Thu, 21 Dec 2017 18:32:09 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7689

Proponiamo una nuova puntata della storica rubrica di Letteratitudine curata da Simona Lo Iacono, intitolata “Letteratura è diritto, letteratura è vita“, pubblicando un video incentrato su alcuni passaggi della Lectio Magistralis tenuta dalla stessa Simona sul tema “Diritto e letteratura“. La lezione si è svolta il 19 dicembre 2017 presso la Scuola Superiore dell’Università di Catania all’interno del “Laboratorio di diritto” (con l’ausilio delle interpretazioni recitative di Giuseppe Orto, attore e docente dell’Istituto Nazionale del dramma antico).

Simona Lo Iacono – come lei stessa ha raccontato nel corso della lectio – indaga il rapporto tra letteratura e diritto facendo riferimento a quattro relazioni, o funzioni, fondamentali; quattro “declinazioni” che si combinano tra di loro: una funzione maieutica, una funzione rivelativa, una funzione rammemorativa, una funzione metaforica. Nel video riportiamo, in particolare, i riferimenti alla funzione maieutica e alla funzione metaforica (oltre a vari spunti e riflessioni di estremo interesse).

Una Lectio Magistralis appassionata e appassionante incentrata sulla ricerca della verità e della giustizia, sul rapporto tra parola e norma, sulla metafora del processo nascosto. Il tutto partendo dai due presupposti fondamentali. Il primo è che alla base di questa ricerca deve esserci la necessità di puntare al raggiungimento della “nostra pienezza di esseri umani”. Il secondo è che “la verità della giustizia va indagata tra gli ultimi, tra i più fragili”.

Auguro di vero cuore a Simona Lo Iacono di proseguire in questa importantissima attività di ricerca, condivisione e insegnamento che può dare un significativo contributo alla formazione degli studenti universitari interessati alle tematiche attinenti al diritto e alla letteratura (e non solo).

Buona visione e buon ascolto!

Massimo Maugeri




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SIMONA LO IACONO (con “Il morso” – Neri Pozza) a “Letteratitudine in Fm” http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/05/17/in-radio-con-simona-lo-iacono-3/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/05/17/in-radio-con-simona-lo-iacono-3/#comments Wed, 17 May 2017 13:15:56 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7511 SIMONA LO IACONO (con “Il morso” – Neri Pozza) ospite del programma radiofonico Letteratitudine in Fm di lunedì 15 maggio 2017 – h. 10 circa (e in replica nei seguenti 3 appuntamenti: giovedì alle h. 03:00 del mattino; venerdì alle h. 13:00; domenica alle h. 03:00 del mattino)


In Fm e in streaming su Radio Hinterland

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

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LA PUNTATA È ASCOLTABILE ONLINE, CLICCANDO SUL PULSANTE AUDIO

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Con Simona Lo Iacono abbiamo discusso del suo nuovo romanzo intitolato “Il morso” (Neri Pozza) e delle tematiche a esso legate.

Le prime pagine del romanzo sono disponibili qui.

Di seguito, informazioni sul libro.

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Il morso” di Simona Lo Iacono (Neri Pozza)

Nella Sicilia del 1848, la bella Lucia Salvo viene considerata una «babba», ossia una pazza, perché affetta da una grave forma di epilessia che tutti scambiano per follia e che nessuno, in quell’epoca, è in grado di diagnosticare e curare. Per volontà della madre, che spera di risollevare le sorti della famiglia, Lucia viene mandata a Palermo, a servizio presso la famiglia dei conti Ramacca. Il conte Ramacca, afflitto da un irrefrenabile desiderio sessuale, brama l’arrivo della nuova serva. Smanioso di saziare i suoi appetiti morbosi egli è, però, stanco delle donnette che si precipitano senza resistenze nel suo letto. Quando il nano Minnalò, suo fidato consigliere, gli porta Lucia, la bella ragazza non si concede, anzi, lotta furiosamente, mordendogli a sangue una mano, e riesce a sfuggirgli. Ceduta da Ramacca al nobile Manfredi degli Agliata, Lucia viene scambiata per una sciocca a causa della sua malattia e sfruttata per trasmettere messaggi segreti ai carcerati. La Sicilia del 1848 è un vulcano a un passo dall’esplosione, e Lucia sembra essere lo strumento perfetto per tramare senza essere scoperti. Intrappolata in un ruolo che non le appartiene, costretta ad apparire per quella che non è e, al contempo, timorosa dei suoi momenti di incoscienza, Lucia diventa un’inconsapevole eroina, protagonista dei moti del 1848, quando aiuta il capo dei rivoluzionari, Maurizio Fortunato, ad evadere dal carcere. Il morso, nuovo romanzo di Simona Lo Iacono, si ispira alla vita di Lucia Salvo «a siracusana», personaggio realmente esistito; e racconta, con una lingua elaborata e tesa, un personaggio femminile unico, fragile e determinato, rassegnato eppure incredibilmente vitale.

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Simona Lo Iacono è nata a Siracusa nel 1970. Magistrato presso il tribunale di Catania, ha pubblicato racconti e romanzi. Il suo primo romanzo “Tu non dici parole” (Perrone 2008) ha vinto il premio Vittorini Opera prima. Nel 2011 ha pubblicato il romanzo intitolato “Stasera Anna dorme presto” (Cavallo di Ferro), con cui ha vinto il premio Ninfa Galatea (ed è stata finalista al Premio Città di Viagrande). Nel 2013, sempre per Cavallo di Ferro, ha pubblicato il romanzo “Effatà” (con cui ha vinto il Premio Martoglio e il premio Donna siciliana 2014 per la letteratura).
E’ del 2016 “Le streghe di Lenzavacche” (edizioni e/o) con cui è stata finalista al Premio Strega Giovani e semifinalista al Premio Strega. Il libro è attualmente in finale al Premio letterario “Città di Rieti”, al Premio “Leggo quindi sono”, al Premio “Chianti”.
Presta attività di volontariato in carcere, dove cura programmi di rieducazione dei detenuti attraverso la letteratura e il teatro, e presso l’Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti, dove utilizza il libro come mezzo di contatto con la realtà.

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

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La colonna sonora della puntata: “Ouverture della Norm”a di Vincenzo Bellini (versione diretta da Riccardo Muti); “Valzer del commiato” di Nino Rota; “Danze del Gattopardo” di Nino Rota

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Letteratitudine in Fm va in onda su Radio Hinterland il mercoledì mattina (h. 9 circa), con una serie di repliche nei giorni successivi. Per dettagli, consulta il palinsesto della radio.

Puoi ascoltare Radio Hinterland in Fm su 94.600 nelle province di Milano e Pavia, oppure in streaming via Internet cliccando qui.

È possibile ascoltare le puntate precedenti, cliccando qui.


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SIMONA LO IACONO con “Le streghe di Lenzavacche” a Letteratitudine in Fm http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/03/23/in-radio-con-simona-lo-iacono-2/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/03/23/in-radio-con-simona-lo-iacono-2/#comments Wed, 23 Mar 2016 17:04:26 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7092 SIMONA LO IACONO con “Le streghe di Lenzavacche” a Letteratitudine in Fm di lunedì 21 marzo 2016 – h. 10 circa (e in replica nei seguenti 3 appuntamenti: giovedì alle h. 03:00 del mattino; venerdì alle h. 13:00; domenica alle h. 03:00 del mattino).


In Fm e in streaming su Radio Hinterland

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

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Simona Lo Iacono è stata ospite della puntata di “Letteratitudine in Fm” di lunedì 21 marzo 2016.

Con Simona Lo Iacono abbiamo discusso del suo nuovo romanzo intitolato “ Le streghe di Lenzavacche” (Edizioni E/O).

Le prime pagine del romanzo sono disponibili qui.

Di seguito, la scheda del libro e il booktrailer.

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Le streghe di Lenzavacche” di Simona Lo Iacono (Edizioni E/O
È il 1938. Ululano le sirene che inneggiano al fascio. A Lenzavacche, minuscolo paese della Sicilia, vivono Felice, un bimbo disabile ma vivacissimo, la madre Rosalba e la nonna Tilde. Una famiglia stranissima, di sole donne, frutto di una misteriosa discendenza da streghe perseguitate nel 1600. Felice – che è il frutto di un amore appassionato della madre con un arrotino di passaggio, il Santo – grazie all’estro e alla originalità dei famigliari, riesce a vivere in pienezza nonostante i disagi fisici e l’emarginazione, in un periodo – come quello fascista – in cui è sommamente esaltato il valore della perfezione fisica. Si muovono accanto a lui i personaggi dell’intero paese, primo fra tutti il farmacista Mussumeli, donnaiolo incallito ma protettore degli ultimi, ridanciano e umilissimo nella sua veste di benigno tutore della famiglia. E poi nonna Tilde, zelante sostenitrice del potere benevolo delle streghe, delle quali si dichiara orgogliosa discendente e a cui si ispira costantemente per offrire al nipote disabile rimedi portentosi e anticipatori del futuro. Mentre il piccolo Felice compie progressi e i suoi cari s’ingegnano ad escogitare metodi che possano regalargli movimento, parola, indipendenza, arriva a Lenzavacche un nuovo maestro elementare. Giovane e innamorato della cultura, fantasioso ma dominato da un dolore lontano, questo maestro, in aperto contrasto con il regime dell’epoca, non accetta i luoghi comuni sull’insegnamento, è un assertore convinto del valore spirituale dei libri, scrive lunghe lettere a una misteriosa zia, a cui narra le difficoltà di inserimento nel paese.
In una Sicilia viziosa, ma pronta a giudicare, carnale e insofferente alla diversità, religiosa e pagana, Felice, sua madre e il maestro Mancuso, amanti della fantasia e dei libri, finiscono per diventare i simboli di una controtendenza dirompente, quella che decide di andare al di là delle apparenze e di scommettere sul valore della pietà umana. La loro parabola finisce allora per somigliare proprio a quella delle streghe, un gruppo di donne vissute a Lenzavacche nel 1600 che decise di vivere in castità e in obbedienza e di riunirsi   per fronteggiare eventi difficili della vita, affratellandosi in un vincolo di solidarietà umana. Mogli abbandonate, spose gravide, figlie reiette o semplicemente sfuggite a situazioni di emarginazione, si riunirono infatti in un casaleno ai margini dell’abitato e iniziarono a condividere una vera esperienza comunitaria e anche letteraria. Furono però fraintese, bollate come folli, viste come corruttrici e istigatrici del demonio. Finirono per essere ricordate come “Le streghe”…ma – ciò nonostante – sia Felice che il maestro Mancuso sperimenteranno, sotto gli occhi compiaciuti di Tilde, la forza della loro portentosa vitalità. Metafora del coraggio, della fantasia, della seconda opportunità di vita che la narrazione e la compassione offrono all’uomo, le streghe assurgono allora a simbolo di quella che la società bolla e perseguita come diversità, perdendo così l’occasione di amarla e riconoscerla come possibilità di crescita interiore e morale.

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Simona Lo Iacono è nata a Siracusa nel 1970. Magistrato, presta servizio presso il tribunale di Catania. Ha pubblicato diversi racconti e vinto concorsi letterari di poesia e narrativa. Sul blog letterario Letteratitudine di Massimo Maugeri cura una rubrica che coniuga norma e parola, letteratura e diritto, dal nome “Letteratura è diritto, letteratura è vita”. Il suo primo romanzo, Tu non dici parole (Perrone 2008), ha vinto il premio Vittorini Opera prima. Nel 2010 le sono stati conferiti il Premio Internazionale Sicilia “Il Paladino” per la narrativa e il Premio Festival del talento città di Siracusa. Nel 2011 ha pubblicato Stasera Anna dorme presto (Cavallo di Ferro), con cui ha vinto il premio Ninfa Galatea ed è stata finalista al Premio Città di Viagrande. Nel 2013, sempre per Cavallo di Ferro, ha pubblicato il romanzo Effatà, vincitore del Premio Martoglio e del premio Donna siciliana 2014 per la letteratura. Attualmente conduce sul digitale terrestre un format letterario dal nome BUC, trasmissione che mescola al libro varie discipline artistiche, e cura sulla pagina culturale della Sicilia la rubrica letteraria “Scrittori allo specchio”. Presta inoltre servizio presso il carcere di Brucoli come volontaria, tenendo corsi di letteratura, scrittura e teatro, tutti mezzi artistici con i quali intende attuare il principio rieducativo della pena sancito dall’art 27 della Costituzione.

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

LA PUNTATA È ASCOLTABILE ONLINE, CLICCANDO SUL PULSANTE AUDIO

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La colonna sonora della puntata è composta dai seguenti brani musicali: “Beethoven Silencio” di Julio Cortazar (parte I); Carl Orff – O Fortuna ~ Carmina Burana; “Beethoven’s Silencio” di Julio Cortazar (parte II)

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Letteratitudine in Fm va in onda su Radio Hinterland il mercoledì mattina (h. 9 circa), con una serie di repliche nei giorni successivi. Per dettagli, consulta il palinsesto della radio.

Puoi ascoltare Radio Hinterland in Fm su 94.600 nelle province di Milano e Pavia, oppure in streaming via Internet cliccando qui.

È possibile ascoltare le puntate precedenti, cliccando qui.


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LE STREGHE DI LENZAVACCHE – il Booktrailer del nuovo romanzo di Simona Lo Iacono http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/03/05/le-streghe-di-lenzavacche-il-booktrailer/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/03/05/le-streghe-di-lenzavacche-il-booktrailer/#comments Sat, 05 Mar 2016 13:41:11 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7072 * * * © Letteratitudine LetteratitudineBlog / LetteratitudineNews / LetteratitudineRadio / LetteratitudineVideo ]]>

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MORTE DI UN UOMO FELICE, di Giorgio Fontana (intervista all’autore) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/09/08/morte-di-un-uomo-felice-di-giorgio-fontana/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/09/08/morte-di-un-uomo-felice-di-giorgio-fontana/#comments Mon, 08 Sep 2014 14:00:41 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6391 MORTE DI UN UOMO FELICEMorte di un uomo felice, di Giorgio Fontana (Sellerio, 2014)

Nell’ambito della sezione “Letteratura è diritto, letteratura è vita” pubblichiamo “Morte di un uomo felice. Intervista a Giorgio Fontana”.

di Simona Lo Iacono

C’è un rapporto, viscerale e sempre sanguinante, tra giustizia e letteratura.
Sin dall’antichità, l’uomo si è interrogato, ha consultato Pizie e Dèi parlanti, ha cercato nel volo degli uccelli segnali profetici, per poi comprendere che le risposte risiedono dentro di noi.
Né questa ricerca è mai stata solo giuridica, o si è potuta risolvere unicamente nella codificazione. Ma ha avuto la necessità di addentrarsi nel cuore delle storie. E di raccontare non solo l’amore per la giustizia, ma anche il dolore della sua perdita.
Solo le storie, infatti, fanno affondare i concetti nel cuore, nel fango, nella caduta e nella resurrezione. E nell’uomo. Nelle piaghe dei suoi errori, nella struggente ansia di trovarsi.
Così, non dobbiamo solo ai giuristi la conquista della coscienza e della pietà umana, ma ad una donna, Antigone, narrata da parole e versi, urlata nei teatri e negli anfiteatri del mondo.
Né possiamo imputare l’evoluzione della civiltà alla sola codificazione, ma ad un coro di romanzieri e personaggi letterari, che a buon diritto possono dirsi coautori della costruzione di un ideale di bene comune.
Dunque, ricerca della giustizia e senso delle storie sono sorelle. E sono sorelle perchè complici della medesima segreta afflizione: trovare un significato, dare fondamento al mistero dell’esistenza.
Questo intreccio segretissimo e intimo, pare affiorare con potenza nell’ultimo romanzo di Giorgio Fontana, “Morte di un uomo felice” (Sellerio).
Giacomo Colnaghi è magistrato, e come tale è uomo di diritto e di giustizia.
In una Milano degli anni ottanta inquieta e già ossessionata dai vizi capitali del secolo (ricerca del potere, corruzione, caduta degli ideali della storia passata), cerca.
In apparenza è solo sulle tracce di una banda armata, responsabile della morte di un politico.
Ma la sua ricerca è molto più lacerante e antica.
Figlio di Ernesto, un partigiano che è morto durante un’azione, e che ha sconvolto la famiglia con la sua ribellione, Colnaghi è afflitto da domande sul senso della vita e della morte, sulla vera dimensione del bene e del male, sull’esistenza in un Dio nel quale crede ma a cui non riesce a tenere nascosti i suoi dubbi.
E’ lacerato, Colnaghi, è intuitivo, è – soprattutto – un uomo del suo tempo, ma con alle spalle l’esperienza eroica di un padre che – contro tutti, contro tutto – ha lasciato la vita per rincorrere un ideale.
Colnaghi non cerca dunque solo risposte giudiziarie. O meglio. Le piste investigative sono le tracce di un’altra ricerca, quella di un mondo spaesato, irriverente, dolentissimo, che gradualmente perde senso del mistero e del pudore, infliggendo all’Italia (quell’Italia che suo padre aveva fondato sulla riconquista della dimensione ideale) un destino da figlia perduta cui solo la compassione può salvare l’anima.
Il tempo di Colmaghi, allora, è il tempo di questa pietà che – come quella di Antigone – non si rassegna alla sola normatività, ma fa appello al valore del sangue versato, del sogno, della conquista di una giustizia che non è solo risposta a un reato, ma vocazione intima, troppo spesso profanata, dell’animo umano.
Vita e giustizia si aggrovigliano, rimandano l’una all’altra e si completano febbrilmente e drammaticamente, quasi a suggerire che scegliere l’una senza l’altra equivale a morire, mentre la morte vera (finanche quella sperimentata da un partigiano contro il volere della sua famiglia) non è morte, ma vita, se c’è significato, motivo della ricerca.
Allora, la fine di chi compie un simile viaggio, non è inutile.
E’, piuttosto, la morte di un uomo felice.

Chiedo dunque a Giorgio Fontana di parlarci dell’importanza di questa ricerca. E di quanto, in essa, conti ripercorrere le strade passate, dare valore alla morte di chi ci ha preceduto.

- In quest’ottica, qual è il significato del rapporto tra padre e figlio, nel romanzo?
Credo sia il nodo centrale dell’intero libro. In effetti, benché Morte di un uomo felice sia diverse cose e possa essere letto, credo, in molti modi – come un romanzo storico, un’interrogazione sulla giustizia e così via – per me rimane innanzitutto la storia di un padre e di un figlio. La consegna di un’eredità e il bisogno di non dissiparla. Ma più che di “significato” parlerei proprio della relazione umana in quanto tale, della sua centralità: sono sempre molto restio ad attaccare “significati” ai miei personaggi.
- Senso della vita e della morte. Il romanzo appare la metafora di un connubio necessario tra ricerca di senso e giustizia. Così che la morte non coincide con la fine, ma con la mancanza di questa ricerca. E’ così?
In Per chi suona la campana, se non sbaglio, un personaggio di Hemingway diceva che non gli spiaceva morire – gli spiaceva smettere di vivere. Il concetto vale anche per Giacomo Colnaghi: nonostante le mille paure, egli va avanti; e più che la morte in quanto tale teme la fine del proprio, personalissimo, pellegrinaggio alla ricerca di tutto ciò che non è ancora riuscito a trovare. Le sue domande, il suo bisogno di domande, più che di risposte. Ma anche qui, non credo che il mio romanzo sia “metafora” di nulla: quando scrivo una storia penso solo alla storia e ai personaggi.


- Il titolo dell’opera, “Morte di un uomo felice”, è quasi un ossimoro, dato che siamo abituati a scindere il concetto di fine da quello di felicità. Che cos’è, dunque, la felicità per Colnaghi?
Già: il titolo è un po’ spiazzante, e alcuni lettori l’hanno trovato anche poco comprensibile – se pensiamo a Giacomo Colnaghi non ci viene in mente subito l’idea di un uomo felice e realizzato. Ma credo davvero dipenda dal tipo di felicità che abbiamo in mente: quella del magistrato è molto diversa da una felicità “istituzionale”, godereccia, priva di chiaroscuri… Credo che il suo essere felice coincida essenzialmente con la sua curiosità mai placata da un lato, e con la sua capacità di assaporare fino in fondo alcune piccole cose: una bella cena in trattoria, un giro in bicicletta, una passeggiata solitaria, un lavoro ben fatto, una barzelletta. Può sembrare poco, ma per me è molto: ed è un tipo di felicità “minore” che anch’io trovo molto attraente.

- Grazie delle risposte e mille in bocca al lupo per la candidatura al premio Campiello.
Grazie a lei, e crepi il lupo!

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Giorgio Fontana è nato nel 1981. Ha pubblicato i romanzi Buoni propositi per l’anno nuovo (Mondadori 2007) e Novalis (Marsilio 2008), il reportage narrativo Babele 56 (Terre di Mezzo 2008) e il saggio La velocità del buio (Zona 2011). Vive e lavora a Milano. Con questa casa editrice ha pubblicato Per legge superiore (2011) e Morte di un uomo felice (2014).

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IL NUOVO PROCESSO CIVILE TELEMATICO (Le nostre vite tra diritto e web n. 28) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/07/11/il-nuovo-processo-civile-telematico/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/07/11/il-nuovo-processo-civile-telematico/#comments Fri, 11 Jul 2014 16:00:40 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6290 diritto-e-web-2LE NOSTRE VITE TRA DIRITTO E WEB – N. 28

Leggi L’introduzione di Massimo Maugeri e Simona Lo Iacono

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IL NUOVO PROCESSO CIVILE TELEMATICO

di Simona Lo Iacono

Quando ho iniziato il mio periodo di uditorato in magistratura era il 1997.
Prestavo servizio come volontaria all’ufficio del GIP. Avevo infatti vinto il concorso qualche mese prima, e in attesa di essere chiamata alle funzioni, cominciai a frequentare il tribunale, al seguito di un vecchio ed esperto collega.
La prima cosa che vidi, fu la montagna di fascicoli accatastata accanto alla porta, i commessi che facevano cigolare i carrelli tra un’udienza e l’altra, i giudici civili sommersi da faldoni e codici.
Un universo di carta, verbalizzazioni faticose da dettare al cancelliere, sentenze scritte a mano e ricopiate con macchina da scrivere elettrica, o con i primi sistemi di scrittura del computer.
Le ricerche nella Gazzetta Ufficiale avvenivano in biblioteca, dove consultavamo per ore tomi polverosi.
E, infine, le comunicazioni erano appannaggio di affaticati ufficiali giudiziari, che percorrevano il territorio avvezzi a ogni imprevisto e traballando sugli scossoni delle auto stracolme di verbali di notifica.
Diciassette anni fa nessuno di noi avrebbe mai ritenuto possibile digitare il numero delle leggi con un mouse, farlo apparire al computer, scrivere gli atti giudiziari con firma digitale e depositarli da casa, seduti alla propria scrivania.
Cos’è accaduto?
E’ entrato in vigore il processo civile telematico.
Il Processo Civile Telematico è, infatti, il progetto del Ministero della Giustizia per la realizzazione di un sistema informatico civile che si pone l’obiettivo di automatizzare i flussi informativi e documentali tra le parti, il giudice e la cancelleria.
Il progetto nasce sulla base del D.P.R. 13-2-2001 n. 123 (Regolamento recante disciplina sull’uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile, nel processo amministrativo e nel processo dinanzi alle sezioni giurisdizionali della corte dei conti) e secondo le regole tecnico-operative stabilite per il funzionamento e la gestione del sistema informatico civile, nonché per l’accesso dei difensori delle parti e degli ufficiali giudiziari.
Il cambiamento non riguarda, dunque, la disciplina delle fasi processuali quanto le modalità dello scambio di atti e comunicazioni tra gli avvocati e gli Uffici Giudiziari, e all’interno degli Uffici Giudiziari stessi, dando la possibilità di creare un sistema informatizzato dell’attività giudiziaria alternativo a quello cartaceo attualmente utilizzato. Infatti, il documento informatico sottoscritto con firma digitale ha acquisito ora efficacia probatoria e quindi la trasmissione con strumenti informatici può considerarsi valida ed efficace agli effetti di legge.
Il progetto consiste nella realizzazione di un insieme di applicazioni informatiche e infrastrutture tecnologiche che renda accessibile via web il sistema informatico civile, sia per il deposito di atti che per attività di consultazione dello stato delle cause e del fascicolo; inoltre è prevista anche la trasmissione per via telematica di comunicazioni, notifiche e copie di atti dagli uffici giudiziari ai soggetti coinvolti. Presupposto per questo scambio di atti è che ogni soggetto coinvolto sia dotato e metta a disposizione il proprio indirizzo di posta elettronica: per l’avvocato, l’indirizzo è quello comunicato al proprio Consiglio dell’Ordine mentre per gli altri soggetti (magistrati e cancellieri) si fa riferimento all’indirizzo dichiarato all’ente certificatore della firma digitale.
Le novità del Processo Telematico non si limitano però unicamente alla trasmissione, comunicazione e notificazione degli atti, ma si spingono oltre dando vita al “fascicolo informatico”, che può considerarsi il prodotto dell’informatizzazione delle attività strumentali del processo civile. La cancelleria provvederà infatti a formare il fascicolo informatico inserendo nello stesso gli atti e i documenti probatori inviati per via telematica dal difensore. Uno degli obiettivi del Processo Telematico è la trasmissione degli atti giuridici tramite le moderne tecnologie, garantendo un elevato livello di sicurezza nella riservatezza e autenticità dei documenti. Per raggiungere questo obiettivo, l’atto deve essere redatto non più in modo cartaceo ma in modo digitale. Il passaggio dal documento cartaceo al documento elettronico rende necessaria la redazione dell’atto giuridico secondo degli standard informatici che ne possano rendere agevole la trasmissione tra i vari applicativi software che devono gestire le informazioni (i dati).
Il quadro normativo sviluppatosi a partire dal 2001 è stato complessivamente rivisto dal decreto-legge n. 193/2009. In particolare, l’art. 4 del provvedimento ha disposto che nel processo civile e nel processo penale, tutte le comunicazioni e notificazioni per via telematica si effettuano mediante posta elettronica certificata (PEC), ai sensi del Codice dell’amministrazione digitale – CAD (DL 82/2005) e del regolamento sull’utilizzo della posta elettronica certificata (DPR n. 68/2005). Per la prima volta, dunque, la disciplina del processo telematico è stata estesa anche al settore penale.
Inoltre, l’art. 4 del DL. 193/2009 reca numerose altre disposizioni in materia di digitalizzazione della giustizia, tra le quali si segnalano:
quelle che ribadiscono l’obbligo di indicare nell’albo degli avvocati l’indirizzo di posta elettronica certificata dell’avvocato e il suo codice fiscale, precisando l’obbligo di aggiornamento giornaliero di tali informazioni e la loro messa a disposizione per via telematica al Consiglio nazionale forense ed al Ministero della giustizia;
quelle che introducono una serie di modifiche al c.p.c., necessarie per il completamento del processo di informatizzazione del processo civile, tra le quali un nuovo art. 149-bis, che disciplina in termini generali il ricorso alle procedure telematiche per l’esecuzione delle notificazioni, a mezzo posta elettronica certificata; sono inoltre previste modifiche al processo dell’esecuzione (sia con riferimento all’espropriazione mobiliare sia a quella immobiliare) secondo le quali il giudice può stabilire che vengano effettuati con modalità telematiche il versamento della cauzione, la presentazione delle offerte, lo svolgimento della gara e l’incanto nonché il pagamento del prezzo.

Sulla digitalizzazione del processo è intervenuta anche la legge n. 69/2009 che ha richiesto la trasmissione della procura alle liti per via informatica e con sottoscrizione digitale (art. 83, terzo comma, c.p.c.).

Con regolamento adottato con DM 21 febbraio 2011 n. 44, sono state stabilite le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

Il D.L. 138 del 2011 ha previsto poi che, nel processo civile, in ogni citazione, ricorso, comparsa, controricorso, precetto, il difensore debba indicare il proprio indirizzo di posta elettronica certificata e il proprio numero di fax e che con le indicate modalità debbono essere effettuate tutte le comunicazioni alle parti.
La legge di stabilità 2012 (legge 183/2011)è tornata a novellare numerose disposizioni del codice di procedura civile e delle disposizioni di attuazione, per dare piena operatività all’utilizzo della posta elettronica certificata. In particolare, articolo 25 della legge, entrato in vigore lo scorso 31 gennaio 2012, ha previsto:
che l’indirizzo PEC che il difensore deve indicare negli atti di parte (citazione, ricorso, comparsa, controricorso, precetto) deve essere quello comunicato al proprio ordine professionale (art. 125 c.p.c.);
una nuova disciplina delle comunicazioni di cancelleria. In base alla nuova norma, le comunicazioni di cancelleria si effettuano in via ordinaria tramite consegna al destinatario, che rilascia ricevuta, o tramite PEC, nel rispetto della normativa sui documenti informatici, anche regolamentare, vigente. Se non è possibile procedere con questi mezzi, la comunicazione avviene tramite telefax o tramite notifica dell’ufficiale giudiziario, salva diversa disposizione di legge (art. 136 c.p.c.);
la soppressione delle disposizioni che prevedono la comunicazione alle parti da parte della cancelleria delle sentenze e delle ordinanze tramite telefax o posta elettronica. Le comunicazioni delle sentenze e delle ordinanze rientrano così nella nuova disciplina generale;
con la medesima ratio, la soppressione della disposizione che consente al giudice di autorizzare, per singoli atti, che lo scambio o la comunicazione di comparse e memorie avvenga tramite telefax o PEC (art. 170 c.p.c., modificato dalla lett. e));
con riferimento all’intimazione al testimone a comparire in udienza da parte del difensore mediante posta elettronica (che resta comunque alternativa alla raccomandata e al telefax), si precisa che deve trattarsi di posta elettronica ‘certificata’e si sopprime il riferimento alla normativa vigente in materia di documenti informatici (art. 250 c.p.c.);
con riferimento al ricorso per cassazione (art. 366, modificato dalla lett. i)):
la possibilità per il ricorrente di indicare l’indirizzo PEC comunicato al proprio ordine, in alternativa all’elezione di domicilio a Roma, onde evitare che le notificazioni gli siano fatto presso la cancelleria della Cassazione;
la modifica della disciplina delle comunicazioni di cancelleria e delle notificazioni tra i difensori ai sensi degli artt. 372 (produzione di altri documenti) e 390 (rinuncia al ricorso), richiamando l’applicabilità della disciplina generale delle comunicazioni di cancelleria di cui all’art. 136 c.p.c.;
con riferimento al pignoramento, si prevede che la trasmissione del verbale da parte dell’ufficiale giudiziario al debitore e al creditore avviene tramite PEC; solo quando ciò non è possibile, essa avviene tramite telefax o posta ordinaria (art. 518 c.p.c.).

Il DL 179/2012 ha integrato la disciplina processuale delle comunicazioni e notificazioni per via telematica. In particolare, l’art. 16 contiene disposizioni in materia di comunicazioni e notificazioni per via telematica nel processo civile e penale. Le modifiche introdotte sono connesse al processo di attuazione della revisione della geografia giudiziaria (vedi i D.Lgs 154 e 155/2012) e intendono assicurare che la riduzione del numero delle sedi giudiziarie non faccia venir meno il principio di prossimità del servizio giustizia ai cittadini e alle imprese.
Dal 30 giugno, dunque, assisteremo alla progressiva smaterializzazione del fascicolo cartaceo, spariranno i vecchi faldoni impolverati e noi giudici depositeremo gli atti con un CLIK.
Lo so, saremo efficienti, meno impolverati e più moderni.
Lo stato risparmierà le spese per la carta e il personale, gli avvocati riceveranno i provvedimenti sugli smart-phone e tutto apparirà volatile e velocissimo come il pensiero.
E’ il futuro, e avrà i suoi benefici.
Ma io sono una romantica, e sebbene mi sia adeguata alla nuova era, rimpiango un po’ il contatto con le cose…. con la carta, con la penna, con il sudore dei testi in aula, con i timbri sbavati e opachi, con tutto quel cerimoniale un po’ attempato e profumato di passato, che mi faceva pensare di avere sulle spalle anche le toghe dei vecchi colleghi.
Ho provato a cliccare sulla mia “consolle del magistrato” (lo strumento che mi consente di depositare gli atti telematicamente) la parola “nostalgia”.
Ma il sistema si impalla e lampeggia ferocemente la parola: “errore, errore, errore”….

(tra le fonti: diritto e diritti)

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È online la puntata con SIMONA LO IACONO ospite di “Letteratitudine in Fm” di venerdì 31 maggio 2013 http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/06/03/in-radio-con-simona-lo-iacono/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/06/03/in-radio-con-simona-lo-iacono/#comments Mon, 03 Jun 2013 15:58:41 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=5251 simona-effataÈ online la puntata con SIMONA LO IACONO ospite di “Letteratitudine in Fm” di venerdì 31 maggio 2013

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Ospite di “Letteratitudine in Fm” di venerdì 31 maggio 2013 (h. 13 circa) è stata la scrittrice e magistrato Simona Lo Iacono.

Con Simona Lo Iacono abbiamo discusso delle tematiche affrontate nel suo nuovo romanzo: “Effatà” (Cavallo di Ferro).

Su LetteratitudineNews, le prime pagine di “Effatà”

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Letteratitudine in Fm va in onda su Radio Hinterland il venerdì mattina (h.13 circa) e – in replica – il martedì sera (h. 20,30) e il mercoledì mattina (h. 11,00). Per dettagli, consulta il palinsesto della radio.

Puoi ascoltare Radio Hinterland in Fm su 94.600 nelle province di Milano e Pavia, oppure in streaming via Internet cliccando qui.

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CONTROLLO DELLE E-MAIL DA PARTE DEL DATORE DI LAVORO: licenziamento per giusta causa (Le nostre vite tra diritto e web n. 7) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2012/12/02/controllo-delle-e-mail-da-parte-del-datore-di-lavoro/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2012/12/02/controllo-delle-e-mail-da-parte-del-datore-di-lavoro/#comments Sun, 02 Dec 2012 10:01:55 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=4718 diritto-e-web-2LE NOSTRE VITE TRA DIRITTO E WEB – N. 7: CONTROLLO DELLE E-MAIL DA PARTE DEL DATORE DI LAVORO

L’introduzione di Massimo Maugeri e Simona Lo Iacono

Controllo delle e-mail da parte del datore di lavoro? La Cassazione dice sì, se è a scopo difensivo.

E’ principio sancito anche a livello costituzionale che la segretezza della corrispondenza sia tutelata.
E infatti la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali stabilisce, al comma 1 dell’art. 21 (Libertà di espressione), che ogni persona ha (…) libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera.
E l’art 15 della Costituzione italiana ha introdotto la nozione di libertà e segretezza della corrispondenza per la prima volta nello Stato italiano, superando così la visione dello Statuto Albertino che la escludeva.
La Costituzione del 1948 supera inoltre la “vecchia” visione di corrispondenza, allargandola a ogni mezzo di comunicazione. L’art. 15 Cost. contiene un principio supremo e recita:
La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili.
La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge
”.
Sulla scorta di tali principi si è più volte si è ribadito che il controllo a distanza del lavoratore, della posta elettronica (email aziendale) e degli accessi Internet (navigazione Web), non è consentito in base al Codice della Privacy e all’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori.
Accade a volte però che in seno al rapporto di lavoro emergano fatti «tali da raccomandare l’avvio di una indagine retrospettiva». In tali casi il datore di lavoro è autorizzato a verificare la corretta esecuzione della prestazione anche accedendo alle email inviate e ricevute dal dipendente.
Ma c’è di più: se la corrispondenza telematica conferma i sospetti del datore di lavoro, questa costituisce una giusta causa di licenziamento.
La precisazione è frutto dell’ultima sentenza sul tema della Corte di cassazione, la n. 2722/2012 intervenuta sul caso di un funzionario di banca che ha divulgato informazioni aziendali riservate attraverso la posta elettronica e – scoperto dal datore di lavoro – è stato licenziato per giusta causa.
La “giusta causa” per il licenziamento si era configurata anche a fronte del vantaggio personale che il dipendente aveva tratto diffondendo le notizie riservate riguardo alcune operazioni finanziarie e violando l’obbligo di segretezza e correttezza (articolo 2104 del codice civile), nonché il regolamento interno e il codice deontologico.
Un comportamento ritenuto «particolarmente lesivo dell’elemento fiduciario».
La Cassazione ha ritenuto che non era possibile attribuire al datore di lavoro la violazione delle garanzie ai dipendenti imposte dello Statuto dei lavoratori né quelle costituzionali, perché in questo caso l’attività di controllo sulle strutture informatiche aziendali utilizzate dal lavoratore «prescindeva dalla pura e semplice sorveglianza sull’esecuzione della prestazione», ma era «diretta ad accertare la perpetrazione di eventuali comportamenti illeciti (poi effettivamente riscontrati)» e «destinato ad accertare un comportamento che poneva in pericolo la stessa immagine dell’istituto presso terzi».

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Tutte le puntate di Le nostre vite tra diritto e web” sono disponibili qui…

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DIFFAMAZIONE A MEZZO FACEBOOK (Le nostre vite tra diritto e web n. 6) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2012/11/17/diffamazione-a-mezzo-facebook-le-nostre-vite-tra-diritto-e-web-n-6/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2012/11/17/diffamazione-a-mezzo-facebook-le-nostre-vite-tra-diritto-e-web-n-6/#comments Sat, 17 Nov 2012 13:43:09 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=4658 diritto-e-web-2LE NOSTRE VITE TRA DIRITTO E WEB – N. 6: DIFFAMAZIONE A MEZZO FACEBOOK

L’introduzione di Massimo Maugeri e Simona Lo Iacono

Ottobre 2012, Tribunale di LIVORNO: diffamazione a mezzo facebook

La materia della diffamazione costituisce uno dei temi più delicati nella regolamentazione del mondo delle informazioni, soprattutto da quanto la comunicazione viaggia veloce su internet.
L’esistenza del web ha infatti aggravato il problema della asimmetria tra potenziale calunniato e potenziale calunniatore, poiché la rete non ha confini territoriali e limiti di percezione. È quindi indubitabile che la lesività del reato è potenziata, e pressoché irrecuperabile.
Iniziamo col definire la diffamazione.

L’art 595 c.p. stabilisce che “chiunque, al di fuori dei casi di cui all’art. 594 c.p. (Ingiuria), comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino ad € 1.032,00. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino ad € 2.065,00. Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altra forma di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore ad € 516,00”.

L’art. 596-bis c.p. (Diffamazione a mezzo stampa) dispone, inoltre, che se il delitto è commesso col mezzo della stampa, lo stesso trattamento sanzionatorio, diminuito in misura non eccedente un terzo, è applicato al direttore o vicedirettore responsabile, all’editore ed allo stampatore (per i reati di cui agli artt. 57 c.p., Reati commessi col mezzo della stampa periodica, 57-bis c.p., Reati commessi col mezzo della stampa non periodica, e 58 c.p., Stampa clandestina), in quanto tenuti ad esercitare sul contenuto del periodico il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati.

Il legislatore, pur mostrando di aver preso in considerazione l’esistenza di nuovi strumenti di comunicazione, telematici ed informatici (si veda, ad esempio, l’art. 623-bis c.p. in tema di reati contro l’inviolabilità dei segreti), non ha ritenuto di mutare o integrare la normativa con riferimento ai reati contro l’onore (artt. 594 e 595 c.p.), pur essendo intuitivo che questi ultimi possano essere commessi anche per via telematica o informatica.

Pensando, ad esempio, alla trasmissione di comunicazioni via e-mail, ci si rende facilmente conto che è certamente possibile che un agente, inviando messaggi atti ad offendere un soggetto, realizzi la condotta tipica del delitto di ingiuria (se il destinatario è lo stesso soggetto offeso) o di diffamazione (se i destinatari sono persone diverse). Ovviamente, l’azione è altrettanto idonea a ledere il bene giuridico dell’onore anche se l’agente immette il messaggio in rete con modalità diverse.

Dottrina e giurisprudenza sono, dal canto loro, oramai in accordo, ritenendo che nella nozione di “stampa” di cui all’art. 595, co. 3, c.p. debba essere ricompresso ogni prodotto idoneo alla sua diffusione in una molteplicità di esemplari, con mezzi meccanici o fisico-chimici. Analogamente, per “altri mezzi di pubblicità” si intendono, in senso ampio, tutti gli altri mezzi divulgativi, quindi, anche internet (Cass. pen., n. 4741/2000, cit.).

È noto che il reato di diffamazione si consumi anche se la comunicazione e/o la percezione non siano contemporanee e contestuali ma, mentre nel caso di diffamazione commessa a mezzo posta o e-mail è necessario che l’agente compili e spedisca una serie di messaggi ad uno o più destinatari, nel caso in cui l’autore del reato crei o utilizzi uno spazio web o un social network come facebook, la comunicazione deve intendersi effettuata potenzialmente erga omnes (anche se nell’ambito limitato di coloro che abbiano gli strumenti, la capacità tecnica o l’autorizzazione a connettersi).

Partendo da tale premessa, si giunge agevolmente a ritenere che l’utilizzo di Internet integri l’ipotesi aggravata di cui all’art. 595, co. 3, c.p. (offesa recata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità), poiché la particolare diffusività del mezzo usato per propagare il messaggio denigratorio – solo lontanamente paragonabile a quella della stampa ovvero delle trasmissioni televisive o radiofoniche – rende l’agente meritevole di un più severo trattamento penale.

Internet è, infatti, un mezzo di comunicazione più “democratico”: chiunque, con costi relativamente contenuti e con un apparato tecnologico modesto, può creare un proprio “sito”, ovvero utilizzarne uno altrui. Poiché le informazioni e le immagini immesse nel web, relative a qualsiasi persona, sono fruibili (potenzialmente) in qualsiasi parte del mondo, il reato, di conseguenza, si consuma al momento della percezione del messaggio da parte di soggetti estranei sia all’agente che alla persona offesa (Cass. pen., n. 4741/2000, cit.).

Una volta stabilito che in astratto è configurabile la diffamazione a mezzo Internet, occorre chiedersi come sia possibile dare la prova processuale dell’esistenza di uno scritto o filmato o immagine diffamatoria.

Non bisogna dimenticare che la pagina web incriminata potrebbe essere cancellata dopo poche ore dalla pubblicazione, quando il reato è già stato commesso ed il danno prodotto. Le informazioni tratte da una rete telematica sono per loro stessa natura volatili e suscettibili di continua trasformazione e, pertanto, deve escludersi che abbia qualità di documento, con conseguente efficacia probatoria, una copia su supporto cartaceo (una mera stampa dalla pagina web) che non risulti raccolta con garanzie di rispondenza all’originale e di riferibilità ad un determinato periodo temporale (Cass. civ., sez. lav., 16 febbraio 2004, n. 2912).

Si impone, quindi, la necessità di fornire certezza al contenuto del testo diffamatorio e dimostrarne la data certa. Tale impellenza viene soddisfatta con una produzione della copia conforme della pagina web, proprio al fine di cristallizzarne il contenuto in un preciso istante temporale .

Posto che la pagina web costituisce “documento informatico” (rappresentazione informatica di atti e fatti o dati giuridicamente rilevanti) ai sensi dell’art.1 d.lgs 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale, in Gazz. Uff. 16 maggio 2005, n. 112, suppl. ord. n. 93) e che, ai sensi all’art. 23, la copia del documento informatico – su supporto cartaceo o digitale – è valida se raccolta in conformità alle regole tecniche vigenti, la copia conforme della pagina web potrà essere eseguita da un notaio (oltre che da un cancelliere, segretario comunale, etc., ex art. 18, d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, Disposizioni legislative in materia di documentazione amministrativa, in Gazz. Uff. 20 febbraio 2001, n. 42, suppl. ord. n. 30) il quale adatti alle peculiarità del documento informatico la tipica attività notarile di rilascio di copie autentiche. Tale certificazione di conformità costituisce il presupposto minimo richiesto dalla giurisprudenza.

Infine, giova rammentare che sotto il profilo civilistico la diffamazione a mezzo internet comporta un danno morale, quantificabile economicamente. Sul punto, una sentenza del Tribunale di Monza, ovvero la sentenza n. 770 del 2 marzo 2010, afferma che: “ogni utente di social network (nel caso di specie di “facebook”) che sia destinatario di un messaggio lesivo della propria reputazione, dell’onore e del decoro, ha diritto al risarcimento del danno morale o non patrimoniale, ovviamente da porre a carico dell’autore del messaggio medesimo”.

Ancora più di recente Il Tribunale di Livorno, in data 1 ottobre 2012, ha pronunciato sentenza di condanna nei confronti di una donna per diffamazione a mezzo stampa (comma 3 dell’articolo 595 c.p.), per aver scritto frasi offensive sul proprio profilo Facebook, e rivolte al proprio ex datore di lavoro. Il tribunale di Livorno, dando vita ad un nuovo orientamento nella giurisprudenza di merito, ha deciso di condannare la donna per “diffamazione” con l’aggravante del “mezzo stampa” poiché l’insulto all’ex datore di lavoro (che l’aveva licenziata) è avvenuto sul proprio profilo Facebook.

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Tutte le puntate di Le nostre vite tra diritto e web” sono disponibili qui…

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LE NOSTRE VITE TRA DIRITTO E WEB http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2012/10/13/le-nostre-vite-tra-diritto-e-web/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2012/10/13/le-nostre-vite-tra-diritto-e-web/#comments Sat, 13 Oct 2012 16:45:23 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=4470 diritto-e-web-2LE NOSTRE VITE TRA DIRITTO E WEB

di Massimo Maugeri

Chi mi segue sa che, sin dai primissimi tempi di Letteratitudine, ho cercato di prestare molta attenzione all’evoluzione della Rete (con i suoi pro e i suoi contro).
Qualcuno si ricorderà di questo vecchio post del 18 marzo 2007  intitolato “La rivoluzione Internet e Pasolini”. Il concetto di “rivoluzione” legato al web, per quanto mi riguarda, è confermato ancora oggi… ma con le dovute cautele e con un adeguato grado di consapevolezza cresciuto nel tempo e con l’esperienza (di questi concetti ne parlo ampiamente nell’introduzione del secondo volume di “Letteratitudine, il libro”, in uscita – anche in versione cartacea – per i tipi di Historica).
Già in questo post del 26 settembre 2006, pur ammettendo l’importanza innovativa e le “comodità” offerte da Google (il più importante motore di ricerca al mondo), avevo ritenuto opportuno evidenziare il rischio che il più grande colosso internauta (capace di controllare i dati personali dei suoi utenti in maniera impressionante) potesse fungere da Grande Fratello. In questi ultimi anni, poi, c’è stata l’esplosione dei due grandi social network: Twitter, ma soprattutto di Facebook (al momento il più grande social network esistente in rete, ma pure la più grande “rete sociale” di tutti i tempi). Facebook fornisce un validissimo aiuto per la ricerca di “contatti” e per instaurare nuove “amicizie”… e anche – fanno notare i più accaniti sostenitori – per contribuire alla crescita di occupazione e del prodotto interno lordo dei paesi in cui opera. Anch’io, d’altra parte, ho un profilo aperto su Facebook, che consulto quasi giornalmente. Non bisogna dimenticare, però, di far parte di un’allegra brigata di 800 milioni di potenziali “clienti” i cui dati possono essere utilizzabili da qualunque azienda di marketing (nonostante i tentativi di miglioramento della garanzia della privacy). Inoltre è bene sapere che Facebook si può anche prestare per fini loschi (i furti di identità da parte di delinquenti comuni o da vere e proprie organizzazioni criminali non fanno più notizia). Si è discusso dei pro e dei contro di Facebook nell’ambito di un dibattito on line che rimane tutt’ora aperto e suscettibile di interventi.
Un’altra considerazione importante riguarda il concetto di responsabilità legale della scrittura in Rete. Troppo spesso si interviene in Internet con l’errata convinzione di entrare in una specie di “zona franca”, di poter scrivere qualunque cosa, dimenticando che accanto ai diritti figurano… “responsabilità” (qual è, per esempio, il limite tra il sacrosanto diritto alla critica, anche in letteratura, e l’offesa sanzionabile da un punto di vista legale? E tale “sanzionabilità”, in che misura risente delle ripercussioni derivanti dalla “immediatezza” e “aterritorialità” della pubblicazione online?). Tempo fa chiesi a Simona Lo Iacono, scrittrice e magistrato, dirigente del Tribunale di Avola (SR), di predisporre un intervento sul tema, con l’obiettivo di poter fare chiarezza e soprattutto… informare. Ne è venuta fuori una discussione molto interessante (pubblicata nel novembre 2008, ma tutt’ora valida e attuale), dove la Lo Iacono ha risposto alle domande di natura tecnica pervenute dai frequentatori del blog (avvalendosi della sua esperienza di magistrato maturata in quindici anni di brillante carriera).
Tra i contro della rivoluzione Internet è bene includere il proliferare di casi di pedofilia e pedopornografia on line. Sul lato destro del blog, compare un riquadro nero con una scritta rossa. La scritta è la seguente: Contro la pedofilia e la pedopornografia. I bambini hanno solo bisogno di amore vero, aiutaci ad aiutarli. Cliccando sul banner, si apre la pagina dedicata a un altro dibattito “fondamentale” (avviato nel dicembre 2009), il cui protagonista è un prete coraggioso: don Fortunato Di Noto, creatore dell’associazione Meter. Don Di Noto da oltre sedici anni spende la sua attività pastorale in difesa dei diritti dei bambini, lottando strenuamente (e mettendo a repentaglio la sua stessa vita) contro i pedofili e gli “imprenditori” pedopornografici che agiscono spesso indisturbati sul web. Una discussione importante e utile, quella che ha visto il coinvolgimento di don Fortunato… con la collaborazione della già citata Simona Lo Iacono e gli interventi di esperti del settore tra cui quello del dottor Marcello La Bella (dirigente della polizia postale di Catania, da sempre impegnato nell’opera di prevenzione e di educazione nella scuola e nella famiglia attraverso corsi e incontri sull’uso della Rete e sulla conoscenza dei suoi pericoli).
E poi, in questi anni, ci siamo occupati di altre tematiche attinenti a quanto accennato: dai problemi connessi alla cosiddetta dipendenza dalla Rete, agli inevitabili cambiamenti che si profilano nell’ambito della tutela del diritto d’autore.

Sulla scia di questo percorso, si innesta il nuovo spazio letteratitudiniano che – in collaborazione con l’amica scrittrice e magistrato Simona Lo Iacono (già citata in precedenza) – vorrei mettere a disposizione di tutti coloro che vorranno seguirci. Il tempo che passiamo in Internet si è molto allungato in questi ultimi anni (e sarà destinato a crescere ulteriormente). Così come sono aumentate le nostre “attività online”. Quasi tutti hanno un account di posta elettronica e in moltissimi hanno almeno un profilo aperto su uno dei principali social network. Aumentano il numero di compravendite effettuate sul web e il quantitativo e le tipologie di servizi che possiamo ricevere collegandoci online. Pur rimanendo sull’onda di quella rivoluzione a cui si faceva riferimento prima, dove (continuo a pensarlo) gli aspetti positivi superano di gran lunga quelli negativi, bisogna comunque prestare attenzione alle varie trappole che pullulano in Rete. Allo stesso modo ritengo necessario che ci si tenga informati su come l’evoluzione digitale e le nuove tecnologie incideranno sulla nostra quotidianità (nel bene e nel male). Da qui l’idea di creare questo nuovo spazio: una sorta di bollettino periodico destinato ad accogliere le “notizie giuridiche” attinenti, appunto, alla Rete e alle nuove tecnologie. Si chiamerà “Le nostre vite, tra diritto e web” e lo aggiornerò con l’indispensabile supporto di Simona (che ringrazio di cuore!). Troverete informazioni sulle più interessanti novità normative e sui più recenti orientamenti giurisprudenziali per ciò che riguarda la Rete e, appunto, l’inevitabile ripercussione sulle nostre vite. “Le nostre vite, tra diritto e web” sarà uno spazio segnalazione, non uno spazio dibattito (dunque la sezione “commenti” rimarrà chiusa). L’intento è, per l’appunto, quello di far conoscere e di divulgare. Per questo chiedo a tutti gli amici blogger che seguono Letteratitudine di linkare e/o segnalare queste “pillole di diritto e web” sui loro siti. Ringrazio tutti in anticipo per la collaborazione.
(Massimo Maugeri)

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diritto-e-web-2INTERNET E LA FORMAZIONE DELLA COSCIENZA

di Simona Lo Iacono

L’avvento di internet ha creato un mondo parallelo alla realtà, seduttivo, impalpabile, che ha subito dato l’impressione di uno spazio aperto, senza limiti. In una parola: libero, gratuito, accessibile.
Si è pensato che questo mondo fosse sottratto alle leggi della quotidianità, e che in esso ogni potenzialità fosse ampliata: di espressione, di contatto, di notizia.
Questo è avvenuto perché l’immaterialità del web ha mutato la percezione delle relazioni umane e ha come abbattuto il limite necessario che deve regolarle.
La nuova percezione del mondo esige dunque una rinnovata consapevolezza di esso. Esige anche uno sforzo atto a fondare una relazione corretta con “l’altro” e con lo strumento che viene utilizzato, con le sue potenzialità lesive.
Ecco perché non può esserci vera “vita” in rete, se non attraverso una riflessione che consenta a chi ne fruisce di riappropriarsi delle percezioni della realtà, pur restando nel mondo del web.
Lo strumento per acquisire consapevolezza è da sempre il diritto che scompone le relazioni, ne svela l’apparenza, ne denuncia la falsità.
Al diritto spetta il ruolo di stabilire il limite tra un essere umano e un altro, la regola che determina gli spazi di appartenenza e di non aggressione.
E’ dunque al diritto che è rimesso il compito di far emergere una nuova consapevolezza nella realtà virtuale.
Poiché però non può esserci consapevolezza senza conoscenza, e il mondo della legislazione e della giurisprudenza corre in fretta, è necessaria una guida facile, pratica, “in pillole”, che prenda per mano l’inesperto viaggiatore del web e lo aiuti a fruire delle potenzialità della rete con un nuovo senso delle cose.
Lo scopo è lo stesso che il diritto si propone nella vita reale: creare una coscienza.
Lo diceva benissimo Pirandello e lo possiamo applicare al nostro confuso mondo di cavi e computer: la tua coscienza significa “gli altri dentro di te”.
(Simona Lo Iacono)

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LA SESTA STAGIONE. Incontro con Carlo Pedini http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2012/06/25/la-sesta-stagione-incontro-con-carlo-pedini/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2012/06/25/la-sesta-stagione-incontro-con-carlo-pedini/#comments Mon, 25 Jun 2012 20:50:16 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=4185 carlo-pedini-cavallo-di-ferroSono molto lieto di organizzare questo dibattito online incentrato sul romanzo di Carlo Pedini, “La sesta stagione” (Cavallo di Ferro): uno dei dodici libri finalisti dell’edizione 2012 del Premio Strega.

Si tratta di un romanzo corposo, ambizioso, a largo respiro, che racconta le vicende di tanti personaggi sullo sfondo della Storia italiana del ventesimo secolo.

Lo recensisce, in esclusiva per  Letteratitudine, Simona Lo Iacono, la quale è anche l’organizzatrice e la curatrice di un’iniziativa culturale che avrà luogo a Siracusa il 30 giugno, intitolata “Parole sotto le stelle: tra pittura, musica e sogni”…

Un evento basato sulla contaminazione artistica che vedrà come protagonisti (tra parole, pittura, musiche e sogni) lo stesso Carlo Pedini con “La sesta stagione” e la scrittrice (nonché editrice di Cavallo di Ferro) Romana Petri con il suo romanzo “Tutta la vita” edito da Longanesi (ho già avuto modo di incontrare Romana Petri, in merito a questo libro, nell’ambito della puntata radiofonica di “Letteratitudine in Fm” andata in onda il 15 aprile 2011).

Di seguito, il video promozionale di “Parole sotto le stelle”.

Questa, invece, è la scheda del libro di Pedini…

È il 1934. A Civita Turrita, sull’Appennino toscano, si inaugura con solennità il nuovo santuario, e proprio nel momento di massimo fulgore di questo paese inizia la storia della sua decadenza. Nelle vicende profondamente umane dei tre seminaristi Piero, Ottavio e Oreste, e dei loro superiori, amici, avversari, irrompono gli eventi principali del nostro Novecento, dalla Seconda guerra mondiale al Sessantotto, e oltre fino agli Anni di piombo. Don Piero Menardi racconta dei suoi due colleghi, prima amici inseparabili e poi nemici giurati; dell’infatuazione politica del suo vescovo per il Duce; della guerra che spezza i destini e distrugge le famiglie; di partigiani e delatori; della contesa perenne fra democristiani e comunisti nel dopoguerra; di chi si perde nelle lotte studentesche; di preti ribelli che rifiutano l’abito. Nella vita della piccola comunità di Civita Turrita si rispecchiano dunque i mutamenti della Nazione, in una parabola di cinquant’anni dove tutti religiosi e laici – subiscono l’incedere della modernità. E fra i grandi giochi di potere si rivelano le debolezze di una Chiesa che fatica a tenere il passo con un’epoca sempre più veloce. “La sesta stagione” intreccia tanti destini sullo sfondo della Storia d’Italia del XX secolo, stratificando i documenti e i fatti reali alle radici del tempo presente.

Siete tutti invitati a partecipare alla discussione, incentrata su “La sesta stagione” e sui temi attinenti al romanzo (in primis: la Storia).
Ecco alcune domande pensate insieme a Simona Lo Iacono (che mi aiuterà ad animare il dibattito).

1. Le stagioni della vita e le stagioni della storia. Quanto interferiscono?

2. Elsa Morante definiva la Storia “il grande scandalo”. Siete d’accordo?

3. Siamo più vittime o artefici della storia?

4. Se siamo arrivati alla quinta stagione…. cosa ci riserverà, a vostro avviso, la sesta?

Di seguito, la recensione di Simona Lo Iacono.
Vi ringrazio in anticipo per la partecipazione.

Massimo Maugeri

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LA SESTA STAGIONE di Carlo Pedini
Cavallo di Ferro, 2012 – pagg. 704 – euro 19,90

Recensione di Simona Lo Iacono

simona-lo-iaconoE’ giorno di festa a Civita Turrita. Una di quelle mattine fatte per essere scolpite nella memoria di un intero paese, quando le donne mettono l’abito buono, l’incenso arde nei bracieri, e al cielo vengono levate orazioni, canti, ringraziamenti.
Perché da ringraziare c’è molto, in verità.
Siamo nel 1934, e nella provincia appena riavutasi dallo sfascio della prima guerra, viene inaugurato il santuario dell’Immacolata Concezione. Il vescovo, monsignor Angelici, l’ha voluto proprio lì, sulle spoglie della vecchia chiesa agostiniana, a simbolo della ricostruzione delle umane cose che sempre avviene dove c’è la presenza di Dio.
E tuttavia anche i sacri momenti chiedono organizzazione, cantori degni di questo nome, una banda, la comunità tutta riunita a celebrare l’evento. Perciò c’è grande agitazione di popolo, soddisfazione magna del clero, formule rituali mormorate in modo devotissimo, a segno che il momento è solenne.
E’ qui, tra le mura di questo nuovo edificio, che si avvia “La sesta stagione”, sorprendente romanzo di esordio di Carlo Pedini. Un libro che – attraverso la comunità di Civita Turrita – narra l’intera epopea del novecento italiano.
Scandagliando lo scorrere del tempo, i suoi baratri, le sue menzogne attraverso l’occhio dei tre protagonisti (i seminaristi Ottavio Pettirossi,Oreste Riccoboni e Piero Menardi) Pedini ci consegna, maestosa e dannata, la nostra storia.
Leggiamo infatti questo romanzo riconoscendoci nell’Italia contadina, in quella traditrice e tradita, in quella messa a morte dai fasci, riavutasi nella resistenza, sedotta dal nuovo, giunta alle porte del secondo millennio senza avere risolto i nodi della sua ricerca di identità.
Siamo noi gli italiani che si dimenano alla ricerca di un senso, che bollono in piccole invidie e ambizioni, che cercano l’amore , che rinunciano ai sogni.
Fino a che, vedendoci vivere nell’incedere della narrazione, ci ritroviamo di nuovo dove tutto era cominciato, innanzi al santuario di Civita Turrita.
Questa volta, ed è l’epilogo, non è un giorno di festa, non si spandono esalazioni di incenso, e nessuna donna ha indossato l’abito della domenica. Il Santuario dell’Immacolata non è più il centro della vita comune. Spopolato, ridotto in polvere, lasciato all’incuria e all’indifferenza dei fedeli, assurge a metafora dell’allontanamento dell’uomo moderno dalla fede e dalla semplicità del passato.
Sulla soglia del nuovo tempo nessun coro di angeli leverà al cielo i notturni gioiosi, le laudi, le preci divinatorie. Nessun coro preparerà con sollecitudine i nuovi canti.
Oscuro, menzognero, tutto sedotto dalle nuove estasi, il male fa capolino dalle macerie.
In lontananza, le parole straniere del papa polacco, il suo appello alla pace non sembrano che uno dei tanti rumori del mondo, l’ultimo rantolante sospiro prima della fine.

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LA SPOSA VERMIGLIA. Incontro con Tea Ranno http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2012/05/14/la-sposa-vermiglia-incontro-con-tea-ranno/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2012/05/14/la-sposa-vermiglia-incontro-con-tea-ranno/#comments Mon, 14 May 2012 21:45:47 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=4095 tea-ranno-la-sposa-vermiglia1Sono molto felice di coinvolgere, in un nuovo spazio/dibattito di Letteratitudine, la mia amica scrittrice Tea Ranno in occasione della pubblicazione del suo nuovo romanzo “La sposa vermiglia” (Mondadori).
Peraltro ho già avuto modo di discutere di questo libro, con la stessa autrice, nella puntata di Letteratitudine in Fm del 23 marzo scorso.
In questo post, invece, con la partecipazione della stessa Tea, avremo modo di approfondire la conoscenza di questo suo nuovo ottimo romanzo (che ha già beneficiato di riscontri molto positivi) e di approfondire le tematiche da esso affrontate.
Per l’occorrenza ho chiesto a Simona Lo Iacono, già coinvolta nel dibattito sul precedente romanzo di Tea – In una lingua che non so più dire – del novembre 2007, di scrivere un’apposita recensione per questo post (“extrapost”, ne approfitto per complimentarmi con Simona per la bella intervista rilasciata su Psychologies di questo mese).

Ecco la scheda del libro…
Sicilia, 1926. Vincenzina Sparviero è la figlia attraente ma fragile di una famiglia di nobili siciliani, una ragazza, si dice in paese, troppo cagionevole per diventare madre. Ma della sua presunta sterilità al vecchio don Ottavio Licata non sembra importare granché, e così il matrimonio d’interesse fra la “palombella” mansueta e obbediente e il ricco sessantenne, fascista e mafioso, è combinato. Un pomeriggio di primavera, però, quando il fidanzamento è stato ormai annunciato, improvvisamente Vincenzina incontra l’amore negli occhi ambrati di Filippo Gonzales. Da quel momento la ragazza si difende dal futuro che incombe imbastendo nella fantasia le immagini di una gioia impossibile: seduta alla finestra della sua stanza a ricamare e sognare, attende il passaggio della sagoma amata con il passo lento, le mani in tasca, uno sguardo fuggevole verso di lei. Nella china lenta e inesorabile che conduce, sul filo della tragedia, al matrimonio annunciato, assaporiamo la storia struggente di un amore probabilmente impossibile.

Come ho già accennato, ne parleremo con la stessa autrice. Per favorire la discussione, propongo – di seguito – alcune domande ispirate dal libro e elaborate dalla stessa Simona (subito dopo, la sua bella recensione).

1. Il libro di Tea offre una riflessione profonda sulla natura dell’amore sognato, che prorompe nella realtà con una forza straordinaria, soprattutto quando è amore negato.
È più la negazione a dare forza all’amore, o è la sua autenticità?

2. Amore sognato e amore reale.
In quale punto convergono? O in quale luogo? (Può essere la scrittura il luogo?)

3. Vincenzina e Filippo Gonzales non si scambiano neanche un bacio, eppure sono una delle figure più forti e struggenti di amanti che la letteratura ci abbia donato.
Allora, si può essere amanti senza mai unire i corpi? E cos’è essere amanti?

4. È quanto dice Besson? “Essere amanti è questo: usare le stesse parole per parlare delle medesime cose senza aver mai sentito l’altro usare quelle parole” (Philippe Besson, “Un amico di Marcel Proust”)?

5. Se essere amanti si gioca sul piano delle parole… la scrittura è un amante?

(aggiungo la seguente domanda)

6. Il cosiddetto matrimonio d’interesse (scelto o imposto che sia) è solo un “retaggio” del passato, o trova ancora riscontro ai nostri giorni?

A voi le risposte… (e grazie in anticipo per la partecipazione)

Massimo Maugeri

p.s. in coda di post, due video: le parole della editor Giulia Ichino e la lettura della prima pagina del romanzo…

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LA SPOSA VERMIGLIA di Tea Ranno
Mondadori, 2012, pagg. 365, euro 18

di Simona Lo Iacono

Non è notte, non è giorno.
E’ forse uno di quei momenti a metà, che in Sicilia restano sospesi eternamente. O forse è una controra, un passaggio tra la mezza e le prime ore del pomeriggio, quando il sole s’accanisce sulla terra e la squaglia.
Non c’è pace per chi riposa al riparo dalla canicola. Il letto è incandescente, il sudore s’addensa, indurisce la saliva.
Vincenzina Sparviero è forse in uno di questi sonni senza costellazioni del tempo, senza orari. Nella camera a finestre spalancate su una Sicilia degli anni venti, in cui le grancasse dei fasci risuonano e fanno baccano, si rigira inquieta, caccia ai piedi le lenzuola ricamate finemente.
E sarà allora per questo caldo senza requie , che il sogno in cui sprofonda è visione, profezia, incantamento.
D’altra parte può accadere in Sicilia che il sonno ammaestri, predica la sorte, si faccia consigliere e metta in guardia dai morti.
Può accadere.
Specie quando la sorte è già scritta, o quando le gerarchie sociali, la sete di ricchezza, l’occhio della gente sono dittatori più impenitenti del duce, e marchiano la vita ancor più della storia.
E allora ecco il sogno: lei adagiata sul tavolo della cucina, il padre e Licata – lo sposo promesso – chini sul suo corpo. Li sente dal fiato stantio, dal grasso del caldo che le cola sul ventre. Perché è proprio sul ventre che entrambi s’accaniscono, che sospingono in dentro ciò che vorrebbe uscire, una ragazza (non lei, ma un’altra lei liberissima e ridanciana) che spinge e scalcia come una puledra, che bellamente se ne infischia dei loro lacci, dei nodi che cuciono alla buona, a puntazzi osceni, senza badare alla carne rosea e delicata, al pube intatto, all’incavo dell’ombelico.
Quando le voltano le spalle, spocchiosi e senza rimpianti, credono d’avergliela fatta, di averle ingabbiato nel ventre quell’altra creatura misteriosa e recalcitrante.
Cosa sia, chi potrebbe dirlo ( Stella persa? Cuore che non quaglia? Notte che non porta consiglio?)… ma a qualsiasi regno appartenga, adesso è prigioniera, rinchiusa a doppia mandata, inabissata là dove sempre sarebbe dovuta stare.
E invece, proprio quando la lasciano – tumulata , corpo nel corpo – la ragazza prende a dimenarsi, a scucire dall’interno con una misteriosa forbicina ogni punto inferto senza amore. Ed ecco, poco per volta ha slegato l’imbastitura, le maglie fini, le strettoie, le grate della prigione.
Ne emerge come bagnata da un parto, nuova, rossa di gioia. La stanza s’illumina di colpo, il sole dilaga a fiotti di luce potente.
Vincenzina guarda l’altra sé che le sboccia dall’addome, la capigliatura che si spande a raggiera, le labbra di ribes, il corpo liberato. E non è più donna, no, adesso le pare più un uccello maestoso, un falco pellegrino o lanario, chi può dirlo, anzi no, Vincenzina non ha dubbi ora che la vede lanciarsi nel vuoto, perché quel salto esultante, agli occhi dei più indecente, tutto intriso di divieti passati, non può essere che di uno sparviero.
Giocando sulla suggestione di un nome carico di simboli ( metafora quasi di un conflitto doloroso tra violenza e libertà), ne “La sposa vermiglia” (Mondadori) Tea Ranno narra magnificamente la storia di Vincenzina Sparviero, innamorata di Filippo Gonzales ma promessa a Ottavio Licata, prepotente e vecchio signore della terra di Sicilia.
Ricostruendo con inimitabile maestria un mondo per metà arreso alla bellezza oltraggiosa della campagna, e per metà alla grettezza dei calcoli, alle passioni del corpo, al desiderio di ricchezza, ci restituisce una storia di luce e buio, di silenzi e profezie, di rassegnazione e ribellione. Una dolente rappresentazione del destino, ma soprattutto dell’amore, delle sue misteriose vie, dei suoi chiodi e delle sue morti.
Amuri ca mi teni e to’ cumanni, unni mi porti, duci amuri, unni?

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STASERA ANNA DORME PRESTO, di Simona Lo Iacono http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/09/23/stasera-anna-dorme-presto-di-simona-lo-iacono/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/09/23/stasera-anna-dorme-presto-di-simona-lo-iacono/#comments Fri, 23 Sep 2011 15:28:41 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=3538 Nuovo appuntamento con la rubrica “Letteratura è diritto, letteratura è vita”, curata dalla scrittrice e magistrato Simona Lo Iacono. Stavolta è proprio il nuovo romanzo di Simona a offrirci ulteriori occasioni di riflessione. Anche questo romanzo, infatti, è incentrato sul rapporto tra diritto e letteratura, parola e processo… come – del resto – il romanzo d’esordio “Tu non dici parole”.
In questa nuova opera, intitolata “Stasera Anna dorme presto”, pubblicata da Cavallo di Ferro, Simona ha avuto modo di confermare ancora una volta l’efficacia e la grande qualità della sua scrittura “fornendo” voci diverse ai quattro personaggi protagonisti della storia.

Ecco la scheda del libro…
Due donne. Due uomini.
Quattro diari della stessa, consumata, storia di amore e tradimenti, del medesimo adulterio, ognuno però scritto da un diverso punto di vista, attraverso sofferenze, sacrifici, illusioni personali. Quattro voci che si rincorrono per raccontare, ciascuna, un frammento di una verità che a tutti sfugge.
Anna abbandona la Sicilia e le proprie aspirazioni per sposare Carlo, giovane avvocato dal brillante avvenire, e seguirlo a Roma. Una lacerazione assecondata sperando in un futuro migliore, in cui poter continuare liberamente a coltivare la sua passione per la letteratura e la scrittura. Ma le cose non vanno come Anna aveva pensato: con Carlo la freddezza cresce fino al giorno in cui lei scopre di Elisa, un’intraprendente avvocatessa che, affascinata dal maturo principe del Foro, ne è divenuta l’amante. A quel punto Anna proverà ad andare indietro con la memoria, a riallacciare i fili della storia alla ricerca di ciò che sta all’origine di tutto. Ma non lo farà da sola, la accompagneranno la voce di Elisa e quelle di Carlo e Giovanni, suo cugino.
E allora sarà come assistere a un processo in cui ogni ruolo è ribaltabile nell’altro e tutti i punti di vista appaiono legittimi, perché si sa che nella vita ognuno di noi è insieme e inevitabilmente vittima e carnefice.
In Stasera Anna dorme presto Simona Lo Iacono racconta una storia sull’incapacità di sapersi aprire veramente all’altro, anche quando lo si ama, e sull’importanza, nella vita e nell’amore, di abbandonarsi completamente.

Quattro voci, dunque. Quattro destini che si incrociano. Anna, moglie. Elisa, amante. Carlo, marito di Anna e amante di Elisa. Giovanni, cugino di Anna a lei legato dall’amore per la letteratura e da sentimenti che non sono mai stati dichiarati apertamente.
Una storia di aspettative disattese e di sogni infranti, che mette in risalto la fragilità umana e la difficoltà a capire veramente l’altro. Un romanzo dove la fattispecie più “classica” della storia della letteratura – quella del tradimento – è rivisitata in un’ottica nuova e originale, giacché all’intreccio tra diritto e letteratura, parola e processo, si aggiunge l’assenza di giudizio da parte del narratore. Ma quest’opera fornisce anche un esempio di come la “verità” difficilmente possa essere individuata in maniera univoca e assoluta.

Ed è proprio sul concetto di “verità” che vi inviterei a riflettere. Nel farlo, come sempre, pongo le mie solite domande…

- In che modo il concetto di verità può essere filtrato dalla nostra percezione personale? E fino a che punto, dunque, può esistere una verità univoca?

- Esiste un modo per superare la parzialità del nostro sguardo sulla vita e sugli eventi che la caratterizzano? Se sì, qual è?
Oppure siamo inevitabilmente destinati a rimanere confinati negli spazi angusti della nostra visuale?

Di seguito, il book trailer del libro, alcuni appuntamenti relativi alla sua presentazione, la mia conversazione radiofonica con Simona e la recensione firmata dal giornalista de “La Sicilia” Vincenzo Greco.

Massimo Maugeri


Simona Lo Iacono, nei prossimi giorni, presenterà “Stasera Anna dorme presto” in tre città diverse…

il 25 settembre 2011, ore 18, presso il Jolly Palace Hotel di Siracusa – Simona Lo Iacono presenta il suo romanzo «STASERA ANNA DORME PRESTO» con Massimo Maugeri e il presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati di Siracusa, avv.to Sebastiano Grimaldi

il 26 settembre 2011, ore 18, presso la Libreria Feltrinelli di Catania, Via Etnea, Simona lo Iacono presenta il suo romanzo «STASERA ANNA DORME PRESTO» con Massimo Maugeri

il 5 ottobre 2011, ore 18, presso la Libreria Feltrinelli di Roma, Via del Babuino, Simona lo Iacono presenta il suo romanzo «STASERA ANNA DORME PRESTO» con Paolo Di Paolo e Tea Ranno

Per ascoltare la puntata radiofonica di “Letteratitudine in Fm” con Simona Lo Iacono, cliccare sul pulsante audio sottostante

LA RECENSIONE di Vincenzo Greco

simona-lo-iaconoDopo “Tu non dici parole” (Premio Vittorini 2009-opera prima) e “La coda di pesce che inseguiva l’amore” (scritto a quattro mani con Massimo Maugeri) è arrivato in libreria, fresco di stampa, il nuovo libro di Simona Lo Iacono “Stasera Anna dorme presto” (edizioni Cavallo di Ferro). Un raffinato racconto di amore, di tradimenti, di incomprensioni, con trasversali risvolti sulla mentalità siciliana (catanese in particolare) e su quella capitolina. Un testo che assale e coinvolge; che si divora d’un fiato, perché scatta spontaneo un meccanismo di identificazione tra i quattro personaggi coinvolti nella stessa storia e il lettore che vi si ritrova, quasi in complicità anche con le parole non dette. Sono tante, forse troppe, le storie di adulterio riscontrabili nella letteratura mondiale, ma, in quest’opera, c’è qualcosa in più; oltre all’analisi introspettiva, c’è l’ansia, la paura, l’ossessione, la presenza incessante di chi è assente, l’ombra che si fa corposità. Mirabile la descrizione del rapporto affettivo nella cura dei dettagli e delle sfumature, apprezzabile soprattutto da chi ha avuto la gioia e la sventura di conoscere il vero amore. Tanti tasselli di un unico mosaico descritti in maniera esemplare. Un crescendo, quasi da sinfonia, che anticipa furtivamente il tema principale e, poi, lo allarga fino a materializzarlo in forma solenne. Il tutto con una scrittura limpida, precisa, essenziale, da esperta nel periodare breve, addirittura nella “parola-frase” che scatena interrogativi e riflessioni sul senso della vita e sui destini umani.
Come si ricava dalla presentazione di copertina, in “Stasera Anna dorme presto” Simona Lo Iacono “racconta una storia sull’incapacità di sapersi aprire davvero all’altro, anche quando lo si ama, e sull’importanza, nella vita e nell’amore, di lasciarsi andare completamente”.
Vincenzo Greco

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http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/09/23/stasera-anna-dorme-presto-di-simona-lo-iacono/feed/ 193
LA CODA DI PESCE CHE INSEGUIVA L’AMORE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/09/03/la-coda-di-pesce-che-inseguiva-lamore/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/09/03/la-coda-di-pesce-che-inseguiva-lamore/#comments Sat, 03 Sep 2011 14:47:58 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=2698 La coda di pesce che inseguiva l’amore” di Simona Lo Iacono e Massimo Maugeri (edito da Sampognaro&Pupi) si aggiudica l’edizione 2011 del Premio Nazionale di Giornalismo, Saggistica e Letteratura “Più a sud di Tunisi”, nella sezione “letteratura”


la-coda-di-pesce-cover-definitiva-per-blogCari amici, sono molto lieto di presentarvi la nascita di un progetto di scrittura che parte da lontano. Ne ha già “parlato” Affari Italiani con questo bello spazio allestito da Antonio Prudenzano (che ringrazio!).
Si tratta dell’imminente uscita di un racconto lungo a quattro mani scritto da me e da Simona Lo Iacono. Qualcuno di voi ne era già a conoscenza, per qualcun altro sarà una sorpresa.
Il titolo del libro è “La coda di pesce che inseguiva l’amore” (presente nelle migliori librerie e su IBS con disponibilità immediata). Lo pubblica l’editore siciliano Sampognaro & Pupi. Si tratta di una fabula per adulti ambientata a Portopalo di Capo Passero (paese marinaro della provincia di Siracusa) nel 1860, nata dall’idea di un pesce che insegue un giovane pescatore (in un’ottica, dunque, ribaltata… almeno, apparentemente). Una fabula d’amore e morte che denuncia l’incapacità di condividere, che evidenzia come le contrapposizioni esasperate e la brama di possesso possono uccidere il sogno; e come la bellezza – spesso – viene trafitta dall’incapacità di dare spazio all’apertura e alla consapevolezza necessarie per poterla contemplare.
Per altre notizie vi rimando alla citata pagina di Affari Italiani (dove potrete leggere, in esclusiva, l’incipit della storia) e a questo blog (dove troverete le date e i luoghi dove presenteremo il libro).
Qui sotto, invece, potete gustarvi il booktrailer realizzato da Carmelo Caramagno.

Segue un articolo con cui – Simona e io – tentiamo di proporre un dibattito sul concetto di condivisione (in generale… e “nella scrittura”, in particolare).
Estrapolo le due domande (e vi invito a fornire la vostra risposta, se ne avete voglia).

1. Che significato ha la condivisione in letteratura? È più perdita di sé, o conquista di sé attraverso il confronto con l’altro?

2. Scrivere a quattro mani può servire a lanciare il messaggio che la condivisione è una strada percorribile di accrescimento spirituale e personale?

Anticipo che in un prossimo post (dedicato alla “scrittura multipla”) conto di invitare vari autori che si sono cimentati con la scrittura a quattro o più mani… per discutere – insieme – della loro esperienza, dei loro libri e delle tecniche narrative adottate per realizzarli.

Fateci gli auguri, su…

Massimo Maugeri

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LA SCRITTURA A QUATTRO MANI… IN DUE PAROLE
di Simona Lo Iacono e Massimo Maugeri

simona-lo-iacono-e-massimo-maugeri-2La condivisione in letteratura. Il punto di vista raddoppiato, moltiplicato. Le voci sovrapposte.
Gli esempi non mancano: Cesare Pavese e Bianca Garufi, Fruttero e Lucentini, Sveva Casati Modigliani, Camilleri e Lucarelli. Fino ad esempi di scrittura più largamente condivisa come insegnano i Wu Ming e i Kay Zen (giusto per fermarci ai casi più noti).
C’è un momento in cui la parola diviene rimbalzo, scalpita da uno specchio all’altro, si denuda e svetta dalla penna nella sua primitiva e autentica vocazione: comunicare, dal latino “communio”, che vuol dire mettere in comune, condividere.
E allora, verrebbe da domandarsi: che significato ha la condivisione in letteratura? Perdita di sé o conquista di sé attraverso il confronto con l’altro?
Leggersi attraverso altri occhi, farsi correggere dall’altro, farsi cambiare… è un viaggio che esige umiltà, voglia di mettersi alla prova e di rinunciare all’esclusività della propria voce.
Le motivazioni sono tante: dall’alternanza di capitoli di Pavese e Garufi in “Fuoco grande” (dove ciascuno rimanda all’altra la propria versione di un medesimo fatto), all’infallibile estro di Fruttero e Lucentini (in cui la commistione si fa reciproco equilibrio), alle tecniche narrative sperimentate con un pizzico di goliardia ludica (in Camilleri e Lucarelli), alla monumentale aggregazione di forze dei Wu Ming.
I percorsi che portano alle quattro mani, alle sei… alle otto, sono tanti e sorprendenti, così come lo è la sperimentazione in letteratura, la varietà di toni, la complessità dell’umanità tutta.
Un mosaico che si accresce negli ultimi tempi grazie alla possibilità di “scrivere a distanza” in modo veloce, attraverso le e-mail, e che potenzia la fantasia, mette in moto lo spirito di gruppo, insegna a “fare squadra”.
La domanda è: scrivere a quattro mani può servire a lanciare il messaggio che la condivisione è una strada percorribile, di accrescimento spirituale e personale?

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NOTIZIE SU “LA CODA DI PESCE CHE INSEGUIVA L’AMORE” SONO DISPONIBILI SU…

Affari Italiani (articolo di Antonio Prudenzano)

Terzapagina (recensione di Tea Ranno)

Blog coda di pesce (notizie varie su “La coda di pesce che inseguiva l’amore”)

Kult Underground (recensione di Gordiano Lupi)

La corda spezzata dell’arrivo (di Salvo Sequenzia – Galleria Roma)

Kult Virtual Press (recensione di Renzo Montagnoli)

Libero-libro (intervista a Simona Lo Iacono e Massimo Maugeri)

Il giornale di Pachino (recensione di Sergio Taccone)

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DATE E APPUNTAMENTI

Mercoledì, 8 dicembre 2010, ore 14,00
Eur – Palazzo dei Congressi – Roma
Presso la 9^ Fiera Nazionale della Piccola e Media editoria “Più libri, più liberi”
Relazionano:  gli scrittori Luigi La Rosa e Tea Ranno
Saranno presenti gli autori e l’editore.

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Sabato, 11 dicembre 2010, ore 18,00
Presso l’HOTEL ROMA, via Roma, Siracusa
Relaziona:  La dott.ssa Laura Marullo, docente presso la facoltà di lettere dell’università degli studi di Catania
Legge i testi: Rina Rossitto, attrice
Su immagini e video nate da un’idea di Simona Lo Iacono e Massimo Maugeri
Saranno presenti gli autori e l’editore.

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Domenica, 12 Dicembre 2010, ore 10,00 – 13,00
Presso casa museo Luigi Capuana, Mineo (CT)
nell’ambito del convegno
l’Unità d’Italia nella letteratura siciliana
Saranno presenti gli autori e l’editore.

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Sabato, 18 Dicembre 2010, ore 18,00
Presso il cinema Gozzo, via Lucio Tasca, Portopalo di Capopassero (Siracusa)
Relaziona: Il professor Sebastiano Burgaretta
Legge i testi: Silvana Scrofani, attrice
Su immagini e video nate da un’idea di Simona Lo Iacono e Massimo Maugeri.

Saranno presenti gli autori e l’editore.

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Sabato, 29 gennaio 2011, ore 18,00
Presso la Dante Alighieri di Siracusa
Via Mirabella, 29 (sede della società Dante Alighieri) -  Siracusa.
Saranno presenti gli autori e l’editore.

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Sabato, 12 febbraio 2011, ore 18,00
Presso il centro Ierna di Floridia (Siracusa)
Relaziona: Il professor Salvo Sequenzia
Saranno presenti gli autori e l’editore.

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Venerdì, 18 febbraio 2011, ore 18,00
Presso la libreria Cavallotto di Corso Sicilia (Catania)
Relaziona: la scrittrice Elvira Seminara e il semiologo Salvo Sequenzia.
Saranno presenti gli autori e l’editore.

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Sabato, 19 febbraio 2011, ore 18,00
Pinacoteca Nunzio Sciavarrello – Bronte (Catania)
Relazionano:  la Sig.ra Maria Prestianni Firrarello (Presidente Fidapa – sez. Bronte); la dott.ssa Laura Marullo, docente presso la facoltà di lettere dell’università degli studi di Catania; la prof.ssa Lucia Firrarello.
Saranno presenti gli autori e l’editore.

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Sabato, 26 febbraio 2011,  ore 18,00

Presso ex Refettorio dei Domenicani - Via Mazzini, 38 – Avola, Siracusa

Relazionano: La prof.ssa Grazia Maria Schirinà e il prof. Elio Distefano

Saranno presenti gli autori e l’editore.

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Sabato, 19 marzo 2011, ore 17,30

Aula Consiliare del Comune di Monica (Ragusa)

Relazionano:  prof.ssa Gabriella Bruno, Presidente Inner Wheel Monti Iblei; dott.ssa Santina Giannone, giornalista; Avv. Giovanni Favaccio, lettore di alcuni brani.

Saranno presenti gli autori e l’editore.

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Sabato, 26 marzo 2011, ore 18,30

Presso la sala derby dell’Ippodromo del Mediterraneo

Strada Spinagallo 50 – Cassibile

A cura del Lyons Club di Avola – Presidente Pietro Sacchetta

Saranno presenti gli autori e l’editore.

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http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/09/03/la-coda-di-pesce-che-inseguiva-lamore/feed/ 578
NARRARE I DIRITTI UMANI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/05/03/narrare-i-diritti-umani/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/05/03/narrare-i-diritti-umani/#comments Tue, 03 May 2011 19:48:17 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=3235 daedalusPiù di una volta ci siamo interrogati sul ruolo della letteratura. La letteratura ha una funzione sociale? Può avere un senso “etico”? È dotata di una valenza formativa? Oppure è solo “intrattenimento”?
Sul numero di “Domenica” de Il Sole 24Ore del 1° maggio 2011 (cfr. pagg. 2 e 3 del supplemento), è stato pubblicato un bellissimo articolo del Premio Nobel per la Letteratura Mario Vargas Llosa intitolato: La finzione vi condurrà all’azione. Vi consiglio di leggerlo per intero, anche se di seguito propongo solo un breve passaggio (premettendo che l’articolo è ispirato dai “Miserabili” di Victor Hugo e da una celebre stroncatura del suddetto libro firmata da Lamartine).
Ecco cosa scrive – tra le altre cose – Mario Vargas Llosa:
(…) Tutte le finzioni fanno vivere ai lettori “l’impossibile”, tirandoli fuori dal loro io individuale, rompendo i confini della loro condizione, e facendo loro condividere, immedesimati con i personaggi dell’illusione, una vita più ricca, più intensa, o più abietta e violenta, o semplicemente differente da quella nella quale sono confinati, in questo carcere di massima sicurezza che è la vita reale.
Le finzioni esistono per questo e grazie a questo. Perché abbiamo una sola vita e i nostri desideri e fantasie esigono di averne mille. Perché l’abisso tra quello che siamo e quello che vorremmo essere doveva essere riempito in qualche modo. Per quello sono nate le finzioni: affinché, in quel modo surrogato, temporaneo, precario e contemporaneamente appassionato e affascinante, come è la vita nella quale ci trasportano, incorporiamo l’impossibile al possibile, e affinché la nostra esistenza sia contemporaneamente realtà e irrealtà, storia e favola, vita concreta e avventura meravigliosa
“.

Belle, le parole di Vargas Llosa. Da questo breve brano si deduce che per lui la letteratura ha un ruolo, una funzione (una potenza dirompente, leggiamo nel sommario dell’articolo). “Va bene”, potrebbe dire qualcuno. “Ma è l’opinione di uno scrittore, di un addetto ai lavori. Al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori”, potrebbe continuare a dire questo qualcuno, “non è così”.
E invece no. Da più parti arrivano – nonostante tutto – esempi che ci dimostrano che la letteratura può avere (ha!) ancora un ruolo.
Nei giorni scorsi mi è giunta in posta elettronica una mail firmata da Sebastiano Grimaldi, Presidente dell’Ordine degli avvocati di Siracusa, nella quale mi spiegava il senso di un progetto intitolato “Daedalus” (la cui locandina è riprodotta qui sopra). Ne riporto qualche passaggio…

“Si intitola Progetto Daedalus – Percorsi giuridici, filosofici, storici e letterari. Nell’ambito della formazione degli avvocati”, mi scrive Sebi Grimaldi, “abbiamo immaginato di affiancare alla formazione strettamente tecnico-giuridica una serie di incontri formativi di più ampio respiro che abbiamo aperto alla partecipazione della cittadinanza. Come ho scritto solo ieri a Dacia Maraini (che parteciperà alla conferenza, n.d.a) spiegando i nostri intenti, vorremmo coniugare la formazione scientifica degli avvocati con i saperi che, a nostro modo di vedere, dovrebbero far parte del patrimonio dei giuristi, fosse solo per il fatto che con il diritto si incrociano: la filosofia, la storia e la letteratura. Mi rendo conto che forse si tratta di un’utopia, ma in un paese come il nostro nel quale si legge sempre meno, immersi in una spirale planetaria di divagazioni centripete (nel senso che ci allontanano sempre più dal centro…), è un po’ difficile concentrarsi su tutte queste belle cose. Lo dico sempre, con la consapevolezza della modestia dei nostri mezzi e con la convinzione della bontà degli intendimenti: è un tentativo di “alzare l’asticella”; superare l’ostacolo è altro capitolo!
Ma il salto va provato: non è possibile che le professioni intellettuali e, in particolare, quella degli avvocati, e più in generale il mondo dei giuristi appaiano sempre più chiusi dentro gli steccati invalicabili dei loro piccoli saperi. La tecnica ci aiuta perché stabilisce le regole; e questo, in un mondo complesso come il nostro, è quasi simbiotico rispetto alla democrazia e alla tutela delle libertà. Ma la tecnica ha bisogno di riconoscere sé stessa ed i propri limiti; altrimenti – sarà banale – ma si trasforma in tecnicismo. (…)
Non mi faccio illusioni, attendo laicamente di consumare il passaggio del dovere che il ruolo oggi mi impone; ed egoisticamente di dare, con le cose che faccio, un senso estetico alla mia quotidianità!

Ecco. Credo che questo progetto (come si evince dalla mail dell’avvocato Grimaldi) possa in qualche modo confermare il fatto che, ancora oggi, alla letteratura viene riconosciuto un ruolo. Auspico (fortemente auspico) che progetti come questo possano svilupparsi anche in altri ambiti.
Sono convinto che dare iniezioni di “umanesimo” alle attività che governano le nostre vite, possa dare buoni frutti.

Ciò premesso, vorrei concentrare l’attenzione sulla conferenza del 5 maggio del Progetto Daedalus intitolata “Narrare i diritti umani“. Insieme a Dacia Maraini, agli avvocati Rita Siringo e Lucia Sciacca, parteciperà anche la “nostra” Simona Lo Iacono (nella duplice veste di scrittrice e magistrato). Di conseguenza, questo post diventa un nuovo appuntamento della rubrica che ho affidato a Simona: “Letteratura è diritto, letteratura è vita“. Più in basso, potrete leggere un suo articolo sul tema.
Prima, però, vorrei invitarvi a partecipare alla discussione… partendo – come al solito – dalla formulazione di alcune domande.

1. Siete d’accordo sul fatto che, come sostiene Vargas Llosa, uno dei ruoli della letteratura sia quello di colmare l’abisso tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere?

2. La letteratura può avere anche oggi (anzi, soprattutto oggi) un ruolo formativo? (O è pura utopia?)

3. Da quali opere letterarie possiamo trarre il concetto di libertà?

4. Quali opere letterarie si prestano meglio di altre a approfondire la tematica sui diritti umani?

Ne approfitto per segnalarvi che, nel corso della discussione, con la collaborazione della docente e scrittrice Elvira Siringo, avremo modo di accogliere i pareri degli studenti del liceo che incontreranno Dacia Maraini nella mattinata di giovedì 5 maggio.

Segue l’articolo di Simona Lo Iacono.

Massimo Maugeri

P.s. Aggiorno il post con questo video registrato il 5 maggio 2011, poco prima dell’inizio della conferenza del Progetto Deadelus


NARRARE I DIRITTI UMANI

di Simona Lo Iacono

Possiamo trovare una radice letteraria alla elaborazione giuridica dei diritti umani? O, anche, possiamo comprendere lo spessore di questi diritti attraverso le opere letterarie? Cominciamo col chiederci quando l’uomo si interroga e codifica diritti valevoli universalmente. E da quale fonte attinge l’idea dell’assolutezza di questi diritti. I precedenti più lontani vanno cercati in alcune affermazioni dell’antico testamento e nel Codice di Hammurabi. Le scritture, in particolare, ci danno delle indicazioni di percorso. Per esempio, quando sollecitano la premura per il povero e per il debole, o quando insistono nell’affermare che il membro vulnerabile del popolo deve essere trattato non solo con giustizia, ma con la stessa generosità che Dio ha mostrato nei confronti di Israele in Egitto. Ma soprattutto, le scritture pongono alla loro base il fatto primordiale di un Dio creatore e redentore, il quale detiene ogni primato, che crea l’uomo a Sua immagine. Da tale prospettiva emerge una precisa concezione dell’uomo, a cui compete una posizione unica ed eminente all’interno del cosmo.
Questa radice non si creda che sia solo riferibile ai primordi della riflessione umana sui diritti dell’uomo. Nonostante la matrice laica, la prima affermazione politica fondante, quella statunitense, fa riferimento proprio alla creazione, al momento iniziale dell’esistenza dell’uomo e dunque condivide quella originaria impostazione biblica, quella prima intuizione su una caratteristica specialissima della nostra umanità: l’impronta di Dio, e – in senso più lato – la non conducibilità di ogni nostra espressione al campo della sola esperienza umana. Questa impostazione ribadita dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 (laddove anela “allo spirito di fratellanza”) ci fa comprendere che la codificazione moderna dei diritti umani, sebbene sia frutto di spinte non religiose, ma laiche, non trova fondamento in un fatto puramente giuridico o procedurale, ma nella universalità dell’origine trascendente della persona umana. Ciò posto, il campo per intendere le affermazioni enunciate dalle codificazioni di tali diritti, non è solo quello tecnico giuridico, ma quello dello sguardo che sa cogliere “oltre” e che è quindi adatto a interpretare il trascendente: lo sguardo letterario. Infatti nessuno sguardo più di quello letterario offre questa dimensione. Nessuna arte più della letteratura ha come scopo quello di penetrare l’apparenza, sventrarla, cogliere nella realtà la scintilla trascedente, scintilla che rincorre attraverso al ricerca della bellezza. Ne era consapevole Schiller quando nelle sue lettere sulla “educazione estetica dell’umanità” avvertiva dell’importanza che ha il coltivare la sensibilità estetica e artistica per raggiungere la libertà interiore. E, quindi, quella dignità e pienezza che la codificazione dei diritti umani tende a tutelare. La funzione della bellezza, infatti, è emancipatrice. Dice Schiller che il risultato della cultura estetica è “mettere l’uomo nella condizione di fare da solo ciò che vuole, restituendogli la libertà di essere quello che deve essere”. Non si tratta, ovviamente, della sola bellezza che coincide con l’armonia o la gradevolezza delle forme. Piuttosto la bellezza della scrittura è quella di cui parla Rainer Maria Rilke, per il quale: “la bellezza è quel grado del terribile che riusciamo a sopportare”. Dunque, la bellezza dell’arte consiste nella sua irresistibile attrazione, attrazione che può colpirci come una carezza o come una graffiatura. “Il bello non piace né dispiace: richiama l’attenzione” (Alain). In conclusione, il principale effetto della bellezza è fermare l’attenzione distratta che scivola sulle cose e sugli uomini, che calpesta la loro dignità con l’indifferenza e il loro diritto a un’esistenza piena e consapevole. Solo dopo questo viaggio, doloroso e inebriante, nel cuore delle cose, ne emergiamo vividi, liberati, affrancati e sensibili al nostro destino e a quello degli altri. In una parola, pronti a capire che l’enunciazione del diritto umano non è che lo sbocco codificato della nostra origine trascendente, e che il rispetto effettivo di questi diritti, delle loro implicazioni profonde, non può che passare attraverso una ricerca di natura estetica.

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L’UNITA’ D’ITALIA E LE DONNE NEL RISORGIMENTO ITALIANO: la Mariannina Coffa di Maria Lucia Riccioli http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/03/14/unita-italia-e-le-donne-nel-risorgimento-italiano/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/03/14/unita-italia-e-le-donne-nel-risorgimento-italiano/#comments Mon, 14 Mar 2011 18:11:38 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=3098 Come tutti voi sapete, il 17 marzo 2011 si celebra il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Vorrei dedicare la pagina che state leggendo (e che spero possiate contribuire a riempire) a questa ricorrenza così importante.

maria lucia riccioliSe penso a questa nostra terra mi sovviene la figura della madre, dunque della donna. Ecco perché vi propongo di partecipare ai festeggiamenti concentrandoci soprattutto sulle figure femminili che hanno attraversato il Risorgimento italiano e – più o meno indirettamente – con la loro vita e il loro operato hanno contribuito alla nascita di questo nostro Paese.
In particolare ci occuperemo di una figura meno nota di altre a livello nazionale e anche per questo maggiormente meritevole di essere messa in risalto: quella della poetessa siciliana Mariannina Coffa (1841 -1878). L’occasione ce la offre la recente uscita del romanzo d’esordio di Maria Lucia Riccioli (nella foto accanto), intitolato “Ferita all’ala un’allodola” (Perrone Lab, 2011) di cui approfondiremo la conoscenza nel corso della discussione.

A voi, amici di questo blog, rivolgo l’invito di scrivere qualcosa (un pensiero, una citazione, o quant’altro) per contribuire alla celebrazione della ricorrenza…

Donne del Risorgimento. Le eroine invisibili dell'unità d'ItaliaSulla festa del 150°, inoltre, mi piace segnalare questo bell’articolo di Alessandro Mari pubblicato su Tuttolibri del 12 marzo, intitolato: Italia forever giovane e forte.

E a proposito delle donne del Risorgimento italiano, ci tengo pure a segnalare questo libro di Bruna Bertolo: “Donne del Risorgimento. Le eroine invisibili dell’unità d’Italia” (Ananke, 2011).

Di seguito, il booktrailer del romanzo “Ferita all’ala un’allodola” di Maria Lucia Riccioli e gli approfondimenti firmati da Luigi La Rosa e Simona Lo Iacono.

In chiusura, l’inno di Mameli offertoci da Roberto Benigni nel corso di una serata del Festival di Sanremo di quest’anno.

Massimo Maugeri


(booktrailer realizzato dall’artista Maria Francesca Di Natale, Sonia Vettorato esegue le musiche di Chopin che accompagnano il video)

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MARIA LUCIA RICCIOLI E MARIANNINA COFFA: UN INCONTRO

di Simona Lo Iacono

Tutto inizia in un cortile. La mattina è di quelle buone, il sole saetta come sempre fa in Sicilia, balzando sui dirupi e le nuvole. A Noto, poi, dove Maria Lucia si ferma, raddoppia l’intensità e la sferzata, perché pare farsi materia sulla materia del barocco, e incurvarsi, o arricciarsi, o gonfiarsi nel vezzo di questi balconi che tremano, di questi basalti rapaci, ghignanti, cui mano d’uomo ha dato forma di animale, di maschera balorda, di pietosissima impastatura di bestia e cristiano.
Non sa ancora che si fermerà lì, nei pressi del San Domenico. La strada fatta da Siracusa le pesa sul cuore, sebbene la nuova scuola in cui è stata chiamata a insegnare le piaccia, perché a percorrerla si snuda di quella fatica che troppo spesso è vivere, s’immette in un assaggio di paradiso, in un’ anticipazione, fastosa e luttuosa insieme, del suo vizio di sempre, o – come pure le piace chiamarla – della sua dannazione:scrivere.
E tuttavia non è preparata a questo incontro che sa già di destino segnato, Maria Lucia, finora ha imbastito versi da angelo, e la poesia non è cosa che ti venga contro come questi segnali. La poesia è dentro, lo sa bene lei che l’ha pescata nel respiro, non è come un romanzo, che – a iniziarne la trama – ti perseguita come un dio ostinato e malfattore che comincia a cospargere la tua strada di indizi. Ma da oggi imparerà che la sua storia non è più solo la sua, che sta per irrompere il flagello della narrazione con tutte le piaghe d’Egitto, la gioia, la paura, la rabbia, la speranza. Da quando si ferma in quel cortile e vede le due statue, Maria Lucia non sa ancora – infatti – che nella sua vita è entrata Mariannina.
All’inizio non le era sembrato niente più che uno di quei monumenti che si dedicano per ozio e reverenza alle ombre, ai resti del secolo, ma poi no, s’era detta, no. Questo che l’attirava con un dolore pungente, di fattucchiera, era diverso.
Due busti, infatti, uno a Matteo Raeli, che se ne stava impettito nel cortile a rasentare lo sguardo sul mondo. E poi l’altro, indecifrabile quasi, misterioso, notturno. Una donna levigata dalle rare piogge, la fronte ampia, l’occhio riverso a scrutare oltre. E poi – ma è davvero così o sogna, Maria Lucia? – basso su di lei come per una preghiera. Forse , una richiesta.
Certo, si dice sventrata dal richiamo, certo che a raccontarlo la prenderebbero per pazza. Ma le pare un incontro di carne, quello appena avvenuto, non la fissità della pietra (su cui campeggia inciso il nome di Marianna Coffa Caruso, poetessa) contro il sangue. Non l’eternità del tempo faccia a faccia col suo, di momento, veloce e appena scoccato, ma uno spazio in cui le è facile distinguere un’unica strada, senza barriere di prima e dopo, senza inciampi né logiche, suo, si dice Maria Lucia, e con lei Mariannina: nostro.
Così comincia. Come un riconoscimento.
E sì, di questa donna sapeva, della sua vita dolente di letterata. Del matrimonio cui la famiglia l’aveva costretta ignorando il suo amore per Ascenso Mauceri. All’università forse, le pare ora di ricordare, s’era detta che doveva essere stato difficile per Mariannina essere scrittrice in pieno risorgimento, mettere al mondo figli di un uomo che non senti tuo, forzarti a una vita da moglie che gli altri vogliono senza libri, senza sogni, senza quella pioggia di passi che invece sentiva scalpicciare nel fondo dell’anima, e che doveva tradurre in versi.
Questo s’era detta.
Ma ora, ad averla davanti, Mariannina, dritta come un fuso , raggelata in un marmo, privata, anche dopo, del rossore che la faceva bellissima, del coraggio con cui aveva sfidato le barriere della mentalità e dell’apparenza, Maria Lucia ha pure una vampata di sdegno, una morsicatura che la punge. E decide: ridarle vita.
Così, inizia a scoprirla. Nelle ore d’archivio, dove trova carte dei notabili di sua maestà Vittorio Emanule II di Savoia, ultimo re di Sardegna e primo re d’Italia. O a Noto, dove s’inerpica per le strade su cui spassavano gli adepti del l”Accademia dei trasformati” di cui Marianna fece parte con il nome di “inspirata”. E a Siracusa, dove aveva frequentato il collegio “Peratoner”, o a Ragusa, dove per puro caso alza gli occhi e le vien detto: è lì, che dopo sposata, viveva la Coffa Caruso. La conosce?
Maria Lucia inizia a seguire le tracce di cui sempre è cosparsa la letteratura quando risponde al suo segreto: essere una seconda possibilità. Resuscitare. Redimersi dall’unico peccato: finire, morire. Opporsi all’indecenza del silenzio, dell’oblio.
E spalanca i giorni, Maria Lucia. Ferma i minuti. Si trova a sfiatare nella canna di un flauto magico come un’incantatrice di serpenti che ridesta i torpori. Non le è difficile perché Marianna è lei e non è lei, una distanza la separa, ma anche la colma, e capisce, Maria Lucia, che quella è nostalgia, e che per questo può chiamarsi arte: perché adempie. Perciò non è arduo pensare i suoi pensieri, rievocare le voci, ridare al suo precettore – Don Sbano – il tono della cantilena netina, o al marito – Giorgio Morana – il fiato roco di quella prima notte d’amore che ha vissuto come un dovere, o all’amato Ascenso le negazioni e le affermazioni della passione, i sensi morti dell’abbandono, i veleni della gelosia e del rimpianto.
Maria Lucia Riccioli irrompe con questo suo primo romanzo facendosi mediatrice e creatrice, affermando la pietà e l’amore, dando consistenza irresistibile alla memoria.
Chiusa la pagina con l’ultima scena, ancora ambientata in quel cortile dove tutto è iniziato, Marianna svola dalla pietra, liberata, quasi una navigatrice alla prora o all’albero di maestra. Taglia il vento, sfida le onde, ride. Dietro sta la felicità perduta, i maledetti sogni delle donne, la loro innocenza e tracotanza insieme: trovare in un uomo il proprio destino. Forse a qualcuna sarà pure riuscito, pensa Mariannina, ma a lei non è stato dato, invece, che questo tempo circoscritto e traballante, queste mani che adesso stringono altre mani, inchiostro, carta, una penna.
Se esiste un destino che si compie su questa terra, sembra dirci, non è che quello di compassione. Di chi viene finalmente raccolto dall’altro e raccontato.

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MARIANNINA COFFA: IL CORAGGIO DELLA FERITA

di Luigi La Rosa

Profonde e indimenticabili le suggestioni prodotte in me dalla lettura di Ferita all’ala un’allodola, il romanzo che Maria Lucia Riccioli dedica all’esistenza tormentata e leggendaria della poetessa netina Mariannina Coffa. Un libro che nasce dalle viscere: che delle viscere possiede l’urgenza, la necessità, il fuoco intimo. Un libro che colma una delle più grandi lacune della storia letteraria italiana: nonostante i preziosi contributi di Marinella Fiume e altri eminenti studiosi, ancora troppo poco nota è infatti la vicenda umana ed esistenziale della Coffa, intellettuale, artista della parola, poeta, patriota, oltre che spirito libero di indomabile perspicacia.
Alcuni sono i temi più importanti che mi piacerebbe prendere in considerazione in questa breve analisi del testo. Primo tra tutti: il rapporto centrale e irrinunciabile tra sogno e tradimento, tra innocenza e caduta.
Mariannina Coffa è figlia della società borghese del Risorgimento. Per via paterna e famigliare le appartengono privilegi e speranze che si aprono dinnanzi al suo futuro come un ventaglio di rosee promesse. C’è luce nei suoi giorni, come nel lustro del suo cognome risonante. Mariannina è figlia di tutto un mondo fintamente scintillante, che investe nel suo talento, nel suo splendore, nella sua intelligenza. Ma che pretende obbedienza. In cui tutto ha un prezzo. E sa trasformare i benefici in spine che trapassano le carni.
Il futuro, divenuto presente, ha ben poco degli sfavillii che la sorte sembrava annunciare, soprattutto dove: “Il respiro è un ppp, un pianissimo come quelli delle partiture impolverate che si è portata dietro da Ragusa. Perché, poi. In questa casa non c’è pianoforte, a stento si mangia. Mariannina vuole vedere il cielo, vuole parlare alla luna di notte, come faceva a casa Coffa. Vuole scrivere ancora, magari anche sulle lenzuola, alla cieca, e poi decifrare al mattino i versi del suo genio notturno, l’Angelo che la visita e le detta dentro. Ma stanotte no. Gli occhi sono chiusi, le orecchie sorde alla musica divina dell’Angelo. Un diavolo si sta mangiando le sue carni.”
Un tradimento imperdonabile l’avvicina alla figura di un’altra donna ferita e umiliata nei suoi sogni più genuini. Un’altra vittima del suo tempo e dell’incomprensione sociale. L’ennesima allodola ferita all’ala, precipitata sui freddi sentieri del silenzio e dell’afonia. Mi riferisco ad Annemarie Schwarzenbach, narrata con accenti di toccante poesia da Melania Mazzucco, nel libro biografico Lei così amata. La gemellanza che lega le due figure mi sembra davvero emblematica, e il fascino con cui la grande scrittrice romana rievoca i giorni dolenti di Annemarie rimanda a quello che alona di sublime malinconia la Mariannina siciliana.
“La chiuderanno nella sua camera, fra i mobili che ha comprato lei stessa, le sue tende, i suoi libri, le sue cose che nessuno avrà toccato. Ma l’entità-Annemarie non sembrerà riconoscerle: non saprà più cos’è una macchina da scrivere, una penna, un foglio di carta, una fotografia. Nella casa di Sils-Baselgia ci sarà un silenzio mortale, e in lontananza si spegnerà anche l’eco delle campane della chiesa.”
Mariannina e Annemarie tacciono, perché il destino sembra averlo loro imposto. Perché non c’è ascolto intorno. Perché le parole sono fuggite lontane. E’ il loro canto del cigno, e tutt’intorno nessuno si chiederà il perché di una simile caduta, le motivazioni di uno spreco di sensibilità tanto imponente. Riflessione che ci conduce, inevitabilmente, al secondo grande tema del romanzo di Maria Lucia Riccioli: l’antitesi complessa e insanabile tra artista e contesto sociale d’appartenenza.
Mariannina insegue una direzione che sembra fissata fin dal principio, dai primi anni di vita. Lungo la strada risplendente che il genio parrebbe spianarle si annidano incognite pericolose e avvilenti, rancori, invidie sotterranee. Struggente dalla prima riga all’ultima il passaggio che rappresenta l’ingenuo e innocente tentativo di ribellione dell’artista davanti alla bieca normalità del gregge.
“Da quanto tempo teneva la mano alzata? Serra si riscosse da quelle che bollò come fantasticherie e abbassò lo sguardo dalla predella su uno dei banchi mediani. La signorina Coffa Caruso voleva porgli una domanda. Che non avesse compreso il compito? Che la fanciulla volesse mettersi in mostra? Una risatina o due subito interrotte dalla mano alzata di Serra. Invidie e gelosie erano le serpi consuete che strisciavano nelle teste di ragazzine che il volere dei genitori aveva rinchiuse in questo angolo di Siracusa, a dormire e studiare testa con testa, gomito a gomito, la dotata con l’indolente, la volenterosa con la promossa a via di denari del padre medico o funzionario del governo.”
Maria Lucia Riccioli manifesta una consapevolezza rara, che è la stessa dei grandi romanzieri del passato. Come Tolstoj nella Karenina, così pure lei organizza tra le sue pagine la fitta maglia delle anticipazioni e forgia l’infanzia sognante della Coffa nella materia combattuta di quelle prime nuvolose mutevolezze, indice e profezia della ventura battaglia contro la società e il suo perbenismo.
Mariannina sarà domani una donna diversa perché è stata ieri una bambina segnata, e perché il fuoco è disceso in lei, fin dalla tenera età dei primi studi. Sarà una donna sola, perché sente che è nella solitudine che ci è dato percepire il respiro possente delle cose. E sarà anzitutto se stessa, perché non v’è tradimento più grande che quello nei confronti della verità e del cuore.
Ma anche di questo la vita la costringerà a macchiarsi: del tradimento dell’amore. Per questo, poi, non ci sarà pietà dei suoi giorni. Del suo dolore. La passione di Mariannina Coffa per il giovane Ascenso Mauceri, prestante Bellini di provincia, che la scrittura della Riccioli solfeggia con accenti di intensa sensualità, prima o poi è condannata all’oblio. Le dure leggi della rispettabilità borghese impongono una differente unione, un matrimonio che ha dell’inverosimile e dell’assurdo. Tuttavia, il giuramento della Coffa è indelebile, e possiede la forza dell’acciaio e della pietra. E’ qualcosa che niente potrà mai abbattere.
“Vero è che si è tentato di dividerci, e mia madre era più d’ogni altro impegnata a farmi sposa di quel tale, ma io sfiderò gli uomini e il destino, né mai sarò d’un essere che non ha altro merito che le sue ricchezze. Non dolerti per me, che presta ad ogni sacrificio saprò anche morire per esserti fedele. Addio – amami sempre. La tua Mariannina.”
L’ipotetica incrollabilità del patto amoroso si scontra con la realtà: pian piano l’amore tra il musicista e la poetessa dal fato infelice svanirà, perché nuovi obblighi, nuove impellenze – e soprattutto nuovi lancinanti dolori – si abbatteranno sui pochi giorni che il cielo sembra disposto a concederle. Controversie famigliari, ribellioni, abbandoni, lutti personali, discese quotidiane agli inferi del risentimento e della rabbia. Un inferno da cui non ci sarà nessuno scampo, se non grazie al potere salvifico della scrittura e al miracolo terapeutico dei versi inanellati in appelli strazianti e disperati.
Viene da chiedersi: cosa è successo nell’esistenza, cosa succede nel cuore di Mariannina Coffa? Ferita all’ala un’allodola manifesta d’un tratto la sua profondità, proprio nel punto in cui la vicenda si carica di tensione psicologica, e il dramma dell’una si tramuta nella parabola universale delle tante, le molte, tutte le donne che esattamente come lei subiscono la sistematica imposizione di una poetica di vita, il sigillo comportamentale che più si conviene, la schiavitù dei sensi contro cui non bastano più parole e lacrime.
Maria Lucia Riccioli ci regala un’opera d’indiscutibile valore, oltre che un’avventura dello spirito di frastornante bellezza. Leggere questo libro significa restituire voce all’assenza, corpo alla fuga, necessità all’impegno e lineamento a una donna eccezionale, che lascia il segno in un’impronta civile di rigorosissimo impatto. Inseguendola, ci accorgiamo che Mariannina sta parlando di noi. Di noi tutti. E della nostra tristezza. Ma pure del nostro coraggio, di quello che ostentiamo davanti ai propositi traditi, agli inganni non meditati, ai pentimenti che si tramutano in fiele, e che ci tocca mandar giù, goccia per goccia. La luce s’è abbassata, e sul fondo, ora, solo il silenzio rotto dal canto. In quel silenzio, le allodole sono tornate a volare.

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IL DECISIONISTA, di Vincenzo Monfrecola http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/12/22/il-decisionista-di-vincenzo-monfrecola/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/12/22/il-decisionista-di-vincenzo-monfrecola/#comments Tue, 21 Dec 2010 23:10:35 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=2842 Chissà quante volte, nella vita, vi sarà capitato di dover prendere decisioni e di non sapere che scelta fare…
Questo post è proprio dedicato alla capacità o incapacità di scegliere, di prendere decisioni. Lo spunto lo offre il romanzo “Il decisionista” di Vincenzo Monfrecola, pubblicato di recente nella collana di narrativa italiana della casa editrice Cavallo di Ferro.

Siamo a Londra, nel 1898… “Quando Robert Younghusband legge l’inserzione pubblicata sul «Croydon Gazette» non crede ai suoi occhi, perché non pensava esistesse un esperto di decisioni difficili e già intravede la soluzione dei suoi problemi con i vicini di casa.
Quando William Cardigon legge la lettera inviatagli da Robert, fa i salti di gioia, perché quello è il suo primo cliente e finalmente sta per rimpolpare le sue finanze.
Quello che Robert non sa è che William non ha mai preso una decisione in vita sua, soprattutto non una buona, tanto che la sua famiglia ha finito per tagliargli i fondi”.

Le suddette frasi sono riprese dalla scheda del libro. Per il resto vi rimando alla bella recensione di Simona Lo Iacono che potete leggere di seguito. Come sapete Simona, oltre a essere scrittrice, è anche giudice. Dunque ho pensato di coinvolgerla: chi meglio di lei, che è obbligata a prendere decisioni per mestiere?
Discuteremo, dunque, di questo romanzo di Vincenzo Monfrecola (l’autore parteciperà alla discussione)… ma sarà anche l’occasione per conoscere un po’ di più la casa editrice Cavallo di Ferro (un’ottima realtà della piccola e media editoria).

E poi, mi piacerebbe che discutessimo insieme del tema generale di questo post. Così vi domando:

1. Vi è mai capitato di non essere in grado di prendere decisioni?
2. Quali sono i presupposti necessari per prendere una buona decisione?
3. Essere decisi è sempre un pregio?
4. Viceversa, essere indecisi è sempre un difetto?
5. La scelta è – come diceva Kierkegaard – la scelta dell’uomo solo… o può essere demandata ad altri?
6. Sareste capaci di rimettere le decisioni più importanti della vostra vita a una terza persona?
7. Infine: saper prendere decisioni, è più un’arte o una necessità?

Di seguito, come anticipato, la recensione de “Il decisionista” di Vincenzo Monfrecola firmata da Simona Lo Iacono.
Massimo Maugeri

 

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IL DECISIONISTA, di Vincenzo Monfrecola
Cavallo di Ferro, 2010 – pagg.368 – € 16,80

recensione di Simona Lo Iacono (nella foto)

simona-lo-iaconoSe c’è un nodo che viene al pettine, che sospende l’animo, che svia e disarma, è la scelta. Sulla strada da prendere. Sull’imprevisto attacco della sfortuna. Sugli eventi che si sommano come inganni o come enigmi.
Nessuno è più solo dell’uomo che deve decidere.
Sarà per questo, allora, che Robert Younghusban legge con sollievo l’inserzione pubblicata sul “Croydon Gazette” e si affida con insperata consolazione a William Cardigan, il decisionista.
Qualcuno che interpreterà la sua vita. Che dipanerà apparenze. Qualcuno che si metterà al suo posto facendo la scelta giusta.
Non è solo perché Robert Younghusband e sua moglie si ritrovano, dopo l’arrivo di un’imprevista eredità che risolleva le loro incerte sorti, in un paese stranamente ostile, che pare reagire con insolito atteggiamento a ogni loro tentativo bonario d’amicizia. Né perché entrambi – appena trasferitisi a Croydon – tentano, con risvolti esilaranti, di farsi accettare dai sospettosi concittadini. Ma anche perché Robert e consorte non sanno mai che via imboccare, che bivio prediligere.
Perchè, insomma, sono due eterni indecisi.
Sarà forse perché lui è più aduso a giochi di fantasia che di realtà, essendo scrittore di gialli, sia pure squattrinato. O perché a decidere ti perdi sempre qualcosa, rischi di dare alla vita una coloritura che è meglio rinviare, di mesi, di stagioni, di anni. O perché – in fondo – la scelta è ciò che veramente impiglia l’anima e la tormenta, ciò che maggiormente la immette nel mistero e nel destino delle cose.
Qualunque sia la ragione di tanta incertezza, quando Robert s’imbatte nel decisionista, in una Londra felicemente scossa dalla rivoluzione industriale e costellata da caffè letterari e sboffi di suffragette che inneggiano alla libertà, non sa ancora di aver imboccato una scia pericolosa. Né immagina che – proprio per non scegliere – ha scoperchiato un equilibrio fragile e nebuloso. Pronto a esplodere con esilarante compiutezza.
D’altro canto la decisione è affare più di tribunali che di uomini, di sentinelle della verità, di giocolieri del senso. Niente di più lontano, quindi, da William Cardigan, il decisionista, che – sia pure con il candore di un adolescente – è capace di dilapidare in un attimo un patrimonio familiare costruito con inattaccabile professionalità da generazioni, e che all’amore strampalato della madre per poeti sventurati sa contrapporre – al più – un pessimo fiuto per gli affari e per l’interpretazione della realtà.
L’incontro tra un indeciso cronico e un decisionista incauto darà vita a un intreccio di equivoci, allarmi, suggestioni surreali e deliziosamente inglesi, in una realtà cittadina che si dipana agli occhi del lettore con leggerezza degna della Austen e con un humor che aleggia costante, latente, sottilissimo.
Libro degli equivoci e del sorriso, “Il decisionista” di Monfrecola riporta in auge la vecchia commedia degli errori e costella la lettura di soddisfatti borbottii di piacere. Per la freschezza dell’intreccio familiare. Per l’originalità dei personaggi. Per un modo di narrare arguto, scanzonato, brillante.
Una ventata d’aria buona, di leggiadria e di buon umore che s’abbatte sul cuore e lo allarga, lo apre, lo consola del mal di vivere e lo risana.
Ci voleva. Ci voleva proprio.
Simona Lo Iacono

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http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/12/22/il-decisionista-di-vincenzo-monfrecola/feed/ 131
LA CAMERA ACCANTO 17° appuntamento http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/05/27/la-camera-accanto-17/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/05/27/la-camera-accanto-17/#comments Wed, 26 May 2010 22:42:18 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=2148 Il titolo di questo post non si riferisce a un romanzo erotico o a un film spinto.

La camera accanto è la stanza, per l’appunto, posta di fianco a quella ufficiale (letteratitudine).

Se letteratitudine è una sorta di caffè letterario virtuale, la camera accanto è un luogo dove si possono affrontare argomenti di diverso genere. Si può parlare di letteratura – certo -, di libri; ma anche di cinema, sport, televisione, politica, gossip, ecc.

Insomma, si può parlare di tutto ciò che volete. Ciascuno di voi può sentirsi libero di avviare un dibattito o, più semplicemente, scambiare quattro chiacchiere.

Anche qui, però, vige la nota avvertenza (colonna di sinistra del blog); per cui vi chiedo di rispettare persone e opinioni. Vi chiedo, inoltre, la cortesia di evitare litigi e toni eccessivamente scurrili.

Aggiungo che la camera accanto è anche un luogo “integrato” con altri spazi di Letteratitudine, ovvero… il programma radiofonico Letteratitudine in Fm e la pagina Libri segnalati speciali. Di conseguenza potete lasciare qui i commenti riferiti ai suddetti spazi.

(Massimo Maugeri)

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1) Vorrei dedicare questo nuovo appuntamento de La camera accanto alla memoria di Edoardo Sanguineti, che – come tutti voi saprete – è scomparso il 18 maggio scorso. Vi propongo, di seguito, un articolo di Piero Bianucci pubblicato su La Stampa… e vi invito – se avete piacere – a ricordare Sanguineti con un messaggio, anche in riferimento alle sue opere.

2) La seconda parte di questo appuntamento de La camera accanto la dedico a un nuovo progetto letterario collettivo di Marco Minghetti (leader de Le aziende In-visibili, vi ricordate?): si chiama La  Mente In-visibile, e avremo modo di parlarne nel corso della discussione.

3) Tempo di interviste. Vi segnalo questa, che ho rilasciato a Morgan Palmas per il blog Sul romanzo, quest’altra che ho rilasciato a Sabina Corsaro per Lo Schiaffo. Segnalo, inoltre, sempre su Lo Schiaffo l’intervista a Simona Lo Iacono e quella a Salvo Zappulla.

Aggiorno la sezione interviste, segnalandovi questa pubblicata da Sergio Sozi su Flanerì. L’intervista è divisa in due sezioni: prima parte e… seconda parte.

 

4) Alcune considerazioni sull’editoria in un articolo firmato dallo scrittore Gianfranco Manfredi

Per gli amanti della filosofia, infine, segnalo la rivista di cultura filosofica online L’accento di Socrate.

Segue il pezzo dedicato alla memoria di Edoardo Sanguineti e l’articolo di Gianfranco Manfredi.

Massimo Maugeri

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ADDIO A SANGUINETI, POETA DEI BUCHI NERI
(da La Stampa.it)

di PIERO BIANUCCI

Edoardo Sanguineti, poeta, critico letterario, intellettuale impegnato, fondatore dell’avanguardia Gruppo ’63, maestro di tanti studenti universitari a Torino, Salerno e Genova, se n’è andato a 79 anni, sotto i ferri di un chirurgo che cercava di salvarlo da un aneurisma.

L’ultima cosa che ha scritto è un “Sonetto astrale” (sonetto a modo suo) di tema astrofisico. Il 12 marzo scorso Gian Luigi Beccaria, che lo aveva ricevuto da Sanguineti per pubblicarlo sulla rivista Porti di Magnin, lo ha letto e commentato al Planetario di Torino Infini.To, dopo averlo distribuito in fotocopia al pubblico. C’era anche un altro illustre storico della lingua italiana, nonché appassionato astrofilo, Claudio Marazzini. Sapevamo che Sanguineti non stava bene, ma naturalmente non si pensava a una fine così vicina. Certo, leggendo quei versi, Gian Luigi Beccaria ce lo fece sentire presente e amico.

L’inedito “Sonetto astrale” è stato pubblicato su “ La Stampa” con la notizia della morte del poeta. Dunque non è più inedito. Ma vorrei ugualmente riprodurlo qui in memoria del suo Autore, che ebbi la fortuna di avere come professore di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Torino nella prima metà degli Anni 70 del secolo scorso.

Pulsano pulsar con forti pulsioni:
ecco a voi quasar, quasi stelle vive:
collassano assai dense, per pressioni
che imbucano per sempre, in nere rive;

così forse è: facelle in evezioni,
sciami di nebulose fuggitive,
supergiganti, code in librazioni,
variabili cefeidi recidive:

protuberanze, e getti, e radiazioni
corpuscolari, eclissi comprensive
di pieni pianetini e pianetoni,
aurore ipercompresse in somme stive:

oh, chiare notti gravitazionali,
mie fragili scintille zodiacali!

La data: 10 ottobre 2008. Sorprende quanto il lessico astrofisico abbia affascinato Sanguineti, e come il poeta sia riuscito a farne proprio sangue, fino a quel verso conclusivo che di colpo ribalta il registro e ci riporta dal linguaggio tecnico a un’emozione quasi gozzaniana. Quel Gozzano che Sanguineti aveva studiato e capito e spiegato così bene a noi suoi allievi. E viene in mente anche il Pascoli cosmico quello del bolide, come Gian Luigi Beccaria ci ricordò, quella sera, al Planetario:

Mentre pensavo, e già sentìa, sul ciglio del fosso, nella siepe, oltre un filare di viti, dietro un grande olmo, un bisbiglio truce, un lampo, uno scoppio… ecco scoppiare e brillare, cadere, esser caduto, dall’infinito tremolìo stellare, un globo d’oro, che si tuffò muto nelle campagne, come in nebbie vane, vano; ed illuminò nel suo minuto siepi, solchi, capanne, e le fiumane erranti al buio, e gruppi di foreste, e bianchi ammassi di città lontane. Gridai, rapito sopra me: Vedeste? Ma non v’era che il cielo alto e sereno. Non ombra d’uomo, non rumor di péste. Cielo, e non altro: il cupo cielo, pieno di grandi stelle; il cielo, in cui sommerso mi parve quanto mi parea terreno.

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SULL’EDITORIA E SULLA LOGICA DEGLI “INTRALLAZZI”

di Gianfranco Manfredi

gianfranco-manfrediSu un articolo pubblicato dalla Lipperini nella sua rubrica su Repubblica “Internet club” si parla di un sito di un Anonimo Ben Informato (editor per numerose case editrici, a quanto sostiene) il quale sostiene quanto segue: su dieci libri pubblicati, tre sono consigliati da agenti letterari, sei sono di amici degli amici, uno solo è stato “scelto dal mucchio dei manoscritti” (dunque di esordiente). Mi pare una questione su cui si potrebbe aprire un forum di discussione (unitamente all’altra della corruttela dei premi letterari, vedi articolo – sempre su Repubblica – di Sandro Veronesi).
A mio modesto avviso, l’Italia è ad ogni livello un paese dalla corruzione facile, ma questo si accoppia a un’altra sorprendente caratteristica: è anche il paese dalla denuncia facile e indiscriminata che continua a levare lamenti sulla corruzione di tutto e di tutti senza riuscire a scalfirla minimamente e autorizzando dunque il sospetto che molte denunce siano frutto di mera frustrazione. E’ possibile riuscire ad avere un atteggiamento più equilibrato, cioè da un lato evitare di partecipare alla corruttela, dall’altro denunciare quando è il caso fatti specifici, con responsabilità definite, inclusa la responsabilità e la firma di chi denuncia? Se guardo alla mia esperienza più che decennale di scrittore, posso testimoniare:

1. Una quantità di miei colleghi non si sono MAI fatti rappresentare da un’agenzia letteraria. A me è capitato una sola volta di farmi rappresentare, con il risultato che sono stato io a procurare un contratto editoriale (anzi due) al mio agente e non viceversa. Dopo d’allora non ho mai più avuto un agente. Né prima, né durante, né dopo i miei romanzi sono stati scelti e pubblicati per intervento di un’agenzia letteraria;

2. Ho segnalato scrittori esordienti da pubblicare a diversi editori e in alcuni casi la cosa è andata in porto. Quegli scrittori NON erano miei amici, io NON ho percepito compenso alcuno, e a volte non ho fatto neanche un gran favore agli editori cui li ho segnalati, perché i romanzi pubblicati hanno venduto poco. Stessa cosa è avvenuta e avviene a dozzine di altri autori come me che segnalano un lavoro non per amicizia o per sottobosco, ma semplicemente perché un manoscritto gli è piaciuto. Io stesso al mio esordio, sono stato segnalato alla Feltrinelli da Giampaolo Dossena che aveva letto il prologo del mio “Magia rossa” e aveva in passato fatto parte del gruppo dei consulenti della Feltrinelli. Giampaolo, persona di assoluto disinteresse e specchiata moralità, non ha ricevuto compenso alcuno, né da me, né dalla Casa editrice. Cosa da gentiluomini d’antan? Sarà, ma so di molti che continuano a comportarsi così, per fortuna.

3. Nell’analisi dell’Anonimo non si spiega come mai su dieci libri pubblicati, nemmeno uno sarebbe di uno scrittore professionista senza agenzia di riferimento. La rivelazione mi sembra quanto meno dubbia.

4. Uno scrittore esordiente, viene pescato a caso dal mucchio? Anche questa mi risulta strana. E’ noto il caso di Aldo Busi che lavorava come cameriere al bar sotto l’Adelphi e che recapitò il manoscritto del suo romanzo d’esordio, unitamente al vassoio della colazione. Calasso lesse e pubblicò. Caso insolito? Non quanto sembra. Non è vero che ogni scelta editoriale sia mediata o sotto pressione.

5. Il fatto che gli editori accolgano segnalazioni da parte di altri scrittori o di esperti o di consulenti delle case editrici, è un bene, non un male. Li aiuta a non affondare nella massa di carte ricevute. Un tempo questo era addirittura un lavoro organico delle case editrici: le più grosse avevano lettori professionisti, talent scout, consulenti, editor, che compilavano schede e segnalavano dietro compenso “a scheda”. Dopodichè su questa base, la casa editrice faceva le sue scelte. Questa struttura non esiste più, nelle case editrici, non in questa forma, almeno. Il risultato è che tra chi segnala, alcuni lo fanno per assoluto disinteresse, altri perché complici d’agenzia o per inconfessabili motivi di cricca. Non sarebbe il caso di restaurare le figure professionali d’un tempo, cioè lettori professionisti che segnalano compilando schede all’attenzione del direttore editoriale sotto trasparente quanto modico pagamento? Questo non escluderebbe chi volesse segnalare sua sponte e senza compenso alcuno, per disinteresse economico, ma per interesse riguardo all’opera segnalata.

Se invece discutere di questi concreti rimedi, si continua con il mero lamento contro l’intrallazzo, si ottiene l’effetto contrario a quello auspicato: dato che si diffonde l’idea che in Italia si può pubblicare solo tramite intrallazzo, si consegnano gli esordienti agli intrallazzatori.

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PADRI (SCRITTORI) e LIBRI: Valter Binaghi, Gianni Biondillo, Vito Bruno, Franz Krauspenhaar, Rosa Matteucci, Raul Montanari, Amedeo Romeo http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/05/10/padri-e-libri/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/05/10/padri-e-libri/#comments Mon, 10 May 2010 14:21:19 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=2056 padri-e-figliÈ un post a cui tengo particolarmente, questo… finalizzato ad avviare una discussione sul significato dell’essere padre, oggi; dell’essere marito (o partner); ma anche dell’essere scrittore (e/o artista). E ancora, sul rapporto tra padre e figlio (anche nel caso di genitori separati) e su quello tra uomo e donna all’interno del nucleo familiare.
Per farlo ho invitato sei scrittori che hanno pubblicato, di recente, romanzi… “in tema”. Si tratta (li elenco in ordine alfabetico di cognome) di: Valter Binaghi, Gianni Biondillo, Vito Bruno, Franz Krauspenhaar, Raul Montanari, Amedeo Romeo.
Avrò modo di presentarli nel corso della discussione.

Vi anticipo i tratti in comune che hanno i protagonisti di queste storie (in fondo al post troverete le schede dei rispettivi libri).

- Il protagonista del libro di Valter Binaghi si chiama Fausto Blangé: è uno scrittore che ha perso la moglie (morta suicida) e ha ucciso il suo ex analista.

- Luca, personaggio del libro di Gianni Biondillo, è un padre separato che deve fare i conti con la moglie che gli impedisce di vedere la figlia.

- Anche il protagonista del libro di Vito Bruno – un uomo che scrive a quella che sta per diventare la sua ex moglie – deve affrontare la terribile esperienza della separazione dal figlio.

- Il personaggio principale del romanzo di Franz Krauspenhaar è un anziano scrittore italiano di origine tedesca alla ricerca della moglie scomparsa. L’uomo teme che sia stata uccisa dal figlio.

- Danio è il protagonista del libro di Raul Montanari: fa lo psicologo, è separato e ha un figlio, nervoso come tutti i ventenni. Ha anche una giovane fidanzata, e un tremendo segreto: è un assassino… un assassino per caso.

- Andrea Morini, invece, personaggio del romanzo di Amedeo Romeo, è affascinato dalla maternità ma… ha il terrore di diventare padre.

Discuteremo, approfittando della presenza degli scrittori/ospiti, dei libri (introdotti di seguito), ma anche dei temi del post.

Pongo alcune domande volte a favorire la discussione (e ispirate dai romanzi oggetto di questa discussione).

1. Come è cambiato, oggi, l’essere padre?

2. In cosa, il padre di oggi, si differenzia nettamente da quello delle generazioni precedenti? Quali i pro e i contro di tali differenze?

3. Che cosa significa, oggi, “volere” un figlio?

4. Premesso che le principali vittime delle separazioni tra i coniugi sono quasi sempre i figli, tra il padre e la madre chi è che subisce – in genere – il trauma maggiore? E chi, in genere, tra i due presenta maggiori fragilità?

5. L’uomo contemporaneo rischia di rimanere vittima della corruzione del successo di più o di meno rispetto a qualche decennio fa? E il successo che corrompe colpisce di più l’uomo, il marito, il padre, lo scrittore (o – in maniera analoga – la donna, la moglie, la madre, la scrittrice)?

Contestualmente coglieremo l’occasione per discutere sulla legge relativa all’affidamento dei minori.

Mi daranno una mano a moderare la discussione: Simona Lo Iacono (che, nella veste di scrittrice e giurista, metterà a nostra disposizione le sue competenze per fornirci informazioni e chiarimenti sulla vigente normativa sull’affidamento dei minori nei casi di separazione dei genitori; in fondo al post troverete un suo articolo), Francesca Giulia Marone (nel ruolo di scrittrice, madre e figlia: mercoledì 12, h. 8.00, trovere un suo racconto pubblicato su La poesia e lo spirito) e Ausilio Bertoli (che – nel duplice ruolo di scrittore e psicosociologo della comunicazione e della devianza – ci fornirà spunti e chiarimenti di natura, appunto, psicologica; ne approfitto per segnalare questo libro). Ad affiancare Ausilio Bertoli, anch’egli nel duplice ruolo di scrittore e psicanalista: Salvo Montalbano (nulla a che vedere con Camilleri, come si evince da questa recensione al suo romanzo).

Di seguito, le schede dei sei romanzi.
Massimo Maugeri

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UCCIDERÒ MEFISTO, di Valter Binaghi
(Perdisa Pop, 2010)

Fausto Blangé, l’uomo che la polizia sta interrogando era un docente universitario, uno scrittore, un opinionista televisivo; adesso è un omicida. Ha ucciso il suo ex analista.

Il colpevole è reo confesso, i fatti sono chiari. Manca solo il movente. Non è semplice individuarlo nelle farneticazioni di un uomo che sembra aver perso la ragione. Legnetti indaga, interroga, cerca le cause nell’improvviso suicidio dell’amata moglie di Blangé nel suo cedere a manchevolezze.

Quando la ricostruzione dei fatti s’intreccerà ai frammenti del suo delirio, ne emergerà una storia d’amore e di follia, che ha il sapore di un apologo sul successo effimero e ingannevole.

NEL NOME DEL PADRE, di Gianni Biondillo
(Guanda, 2009)

È la notte di Natale, in un mondo che si prepara a festeggiare, comunque e dovunque. È la notte di Natale per tutti, ma non per Luca, che è solo in casa, abbrutito dall’alcol e dal dolore, sul punto di compiere un atto disperato, sconsiderato, l’ultimo… E forse non lo può fermare nemmeno il telefono, che squilla a vuoto…. Ma come siamo arrivati a questo punto? Ecco che in una serie di flashback incrociati ripercorriamo la storia d’amore di Luca e Sonia, l’incontro, la decisione di creare una famiglia, la nascita della piccola Alice, alla quale Luca assiste sgomento e incredulo come tutti gli uomini, e poi via via tutti i passi in fondo banali che conducono una coppia alla distruzione… Qui comincia il calvario di Luca, che è quello di molti padri separati: la moglie gli impedisce di vedere la bambina, approfittando in modo subdolo di un vuoto legislativo che vede gli uomini pieni di obblighi ma privi di diritti. E mentre gli amici di sempre (tra i quali un certo Michele, poliziotto… Vi ricorda qualcuno?) cercano di stargli vicino e di aiutarlo come possono, a Luca non resta che lottare con incredulità, sconcerto, dolore, rabbia, incontrandosi con altri uomini nella sua situazione, studiando maniacalmente le leggi, cercando di far pesare il meno possibile a sua figlia questa situazione.

L’AMORE ALLA FINE DELL’AMORE, di Vito Bruno
(Elliot, 2010)

Una notte d’agosto a Roma. In città c’è solo solitudine e silenzio. Dall’appartamento che si appresta a lasciare, un uomo scrive a quella che sta per diventare la sua ex moglie. Una lettera dolorosa e allo stesso tempo piena d’amore. Amore per lei e per il loro bambino, dal quale d’ora in avanti sarà costretto a separarsi e che è l’unico a non avere parola su ciò che sta succedendo tra i genitori. Circondato da fotografie e oggetti che continuano a parlargli del tempo felice vissuto insieme in quella casa, rievoca le stagioni dell’innamoramento, la nascita del figlio, e quindi la brusca fine del matrimonio e l’allontanamento forzato dalle due persone che ama più al mondo. Fuori, la notte sembra infinita e i fantasmi di una gioia ormai lontana lo assalgono e gli parlano di ciò che è stato e che presto non sarà più. Solo l’amore per il figlio e la sua vicinanza possono salvarlo, ma “una legge” tanto anacronistica quanto implacabile gli nega anche questa possibilità. La voce del protagonista si vena così di rabbia e di amarezza, di impotenza per quello che sta per accadere. Fino a quando il sole, ormai nascente sulla città, lo riporta al pensiero del bimbo e al senso dell’amore che rimane alla fine di un amore. Vito Bruno firma una lettera “dalla parte dei padri” commovente, personale e universale al tempo stesso per parlare a una moglie e a tutte le donne del significato più profondo dell’amore.

L’INQUIETO VIVERE SEGRETO, di Franz Krauspenhaar
(Transeuropa, 2009)

Alla ricerca della moglie scomparsa, che il protagonista – un anziano scrittore italiano di origine tedesca – pensa sia stata uccisa dal figlio, l’uomo finirà in Germania, nella sua città natale, dove scoprirà una verità amarissima e sconcertante.
Nel mezzo del racconto in seconda persona, analisi di un processo di riduzione e svanimento che riguarda un’epoca e insieme un’esistenza, l’anziano artista non ha più alcun punto di riferimento, e vive uno scollamento profondo con la realtà esterna.
Romanzo inquieto e inquietante sull’abbandono e la scomparsa, sui sogni, sull’arte, sulla scrittura, sulla vita intima delle persone, L’inquieto vivere segreto si sostanzia di un surrealismo che coniuga atmosfere alla Alberto Savinio con un tambureggiante pessimismo di stampo bernhardiano, in una sintesi tutta personale che avvicina il grido disperato del primo romanzo di Krauspenhaar Le cose come stanno (2003) con l’analisi del rapporto padre-figlio raccontata in Era mio padre (2008), tentando così di andare all’osso di quel fenomeno di incubo illusionistico che è spesso la vita.

STRANE COSE, DOMANI di Raul Montanari
(Baldini Castaldi Dalai, 2009)

Danio fa lo psicologo, è separato e ha un figlio, nervoso come tutti i ventenni. Ha anche una giovane fidanzata, e le pazienti che affollano il suo studio lo adorano. Fin troppo.
Ma, soprattutto, Danio ha un segreto: è un assassino. Un assassino per caso. Nessuno lo sa tranne la sua ex moglie, l’enigmatica, magica Eliana.
Il ritrovamento di un diario, abbandonato in un parco da una ragazzina, rompe il delicatissimo equilibrio che governa le sue giornate. Coinvolto in un odioso dramma famigliare, pressato dalla coscienza e seguito ovunque da un bizzarro e indimenticabile detective privato, Danio dovrà difendere se stesso e le persone che ama da una minaccia inattesa, fino a una resa dei conti rivelatrice per il senso stesso della sua esistenza.
Strane cose, domani è un romanzo ricco di sorprese e sottigliezze, una storia incalzante, lontana dai luoghi comuni, che racconta un amore indomabile per la vita.

NON PIANGERE COGLIONE, di Amedeo Romeo
(ISBN, 2010)

Andrea Morini è affascinato dalla maternità ma ha il terrore di diventare padre. Il corpo delle donne incinte lo attrae al punto che il solo profumo della crema contro le smagliature risveglia in lui un universo erotico. Quando incontra Lena, alla trentasettesima settimana di gravidanza, confuso nella contemplazione della maternità, si scopre a desiderare di essere lui stesso madre, di portare in grembo una nuova vita. Avanti e indietro tra Genova e Milano o immobile su una sedia di metallo in una cucina vuota, solo o in compagnia di stravaganti compagni di viaggio, Andrea si perde in balìa della sua ossessione. “Non piangere coglione” è il romanzo neoesistenzialista del 2010, che racconta, con divertimento e poesia, la ricerca della felicità di un uomo come tanti. Amedeo Romeo prova a rispondere a una delle domande più importanti del nostro tempo: che cosa significa, oggi, volere un figlio?

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L’infanzia è un girone difficile da attraversare.
Considerazioni sul cosiddetto “affidamento condiviso”

di Simona Lo Iacono

Tornare alle origini. Chiudere gli occhi e rifare quel viaggio. Noi. Piccolissimi. Gli sguardi a siluro sulla madre. E sul padre. Se lei è in silenzio. Se lui è scontroso. Se parlano. Se non parlano. Se ridono.
Se litigano.
Noi che esistiamo solo se loro restano uniti. E che disarcioniamo i fantasmi solo se tornano a darsi la mano.
E dopo, via, sollevati, i giochi finalmente giochi, e la vita ancora, e per un’imprecisata eternità, la vita. La minaccia di separazione sfaldata, volata dalla finestra come uno di quei mostri che al mattino si dissolvono su una lacrima d’alba e che solo di notte grattano i vetri.
La mamma, adesso, è serena. Il papà è sereno.
Possiamo tornare bambini.
Ecco. L’infanzia è un girone difficile da attraversare. Un avvicendarsi di paure e sollievi, lutti e recuperi, salvezza e perdizione.
Un girone dove il regnante da sedurre, e da tenere immobile nel regno, è la coppia dei genitori.
E tuttavia. Questa coppia è cambiata. Le sue assi interne. Gli scopi che catalogavano la donna e l’uomo. I compiti che gravavano sull’una e sull’altro.
Il mutamento del ruolo della donna nella società e nel mondo del lavoro, ha sollecitato il cambiamento dell’uomo e del padre.
Questo, da unica fonte di sicurezza, è divenuto depositario delle speranze di crescita dei figli. Da soggetto in relazione prevalente col mondo esterno e lavorativo, si è trasformato progressivamente in soggetto con forte ascendenza interna. Con un apporto nuovo di tenerezza e accadimento della prole.
E però. Ancora oggi l’incontro del bambino o della bambina con il proprio genitore/padre è fonte di mistero ma anche di eventi imprevedibili. Sappiamo, di certo, che sin dalla nascita (si parla già durante la vita embrionale) l’incontro del bambino con i genitori reali non attiva solo bisogni di assistenza, accudimento e protezione ma bisogni “sociali”.
Infatti il contatto del bambino con le immagini (interne e poi sociali) del Padre e della Madre, costella l’archetipo della Famiglia, costituito dalla triade madre ¬- padre – bambino.
La relazione con due oggetti d’amore offre inoltre al bambino due diverse possibilità di identificazione e imitazione, una femminile e una maschile, due possibili universi a confronto, necessari al suo processo di maturazione, per le future scelte di vita.
Dalla relazione con i genitori deriva anche l’attivazione del potenziale creativo, dei multiformi talenti nascosti.
È dunque l’apprendimento della funzione maschile e femminile che orienta l’individuo nelle relazioni con il mondo esterno (il lavoro, gli affetti, le amicizie, le relazioni di coppia). Infatti le immagini genitoriali (interne e esterne) fanno parte della costruzione strutturale psichica di ogni individuo ed assumono importanti funzioni di guida nel corso della vita, durante i processi di conservazione dell’equilibrio psico – sociale. Tanto i futuri rapporti sociali, quanto la futura realizzazione del proprio ruolo di madre o di padre sono strettamente connessi al rapporto con i genitori reali e fantastici e con i modelli interni che essi hanno attivato.
Ecco perché l’alterazione e l’interruzione di questo processo può determinare delle carenze nell’assunzione della propria funzione sociale e genitoriale.
Quando, infatti, è costretto a negare e a rinunciare a uno dei due genitori o non gli è possibile mantenere il rapporto con uno di essi, il bimbo non rinuncia solo al genitore reale ma anche alla attivazione della immagine interna corrispondente.

A queste considerazioni risponde la legge di riforma del diritto di famiglia ossia la legge 8 febbraio 2006, n. 54 relativa all’Affido condiviso che ha modificato l’Art. 155 cc. Quest’ultimo, nella sua nuova formulazione, recita:
«Anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.»

Si tratta di un ribaltamento del precedente regime giuridico, ove la regola era costituita dall’affidamento esclusivo (e prevalentemente) materno. Il regime attuale, invece, dispone che la norma sia l’affidamento condiviso e solo in caso di acclarata incapacità di un genitore ad educare, l’affido esclusivo all’altro.
Il direzionarsi verso un affido condiviso risponde quindi alla necessità di stabilire (anche nel momento della crisi familiare) il principio della bigenitorialità (Cass. 18/08/2006 n. 18187) quale modalità naturale dell’essere in sé genitori (Corte di Appello di Catania, sent. 21 aprile 2009) e reca con sé un contenuto ben preciso, ovvero quello di rendere ontologico l’esercizio congiunto della potestà, in modo che anche per le decisioni di ordinaria amministrazione entrambi i genitori possano operare congiuntamente.
Inoltre la permanenza del minore presso ciascun genitore viene ripartita in modo equilibrato in un progetto educativo genitoriale da presentare in allegato all’istanza di separazione, con la ripartizione dei compiti e dei capitoli di spesa assegnati a ciascun esercente la potestà. .
Il padre e la madre, infine, saranno stimolati a distinguere la relazione di coppia dalla loro relazione genitoriale, tanto che le azioni che un genitore dovesse compiere per ostacolare la frequentazione dell’altro o per gettare discredito sull’altra figura genitoriale, verranno considerate dal tribunale un valido motivo di esclusione.
Certo. Il successo di un affido davvero condiviso è nell’atteggiamento di reciproca apertura, ancor prima che nelle concrete modalità di convivenza con i figli. Per questo sono previsti appositi sostegni psicologici di mediazione e confronto della coppia.
L’esperienza dimostra esiti felici (e bimbi sereni pur in una situazione di divisione) solo laddove la coppia abbia superato i dissidi, non abbia strumentalizzato la prole, e abbia comunque mantenuto inalterata una “vita” familiare (ossia una relazione della triade: mamma, papà, bambino).
Segno che la legge “esterna” può vestire la famiglia. Ma che la famiglia deve trovare la legge “interna” nel proprio cuore.

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AGGIORNAMENTO DEL 30 MAGGIO 2010

Aggiorno il post preannunciando la partecipazione al dibattito della scrittrice Rosa Matteucci, il cui più recente romanzo pubblicato – “Tutta mio padre” (Bompiani) – è perfettamente in tema con la discussione in corso. (Rosa Matteucci – così come Raul Montanari – è tra i dodici finalisti dell’edizione di quest’anno del Premio Strega).
Sono particolarmente lieto della partecipazione di Rosa, perché la sua voce di scrittrice si aggiungerà a quella degli altri scrittori (uomini) che ho coinvolto nel dibattito.
Questa, la nota del libro…
“Qui non c’è più nessuno.” Una figlia smarrita, che ha perso padre madre e cane, chiosa: “Il cordoglio provato per la scomparsa dei genitori naturali è piscio di gallina in confronto al dolore irrimediabile che si prova per la morte del cane.” È solo l’inizio di un picaresco e straziante viaggio al termine della notte, a ritroso in un tempo spento e bruciante, alla ricerca dell’impossibile riscatto di una figura paterna speculare e complementare a quella dell’io narrante, che mette in scena con coraggio assoluto il gran teatro di splendori e miserie in una decadenza familiare. Una storia unica, ineguagliata eppure simile a tutte le altre nel senso ultimo, da una prova di coraggio all’inevitabile disillusione che sublima la sofferenza. E un’Odissea da vertigine nell’Italia in bianco e nero del secolo scorso, con giganti, maghe, mostri marini e allegrie di naufragi. Qui Ulisse è un uomo che ha tentato così tante vite da non viverne davvero neppure una, la sua; eppure sa – lo aveva sempre saputo, e infatti aveva recitato la parte di se stesso solo per ispirare l’unica persona che potesse raccontarla – che un giorno la figlia lo renderà davvero un eroe, quale nella realtà mai era stato.

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L’ARTE DI ANNACARSI, il viaggio in Sicilia di Roberto Alajmo http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/03/30/arte-di-annacarsi-roberto-alajmo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/03/30/arte-di-annacarsi-roberto-alajmo/#comments Tue, 30 Mar 2010 21:50:15 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1864 Ultimata la lettura de “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia” (Laterza, 2010) ho pensato: credo che questo sia uno dei migliori libri (se non il migliore) di Roberto Alajmo. E di ottimi libri – tra romanzi e saggi – Alajmo ne ha già scritti parecchi. Ricordo: Un lenzuolo contro la mafia (1993); Repertorio dei pazzi della città di Palermo (1995); Almanacco siciliano delle morti presunte (1997); Notizia del disastro (2001, Premio Mondello); Cuore di madre (2003, Premio Selezione Campiello, finalista al Premio Strega); È stato il figlio (2005, Premio Super Vittorini e Super Comisso); La mossa del matto affogato (2008); Le ceneri di Pirandello (2008) e – sempre per Laterza – 1982, memorie di un giovane vecchio; Palermo è una cipolla.

Prima di accennare ai contenuti di questo volume, vorrei soffermarmi sul brano scelto come epigrafe. Si tratta di un testo estratto da “La luce e il lutto” di Gesualdo Bufalino, che recita così: «Dicono gli atlanti che la Sicilia è un’isola e sarà vero, gli atlanti sono libri d’onore. Si avrebbe però voglia di dubitarne, quando si pensa che al concetto di isola corrisponde solitamente un grumo compatto di razza e costumi, mentre qui è tutto mischiato, cangiante, contraddittorio, come nel più composito dei continenti. Vero è che le Sicilie sono tante, non finirò di contarle. Vi è la Sicilia verde del carrubo, quella bianca delle saline, quella gialla dello zolfo, quella bionda del miele, quella purpurea della lava. Vi è una Sicilia “babba”, cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia “sperta”, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che si estenua nell’angoscia della roba, una che recita la vita come un copione di carnevale. Una, infine, che si sporge da un crinale di vento in un accesso di abbagliato delirio…»

La citazione riportata in epigrafe finisce qui, anche se poi – subito dopo – , in “La luce e il lutto”, Bufalino fornisce una sua risposta alla domanda “Tante Sicilie, perché?”
Bufalino risponde così: «Perché la Sicilia ha avuto la sorte di ritrovarsi a far da cerniera nei secoli fra la grande cultura occidentale e le tentazioni del deserto e del sole, tra la ragione e la magia, le temperie del sentimento e le canicole della passione. Soffre, la Sicilia, di un eccesso d’identità, né so se sia un bene o sia un male.»
Un bene o un male, dunque? Chi lo sa? Forse Goethe aveva le idee un po’ più chiare, giacché ebbe modo di sostenere (come è noto): «L’Italia senza la Sicilia non lascia immagine nello spirito: soltanto qui è la chiave di tutto».
Certo, per credere che soltanto in Sicilia ci sia la chiave di tutto ci vuole molta immaginazione. Del resto, come sosteneva Sciascia: « L’intera Sicilia è una dimensione fantastica. Come si fa a viverci senza immaginazione? »
E di immaginazione, a volte, ce ne vuole tanta… come quella che mosse il sommo Dante per la scrittura della sua Commedia:

«E la bella Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo
che riceve da Euro maggior briga,
non per Tifeo ma per nascente solfo… »

(dal Paradiso, canto VIII)

(Magari vi chiederò quale preferite, tra le suddette citazioni… e magari potreste proporne altre).

Ma torniamo a “L’arte di annacarsi”. La prima domanda che il lettore (non siciliano) deve necessariamente porsi nell’affrontarne la lettura, è la seguente: cosa significa annacarsi?
In verità, per trovare la risposta non dovrà faticare molto; basterà girare il volume e leggere quanto scritto in quarta di copertina:
“Annacare/annacarsi = affrettarsi e tergiversare, allo stesso tempo. Un verbo intraducibile che significa una cosa e il suo contrario. Il massimo del movimento col minimo di spostamento”.

Un esempio calzante dell’arte di annacarsi – lo evidenzia lo stesso autore – è fornito nell’ambito delle feste religiose… dove Madonne, santi e canderole vengono portati in processione con un andamento danzante, ondeggiante, non necessariamente (e comunque non solo) in avanti, ma spesso di lato e senza disdegnare piccole retromarce. Forse si potrebbe dire che l’arte di annacarsi (per rimanere nell’ambito della metafora danzesca) è una sorta di sintesi tra una appariscente tarantella e il ballo della mattonella. Insomma, ciò che conta è produrre, appunto, il massimo del movimento, con il minimo di spostamento. In linea, peraltro, con la celebre frase de “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Ecco: il cambiamento immutevole è un ossimoro che è ben contratto nel termine “annacarsi”.

L’arte di annacarsi, dunque. Un titolo che sintetizza le apparenti contraddizioni e gli immobili mutamenti di una terra multiforme dove però è possibile trovare la chiave di tutto con un po’ di immaginazione: Marsala, Palermo, Ustica, Porto Palo, Favignana, Agrigento, Siracusa, Tindari, Catania, Gela, Taormina, Messina (sono solo alcune delle tappe di Alajmo). Un viaggio che si tramuta in racconto ironico e sferzante, ma che – in fin dei conti – ha sullo sfondo l’amore per questa terra: “un amore che si prova per una canaglia. Tu sai che è una canaglia, ma non puoi farci niente”.

Che il siciliano sia avvezzo all’ironia lo sosteneva anche Cicerone (in Verrem – Actio Secundae – Liber Quartus – De Praetura Siciliensi) : “Numquam est tam male Siculis, qui aliquis facete et commode dicant (Qualunque cosa possa accadere ai Siciliani, essi lo commenteranno con una battuta di spirito).
Ma l’ironia di Roberto Alajmo non si ferma alle classiche battute di spirito, o ai giochi di parole; essa – viceversa – si espande in ragionamenti volti a evidenziare paradossi, contraddizioni e situazioni ai limiti dell’inverosimile. È un’ironia intelligente e pessimista, quella di Alajmo; precisa e affilata come un bisturi, capace al tempo stesso di stigmatizzare facendo sorridere, lasciando tuttavia spazio alla speranza: “Ma esiste anche una parte di Palermo la cui coscienza non è ancora del tutto anestetizzata. Proprio quando tutto sembra annacquato e perduto, ecco che dal nulla, miracolosamente, la speranza rinasce. E a farla rinascere sono i pazzi. I famosi pazzi di Palermo. Quelli veri e quelli che vengono fatti passare per pazzi. Pazzo è colui che non si adegua allo stato delle cose, che non si lascia trascinare dalla corrente, che si rifiuta di portare coscienza e cervello all’ammasso. I talenti che nascono fuori dai circuiti convenzionali. I giovani che riescono ogni tanto a fare breccia nel deleterio scetticismo cittadino e a creare un movimento di opinione in grado di trasformarsi da un momento all’altro in autentica rivolta morale”. (cfr. pag. 30 – “L’arte di annacarsi” – Palermo. Teoria e tecniche dell’annacamento).

Non mi dilungo ulteriormente e vi rinvio alla bellissima recensione di Simona Lo Iacono (che ho coinvolto in questo post chiedendole di scrivere di questo libro e di darmi una mano a moderare e animare la discussione che ne seguirà). In chiusura del post… la prefazione del libro, gentilmente concessami dall’autore.

Per incentivare la discussione provo a porre qualche domanda:

- Ai siciliani (scrittori e non): vi ritrovate nell’arte di annacarsi? Ovvero… vi annacàte? E tra i due significati del termine, in quale vi ritrovate di più? (Questa domanda è finalizzata a sorridere un po’ insieme)

- Ai non siciliani che non hanno mai visitato l’isola: che percezione avete della Sicilia?

- Ai non siciliani che hanno visitato l’isola: la percezione che avevate della Sicilia, ha trovato riscontro nella vostra visita? Cos’è che vi ha colpito di più?

- La Sicilia rappresentata nei libri, nel cinema, nella televisione è rispondente alla realtà?

- Tra le citazioni sulla Sicilia (riportate sopra), quale vi sembra la più calzante? Ne avete altre da proporre?

Di seguito, l’articolo di Simona Lo Iacono e la prefazione del libro.

Massimo Maugeri

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Roberto Alajmo: “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia”
recensione di Simona Lo Iacono

Maupassant venne in Sicilia attratto dalla Venere conservata a Siracusa.
L’aveva vista per la prima volta nell’albo di un viaggiatore, in fotografia. “Fu probabilmente lei che mi decise ad intraprendere il viaggio; parlavo di lei e la sognavo in ogni istante, prima ancora di averla vista. (…) è la donna così com’è, così come la si ama, come la si desidera, come la si vuole stringere. (…). La Venere di Siracusa è una donna, ed è anche il simbolo della carne.
Anche la Sicilia è donna. Anche la Sicilia è il simbolo della carne.
Affrontare un viaggio in Sicilia, dunque, da straniero o da isolano, da pellegrino o da esule, non è che affondare in quella carne. Percorrerne le cavità, i promontori. I vuoti. Con vista da amante. Con paura d’amante. Con la consapevolezza che prendere la Sicilia è anche lasciarla, o farsene abbandonare. È l’atto finale e disperato dell’amplesso là dove persino la compattezza dell’isola è un’illusione.
E possederla vuol dire frantumarla, farne scaglie. Resti.
Così Roberto Alajmo ne “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia”.
Annacarsi per un siciliano è più che affrettarsi. È anche prendere tempo senza fare realmente qualcosa, vivendo una sospensione mista di perplessità, noia, mancanza reale di voglia. E sembrerebbe forse assurdo a chi crede che la lingua sia un perfetto assioma e che le parole debbano avere un senso (e uno soltanto), che in una locuzione coesistano due significati tanto opposti quanto in “annacarsi”.
Andare, ma anche restare. Volere. Ma anche non volere. Non avere tempo. Ma anche averlo, allungarlo, impigrirlo. Vivere, in sostanza. Ma anche morire.
E tuttavia questa assurdità non stupirebbe mai un siciliano. Non chi – come noi – al tutto, e al contrario di tutto, si abitua fin dall’alzata dello sguardo su questa terra, e all’affioro dei sensi percepisce: no. Ma che vuol dire sì. E il mare. Che vuol dire anche cielo. E l’isolamento. Che vuol dire anche stare al centro del mondo.
Nessuno più del siciliano è triste e contento di esserlo, orgoglioso ostentando pietà, ostile palesando ospitalità, individualista fingendosi indignato di non far parte del tutto.
Contraddizione, o meglio adattamento, al caso, alle circostanze che mutano rotta, ai destini capovolti e poi di nuovo ristabiliti, a un andare della storia al rovescio e poi di nuovo al dritto, ma senza mai veramente sapere cosa è dritto e cosa è rovescio.
Una baldoria dell’uomo e delle sue oscenità, dei suoi vizi e anche delle sue debolezze, o forse solo ostinazione alla sopravvivenza. All’incosciente vivere oggi senza soppesare un futuro. Ché il futuro, alla fine, non è mai dipeso da noi.
Sorrido vedendo che Roberto ne “l’arte di annacarsi” elenca i “luoghi comuni” allumandoli di luce buona, di storia, di spiegazioni. Facendo crollare le certezze di ogni buon turista che approdando qui in cerca di fichi d’india, carretti siciliani, coppole e lupare, più di ogni altra cosa sarà segnato dalla luce e dall’ombra, dalle colature dei tramonti. Dagli scenari di certe città che si aprono come un sipario (Noto) e si svuotano di notte per non vivere che lontano dalle quinte. Che si parano a festa in sontuosi abiti da processione (Trapani), allungando il Venerdì Santo per tutto l’anno. O che edificano stadi del ghiaccio (Catania) a un passo dall’Etna che bolle.
Di Siracusa, non dirò, da buona siracusana, perché assaporo le parole che Roberto ha dedicato a piazza Duomo, alla sua luce bianca, lattea, di una qualità riservata agli dèi e alle creature dell’aria. Mi soffermerò invece su Avola, o su Portopalo, tutti territori facenti parte della giurisdizione del Tribunale che dirigo e da cui mi provengono quelli che io chiamo i “processi del mare”: clandestini ammarati e pescati dalle reti. Pesci con gambe e occhi scuri, sopravvissuti alle onde. Viandanti senza scalo e giunti a me senza nome.
Roberto ne raccoglie le storie riferite ai crocicchi di vie, sulle albe di pescherecci che rientrano. Racconta di quella notte del Natale ‘96 in cui si persero 300 naufraghi che s’inturbinarono tra le correnti. I loro fantasmi si aggirano ancora da queste parti, senza pace e senza sepoltura, forse rigettati in mare una volta ripescati dall’acqua.
Un discorso a parte merita Palermo, dove la decadenza degli edifici viene coltivata come un fasto e dove a ogni sbrecciatura più o meno grave di intonaci, a crepe e lineature del tempo, è facile rimediare con una decisione provvisoria che fa presto a diventare definitiva, o con una panacea adatta a ogni male: la transenna.
E poi l’effigie di madre. Che la Sicilia sa mascherare di reverenza al marito, ma che s’infratta dietro apparenze di remissività. Sorrido davanti alla buffa immagine della “madre ebrea” a cui sono assimilati, nel libro, i siciliani. Che non dice al figlio: se non mangi ti ammazzo. Dirà piuttosto, senza preoccuparsi di dissimulare il ricatto: se non mangi mi ammazzo.
E mi balza dal passato l’immagine di mia nonna, spannata come un’anima e drittissima su gambe che sostenevano una figuretta di nemmeno un metro e venti. Diceva: facite chiddu ca vulite (fate quello che volete). Tanto, poi, si faceva sempre quello che diceva lei.
La mafia, infine. L’unico luogo comune che esiste per davvero. E che ha invece l’abilità di fingersi irreale e fantasioso, più una leggenda eroica da brigante. Con molti ragionevoli motivi, in fondo, per esistere.
Un fumo, più che una mentalità. O piuttosto una ventata di quelle gustose, che portano odore di soffritto e padella, e che segui incantato come da una Circe. Salvo poi a scoprire che non provenivano dalla cucina.
Più che la sua abilità nel nascondersi colpisce la nostra capacità di non vederla, di non farsene toccare come se invece che cosa nostra, fosse sempre cosa d’altri.
Solo quando approda nei tribunali sembra assumere consistenza, materia, sangue.
Fino a che, dalle grate, torna a uscire fuori come un filo di fumo.
Roberto Alajmo non tace responsabilità. Non sorvola sulle ataviche ribaltature di ruoli. Lo stato che manca e lo stato che punisce. Che dà e che ritira la mano. Che non sa amare e che si sente in colpa.
È forse un siciliano verace, uno di quelli che per viaggiare resta al suo posto, e che per inforcare le lenti e guardare sa che non è necessario andare troppo lontano. Di certo, è un siciliano che ama pur sapendo che quell’atto d’amore è morte, discesa agli inferi, eremitaggio.
Se ammanta con ironia le mancanze, è solo perché – in fondo – sa che l’unico modo per sopravvivere, qui, ora è sempre, è svolare con leggerezza di acrobata, o con levità di illusionista.
Un circense, il siciliano. Che transuma di vita in vita, e che cambia solo in apparenza. Che forse è come quella “passiata” sullo stretto. Sempre in bilico tra due mondi. Su una soglia.
E allora meglio l’arte di “annacarsi”, di fare e non fare. Di allungare e accorciare.
A ben pensarci, annacarsi viene da “naca”, che è la culla del neonato che pencola lentamente.
Un buon modo per dire che oscillare è forse l’unico ormeggio alla terra ferma.

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LE MANI AVANTI: PREMESSA

di Roberto Alajmo

roberto-alajmoCircola con insistenza l’idea che la Sicilia e i siciliani siano diversi, rispetto al resto d’Italia. Diversi e più complicati. La risposta può essere articolata pirandellianamente: no, ma credono di esserlo, e questo li rende diversi e più complicati. In ogni caso, però, a ogni passo di ragionamento si rischia di essere fraintesi, per cui meglio sgomberare il campo dai possibili equivoci. Non si tratta di una diversità rivendicativa. Non è la diversità della Catalogna o dei paesi Baschi. O meglio: certe volte sì, ma solo nelle sue manifestazioni più esteriori e velleitarie. Nella casistica più interessante il sicilianismo non è orgoglio, ma rimorso. La Sicilia si sente diversa dal resto d’Italia, e nei suoi abitanti migliori questa diversità si trasforma in senso di colpa. Perché si tratta di una diversità contagiosa, che col tempo ha infettato il resto del paese. Nemmeno più tanto una diversità, quindi, ormai. Da quando Leonardo Sciascia aveva preconizzato lo spostamento verso nord dell’ideale linea della palma, la sicilianizzazione del paese ha proceduto speditamente, fino a raggiungere l’arco delle Alpi. E ancora procede: è in corso una seconda passata, destinata a rendere il paese più omogeneamente arretrato.
Il viaggio in Sicilia rappresenta allora una indagine sull’identità nazionale. Indagine metaforica, a cannocchiale rovesciato. Se è vero quel che diceva Goethe, che non si può capire l’Italia senza vedere la Sicilia (“è qui la chiave di tutto”), attraversare il continente siciliano significa indagare il collasso di tutta la nazione. In questo senso, il viaggio può rappresentare una discesa agli inferi.
Anche per godere della bellezza più recondita è necessario immergersi in quell’abisso che è la Sicilia. Non si può fare a meno di ravvisare la bruttezza diffusa, il sistematico disprezzo per gli spazi comuni, l’incapacità delle persone anche migliori di fare rete e porre rimedio a queste distorsioni. Viaggiare attraverso la Sicilia significa sporcarsene. E si tratta di uno sporco persistente, di quelli più difficili da trattare.
Per chi in Sicilia ci è nato e ci vive, intraprendere un viaggio attraverso la propria terra è un modo di fare autoanalisi. Di scoprire tutta una serie di cose che già sapeva senza saperlo. Persino il viaggiatore interno ha sentito molto parlare di quest’isola, i luoghi comuni agiscono anche sul suo modo di vedere le cose. Ciò che rivede, in un certo senso, è come se lo rivedesse per la terza volta; le prime due attraverso i propri occhi e attraverso gli occhi del mondo. Si viaggia certe volte con l’intento di essere confermati nelle idee ricevute da altri. Oppure si viaggia per approfondire un viaggio precedente. E però capita pure un’altra cosa: di certi posti non ci si sazia mai. Ci si alza dalla tavola imbandita prima di essersi saziati del tutto, tenendo da parte un po’ di fame per la volta successiva. Oltretutto saziarsi di Sicilia è rischioso; significa un po’ pure sdegnarsene.
Raccontare l’esperienza di un viaggio in Sicilia è una responsabilità che nei secoli si sono assunti in parecchi, ognuno a modo suo, con risultati che ognuno è libero di giudicare in autonomia. Al Idrisi, il geografo. Ibn Giubair, il funzionario. Gregorovius, lo storico. Houel, il pittore. Brydone, lo scienziato. Swinburne, il poeta. Goethe, Maupassant e Dumas, gli scrittori. Questi solo per citare quanti hanno lasciato tracce nelle opere, del loro viaggio nell’estremo lembo meridionale d’Europa. Anche alla luce di questi precedenti, è inutile provare a essere oggettivi; e velleitario risulta provare a essere soggettivi. Bisogna tenere conto dell’occhio di chi legge, che in cambio dell’attenzione si aspetta qualcosa. Giusto. Questo però rende ancora più tormentoso il compito di chi viaggia e racconta la Sicilia essendoci nato. Perché i siciliani hanno la tendenza diventare apprensivi, quando devono rendere conto agli estranei di sé e della propria terra. Sanno che devono misurarsi con una quantità di luoghi comuni che vanno dalla mafia allo scirocco, e molto altro ancora.
Come se non bastasse, ci sono pure i luoghi comuni posticci. Per esempio, quelli che vanno sotto l’etichetta di invenzione della tradizione. È comodo per lo straniero credere, e per i siciliani lasciargli credere, una serie di cose. E la natura dà il suo contributo al consolidamento dei luoghi comuni più infondati: il paesaggio siciliano è ovunque contraddistinto da una pianta, il ficodindia. In ogni angolo, in ogni connessione fra roccia e roccia si trova un ficodindia. Non esiste una pianta più caratteristica. Eppure non è endemica, non è neppure di origini mediterranee, visto che l’importarono gli spagnoli dal centroamerica. E se la natura si permette queste integrazioni della realtà, perché gli uomini non dovrebbero travisare a loro volta? Ecco allora l’astuzia del fotografo che durante la mattanza mafiosa dei primi anni ottanta correva da un posto all’altro per documentare i morti ammazzati nelle strade. Per muoversi più rapidamente si muoveva in vespa, e sul predellino trasportava un vaso con un piccolo ficodindia. Arrivato sul luogo del delitto, disponeva il vaso in modo che almeno una pala della pianta entrasse nell’inquadratura. Sosteneva che i giornali del Nord in quel modo comprassero le foto più volentieri.
Altro equivoco che viene assecondato: il carretto siciliano. Ormai in giro se ne vedono pochissimi, e quelli che si vedono o sono dentro un museo o vengono adoperati come attrazione turistica: una foto sul carretto, sulla piazza di Monreale, vale cinque euro. Modica cifra per qualcosa che siamo portati a immaginare come genericamente antico. Eppure il carretto siciliano, così colorato e impennacchiato è un’invenzione che ha poco più di cento anni. Più che antico, al massimo può essere considerato vecchio. E nemmeno significativo, dato che il temperamento dei siciliani prevede pochi colori e ancor meno impennacchiamenti: quelli estroversi sono i napoletani.
Lo stesso discorso vale per il dolce più siciliano che ci sia, la cassata: un’invenzione pure quella. Ecco come nascono le leggende. C’era un pasticcere palermitano, tale Gulì, che alla fine dell’Ottocento decise di specializzarsi. Nel suo laboratorio di corso Vittorio Emanuele si mise a produrre quasi esclusivamente frutta candita. Come molti siciliani di tenace concetto, aveva deciso di contraddire l’opinione più radicata. Allora come oggi, tutto il mondo nutriva nei confronti della frutta candita un sentimento comune: la ripugnanza. Non la voleva nessuno. Se c’era, veniva scartata accuratamente. Non si conosce il motivo per cui Gulì si convinse del contrario, che ci fosse all’orizzonte un boom di richieste per la frutta candita. Sta di fatto che il suo laboratorio si ritrovò in breve tempo intasato di zuccata e mandarini imbalsamati. Col magazzino pieno e sull’orlo della bancarotta, ebbe un’intuizione che gli consentì di riciclare tutto quel ben di dio. Prese spunto da un dolce di origini molto più antiche, la cassata, quella che oggi viene chiamata cassata al forno: un involucro di pasta frolla ricoperto di cannella e zucchero a velo che custodisce il cuore di ricotta e cioccolato. Su questa base lavorò di fantasia, imbarocchendo il tutto con glassa di zucchero, pasta di mandorle e naturalmente montagnole di frutta candita a fare da guarnizione. Libero ognuno, poi, di scartare la decorazione e assaporare il resto. Il risultato venne prontamente denominato cassata siciliana in modo da sbaragliare anche l’ombra della concorrenza da parte dell’umilissima cassata originale, che si trovò da un momento all’altro privata della propria identità.
La fortuna del nuovo dolce e del suo inventore fu quella di trovare subito un formidabile veicolo promozionale. La facoltosa famiglia dei Florio, che a Palermo ospitava regnanti e aristocratici di tutta Europa, fece della nuova cassata il suo dono di rappresentanza. Questi ospiti partivano da Palermo come altrettanti involontari testimonial, convinti che quel coloratissimo coacervo di zuccheri rappresentasse la Sicilia più vera. E ne incarnava, invece, soltanto la facciata.
Tutta questa premessa sui luoghi comuni serve a introdurre il luogo comune per eccellenza. Meglio affrontarlo subito, però, prima che cominci a impestare l’aria: la mafia. Il resto del mondo tende a credere che in Sicilia i mafiosi se ne vadano in giro col cartellino di riconoscimento o con la lupara a tracolla. Al contrario, quasi sempre tengono un profilo basso, confidando in un genere di riconoscibilità più sottile. Si palesano se questo si rende necessario, confidando che chi deve sapere chi sono, lo sa già. Per il resto, la mafia è un odore. Una puzza. Qualcosa che avverti senza necessariamente sapere da dove proviene. È come la puzza di qualcosa che uno dei tuoi ospiti ha calpestato. Tu non sai esattamente chi, ma sai che qualcuno l’ha calpestata. Magari per discrezione non sollevi il problema, perché pare scortese. Ma dovresti, invece, perché altrimenti sarai costretto a subire quell’odore per tutto il tempo che i tuoi ospiti si tratterranno. Quel che succede nella realtà di tutti i giorni.
Se si sforza un po’, tuttavia, anche l’osservatore più superficiale in certe situazioni può riconoscere la puzza che a zaffate ogni tanto gli capiterà di avvertire. È l’odore di un’apocalisse che è italiana e siciliana al tempo stesso. Quello che si profila come il Grande Collasso Nazionale è destinato a cominciare dal sud. O forse è già cominciato. Rimane da stabilire se sarà un’apocalisse climatica o sanitaria, un’ondata anomala di spazzatura o un’escalation criminale. E rimane da stabilire pure esattamente da dove comincerà: Campania o Sicilia. Le due regioni guardano alle rispettive piaghe con una torva, reciproca forma di consolazione, che confina con l’insidiosa formula del tanto peggio, tanto meglio. Tempo fa successe che a Napoli le casalinghe presero a pietrate i poliziotti che tentavano di arrestare alcuni rapinatori, e il questore commentò: Scene del genere non le ho viste nemmeno a Palermo. Questo smosse un bel po’ di suscettibilità fra la popolazione isolana, dove pure circostanze del genere si ripetono di frequente: come si permette questo signore di adoperare la Sicilia come parametro del peggio? Ma il questore aveva ragione: fra Napoli e Palermo si disputa una corsa al male maggiore.
Se anzi in tutto il meridione scene come quella delle pietrate ai poliziotti avvengono di rado, è solo perché lo Stato ha rinunciato a esercitare il proprio controllo su zone di territorio sempre più vaste, dove la polizia non prova manco a intervenire. In Sicilia se viene rubato un ciclomotore ci si fa una croce sopra, oppure si paga il riscatto per averlo restituito dalla stessa persona che l’ha rubato. La denuncia viene considerata un’usanza desueta perché c’è stata, nel corso del tempo, una tacita cernita dei reati perseguibili. La fase repressiva viene esercitata quasi solo se è destinata a ottenere il consenso generalizzato della popolazione. Quando in passato si sono fatte spettacolari retate di posteggiatori abusivi di colore, lavavetri o di prostitute extracomunitarie, è successo che la gente abbia persino applaudito allo spiegamento delle forze dell’ordine. Diverso è se si tratta di uno spacciatore indigeno. In questo caso scatta, per la morale comune, l’attenuante generica di sempre: Mischino, è patrifamigghia.
In fondo Sicilia e Campania sono figlie entrambe dello stesso Stato assistenziale, caratterizzato dall’essere allo stesso tempo troppo e troppo poco presente. Lo Stato si comporta col meridione come quei genitori che per farsi perdonare le proprie assenze compra un sacco di regali al figlio. In questo modo pensa di essersi lavato la coscienza, e si sorprende quando poi scopre che il figlio è cresciuto male, diventando un delinquente. Allora gli dà uno schiaffo, e si sorprende ancora di più quando il figlio glielo restituisce, lo schiaffo. Ecco, Palermo e Napoli sono figli dello stesso padre. Solo che questo padre ormai ha rinunciato a provarci, coi ceffoni. Un trattamento che riserva solo ai figli degli altri.
Non molto tempo fa i giornali si sono occupati di una ricerchina universitaria condotta nelle scuole di Palermo, un sondaggio dal quale risultava che per la maggior parte degli alunni, interrogati in forma anonima, la mafia era tutto sommato un male se non necessario, almeno accettabile. L’opinione diffusa che veniva fuori era un luogo comune più radicato di quanto si creda, almeno in Sicilia: la mafia dà lavoro. Non appena i dati vennero resi noti, si scatenò una tempesta di indignazione. Si andava dall’accusa di poca significatività del campione sondato, a un’altra più generica di scarsa sensibilità antimafia. In sostanza: gli autori della ricerca erano colpevoli quantomeno di aver lasciato agli studenti la possibilità di esprimere un’opinione del genere senza dar loro nemmeno una sculacciata. I titolari dell’indignazione erano intellettuali, magistrati, deputati, parenti di vittime della criminalità organizzata, e il risultato fu che il sondaggio venne seppellito dallo sdegno generale.
Era stato toccato un nervo scoperto. La coscienza delle persone perbene si rifiutava di accettare un’opinione tanto politicamente scorretta. Fu l’occasione mancata per avviare una discussione su questo semplicissimo argomento: oltre che spiacevole, è anche vero o no, che la mafia dà lavoro? Forse era l’occasione per ammettere che l’opinione maggioritaria emersa da quel sondaggio non era poi tanto inverosimile. Per chi in Sicilia ci vive, basta guardare alla realtà con disincanto per accorgersi che è proprio vero: è la mafia che distribuisce il poco lavoro che c’è. Durante le conversazioni in Sicilia capita di sentirselo dire nelle più svariate circostanze, soprattutto dalle persone culturalmente meno avvertite, che di questa affermazione non colgono anche la grossolanità e la superficialità. Il riflesso condizionato è di liquidare chi esprime un’opinione del genere con una dose di civile insofferenza. Ma a pensarci bene, non hanno torto. Anche quando materialmente è lo Stato a praticare un’assunzione, paramafioso è il sistema di reclutamento: a meno che non si creda che la mafia sia solo il braccio affiliato della mafia stessa. La condizione in cui l’aspirante lavoratore viene tenuto è di oppressione mafiosa. E la diffusione delle forme di lavoro a garanzia diminuita, con il lavoratore tenuto sulla corda praticamente in eterno, non fa altro che incrementare lo spirito di sudditanza: ciò che maggiormente fa il gioco della mafia, trasformando in favori quelli che veramente dovrebbero essere diritti. Applicate in terra di Sicilia – in assenza di una cultura d’impresa che sia veramente radicata, e veramente cultura – le regole del liberismo attengono sì alla sfera economica, ma vengono alterate da quella antropologica.
In Sicilia e nelle regioni del meridione d’Italia lo Stato ha deciso, più o meno consapevolmente, di delegare la funzione dell’ufficio di collocamento. Cercare un lavoro significa chiederlo agli amici, e tenerselo stretto significa tenersi cari gli amici. Per questo il precariato è un’arma nelle mani di chi altera il mercato del lavoro: rappresenta una garanzia di fedeltà. Gli amici contano. È sempre un amico quello che si cerca quando un parente viene ricoverato in ospedale, quando si vuole comprare un’automobile, quando si cerca un prestito e in cento altre occasioni quotidiane, dalle più innocenti in giù.
Anziché spiegare alle scolaresche che la mafia è brutta e cattiva, allora, sarebbe il caso di spiegare come davvero stanno le cose: la mafia dà lavoro, sì, ma lo fa pagare a un prezzo estremamente alto. Il prezzo da pagare è il sottosviluppo. Bisognerebbe spiegare una volta per tutte che l’arretratezza del meridione d’Italia è un’arretratezza creata artificialmente, che si nutre della secolare pioggia di finanziamenti regionali, statali ed europei. Spieghiamo che la mafia dà lavoro dopo aver personalmente creato la mancanza di lavoro. Spieghiamo che senza spezzare questo circolo vizioso la mafia continuerà a detenere il monopolio del mercato dell’occupazione. Spieghiamo che la mafia, ai siciliani, in un certo senso piace. Piace ai commercianti e agli imprenditori, che in cambio del pizzo ottengono dal racket servizi migliori di quelli dello Stato, e inoltre temono i costi e i tempi lunghi di un’insurrezione morale. Piace a tutti i siciliani, che assuefatti ai favori concessi alla loro sudditanza, sono disposti a rinunciare ai diritti della cittadinanza, ne hanno anzi persino dimenticato l’esistenza. Spieghiamo, infine, perché mai lo Stato ha ritenuto di cedere alla mafia la gestione del diritto al lavoro. E chiediamoci se per caso ha voglia di riprenderselo, prima o poi, questo famoso diritto.
Che la mafia dia lavoro è, in Sicilia, un luogo comune. Ma di una sottospecie particolarmente insidiosa: un luogo comune fondato. E di una sotto-sottospecie ancora più insidiosa: un luogo comune fondato su convinzioni superficiali. Nelle vignette del disegnatore Gianni Allegra, l’idea-immagine più forte è rappresentata da un omino appeso a un filo. È una specie di acrobata disperato: forse c’è stato un tempo in cui camminava sul filo, anziché aggrapparcisi. Magari in passato quell’omino è stato un’attrazione circense, capace di arrivare da un capo all’altro del suo filo con brillantezza e spavalderia. Ora l’omino a quel filo rimane appeso con una sola mano, a stento riesce a restare immobile senza precipitare di sotto.
L’omino appeso al filo è uno dei simboli più azzeccati della condizione di chi vive in Sicilia. L’omino si sforza di rimanere aggrappato al filo, di arrivare da un capo all’altro della sua esistenza, ma di nulla può essere certo. Deve stare attento pure alle risposte che dà al suo interlocutore, il grosso topo che nelle vignette rimane sul ciglio del burrone. L’omino si quartìa, come si dice: tende a tutelarsi. Istintivamente si sarebbe indotti a parteggiare per lui, se non altro per ripulsa nei confronti del topone. Ma colui che osserva farebbe bene a non scegliere, fra i due antagonisti. Di certo non può piacergli il topone, ma anche la condiscendenza nei confronti dell’omino appeso al filo non ha una vera ragion d’essere.
Anzi, sarebbe bello se una volta o l’altra quel filo si spezzasse, e che l’omino precipitasse. Che si schiantasse. Che per una volta il suo quartiarsi non fosse premiato con una forma di stentata sussistenza. Chi osserva, se non è un politico, non deve rispondere a un elettorato quartiandosi a sua volta, per cui è libero di rifiutare la solidarietà al più debole solo perché è il più debole. Dal più debole è giusto pretendere che aiuti se stesso in una maniera che vada oltre il semplice quartiamento. Troppe volte si sono visti omini che dopo essere rimasti più o meno a lungo a dondolare appesi a un filo, finivano per accettare l’aiuto del topone. Il quale topone, poi, non li salvava nemmeno: li rimetteva magari sopra il filo, ossia in una condizione di precarietà appena migliore di chi sta sotto. Quella condizione di precaria stabilità che ai toponi serve per guadagnarsi la gratitudine e il consenso.
Ecco, per questo sarebbe bello che una volta per tutte il filo si spezzasse, o che le forze abbandonassero l’omino lasciandolo precipitare. Perché ciò che nelle vignette di Allegra non si vede è quanto veramente sia profondo il baratro che si trova sotto ai suoi piedi. Potrebbe pure trattarsi solo di un piccolo salto, un saltello dopo il quale l’omino sarebbe in grado di camminare da solo, grazie alle sue gambe. Senza doversi quartiare di fronte a nessun topone.
Tutta questa desolazione non sarebbe poi tanto grave se riguardasse solo il nostro presente. Ma in realtà è il futuro che stiamo ipotecando. Ossia il tempo che lasciamo ai nostri figli. L’incubo delle persone perbene, in Sicilia è che il proprio figlio possa decidere di fare il negoziante, o l’imprenditore. Dovere di un buon padre è quello di educare il proprio figlio a non cacciarsi nei guai, ma una volta che c’è finito, cercare in ogni modo di tirarlo fuori. Al proprio figlio non si può raccontare la favoletta tutta teorica dell’antimafia e prescrivergli il coraggio di non pagare. Specialmente perché è nostro figlio e specialmente perché si tratta di questo Paese e di questo momento storico. A parte il fatto che il coraggio non è un medicinale che si possa prescrivere.
Se un ministro dichiara che con la mafia bisogna convivere, è facile che altrove la cosa venga classificata come l’ennesima boutade governativa e, nella confusione generale, presto liquidata. Ma a questo serve sparare molte cazzate: che poi qualche cazzata importante rischia di passare inosservata. A chi vive in Sicilia, la semplice frasetta pronunciata dal ministro un sacco di tempo fa è arrivata come arriva a valle, in forma di valanga, una palla di neve che qualcuno a monte ha lanciato per malignità o anche semplice noia. E vale più del lavoro di centinaia di insegnanti che per anni e anni si sforzano di inculcare agli alunni il senso della legalità. È facile che il dubbio se lo faccia venire un ragazzo che si appresta a entrare nella vita produttiva: è più giusto ascoltare uno sfigato insegnante sottopagato, teorico astratto dell’antimafia, oppure un autorevole ministro?
Il dubbio nasce pure dal fatto che le istituzioni hanno un atteggiamento schizofrenico, nella lotta alla mafia. Da un lato la fase repressiva: se non puntualissima, almeno volenterosa. Dall’altro un lavoro capillare nelle scuole, come educazione alla legalità. In mezzo, per quanto riguarda la fase propositiva, se si esclude l’antimafia da parata: zero assoluto. Anzi, tutta una serie di segnali in controtendenza, ostentati perché intenda chi ha orecchie per intendere.
In fondo anche in Sicilia vale la legge del mercato: il cittadino si rivolge a chi gli offre la miglior qualità di servizi. E moltissimi servizi istituzionali sono stati in quest’isola più o meno esplicitamente privatizzati e delegati a Cosa Nostra. Questo ottiene il negoziante in cambio del pizzo: servizi. Protezione, licenze annonarie, gestione controllata della concorrenza, prestiti agevolati, allacciamenti abusivi di luce, acqua e gas. Nemmeno tanto poco.
Che poi siano servizi illegali, regole distorte, e che illegale e distorto sia il metodo di applicazione, è un altro discorso. Così come è un altro discorso che a trovare molto comodo pagare il racket sia la grande maggioranza dei negozianti. Si fanno affari, col racket. Ci si marcia.
Bisogna purtroppo ammettere che lo Stato non rappresenta un’alternativa credibile. Non in Sicilia, dove Stato e Cosa Nostra si sovrappongono in continuazione. Per capire la frustrazione dei siciliani meglio intenzionati bisogna pensare al personaggio di Giancarlo Giannini in Mimì Metallurgico. Per non sottostare alle vessazioni del capomafia locale, che è Turi Ferro, caratterizzato da un triangolo di nei sulla guancia, Mimì si rivolge al maresciallo dei carabinieri, che però è impersonato sempre da Turi Ferro, sempre con i tre nei sulla guancia. Allora scappa al nord, ma anche qui il procacciatore di lavoro è Turi Ferro coi tre nei. Allora va al sindacato, ma persino lì c’è Turi Ferro con i suoi nei. E così via.
La mafia è come l’acqua, prende la forma del contenitore che la accoglie. E se il contenitore della mafia sono le istituzioni, anche ammettendo che un livello fisiologico di inquinamento sia inevitabile, mai in tempi storici si ricorda una capienza di questa portata. La forma dell’acqua mafiosa oggi è un grande lago tranquillo, talmente fermo da risultare stagnante.
Malgrado qualche segnale in controtendenza, il negoziante onesto viene messo nelle condizioni di chi esce dalla trincea e si lancia nel territorio avverso impugnando la bandiera della legalità, ma una volta in campo aperto si ritrova solo. Solo, malgrado tutte le rassicurazioni e i telefoni antiracket di questo mondo. Per cui la sensazione è che vada crescendo il numero di coloro che pensano, a torto o a ragione: né con questo Stato, né con Cosa Nostra.
Certo, i siciliani, tramite elezioni, hanno abbondantemente contribuito alla deriva di questo Stato e di queste Istituzioni. E altrettanto certo: ci sono i segnali di una prossima, nuova ondata antimafia, che arriva soprattutto dai giovani che hanno riempito i muri di Palermo di adesivi contro il racket e poi hanno fondato Addiopizzo, ricordando che proprio sul fatalismo, sul pessimismo è fondato il sottosviluppo che strangola la Sicilia.
Ma il dovere delle persone perbene è andare oltre la retorica e affrontare i nodi strutturali. È comprensibile che la mafia abbia interesse a tenere nascosta alla pubblica opinione la realtà del mercato del lavoro e quella delle estorsioni: la detenzione del potere passa attraverso la gestione di un profilo basso, senza ostentazioni. Meno comprensibile è che tante persone di provata militanza antimafia non accettino di ammettere quello che è uno stato di fatto. Nessuna persona perbene, se conosce le cose di Sicilia dovrebbe scandalizzarsi a sentir dire che la mafia dà lavoro, o che in certi ambienti pagare il pizzo risulta conveniente. Prendere atto della realtà è il passo preliminare verso qualsiasi ipotesi di soluzione del problema. Per riuscire efficacemente a spremersi un brufolo, bisogna prima procurarsi uno specchio e avere il coraggio di guardarci dentro.
Il viaggio più difficile è quello che si inoltra fin dentro lo specchio.

© Roberto Alajmo – Laterza
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CORPI… DA GIOCO. Contro la pedofilia e la pedopornografia http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/12/07/corpi-da-gioco/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/12/07/corpi-da-gioco/#comments Mon, 07 Dec 2009 09:21:24 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1402 Apro una nuova puntata della rubrica Letteratura è diritto, letteratura è vita - affidata alla scrittrice e magistrato Simona Lo Iacono - dedicandolo a un argomento spinoso e delicatissimo. Lo faccio nella speranza di poter contribuire – per ciò che è dato fare a un blog come Letteratitudine – a combattere una piaga terribile come quella della pedofilia e della pedopornografia.
Il protagonista di questo post è un prete coraggioso: don Fortunato Di Noto, creatore dell’associazione Meter. Il libro di cui parleremo si intitola “Corpi da gioco“: un libro pubblicato dalle edizioni Elledici e curato da Antonino D’Anna.
Ecco la scheda: “Libro pieno di speranza, ma allo stesso tempo inquietante, duro, coraggioso questo di don Fortunato Di Noto che, da oltre quindici anni spende la sua attività pastorale in difesa dei diritti dei bambini, che lotta strenuamente mettendo a repentaglio la sua stessa vita contro i pedofili e gli “imprenditori” pedopornografici che agiscono spesso indisturbati in quella inestricabile ragnatela elettronica che è oggi il web.
Attraverso un narrare-informare chiaro, puntuale, costruttivo, don Di Noto presenta un profilo a tutto tondo, aggiornato e reale, di un drammatico fenomeno sociale che si consuma quotidianamente in modo silenzioso e subdolo da parte di uomini che giocano, commerciano ed abusano, anche fino alla distruzione, della sacralità del corpo infantile.
Un libro per capire e lottare, affinché si affermi, al posto di un’infanzia negata, una infanzia esaltata o semplicemente “vissuta”.

Di recente (e casualmente) Simona Lo Iacono ha incontrato don Fortunato e ha avuto modo di leggere questo libro… e di ripensare a un episodio vissuto nella sua carriera di magistrato (più avanti troverete un articolo intitolato Il processo del borsellino di plastica rosa).
Un argomento spinoso e delicatissimo, scrivevo in premessa. Terribile.
Vorrei provare ad affrontarlo con voi, con il supporto di Simona (che condurrà il post insieme a me) e la presenza dello stesso don Fortunato. Parteciperanno alla discussione diversi esperti e addetti ai lavori (ve li presenterò nel corso del dibattito).
L’argomento è tutt’altro che semplice… ma vorrei tentare comunque di favorire l’avvio della discussione ponendo un paio di domande:

- Qual è il miglior modo (se esiste) per impedire che i bambini cadano nella rete dei mostri?

- Le favole tradizionali hanno sempre parlato di bambini che cadono nelle mani di adulti mostruosi o nel mistero della violenza (Hansel e Gretel, Cenerentola, Cappuccetto Rosso). La letteratura dell’infanzia che ruolo può (e/o deve) avere nella formazione della coscienza? Educare, avvertire, immaginare la minaccia? O che altro?

Di seguito, l’articolo di Simona Lo Iacono

Massimo Maugeri

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Il processo del borsellino di plastica rosa

di Simona Lo Iacono

Dodici anni fa. Tribunale di Siracusa. Un processo a porte chiuse.
Imputazione: violenza sessuale.
Persona offesa (non costituitasi parte civile): una bambina di cinque anni.
Imputato: il padre.
Sul banco testi, seduta, Carla (*) ciondolava le gambe. Unghie mangiate. Una con su residui di smalto. Un’altra con un anello di Barbie rosicato dagli incisivi.
Mani che si contraevano. Che poi tornavano quiete. Che si annoiavano, anche. Perché l’infanzia detta segreti. E misteriosi obnubilamenti. Dimenticanze che nascono dalla necessità di essere – di rimanere – bambini.
Nonostante tutto.
All’uscita – a sentenza chiusa, di condanna, a grate sbilanciate, a manette ferrate sui polsi – la bambina fu allontanata dal gruppo di suore cui era stata affidata.
La vidi di spalle. I capelli lunghi, annodati. La gonna storta, le calze a pallini blu. Vidi le piccole cose, gli impercettibili segni della vita. Una borsetta a tracolla, un borsellino di plastica rosa.
Ed è questo, più che gli articoli del codice, a farmi ricordare quel processo.
Non il gergo impersonale d’udienza: è un 416 bis, dottoressa, un 524, un 624 codice penale. No. Io fra me e me dico, io ricordo: è il processo dell’unghia mangiata. Dell’anello di Barbie. Della borsetta a tracolla e dei calzini a pallini blu.
È il processo del borsellino di plastica rosa.
Si tratta di resti. Di particolari. Quelli che – per forza di cose – il processo deve scartare.
Quelli che la letteratura raccoglie.
Il processo non è nel prima (nello sguardo), né nel dopo (nel saluto). Il processo è la prova in atto, che si forma lì. Ora.
Tutto ciò che resta fuori, però, è del libro.
Ed è di questo libro (a volte non scritto, a volte non nato) che vi voglio raccontare.
Me lo trovo tra le mani, in udienza. Proprio lì, dove la letteratura resta fuori dalla porta.
Me lo fa avere l’avvocato Maria Suma, dietro mia richiesta.
L’avvocato Maria Suma è una stretta collaboratrice dell’associazione Meter, di Don Fortunato Di Noto e da anni è impegnata sul fronte della lotta contro la pedofilia.
Quando me lo consegna, lo infilo veloce in borsa. La giornata incalza. I testi, i rinvii, le sentenze da leggere ritta, decisa, in nome del Popolo Italiano. Le ipotesi difensive da sconfessare e i diritti da proteggere.
La giustizia è un cammino faticoso che non ammette pause. Un ingranaggio, anche. Che non deve incepparsi.
Leggo solo a fine giornata, quando la notte ha già steso il suo braccio.
All’alba, sento la voce: sono quel borsellino di plastica rosa.
Quello che il processo non ha potuto raccogliere.
Ecco. “Corpi da gioco”, il libro intervista a don Fortunato Di Noto (una conversazione a cura di Antonino D’Anna) è pieno di resti. È pieno di scarti. È quel particolare che nessun processo potrebbe raccogliere. È quel borsellino di plastica rosa.
È il prima (lo sguardo).
È il dopo (il saluto).
Ma soprattutto è la voce di Letizia (*) (…“Le parole sono la tua vita”…mi ha scritto don Fortunato Di Noto. Io dico che a sorridere ci riesco ancora…).
La voce di Marco (*) ( …Scrivo ora e tra qualche giorno, dopo varie udienze preliminari, sarò in tribunale per il processo a carico di mio padre. Per la prima volta nella vita, una figura autorevole mi guarda come “la persona offesa”. Ci voleva un tribunale gelido e grigio per essere riconosciuto…).
È la voce di molti nomi senza nome, senza passato, senza tribunali.
È la letteratura degli ultimi. La affiancatrice più potente dei destini violati.
È il processo che non può esistere.
Quello che raccoglie resti.

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(*) Il nome dei minori è frutto di fantasia in omaggio alla normativa sulla privacy.

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CELESTE AIDA di Marinella Fiume http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/08/02/celeste-aida-di-marinella-fiume/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/08/02/celeste-aida-di-marinella-fiume/#comments Sun, 02 Aug 2009 14:18:07 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1015

Apro una nuova pagina della rubrica Letteratura è diritto, letteratura è vita che ho affidato a Simona Lo Iacono, presentando un romanzo forte, duro, per certi versi terribile – ma direi anche necessario – scritto da Marinella Fiume (nella foto in basso, all’epoca in cui era sindaco del Comune di Fiumefreddo di Sicilia). Si intitola Celeste Aida. Una storia siciliana” (Rubbettino, pagg. 136, euro 8). Una storia ambientata nell’anno 1933, XI dell’era fascista. Questi i fatti: “In un villaggio siciliano, un ventenne commerciante di vini uccide la cognatina di cinque anni seppellendola viva. La relazione adulterina con l’ancor giovane suocera e la paura che la bambina possa rivelarla al padre emigrato in America, induce i due amanti a liberarsi della scomoda testimone. Al processo, la difesa della donna ha buon gioco nell’affermare la non punibilità per il reato di adulterio, mancando la querela del coniuge offeso. Così, si condanna a morte il giovane “debosciato”, assolvendo la madre per insufficienza di prove anche dell’imputazione di procurato aborto, che il Codice Rocco punisce severamente, in quanto sovvertitore della famiglia e perciò, come l’adulterio, reato contro lo Stato.

Così come è riportato sulla scheda,”il romanzo ricostruisce la torbida vicenda familiare da cui scaturì l’esecuzione capitale attraverso i canti dei cantastorie, fonti orali e giornalistiche, atti giudiziari, che consentono di mettere a fuoco il contesto del dramma: il “disordine” della famiglia contadina siciliana e la politica familiare del fascismo. Squisitamente letterari sono, invece, l’impianto narrativo e il linguaggio: la storia di una bambina, segnata dalla diversità già nel nome e travolta dall’assurda banalità del male, comunica una profonda impressione anche per l’efficacia e la profondità con cui sono tratteggiati i personaggi che balzano vivi dalle pagine, uscendo dal coro che commenta ai margini.”

Il tema che vorrei affrontare, in parallelo con la discussione sul romanzo di Marinella, è quello della violenza ai minori e della imputazione della colpamettendo in relazione la colpa individuale con quella collettiva.
Nell’ambito della discussione interverranno “ospiti speciali” che avrò modo di presentare adeguatamente.
Ecco alcuni spunti e domande volti a favorire il dibattito…

1- La condanna di Giovanni appaga un’intera società, sebbene anche l’amante sia colpevole del delitto di procurato aborto (confessato ma da cui andrà assolta per carenza di prove). Che rapporto c’è tra colpa individuale e colpa collettiva?

2- Victor Frankl (1905-1997), medico e psichiatra, filosofo e psicoterapeuta, saggista e conferenziere di fama mondiale, fondatore della logoterapia, scampato ai lager nazisti diceva: “Signori e signore, vi prego in quest’ora di ricordare con me mio padre, che morì nel lager di Theresienstadt; mio fratello, che morì nel lager di Auschwitz; mia madre, che finì in una camera a gas di Auschwitz; e la mia prima moglie, che perse la vita nel lager di Bergen-Belsen. E tuttavia devo chiedervi di non aspettarvi da me una sola parola di odio. Chi mai dovrei odiare? Io conosco soltanto le vittime, non i carnefici, quantomeno non li conosco personalmente – e io rifiuto di dichiarare qualcuno collettivamente colpevole. Una colpa collettiva infatti non esiste, e io questo non lo dico oggi, l’ho detto fin dal primo giorno in cui fui liberato dal mio ultimo campo di concentramento” (Cit. in: Paola Giovetti, Victor Frankl. Vita e opere del fondatore della logoterapia, Edizioni Mediterranee, Roma, 2001, p. 54). Siete d’accordo? Esiste o non esiste una colpa collettiva?

3- La voce di Aida viene messa a tacere dalla violenza e dalla paura. Ma viene riportata in vita dalla poesia del cantastorie Orazio Strano e di Marinella Fiume. Che rapporto c’è tra violenza e poesia?
C’è una correlazione sanante e necessaria oppure, come si domandava il poeta tedesco Friedric Holderin: “A che (servono) i poeti in tempo di povertà?”

Di seguito, la bella recensione di Simona Lo Iacono, che mi darà una mano ad animare e coordinare la discussione.
Massimo Maugeri


“Celeste Aida”. Diritto e letteratura in una storia di Marinella Fiume
di Simona Lo Iacono (nella foto)

“Sedetevi che ve lo racconto, signore e signori. Della bambina sepolta sotto l’aglio. Sedetevi qui,i picciotti avanti, gli adulti infondo…E’ arrivato il cantastorie Orazio Strano per farvi sentire il lamento. Come signora? Quale lamento?
Sedetevi comoda che ve lo racconto…”
Orazio Strano imbraccia la chitarra, sistema i cartelloni, si assesta sulla sedia a rotelle, perché non ha gambe, ma ha voce e cuore per raccontare, stasera. Il berretto rosso gli ombreggia sulla testa.
Un cantastorie non fa caso ai dissesti di un selciato, pensa, e neanche alle apparenti immobilità del corpo. Un cantastorie si sistema dove può, tra le crepe di una piazza, o in una fiera di paese, la domenica – a Messa finita- col benedicite che rintrona alle spalle. O la sera, quando l’incendio del sole assicura una tregua, una pausa per tessere un sogno.
Un cantastorie, poi, non è che questo – signore e signori – uno scampolo di sogno.
E inizia a raccontare.
Ed è proprio da un “cunto” di Orazio Strano, che Marinella Fiume traccia la storia – svoltasi nel 1933 in un villaggio della Sicilia – di “Celeste Aida” (Rubbettino editore, € 8,00), della bambina – Aida, appunto – di cinque anni “sepolta sotto l’aglio” dal cognato per celare la relazione adulterina con la madre.
Una storia tagliente, quella dei due amanti, Giuseppina e Giovannino, o forse una storia di semplicissima umanità, di una donna che attende – invano – un rientro del marito dalla “Merica”. Che zittisce la solitudine col guizzo di un amplesso. Con l’illusione di non rimanerne ingabbiata. Di non subire la condanna dei propri desideri.
Non è che questo, poi, un reato. La condanna dei propri desideri.
E in quella sospensione della memoria, in quell’arrembaggio come di sogno, in cui la regola non è che un affioro momentaneo, o una stramatura della realtà, il reato si consuma. Un gesto – abituale ormai – tra quelli che hanno già rotto gli argini. Che hanno sfilacciato la barriera che ci separa dai miraggi.
Marinella Fiume ripesca i carteggi processuali, rivive il dibattimento, l’esame dei testi, la confessione finale. Mostra perizia da giurista quando ripercorre la vicenda in Corte d’Assise citando gli articoli del Codice Rocco, o quando arringa estrosamente in difesa della donna, assolta dal reato di adulterio – mancando la querela del coniuge offeso e migrato oltre mare – , e da quello di procurato aborto per mancanza di prove.
Ma soprattutto scandaglia da un punto di vista letterario quel crescere di azioni e intenzioni noto, in diritto penale, come “reato continuato”, e che non è che un’escalation di cadute sempre più gravi, unite da un nesso di consequenzialità, il cui approdo è il reato finale (in questo caso l’omicidio).
Giovanni – l’assassino – prima seduce la suocera, poi la coadiuva nell’aborto, infine mette a tacere la cognata, temibilissima testimone dei fatti. La sua volontà si affievolisce gradualmente, si immette in una dimensione alterata e surreale che è il campo del “non dominio della norma”.
In questa progressiva e allucinata trasmigrazione, in questa sospensione – lucida e al tempo stesso trasognata – della volontà, il confine tra immaginato e voluto si perde, snebbia. Infine si traduce in reato. Nell’assalto di paure e desideri.
E’ una magistrale lezione giuridica e umana sotto forma di romanzo. Una trasposizione – tecnicamente ineccepibile – in campo letterario delle più alte riflessioni penaliste sull’elemento psicologico del dolo.
Secondo l’art. 43 del nostro codice penale, infatti: “Il delitto è doloso o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”.
Tale definizione postula dunque due elementi strutturali fondamentali: la rappresentazione e la volontà ed è, anche, un compromesso tra le due teorie principali che si contendevano il campo al tempo dell’emanazione del codice penale,la teoria della rappresentazione e la teoria della volontà, appunto.
Marinella li inscena letterariamente entrambi.
Giovannino si rappresenta la conseguenza delle proprie azioni perchè organizza, riflette, sceglie momento, luogo, modalità.
E poi vuole, perché lo sfaldamento progressivo della coscienza ha allentato ogni capacità inibitoria, ogni percezione del limite.
Indagine psicologica finissima, dunque, e giuridica, e umana.
E su tutto, i clamori e le strombazzate del fascio. Le urla che si levano contagiose. Gli strepiti che tuonano “Eia eia alalà” quando la Corte d’Assise ,” In nome di sua maestà Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e per volontà della nazione Re d’Italia, l’anno 1933, il giorno 29 del mese di Maggio in Catania, letti gli artt 36, 61 n. 2,4, 17, 575, 576 n 1 , 577 n3, cp, 479, 483, 488, 489 cpp, dichiara Scandurra Giovanni di Salvatore colpevole dei reati ascritti e lo condanna alla pena di morte, alle spese in favore della parte civile , lire 2804 e ai danni da liquidarsi in separata sede”.
Un furoreggiare che appaga, che al pugile Carnera, casualmente giunto sui luoghi, fa mugghiare tra i denti fame di vendetta, che sembra ripristinare l’ordine perduto con la forza del duce: una condanna in vita e – se possibile – oltre la morte.
Orazio Strano ha finito di cantare. Ha letto sugli occhi sbigottiti delle madri e su quelli iniettati di sangue dei padri. Ha posato la chitarra, si è levato il cappello rosso, ha ordinato i cartelloni che narrano il cunto per tornare da dove è venuto, a Riposto.
Non sa se Giovanni è all’inferno o se il pentimento finale gli ha salvato l’anima. Non cerca ragioni ai suoi cunti, né si domanda il perché dell’assalto dei desideri, dell’innocenza trafitta, dei mancati ritorni. E’ solo un cantastorie, lui, e un cantastorie non fa caso ai dissesti di un selciato, alle apparenti immobilità del corpo.
Un cantastorie si sistema dove può, tra le crepe di una piazza, o in una fiera di paese, la domenica – a Messa finita- col benedicite che rintrona alle spalle. O la sera, quando l’incendio del sole assicura una tregua, una pausa per tessere un sogno.
Dopo tutto, il processo e le storie hanno questo in comune.
Sono un mistero.

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TU NON DICI PAROLE di Simona Lo Iacono http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/06/22/tu-non-dici-parole-di-simona-lo-iacono/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/06/22/tu-non-dici-parole-di-simona-lo-iacono/#comments Sun, 21 Jun 2009 23:40:12 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/21/tu-non-dici-parole-di-simona-lo-iacono/ premio-vittorini-20091Conobbi Simona Lo Iacono nel 2006 in una libreria, a Catania, nel corso della presentazione di un volume (io ero tra i relatori). In quell’occasione ebbi modo di accennare alla mia esperienza letteraria on line su Letteratitudine (che era appena nato). Finita la presentazione Simona mi si avvicinò e mi chiese l’indirizzo del blog, affermando di essere molto interessata da questa esperienza.
In verità non intervenne subito. Passarono mesi. Credo che il suo primo commento letteratitudiniano sia datato 26 settembre 2007. Vi riporto uno stralcio: “la letteratura è solo quella dei libri? Non è spesso aria, desiderio, pensiero non ancora incarnato? Non è anche eco di versi? E che differenza fa se questi versi prendono forma in musica o nella voce di un altro poeta? A volte la poesia rinasce dalla stessa poesia, e la narrazione da un suono. Tutto, nell’arte, può convivere con tutto, purchè le combinazioni non turbino l’armonia, la bellezza, l’etica del linguaggio“.
Tutto, nell’arte, può convivere con tutto. E – in effetti -, da quel giorno, l’arte di Simona cominciò a convivere anche con questo blog.
I suoi commenti si fecero sempre più frequenti… e interessanti.
Una delle prime cose che subito mi colpì fu la sua tendenza a miscelare in maniera mirabile diritto e letteratura… la sua esperienza di magistrato, con quella di scrittrice. Per tale ragione il primo post che le affidai fu questo dedicato al romanzo “In una lingua che non so più dire” di Tea Ranno (era il 19 novembre del 2007). Il protagonista di quella storia era un magistrato. Pensai: chi meglio di lei?
Il post ebbe grande successo. Nel frattempo continuò a scrivere commenti su commenti… dai quali venivan fuori la sua abilità di scrittrice frammista alla sua esperienza di giurista.
A un certo punto ebbi un’intuizione, determinata anche dalla lettura della bozza del suo primo romanzo “Delle parole e delle sue figliolerie” (rispetto al quale mi permisi di darle qualche consiglio… compreso quello di cambiare il titolo).
E capii…
Le dissi: “secondo me devi portare avanti una nuova poetica, capace di mettere insieme diritto e letteratura; parola e processo”. Fu per questo che le proposi di condurre, su questo blog, una rubrica intitolata Letteratura è diritto, letteratura è vita (era il 10 luglio del 2008).
(E le dissi che, secondo me, avrebbe dovuto cercare di approfondire questa “poetica” anche con i libri futuri).
Il 29 luglio del 2008 parlai di lei sulla pagina Cultura del quotidiano Il Mattino, all’interno di un articolo sulla letteratura siciliana (l’articolo fu poi ripubblicato su Carmilla on line)… dove la presentai come una scommessa.
Ecco. Credo che l’attribuzione del Premio Vittorini 2009 – sezione Opera prima – a “Tu non dici parole”, sancisca la vincita di questa scommessa.
Di seguito troverete il post originario… e tre video tratti dalla presentazione catanese di questo romanzo.
Il mio piccolo omaggio a una scrittrice che è cresciuta insieme a questo blog e che è destinata a raggiungere traguardi sempre più importanti.
Auguri, Simona!

Massimo Maugeri

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POST DEL 21 GENNAIO 2009

tu-non-dici-parole.JPGParliamo di un romanzo ambientato in Sicilia, a Bronte, nel 1638… ai tempi dell’Inquisizione.
Non tutti sanno che l’Inquisizione siciliana nacque sotto forma di… balzello. In effetti fu formalmente introdotta intorno al 1224 dall’imperatore Federico II, quando dispose che tutti gli eretici e gli Ebrei dovessero pagare una tassa a suffragio degli inquisitori di fede preposti al loro controllo.
Il 6 ottobre 1487 Ferdinando II il Cattolico creò il Tribunale dell’Inquisizione e fu inviato in Sicilia il primo inquisitore delegato, un certo Frate Agostino La Pena, la cui nomina fu approvata da Papa Innocenzo VIII.
Nel solo anno 1546 i quindici tribunali attivi condannarono 120 persone al rogo, 60 in effigie e 600 a penitenze minori. I reati per i quali si veniva processati erano l’eresia… ma anche la bestemmia, la stregoneria, l’adulterio, l’usura.
L’Inquisizione nell’isola venne abolita con decreto regio del 6 marzo 1782 (disposto da Ferdinando III di Sicilia).

Torniamo al romanzo.
Francisca Spitalieri è una innamorata delle parole. Ma non di parole qualsiasi… delle parole belle. Francisca “ruba” queste parole. Le ripete. Per certi versi le re-interpreta. Sono parole latine, per lo più. Parole liturgiche e dell’offertorio… sentite in convento.
Cos’è che colpisce Francisca? Forse la loro austerità… che le fa sembrare al di sopra delle parole ordinarie. O, ancor di più, la loro musicalità. Qualunque sia la ragione, Francisca ama queste parole, rimane estasiata dalla loro bellezza. E le ripete. Le ripete senza nemmeno conoscerne il significato.
Ora, questo suo amore per le parole viene considerato… strano. Anormale. E viene messa a giudizio.
Il romanzo si intitola “Tu non dici parole” (Perrone, 2008, € 15). L’autrice è Simona Lo Iacono.

Vi invito a discutere di questo libro interagendo con Simona.
E poi vi invito a riflettere (e a discutere) sul ruolo della parola. E sulla sua importanza.

Quante persone - tra cui scrittori e intellettuali - hanno pagato, stanno pagando, o pagheranno, sulla pelle… il peso delle loro parole?

Di seguito potrete leggere la recensione di Maria Rita Pennisi e la monografia di Maria Lucia Riccioli. Su “Lo schiaffo” c’è una recensione di Salvo Zappulla. Mentre sul blog “La poesia e lo spirito” trovate una mia minirecensione con intervista all’autrice.
Massimo Maugeri

“Tu non dici parole” di Simona Lo Iacono – Perrone, 2008 – euro 15
di Maria Rita Pennisi

Tu non dici parole, di Simona Lo Iacono, romanzo simbolico che adombra la scomparsa del femminino sacro. Anno 1638, la luna, ultima testimonianza della perduta divinità femminile, illumina il sonno delle Esposte della casa di Bronte. Non si tratta di una luna bella e lucente, ma di una luna fosca e tenebrosa, presaga di morte. Ormai nel mondo cristiano la luna non può più ammantare del suo splendore le donne, come accadeva nei boschi sacri dei Druidi, né il suono dei sistri dei riti misterici di Iside può accompagnarne i passi di danza. E’ sceso un luttuoso silenzio, che acuisce i sensi di queste donne sempre all’erta, che sembrano fondersi con la madre terra e divenire un tutt’uno con la vegetazione.
Donne che preferiscono tenersi nascoste, stare ai margini, fiutare nell’aria. Adesso non sono più considerate figlie della luna, ma figlie di Eva, la corrotta, la corruttrice. Guardate con sospetto nella società misogina del Seicento. Peccatrici e dannate, dette streghe da quegli uomini che avvertono ancora in loro un barlume di divinità. Il femminino sacro di cui essi hanno timore, un timore che spesso arriva al parossismo.
Nella notte del massacro delle esposte, perpetrato dal Pilosa e dai suoi compagnacci, solo Pititta, forse tra le poche figlie della luna rimaste, ha avvertito il pericolo. Lo ha fiutato nell’aria, lo ha letto nella faccia della luna prima che il massacro avvenisse, ma non si è salvata.
Mentre Francisca, unica su cento, è ancora in vita. Francisca che ha gridato miserere, miserere, miserere. L’hanno salvata queste “parole belle” che hanno turbato il Pilosa fin nel profondo e che per questo l’ha risparmiata.
Francisca ha capito che il mondo è diviso in due dalle parole. Esistono parole belle come le cose che non sono di questa terra per i ricchi e parole lorde, bastarde e fetenti dell’alito di chi ha lo stomaco vuoto. E capisce anche che sue per sempre devono essere le parole belle. Nel suo sé profondo Francisca percepisce la potenza delle parole, intuisce che le parole muovono il mondo, che le parole sono vita.
Un romanzo speculare, “Tu non dici parole”… scandito da due equinozi e due solstizi in cui si collocano i quindici giorni del Carnevale, che sovvertono l’ordine del mondo. Lo specchio capovolto della vita di Francisca. Francisca innocente, ma strega perché dice le parole belle, le parole rubate. Cento parole in tutto. Novantanove parole belle più la centesima, che le racchiude tutte nella rappresentazione del Cristo di fra’ Umile, a cui si possono rivolgere solo parole belle. Novantanove le esposte uccise. Una sola donna sopravvissuta, Francisca, salvata dalle parole belle.
Uno spaccato storico della Bronte del Seicento, dove imperversano povertà e superstizione. Dove le vite sono già segnate dalla luce o dalle tenebre.
E non c’è salvezza. La mascherata del Carnevale cercherà di portare giustizia sotto le spoglie della “rondine Tufania” improvvisatasi avvocato di Francisca, nel Tribunale della Santa Inquisizione. Riuscirà infine Tufania nel suo intento? Francisca, dal canto suo, conserverà per sé le parole belle, perché sa che la morte è muta, non dice parole. La morte quando arriva è silenzio.
Maria Rita Pennisi

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La monografia di Maria Lucia Riccioli

Sicilia, 1638.
Siccità e carestie, l’ignoranza e la sofferenza delle plebi schiavizzate da nobili e gabelloti corrotti, da un clero spesso teso a difendere i privilegi acquisiti più che a farsi strumento e voce di liberazione di poveri ed oppressi.
Questo lo sfondo del libro d’esordio di Simona Lo Iacono, raffinata e sapiente poetessa ed autrice di racconti brevi che qui si cimenta nella forma romanzo e supera brillantemente la prova, donandoci una storia dolente e bruciante d’umanità e sofferenza.

Protagonista, un’esposta. Suor Francisca Spitalieri.
Orfana e donna: questa la summa delle disgrazie per una donna del Seicento.
A questo si aggiungono i suoi misteriosi poteri, che rimangono inspiegati anche alla stessa Francisca. L’esposta è additata come strulusa e magara, fraintesa nel suo desiderio di bellezza. Francisca infatti è alla ricerca di parole belle, «che hanno parole sugli spiriti e sulla morte, sulla paura e sulla speranza» (p. 42), che sono capaci di lenire le sofferenze e le privazioni di orfana sottomessa, gli stenti e le angherie che è costretta a subire.
Parole belle sono quelle di chiesa, stralci di breviari, fogli scompagnati di messale, che ruba per tenerle con sé, quasi come fossero talismani contro il male, la sofferenza, la morte.

Opera visionaria e a tratti surreale, questo romanzo risente della lezione dei sudamericani, in primis di Gabriel García Márquez e di Isabel Allende, che trasfigurano il reale con incursioni nel mito, nel sogno, nell’incubo, grazie ad una fantasia sbrigliata e potente.
La Lo Iacono vi trasfonde l’esperienza e gli studi giuridici, oltre che l’amore e la pratica della letteratura, dato che questa è anche la storia di un processo, la riflessione poetica e sofferta del rapporto tra diritto e giustizia, il ripensamento sulle catene di codicilli che hanno mandato sul rogo decine d’innocenti per sospetti e accuse di stregoneria.

La metafora del furto di parole da parte di Francisca è un chiaro riferimento al lavoro dello scrittore, che è ladro di parole per eccellenza: le cerca nei libri, nelle storie che legge e in quelle che gli vengono raccontate, le pesca per strada, le orecchia nelle conversazioni, le stana in una continua ricerca di bellezza.
Ma in questa ricerca di purezza l’esposta si scontra con l’ingiustizia e farà a sue spese la conoscenza con quella che Cesare De Marchi ha chiamato in un recente romanzo la furia del mondo, così come lo scrittore, il poeta, si scontrano con l’indifferenza, l’opposizione, spesso con la persecuzione da parte di chi le sue parole non vuole ascoltarle o le fraintende o vuole piegarle ai suoi scopi.

Francisca «ha capito che esistono parole per i ricchi e parole per i poveri. Le une lette, scolpite, recitate e – soprattutto – belle, bellissime come cose che non sono di questa terra. Le altre lorde, bastarde e fetenti dell’alito di chi ha lo stomaco vuoto» (p. 18).

L’esposta è più attratta dal significante di queste parole – il loro suono, che le appare celestiale – che dal significato, che le rimane ignoto, misterioso perfino, estraneo sempre.

[…] le parole sono peggio del fiato. […] sono cose di poveri, le parole, di malaugurati come te e me, che non hanno pane, né letto, né vestine e, parlando, se le inventano (p. 15).

Meglio tacere? Non sempre è possibile. Ma per Francisca è meglio che le parole vengano pensate, lette oppure, meglio ancora, rubate.
Ed è così che si appropria di pezzi di breviario, di pagine che almeno fisicamente l’avvicinino a quelle parole belle che la escludono da un mondo per il quale Francisca Spitalieri non esiste.
Le parole belle sono un’ossessione:

«continuano a tormentarla, a deriderla, a volarle intorno come mosche invadenti e riottose. Francisca le ripete tamburellandole, ballandole nella testa e nei pensieri» (p. 19).

Pesano, le parole rubate, come un lascito, una necessità compulsiva, una responsabilità, un tesoro prezioso da nascondere ai profani.
Francisca addirittura le interroga, le parole. Come se fosse nelle parole il mistero di ciò che rappresentano, come se possederle volesse dire avere le chiavi che possano aprire, come poetava Montale, i mondi. Quando invece le parole possono dirci, a volte, nient’altro che ciò che non siamo, ciò che non vogliamo:

«ditemi parole belle, ditemi parole maliarde, il perché e il per come del nascere e del morire, o anche del sopravvivere» (p. 34).

La verità, invece, parla un linguaggio diverso, che va al di là delle parole, com’è nel romanzo della Lo Iacono, in cui la ricerca di Francisca sarà fraintesa, a partire dalle monache, fino al bandito Pilosa e agli inquisitori, e come l’esistenza stessa ci testimonia.

Oltre che oggetto del desiderio di Francisca, che le ricerca con foga angariosa (p. 14), le parole belle sono la chiave del romanzo. Rappresentano inoltre l’ossessione dello scrittore per la bellezza, per la sua cristallizzazione nella scrittura, che non le perda e le conservi intatte.

Nel suo percorso alla ricerca delle parole belle, Francisca comprende che esse rispondono ai bisogni delle persone – ricerca di consiglio, di conforto, di promesse, di conferme… non siamo tutti, in fondo, alla ricerca di parole?
Francisca «sussurra fraseggi che paiono cinguettii d’uccelli, o strisciare frusciante di bisce.
Una cosa sola sa, Francisca. Che qualunque cosa svelino le parole belle, lei piange con chi piange. E lei ride, con chi ride […]. Mie sono le vostre fatiche, miei i vostri sguardi, mia, solo mia la vostra parola.
Se ve la ridò, affrescata di cantici, ripulita da ogni bruttura, è per restituirvela.
Perché, nella sua bellezza, già vi apparteneva» (p. 53).

Francisca dunque scopre la parola come segno di comunicazione, di partecipazione emotiva profonda. Che poi è il livello a cui agisce lo scrittore, che si fa in un certo senso interprete delle attese di bellezza ed espressione non superficiale ma dalla risonanza intensa legate alla parola.

Anche il suo stesso nome, riconquistato dopo una faticosa ricerca della propria identità – prima esposta, poi monaca, poi… soltanto Francisca – è una parola che racchiude una storia, un autoriconoscimento, un destino.

«[…] le parole belle assottigliano l’udito, l’olfatto, la vista» (p. 108).
Dunque la parola è addirittura anticipatrice del futuro, veggente quindi, visionaria e diremmo profetica.
Come non pensare alla scrittura, al poeta veggente – Rimbaud – , alla letteratura, che oltre a riflettere il reale esteriore e interiore dell’artista presagisce e spesso anticipa ciò che verrà?
Diverse sono invece le parole dell’amore, che nascono da un bisogno, da una ricerca quasi febbrile dell’altro, da una malìa che strega corpo mente e spirito, oltre la volontà, la ragione, la paura: «pare una febbre malsana di deliri, un ansimare che quasi la tradisce, le fa sfuggire un lamento subito soffocato, un rigurgito di parole mai più pronunziate.
Risalgono le qualità del suo essere, sono alle sommità dello sguardo, del pensiero, della bocca. Le muovono lingua, palato, gola contro la sua volontà.
Non sono le parole belle.
Ma […] sente di non poter più tacere» (p. 54).

Per dire l’amore, non servono parole da rubare.

«Servono solo quelle con cui è nata» (p. 65).

A volte, non è necessario neanche usarle, le parole: quando si è felici, quando si gode del semplice stupore di essere vivi, «ogni istante è nudo, così pieno da sembrarle bello senza avere bisogno di essere detto» (p. 82).

Non è facile comprendere che «la bellezza di quelle parole esiste, ed è nella donna che le ha pronunciate. Non può sapere che la bellezza è nuda: senza maschera, senza copertura, senza travestimento» (p. 76).

Nel romanzo c’è chi non crede alle parole, come l’arcivescovo Angimbè, perché offeso e tradito dal silenzio: «finge di non voler credere alle parole e invece le teme, le cerca e le annusa come un maschio innamorato» (p. 77), c’è chi le parole le utilizza per vessare, ingannare, rovinare.

Tu non dici parole si pone dunque come una storia fatta di parole sulle parole.

L’autrice nutre anche lei un vero e proprio culto per le parole belle, risentendo della ricerca e dello sperimentalismo linguistico di una Silvana La Spina, di Vincenzo Consolo, dei siciliani insomma che hanno narrato scavando nell’essenza stessa della parola per cavarne fuori tutti i possibili sensi o magari quelli più riposti, o quelli che fanno risuonare corde intime e profonde.

La Lo Iacono si affida a una sintassi musicale, come se il testo fosse una nenia, un lamento, uno scongiuro, una formula di fattucchieria, o una delle litanie delle reverendissime monache.
Pensiamo alla parola “miserere”, che Francisca pronuncia per la sua bellezza, perché crede nel potere taumaturgico, sacrale, magico della parola, non perché ne comprenda il significato.
Spesso il ritmo è franto, spezzato com’è da una fitta serie di punti e di a capo che costringono il lettore a concentrare l’attenzione sul frammento, sulla parole, spesso sul suono di una singola sillaba.
Il filo della narrazione, spezzato in un capoverso, viene richiamato e ripreso al paragrafo successivo, conferendo alla pagina un andamento di pieni e vuoti. A volte la ripresa è affidata al capitolo successivo.
Grazie a questi espedienti tecnici, l’attenzione del lettore viene catturata e trascinata per le pagine del romanzo e il filo della narrazione rimane teso e avvincente.
La lingua della Lo Iacono è una lingua ricca, mossa, inventiva: l’autrice accosta audacemente parole latine e vocaboli inventati, dialetto autentico e una lingua propria, un idioletto che la caratterizza, per narrare una storia in cui le vere protagoniste sono le parole, con il loro segreto di senso concettuale ma sensuali, nel senso che portano con sé odori colori sapori sensazioni tattili suoni rumori: «ripetono voci straniere senza capirle mischiandole a parlate paesane fatte di scongiuri e fatture, improperi e preghiere» (p. 45).

Qualche riflessione sparsa sulla parola.
Che cosa significa “parola”?
Il termine deriva dal latino parabula. E qui ci sovvengono le parabole evangeliche, le quali non sono altro che exempla, verità che prendono la forma di apologo, di racconto con una sostanza sapienziale che due millenni non hanno scalfito. Densità, efficacia narrativa: ecco la forza delle parabole.
Nel latino basso, per intenderci non più il latino classico di Cesare e Cicerone, ma quello parlato e più recente che poi si sarebbe trasformato nei vari volgari, i quali si sono poi evoluti nelle lingue neolatine o romanze, il termine parabula è passato a designare la parola.
Ma il termine che più mi interessa è verbo. Il verbo, inteso come parte del discorso, è il motore di una frase: senza l’azione o lo stato espressi dal verbo, non c’è vita in un pensiero.
Il Verbo per eccellenza, secondo il vangelo di Giovanni, è la seconda persona della Trinità: il Cristo, che era in principio e grazie al quale tutte le cose sono state create.
Nulla esiste, tutto resta informe finché non viene nominato. Adamo nomina le cose e gli animali per divenirne il signore e custode. Dio stesso ci chiama per nome e Gesù assicura che i nostri nomi sono scritti nei cieli.
Per i musulmani il Corano è la stessa parola di Allah discesa sulla terra, per gli Ebrei il nome di Dio, impronunciabile perché sacro e terribile, poteva fluire dalle labbra del sommo sacerdote una sola volta all’anno, solennizzata secondo riti complessi e stabiliti.
Nomen omen, dicevano i latini, cioè il nome stesso conterrebbe il “destino” di un uomo e nell’antichità la maledizione, il male dicere, aveva valore ed effetto magico.
La parola quindi non ha solo valenza comunicativa, ma ad essa fin dall’antichità sono state associate virtù taumaturgiche e sacrali – pensiamo alle formule degli sciamani, alla forza della preghiera e delle formule rituali.
La parola ha valore anche giuridico: pensiamo ai giuramenti, alle sentenze, alle formule giuridiche dell’antico diritto romano, a tutto il problema delle norme e della loro interpretazione.
Esiste una disciplina il cui nome vuol dire “amore per la parola”: la filologia.
Il filologo è quello studioso che tenta di ricostruire la forma originaria di un testo, di congetturare sulle parti danneggiate o mancanti – pensiamo ai manoscritti antichi, spesso giunti fino a noi in condizioni di estrema precarietà e fragilità – ; questo preziosissimo lavoro, fatto anche di confronto con la tradizione orale, di collazione, cioè di operazioni di raffronto tra le varie versioni di uno stesso testo, consente di ottenere un testo più vicino a quella che è stata la volontà dell’autore e quindi di approssimarsi ad una possibile verità sul testo. Quantomeno permette di disporre di un testo su cui poi esercitare quello che è il compito del critico: l’esegesi e l’interpretazione della moltitudine di significati, di sollecitazioni, di valori di un testo.
Questa parentesi per cercare di intravedere la complessità di un discorso sulle parole e sul loro valore e significato profondi.
Oggi la parola è stata desacralizzata. Ne viene perpetrato un uso massiccio ma spesso un abuso evidente: parola usata per pubblicizzare, persuadere, conculcare, ingannare, calunniare, e non solo per «calmare la paura, togliere la pena, suscitare la gioia, accrescere la pietà», come scrive la Lo Iacono in epigrafe alla prima parte del romanzo citando Bufalino.
Quale argine a certi profluvi di parole che ci vengono dai mass media, da Internet, dai cellulari?
Riappropriarsi del valore della parola. Gustarla nel silenzio della riflessione. Della lettura.
Perché è il poeta, lo scrittore, che carica ogni parola di sensi e sovrasensi, che dal suo testo ci permette di indovinare contesti e sottotesti. Il poeta e lo scrittore lavorano sulla struttura, sul capitolo, sulla pagina, sul capoverso, sulla riga, sulla singola parola.
Perché nessuna sia fuori posto, perché permetta di esprimere mondi interiori, passioni e storia, individualità e coralità di destini.
Come accade nel romanzo di Simona Lo Iacono.

Maria Lucia Riccioli

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ISOLE SENZA MARE, di Antonella Cilento http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/06/16/isole-senza-mare-di-antonella-cilento/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/06/16/isole-senza-mare-di-antonella-cilento/#comments Tue, 16 Jun 2009 19:44:51 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=869


“Isole senza mare” è il nuovo romanzo di Antonella Cilento, ma è anche la storia parallela di due donne che attraversano l’Otto e il Novecento: Aquila, nobile caduta in povertà e costretta a lasciare la Spagna, vende se stessa e tenta il riscatto diventando l’amante del marchese Campana, collezionista di arte e di vite altrui, un amore che la trascinerà in una trama di ossessioni, vendette e fantasmi. Nina, ultima erede di una catena di donne che dalla Spagna sono fuggite, ha più di ottant’anni, ha vissuto il Fascismo e una difficile intimità famigliare percorsa da molti nodi silenziosi: orfana di padre, sposa tardiva, madre mancata. Aquila e Nina amano con infelicità, entrambe sono esiliate: legate a doppio filo da rimandi, coincidenze ed eredità, le loro vicende si intrecciano con un coro di indimenticabili personaggi sullo sfondo del Mediterraneo.
Un romanzo sulla solitudine, sull’isolamento, sull’esilio. Sull’amore deluso. Un’opera letteraria che ha impegnato Antonella Cilento per ben dieci anni e che finalmente vede la luce.
Ce ne parlano Luigi La Rosa e Simona Lo Iacono.
Vi invito a discuterne con loro e con l’autrice.
Di seguito pongo alcune domande/riflessioni – ispirate al romanzo – con l’intento di favorire la discussione.

1 -Isole senza mare. Isole senza amore.
Siamo isole quando amiamo? E quando scriviamo?

2 – Isole senza approdo, anche. Perchè se non c’è mare, non c’è riva. Se scriviamo come isole siamo, anche, viaggiatori senza ritorno?

3 – Isole senza tempo. Le generazioni che sfalsano e scombinano destini.
Il tempo che scorre è solitudine? È compimento?

4 – Isole senza viaggio.
Un viaggio, per scrivere, è necessario? E quale viaggio?

Di seguito, gli ottimi contributi di Luigi La Rosa e Simona Lo Iacono.
Massimo Maugeri

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Isolitudine e racconto nell’opera di Antonella Cilento

di Luigi La Rosa (nella foto)

C’è un orizzonte frastagliato, visionario, dove le ombre si mescolano al crudo realismo del quotidiano e i sogni hanno lunga durata. Vita e morte dialogano, consonano, intrecciano relazioni, suggeriscono prospettive dello sguardo. Mi riferisco al luogo fantastico, metaletterario per eccellenza, nel quale Antonella Cilento fa muovere i primi passi di Aquila – forse il più intenso dei personaggi del suo nuovo libro: Isole senza mare (Guanda, pp. 368, 17 euro).
Aquila ha il pianto nella voce e la capacità magica di leggere nell’oblio, richiamando presenze misteriose. Dalla sua culla di bambina delicate dita di fumo la sfiorano, le passano sensazioni che la piccola porta con sé, crescendo, come una specie di irrinunciabile segreto. Forse, la traccia di una consapevolezza, l’impronta di una precoce predestinazione al dolore.
La scrittrice ritaglia intorno a questa amabile figura lo spettro di una vera e propria epopea sentimentale, una sorta di solenne splendore: il declino della nobiltà originaria, la decadenza della famiglia nella Spagna di fine Ottocento, la fuga in Italia, la miseria, la prostituzione e poi l’innamoramento per il marchese Campana, eccentrico collezionista e funambolico interprete di tutta una stagione di soprusi e follie.
La Spagna del mistico e dell’invisibile si sostituisce pian piano alla Roma sensuale e follemente cortigiana che fa da sfondo alle esperienze della giovane espatriata, mentre la realtà si traveste da spettacolo, il quotidiano si carica di inganno, il desiderio di tentazione, e il crescendo dipana con avveduta maestria misfatti e colpi di scena lungo orbite surreali e stravaganti.
Ma questo è solo uno dei due grandi temi che risalgono la carne del romanzo: sulle fibre coinvolgenti di tali vicende germogliano in fretta nuovi spiriti, e una nuova toccante umanità fa irruzione sotto il fuoco dell’obiettivo narrativo: quella di Nina, “angelo grasso” con aspirazioni suicide, che apre l’incipit del romanzo spiccando il volo dal balcone di casa e innestando le sue ferite personali a quelle della sorella Maddalena, o della madre Maria Azara, in una formidabile teoria di rifrazioni, sublimate in storia, in cronaca, in destino.
I perimetri esistenziali di queste donne si legano a quello di Aquila, le loro ansie alle sue peripezie in un’Italia animata da fervidi ideali rivoluzionari, e la narrazione diviene il punto di confluenza, il luogo nel quale i perimetri vengono miracolosamente a coincidere, a confrontarsi, a sovrapporsi.
Come i grandi musicisti del passato, Antonella Cilento ci offre una prova di indiscussa bravura compositiva: Isole senza mare rappresenta infatti un pregiatissimo esempio di romanzo bipartito, di partitura che muove i suoi due canoni strutturali in un’alternanza consapevole di tempi e luoghi armonicamente predisposti: l’Ottocento, documentato dalla splendida saga di Aquila e dei suoi amori infelici, e il più crudele Novecento, che sembra ancora spingere a fatica i suoi polverosi ingranaggi, chiamandoci a una profonda interrogazione sulla memoria e sul vissuto.
Aquila, Nina, Maddalena, Maria Azara, ma pure Aldo, Giampietro, Giacomo, e tutti quanti gli altri personaggi evocati dalla penna dell’autrice si tramutano in isole: è accaduto un prodigio, ed eccoli punti di luce smaniosa nella nevralgica solitudine di ogni esistere, isole nel mare dei giorni, degli anni, degli attimi, cui adattare la dolente prerogativa dell’isolitudine, coscienza dell’essere “isola” in un mare svanito, prosciugato, strappato alla pelle delle cose.
In epoca di minimalismi e di più o meno conclamate poetiche del disimpegno Antonella Cilento ci offre un romanzo avvincente, colto, raffinato, che si muove secondo una direzione assolutamente libera, spregiudicata. Un libro estraneo a mode e squallidi compiacimenti di stagione, che sperimenta, che seduce, e che punta in alto, con coraggio, con ostinazione direi, scommettendo a pieno la sua abbondante materia raccontativa e regalando al lettore un viaggio poderoso, straordinario, che emoziona dalla prima all’ultima pagina.
I miei omaggi a una scrittrice che non fugge davanti alle minacce della trama, alle preoccupazioni della struttura, alle remore dell’articolazione, e che accetta invece la complessità con la fierezza di chi è cosciente di padroneggiare al meglio la propria materia, di chi ha ancora il gusto plastico del raccontare, della fabula amena, e l’ambizione all’affresco, all’intreccio di casi, uomini, situazioni, nella costruzione di un’opera in grado di superare il tempo.
Isole senza mare è un libro davvero importante, uno di quelli che uno scrittore scrive una sola volta nella vita, lasciandosi dietro tutto un mondo di viscere e di risonanze: di pensieri, caratteri, sembianze. Forme accorate e veritiere, piene di struggimento, che ci chiamano dal loro fondo di buia e crepitante malinconia, per chiederci la complicità di una nuova occasione. Forse l’ultima. Le stesse alle quali la letteratura ha il potere di ridare forma, anima, spessore. E il cui fascino oscuro ci accompagnerà per giorni, infinitamente, anche dopo aver chiuso l’ultima pagina del romanzo.
Luigi La Rosa

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Antonella Cilento: Isole senza mare.
recensione e intervista di Simona Lo Iacono.

Tracce di isola sono in noi tutti.
Siamo isole quando ci cerchiamo senza trovarci. Quando percorriamo secoli con la nostra storia sulle spalle, il passato a precederci, il futuro dietro – sempre.
Siamo isole di occhi e di cuore quando tentiamo di finire e non riusciamo a dire basta, quando la storia che pure accompagna il viaggio trascolora solo per ferirci, quando un amore ci compra e ci vende. O quando, silenziosamente, non può che lasciarci.
Isole senza mare di Antonella Cilento. Due donne a cavallo di secoli. Due galoppi e due incroci di destini. Isole senza mare non è come dire solitudine, o non solo. E’ non avere neanche il mare a cingerti. Un attraversamento. Onde da solcare e sguardi da ricongiungere. Mani tese. Uno scampolo, almeno, di noi.
Così Nina, che fende gli anni dei fasci e della guerra, che perde il padre e si sposa tardi, quando i figli non sono che un vuoto preannunciato e la sorella Maddalena rimane a custodirne la vecchiaia. E’ già una donna in fuga, Nina, prima dalla Spagna e poi da se stessa, come Aquila un secolo addietro, approdata a Roma senza splendori e costretta a prostituirsi.
A unirle, il paesino di Azara sui Pirenei e secoli che avviluppano e tornano indietro, e poi avanti e poi indietro, che stanno lì a sussurrarti all’orecchio che persino il tempo, e il suo incedere a strappi, non è che un’illusione.
E forse è questo tempo che Nina cerca di dimenticare mentre tenta il suo salto nel vuoto, a ottant’anni, e la memoria non è che un bandolo o una lunga coda di drago che chiama i morti a raccolta, li interroga e li consola. Li afferra tra venti sospirosi che non adempiono mai del tutto un destino, una storia, una verità.
Il romanzo affiora da qui. Da questa coda che non impiglia che resti e rimedia agli assalti del buio inventando altre ombre, scolorando dalle vetrate di ballatoi e saloni ottocenteschi, o di bordelli odorosi di cipria e acqua di rose, in cui i soldi lasciati sul comodino non assolvono mai a un riscatto.
Corpi che si vendono e corpi che si perdono, famiglie con segreti e segreti senza famiglia, anche questo – e molto altro – è un’isola che rinuncia a vedersi lambita dall’acqua.
Antonella svia la morte, cataloga e assesta, rimedia a smangiature , all’incedere delle scadenze. Lo fa con lingua che scava e brilla, che si staglia netta e viva, attingendo a inflessioni, a cantilene, chiamando a convitto i fantasmi.
Un viaggio e – forse – un ritorno, un attraversamento che non si rassegna a perdersi. Che incede come solo la scrittura sa fare: restituendo un passato.

-Antonella, cos’è la scrittura? Memoria, malinconia, trasfigurazione?
Tutte queste cose insieme. E’ sopra e prima di ogni altra cosa invenzione, nel senso antico del termine, inventio, ovvero cercare per trovare o cercando, non si sa bene cosa, scoprire di aver trovato oggetti che non si era partiti per cercare. Scrivere è come setacciare una spiaggia con il colino da thé: può darsi che sia un’impresa da pazzi, anzi lo è senz’altro, però se la si compie e la si fa durare per il tempo necessario (tutta la vita, da quando siamo bambini a quando moriamo) è possibile che ci riservi qualche sorpresa. Come scrive Natalia Ginzburg, che in Isole senza mare è citata in un esergo, scriviamo con la fantasia quando siamo felici e di memoria quando siamo infelici. Questo romanzo ha entrambe le condizioni dentro e mi sono accorta nei dieci anni che è durata la lavorazione, dal ’98 al 2008, che le due fasi dentro di me si sono del tutto mescolate, perché così è la vita e così è anche la scrittura: molte parti del romanzo autobiografico di Nina sono inventate di sana pianta e molte aree del romanzo storico e d’invenzione di Aquila sono decisamente autobiografiche. Dunque, scrivere è trasfigurarsi in modi così complessi e inaspettati, ma scientemente cercati, che poi l’opera finita viaggia davvero oltre noi, molto lontano dalla nostra condizione “terrestre” che, come scrive la Ginzburg, ci condiziona mentre narriamo.

-E quella coda di drago? Perché serve a impigliare le ombre?
Una delle cose straordinarie che ci capita dopo aver scritto un libro è che altri libri o la realtà ci rispondano o ci confermino nelle “scoperte” che abbiamo fatto scrivendo: ieri su una bancarella a Port’Alba ho trovato un romanzo di Hector Bianciotti (Senza la misericordia di Cristo, Sellerio, Premio Goncourt negli anni Ottanta) dove si legge: “Non so bene a cosa obbedisco cercando di preservare scrivendo una vita i cui giorni non si illuminarono di alcuna gloria (…), tanto più che sono portato a credere che se una certa cosa in questo mondo è esemplare, tutte lo sono: o tutti i fasti della memoria sono meritati o non lo è nessuno. Non sappiamo perché agiamo; la vita si serve di noi per fare scambi che sono oltre la nostra comprensione.(…) Non esiste memoria allo stato puro; per raccontare la propria vita, bisognerebbe già cancellare tutte le versioni che noi stessi ce ne siamo fatti e che in un certo senso, costituiscono le nostre azioni. (…) Scrivere su una persona che abbiamo conosciuto significa accomiatarsene.” Ho amato molto di Bianciotti un romanzo edito da Feltrinelli che s’intitola “Quel che la notte racconta al giorno” (tanto che un prossimo stage che terrò a luglio porta questo titolo): scriviamo per impigliare le ombre, come tu dici, per trattenere e per congedarci anche, come scrive Bianciotti. Ho impiegato questi dieci anni, ma in realtà tanti di più, per congedarmi dalla mia infanzia e da Nina e Maddalena, cioè la mia prozia morta suicida e mia nonna (che invece fra un anno ne compie cento e non mi pare abbia intenzione di lasciare questo mondo, è una roccia di granito sardo). La coda di drago che ci segue l’ho praticata una volta durante un training corporeo: s’immagina di avere la coda e ci si muove tenendo presente di questa protesi lussureggiante dietro di noi. Si diventa lenti e vanitosi e attenti a non inciampare. I morti sono il nostro patrimonio di memoria e la spiegazione di quel che siamo oggi. Una volta scritti li esorcizziamo, diamo loro una nuova vita, li trasfiguriamo con la parole. Cercare le parole giuste per fissare fuori dal mio corpo le sensazioni impresse in una vita è stato lo sforzo più grande e assurdo di Isole senza mare.

-Le ombre poi. Fragili e ostinate. Quanta parte hanno nella donna che scrive? E nella donna che ama?
Questa storia della donna in quanto autore è davvero seccante (scherzo): sono proprio stanca di dover ogni volta partire dalla mia condizione biologica per motivare la scrittura, un po’ come quando mi tocca partire dalla mia identità napoletana. Vengono sempre prima loro, la donna e la città, e poi io che scrivo. Comincio a diventare invidiosa: come si permettono questa donna e questa città di stare sempre in mezzo quando poi tutta la fatica la faccio io? Scherzi a parte, la questione che sollevi è relativa ai due aggettivi che hai usato giustamente: Nina e Aquila sono fragili anche se non lo sembrano. Nina non lo sembra perché trascorre una vita a ridere e far ridere, mentre il suo intimo non coincide a questa giocosità esterna. Aquila si costruisce una corazza per sopravvivere al mondo esterno e conserva le sue grandi fragilità dentro, le trattiene, le protegge, preferisce sdoppiarsi in Secunda, la sua sorellina mai nata, in un fantasma dell’anima, per non dover rinunciare del tutto a se stessa. Però entrambe hanno un fondo di resistenza, un nucleo solido. Nina lo perde, ma Aquila lo ritrova. Qualsiasi cosa ci accada, anche la più terribile, c’è un fondo bancario di resistenza umana in noi che si fatica a distruggere. La realtà ci si può accanire quanto si vuole contro, ma noi, a costa di fuggire nella follia, come un po’ accade a queste due donne, ci aggrappiamo al nostro intimo.

-Donne che amano. Uomini che si negano. Il destino di Aquila è, in fondo, lo stesso di Nina. Sono isole senza mare per questo? Sono isole senza amore?
Il primo a farmi notare questo gioco di parole nascosto nel titolo è stato Generoso Picone, che con Francesco Durante, Giuseppe Montesano mi hanno restituito finora le letture più precise e belle di questo romanzo e cui sono molto grata per la comprensione. Poiché la frase è tratta, non so più da dove, ma dall’Ortese, non ci si può stupire che contenga questo senso. Nina e Aquila non sono fortunate in amore: Nina ha un uomo accanto, non quello che forse aveva desiderato, ma non è sola. Pure, deve sentirsi molto sola. Aquila gli uomini li frequenta per mestiere e s’innamora di quelli sbagliati, fra cui del fantastico Giovanni Pietro Campana, che è una sintesi del fascino ma anche della pochezza maschile italiana. Quando s’innamora dell’uomo “giusto”, lo perde. Fanno insomma quel che molte donne fanno nella loro vita: proiettano la realizzazione di sé, anche quando si tratta di donne intelligenti e impegnate, realizzate in altri ambiti, sulla figura dell’Amato. L’Amato Bene le tradisce, scompare, si rivela un lestofante: e loro continuano a stargli dietro. Anzi si distruggono per lui. Ma il mare che è scomparso intorno alle isole di questo libro, Aquila e Nina ma anche tutti gli altri personaggi: Maddalena, Giacomo, La Rana, Egizia, la narratrice stessa, ecc…, è il mare della comunicazione. Sono svaniti i ponti che legano le persone in un destino comune. E’ svanita la comunità. Questa è forse una delle ragioni per cui il romanzo si dipana proprio dal Risorgimento ad oggi: un paese nasce mentre è già morto. E noi oggi assistiamo a questo scempio, impotenti.

-Uno sguardo alla lingua e ai modelli letterari. Nel progetto originario le isole erano Elsa Morante e Anna Maria Ortese. Chi delle due è Nina e chi è Aquila?
Il progetto originario era uno spettacolo teatrale, breve, che è andato più volte in scena: lì c’era un’ipotesi di incontro mai avvenuta fra le due maggiori narratrici del nostro Novecento (e fra le maggiori d’Europa), entrambe autrici di romanzi in controtendenza rispetto alle mode del secolo. Poi, di queste due autrici così amate, in Isole senza mare non c’è più traccia narrativa, al limite ispirativi. Però se volessimo giocare a questo gioco che proponi, Aquila è Elsa, più battagliera e calata nel reale, e Nina è Anna Maria, persa dentro di sé, sola.

- La poesia di Angel Crespo che apre il romanzo : “ Misi le mani nell’acqua per assomigliare alle isole. Passava il mare tra le dita come aria tra le crepe. E s’inseguivano da sotto le mie parole le sirene. Quando volli tornare a terra, già non c’era più riva”. Antonella, un’isola senza mare è una terra ( o un destino) senza approdo?
Questo è un romanzo picaresco sull’esilio: l’esilio dalla Spagna cui è destinata Aquila, l’esilio dalla Sardegna che deriva da un esilio dalla Spagna cui sono destinate le sorelle Azara, Nina e Maddalena. L’esilio dell’anima di due donne minori per la storia e senza importanza nella quotidianità ma pure vive e bisognose di essere riconosciute e viste. Tutte corrono verso il loro esilio, che è anche già raggiunto. E’ dentro di loro. Il bello della vita è diventare ciò che già siamo, realizzare il nostro destino: Nina se ne spaventa, Aquila sfrontatamente va avanti. Chi di noi non è così un giorno e nell’altro modo in un altro? Una volta raggiunta l’isola che siamo noi vorremmo tanto fuggire al nostro destino, pure non ci è possibile. Trasformare, trasfigurare è l’arma, fuggire è la morte.

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FUORI GIOCO di Salvatore Scalia http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/11/fuori-gioco/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/11/fuori-gioco/#comments Sun, 10 May 2009 22:02:47 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/11/fuori-gioco-di-salvatore-scalia/ Il calcio come metafora della vita. Questa frase sintetizza una delle possibili letture del nuovo ottimo romanzo di Salvatore Scalia (nella foto): “Fuori gioco” (Marsilio, 2009, pag. 128, euro 12).
Così come nel precedente libro, “La punizione” (anche questo edito da Marsilio), le vicende narrate traggono spunto da una storia realmente accaduta. Se il primo romanzo vede come protagonisti quattro ragazzini vittime della mafia, in questa nuova opera Scalia fornisce dignità letteraria al mito indiscusso dei nostri tempi: il calciatore. Nell’immaginario collettivo il calciatore – oggi, ancor più di ieri – incarna il successo, la fama, il denaro, il fascino. Eppure il mondo del pallone non è tutto rose e fiori. Ne sanno qualcosa celebrità calcistiche di fama mondiale (tra cui Gigi Buffon, portiere d’acciaio della Nazionale) che hanno dovuto fare i conti con il continuo logorio dello stress da performance – e dell’estraniamento da successo – capace di sfociare nella depressione.
In questo romanzo Scalia offre una versione rovesciata del mito; perché, laddove l’agognato successo viene solo sfiorato, esso si trasforma in repentina sconfitta. O fallimento. E per ogni traguardo raggiunto da un individuo, in migliaia cadono durante il percorso.
Il protagonista della storia è Paolo Malerba, giovane calciatore della provincia di Catania che porta già nel cognome il segnale presago di un tragico destino. Paolo va a Milano, il provino con l’Inter sembra dare esiti positivi. Il sogno pare a un passo dal diventare realtà. Ma si sfalda di fronte a una radiografia. I medici della società calcistica attestano un piccolo problema ai polmoni. Nulla di grave, per una persona normale. Un insuperabile impedimento, per un calciatore professionista.
Paolo viene scartato. Il suo sogno si infrange e gli implode dentro con effetti devastanti, allargando squarci dell’anima già aperti da un’adolescenza difficile, dal problematico rapporto col padre, da paure mai domate. In tal senso Malerba è due volte perdente: perché prima patisce la sconfitta (per via di un disturbo fisico inatteso) e poi il fallimento (per via di equilibri interiori già fortemente precari). Non gli rimare che attorcigliarsi dentro se stesso, ancora di più; consumandosi tra amori irrisolti e una depressione serpeggiante che ne segnerà la fine.
Con un lirismo efficace e dolente Salvatore Scalia, tratteggiando i risvolti farseschi e paradossali della vita di provincia del profondo Sud, rovescia il mito moderno dell’uomo di successo miscelandolo con quello classico che narra la fine di Empedocle tra le fauci infuocate dell’Etna. Ne viene fuori un ritratto duro, impietoso, dolente. Credibile. E se è vero – come è vero – che per la popolazione etnea il vulcano è femmina (a’ muntagna), l’idea del lasciarsi precipitare nel cratere non riflette altro che il ferale desiderio (inconscio e insopprimibile) di tornare nel ventre materno: mettersi fuori gioco, scomparendo nelle origini della propria esistenza.

Mi chiedo, e vi chiedo…

I calciatori sono davvero i nuovi eroi dei tempi moderni?

Il gioco è metafora della vita o non è piuttosto la vita metafora del gioco?

Fare squadra ha ancora senso?

La felicità – in famiglia, nella società, nel lavoro – passa dal fare squadra?

E qual è il rapporto tra successo e felicità?

Di seguito, gli approfondimenti di Simona Lo Iacono e Salvo Zappulla (che mi daranno una mano a moderare la discussione)

Massimo Maugeri

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“Fuori gioco”. Un libro di Salvatore Scalia.
di Simona Lo Iacono (nella foto)

E’ notte. La ferita del cavòlo è uno spartiacque. Un’apertura che s’infigge tra la macchia. Che separa il regno dei vivi da quello dei morti.
Dalla sua bocca spalancata affiorano vecchie risate di magare, raspi di animali e fantasmi stanchi di girovagare. Destini che si accingono a compiersi – come quello di Paolo Malerba – tra le ombre.
E per questo non si stupirebbe, Paolo Malerba, di vedersi già lì, tra le foglie che profumano di tane nascoste, come un predestinato, o come un viandante di questo regno a metà tra luce e buio. Un Caronte, forse, che si trascina da una riva all’altra.
Non si stupirebbe neanche di riflettersi nelle rarefazioni serali, di cogliere nel globo della luna una vaga somiglianza con la propria vita, con la palla che lui spintona tra le erbe, sui campi di calcetto, dribblando tra compagni sudati, tesi a raggiungere la rete come in punto di morte.
Non si stupirebbe.
Perché fin da bambino ha allertato i sensi. Ha forse intravisto nella la sciara del vulcano, un segno. Un tizzo di carbone in mezzo a granitiche masse vulcaniche.
Ecco cos’è la sua vita.
Una fragilità spersa sotto un sole che impazza, che galoppa su giochi striscianti, furbeschi, messi su da picciotti di malaffare, politici gaudenti, donne affatate dal potere.
E lui che – stretto nella sua maglia della Libertas - vuole solo fare goal.
Ma che lo voglia davvero Paolo Malerba? Spintonare quel pallone che – se si perde – solo l’allampanato Gino dei palloni perduti riesce a trovare, e che – se si porta in rete – ti si rivolta contro, non regge paragoni coi sogni? Che la voglia davvero questa illusione, questo scampolo di felicità che si frantuma in nebbia, in giorni uguali, in vacilli di memoria al bar, o tra i pacchi costosi di una donna che non ti ama?
Forse dal cavòlo la risposta già mugghia come un vento. Forse – loro, le magare – già sanno. Di padri che non perdonano ai figli di non corrispondere ai propri desideri. Di madri che – invece – perdonano tutto. Di figli che si affannano ad esaudire, a offrire una stella baluginante e cadente, che rivola tracce scomposte del proprio sangue solo per sentirsi dire “bravo”.
E invece l’amore perduto non si raccatta come i palloni che Gino riesce sempre a scovare. Ma è anzi quella partita persa fin dal principio che Paolo Malerba, infondo, non vuole giocare, che t’imprime addosso quel segno che il cavòlo blatera in tutte le sue notti. Che ti mette fuori gioco anche prima di cominciare la gara.
“Fuori gioco” di Salvatore Scalia (Marsilio, pagg. 125, € 12,00), si addentra nell’unicità di un destino raccontando tutti i destini, e di una terra oltraggiata e svilita raccontando le terre di tutto il mondo.
Lo fa con lingua prepotente, sensuale, segreta, con l’arrembaggio di gusti e personaggi che popolano quest’isola abbandonata dagli dèi e in cui tutti i vizi degli stessi dèi sembrano incarnarsi.
Da sicula abituata agli sguardi, non mi stupisce il teatrame che assiepa Paolo Malerba, calciatore degli anni “70 e nel cui cognome colgo già un’assonanza dolorosa, un anticipo di destino.
Mi stupisce però la vita che trasuda pur nello scenario di morte, la sensualità incatenante di paesaggi e umori, l’intuizione di Salvatore Scalia che nel rogo dei sogni ha saputo raccontare l’origine dei sogni, proprio perché ogni illusione nasce da una mancanza.

-Turi, perché, come scrivi tu, i “sogni buttano sangue”?
Buttano sangue i sogni a lungo coltivati che nel momento della disillusione si rivoltano contro chi li ha carezzati e cullati, mutandoli in angeli dannati.

- Essere fuori gioco vuol dire essere fuori dalla vita, o non è piuttosto l’unico modo per viverla? La follia, infondo, non è che questo: non accettare le regole del gioco.
Vivere al di fuori, non accettare le regole del gioco, essere veramente anticonformisti, tutto ciò attrae romanticamente, richiama il mito del titano, ma è di difficile attuazione, perché significa lottare contro la corrente, subire l’emarginazione. E’ più facile vivere con distacco, non lasciarsi coinvolgere, ma nell’attimo in cui si aspira a qualcosa, si è esposti a tutte le tempeste dell’esistenza.

 - Il gioco è una splendida metafora. Vincere. Perdere. Essere ammoniti. Ricominciare. E forse il calcio coi suoi clamori è lo sport che meglio si adatta alla Sicilia, a tanto lustro di baraccame in fiera, a tanto vociare su pianti di morte, non credi?
Il calcio per me è metafora della vita non solo siciliana. Il campo è il rifugio geometrico in cui ogni animo inquieto trova le linee del suo pensiero, e il cerchio del centrocampo è lo zero da cui si origina il tutto. In questa prospettiva metafisica l’arbitro diventa sì il giudice supremo ma anche la divinità che dà inizio al gioco e poi non si cura di niente. La Sicilia entra fortemente nella caratterizzazione dei personaggi, vulcanici, magmatici, dalla sensualità esplosiva ma fragili.

- E poi. La squadra. Ma fare squadra sembra quasi un’ironia quando l’individualismo più esasperato – in realtà – ti reclude in un ruolo e ti costringe a recitarlo. Pensi che un siciliano possa mai, veramente, “fare squadra”?
Ogni siciliano, come diceva Karl Kraus degli inglesi, è un’isola. Ognuno recita a soggetto. Il fascino e la maledizione dei siciliani sono dovuti alla loro inguaribile anarchia.

- Parlaci del cavòlo. Di questo dirupo in cui vivono strìe, animulare, fantasmi. Di questa fenditura che risuona di tutti i lamenti. Sembra un’anima. E’ l’anima di Paolo? E’ la tua anima?
Il cavòlo è il luogo degli spiriti sotterranei, del mistero e della magia. E’ il riflesso dell’anima oscura di Paolo e, in questo caso, anche della mia.

- L’ultimo atto. Il filosofo Empedocle che si lancia nelle fauci dell’Etna. La leggenda che si traduce in una fine umana. Il mito non è forse che questo. Una prefigurazione del nostro destino. Sei d’accordo?
Dici bene, il mito è una prefigurazione e trasfigurazione del nostro destino. La natura, offesa e violentata, alla fine vincerà su tutto. L’uomo può essere di passaggio sulla terra, ma l’energia dell’universo, di cui il fuoco dell’Etna è emanazione, resterà eterna.

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FUORI GIOCO di Salvatore Scalia
di Salvo Zappulla (nella foto)

Il primo aggettivo che mi viene in mente, finito di leggere questo nuovo romanzo di Turi Scalia, è: impietoso. Forse persino brutale. O semplicemente: umano. Perché la vita stessa sa essere impietosa e brutale con i più deboli. (Fuori gioco, di Salvatore Scalia, Marsilio Editori, pagg. 125, € 12,00). Ho rivissuto le stesse sensazioni che mi ha trasmesso quell’immenso capolavoro di Dino Buzzati, “Il deserto dei tartari”. L’attesa perenne dell’evento che dovrà servire a riscattare un’intera esistenza, a darne un senso. Lo sgocciolio lento dei minuti che si consumano, così come la fiammella della vita, fino a spegnersi senza aver rischiarato nulla. Sentiva il battito del tempo scandire avidamente la vita. L’attesa. L’infinita attesa che dovrà dare una svolta alla nostra vita, quell’evento che invano aneliamo e invece ci sfugge inesorabilmente come sabbia stretta dentro il pugno. Scalia ha la capacità di assemblare in maniera superba fiuto giornalistico e vena narrativa e i risultati sono sempre romanzi di profondo spessore introspettivo, che scavano dentro le miniere di un microcosmo provinciale estraendone pepite. Come nel primo romanzo pesca nel torbido della sua provincia: mafia, corruttela, personaggi melliflui. Gioca a intrecciare sentimenti di ricche signore annoiate e aspirazioni di ragazzi bramosi di prendere a morsi il futuro, anche con mezzi poco leciti. La parlata catanese, certi modi di dire persino gloriosi, vanto ed espressione linguistica di una sicilianità che si trincera a protezione del tempo che avanza, infarciscono il testo di ingredienti saporiti e stuzzicanti. U pacchiu, per un ragazzo delle zone popolari, non evoca sentimenti di tenero amore, ma è un trofeo da conquistare, di cui fare pettegolezzo sottovoce negli spogliatoi di un campo di calcio, tra una gomitata e uno sfottò. E se una volta tanto non è quello prezzolato della bagascia di turno ma appartiene alla moglie del presidente, diventa scalata sociale, pacchio d’autore in cui inebriarsi e perderci il senno. E Paolo, il protagonista del romanzo, persona realmente vissuta, il senno lo perde veramente, affranto dal gravoso peso dei suoi fallimenti. Il campo da gioco assurge a metafora della vita. L’arbitro fischia l’inizio e si dà il via alla competizione, si tenta di superare gli avversari, con una finta o uno scatto fulmineo. Paolo ci prova, ha talento da vendere ma il destino beffardo ha deciso di giocargli un brutto tiro. Arriva il momento delle disillusioni, le amarezze si accumulano e alla fine decide di rinunciare, va in fuori gioco, si estranea, si tira fuori dalla mischia. E il finale è drammatico. Sulla copertina la foto di Petruzzu Anastasi, indimenticabile gloria calcistica degli anni settanta, dolce chimera per gli assetati. Ma per un ragazzo che alza la testa, altri cento dovranno piegarla e magari elemosinare un posto di elettricista all’onorevole di turno, in cambio di servilismo e sottomissione. Scalia non esita a denunciare, a indignarsi, ad alzare forte la voce contro questa società malata i cui modelli da imitare sono diventati letterine e veline. E le isole dei famosi, i quiz e le ruote della fortuna. Tutto ciò che abbaglia e ammalia. Luci fosforescenti e nastrini colorati.
Salvatore Scalia, etneo di Mascalucia, vive di giornalismo e dirige le pagine culturali del quotidiano “La Sicilia” di Catania. Ha scritto per il teatro e i suoi lavori sono andati in scena alla rassegna internazionale Taormina arte e allo Stabile di Catania. Ha pubblicato Teatro, Trilogia del malessere e Appunti e per Marsilio nel 2006, La punizione, due edizioni.

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FIABE, FAVOLE E LO SCIOPERO DEI PESCI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/21/fiabe-favole-e-lo-sciopero-dei-pesci/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/21/fiabe-favole-e-lo-sciopero-dei-pesci/#comments Sat, 21 Mar 2009 01:02:38 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/21/fiabe-favole-e-lo-sciopero-dei-pesci/ fiabe-e-favole.JPGQuando si parla di fiabe e favole è abbastanza diffusa la convinzione che esse siano rivolte in via esclusiva ai bambini e che, dunque, rientrino nel genere della letteratura dell’infanzia. Questa convinzione, naturalmente, ha un suo fondamento giacché fiabe e favole sono principalmente rivolte a un pubblico di giovanissimi, di bambini appunto. Del resto, proprio nei confronti dei più piccoli, la fiaba (così come la favola) svolge una importante funzione di intrattenimento e talvolta (più nella favola che nella fiaba) anche di formazione, laddove troviamo – come spesso accade – una morale. Tuttavia pensare che fiabe e favole siano un prodotto letterario rivolto esclusivamente all’infanzia è un errore. Così come sarebbe un errore pensare che fiabe e favole siano la stessa cosa. Nella lingua italiana le favole vengono distinte dalle fiabe (anche se entrambi i termini derivano dalla radice latina “fabula” – “racconto” – e i due generi hanno molti punti di contatto): la fiaba è caratterizzata dalla presenza di personaggi e ambienti fantastici; mentre la favola – di norma – è popolata da animali i cui vizi e virtù rappresentano quelli degli uomini.
Come ho già evidenziato, considerare fiabe e favole come prodotti letterari rivolti esclusivamente all’infanzia non è del tutto condivisibile. Di recente mi è capitato di ri-leggere testi di saggistica letteraria che, in un modo o nell’altro, confermano questa mia tesi. Mi viene in mente, per esempio, il saggio di Umberto Eco (costituito da una raccolta di interventi) intitolato “Sulla letteratura”. Nel primo capitolo (ovvero il testo di un intervento nel festival della letteratura di Mantova del 2000) Eco parla della letteratura e della trasmigrazione dei personaggi letterari. In questo contesto (accanto a titoli celeberrimi) Eco, a un certo punto, cita come esempio la nota fiaba “Cappuccetto rosso” analizzando in particolare le differenze tra la versione di Perrault e quella dei fratelli Grimm e il diverso destino del personaggio della fiaba.
E, naturalmente, non si può non citare il grande Italo Calvino che nel 1954 iniziò a svolgere, per la casa editrice Einaudi, un lavoro simile a quello intrapreso nel secolo precedente, in Germania, dai fratelli Grimm. Calvino scelse e trascrisse, in una raccolta intitolata appunto “Fiabe italiane”, ben 200 racconti popolari delle varie regioni italiane dalle raccolte folkloristiche ottocentesche. Peraltro, l’amore di Calvino per le fiabe è ravvisabile anche nel saggio “Lezioni americane – sei proposte per il prossimo millennio”. Troviamo riferimenti alle fiabe nelle prime due lezioni: quelle relative, rispettivamente alla “Leggerezza” (dove vengono citati i lavori dell’antropologo russo Propp e la nota raccolta di fiabe araba “Le mille e una notte”) e alla “Rapidità” (in riferimento a una delle caratteristiche della fiaba, ovvero alla rapidità intesa come essenzialità); in Sicilia chi racconta le fiabe usa una formula: “lu cuntu nun metti tempu”, “il racconto non mette tempo” quando vuole saltare dei passaggi o indicare un intervallo di mesi o anni; oppure “Cuntu ‘un porta tempu”, o ancora “’Ntra li cunti nun cc’è tempu”. (Pare che queste siano espressioni di Agatuzza Messia l’anziana donna analfabeta che dettò le fiabe popolari al palermitano Giuseppe Pitré, che le trascrisse). E comunque nella lezione dedicata alla “Rapidità” Calvino ribadisce che ad attrarlo verso la fiaba è stato un “interesse stilistico e strutturale per l’economia, il ritmo, la logica essenziale con cui sono raccontate.”
Naturalmente esistono altre motivazione che hanno spinto intellettuali e studiosi a considerare l’importanza di fiaba e favola. Intanto perché, proprio in riferimento alla sua oralità (“fabula” deriva dal verbo “fari = parlare”), si è ritenuto necessario (da parte dei cosiddetti trascrittori di fiabe) recuperare una tradizione che correva il rischio di andare perduta. Per esempio, i fratelli Grimm partono dall’idea che ogni popolo ha una sua anima che si esprime con la massima purezza nella lingua e nella poesia, nelle canzoni e nei racconti. Essi però sostengono che, con il trascorrere del tempo, i popoli hanno perduto in parte la propria lingua e la propria poesia, soprattutto nei ceti più elevati e può, quindi, essere ritrovata solamente negli strati sociali inferiori. In questa ottica, le fiabe sono i resti dell’antica cultura unitaria del popolo e costituiscono una fonte preziosa per la ricostruzione di quella cultura più antica.
Poi si sono avvicendate diverse teorie sulle fiabe. Secondo l’antropologo russo Vladimir Propp, per esempio, le fiabe popolari, soprattutto quelle di magia, sono il ricordo di una antica cerimonia chiamata “rito d’iniziazione” che veniva celebrata presso le comunità primitive. Durante questo rito veniva festeggiato in modo solenne il passaggio dei ragazzi dall’infanzia all’età adulta. Essi venivano sottoposti a numerose prove con le quali dovevano dimostrare di saper affrontare da soli le avversità dell’ambiente e di essere pertanto maturi per iniziare a far parte della comunità degli adulti.
Questa premessa è finalizzata a evidenziare l’importanza della fiaba e della favola e la loro valenza letteraria. Quando parliamo di fiabe e favole, dunque, parliamo di letteratura. E non di letteratura secondaria.

Ciò premesso, ne approfitto per presentare una favola appena arrivata in libreria per i tipi di Il pozzo di Giacobbe. Il titolo è “Lo sciopero dei pesci”. L’autore del testo è Salvo Zappulla. Le illustrazioni sono di Carla Manea.
Di seguito leggerete le recensioni di Roberta Murgia (che mi aiuterà ad animare e a coordinare il dibattito) e di Simona Lo Iacono. Infine, in fondo al post, troverete un bel pezzo di Pietro Citati (uscito giorni fa su Repubblica) dedicato ad Alice nel paese delle meraviglie e a Peter Pan (e poi un video “in tema”).

Come sempre, oltre a invitarvi a discutere sul libro presentato, propongo una discussione “generale” partendo da alcune domande:
- che rapporti avete con fiabe e favole?
- quali sono quelle che preferite? E perché?
- quali sono, a vostro avviso, le favole e le fiabe con il più alto valore formativo?

A voi…

Massimo Maugeri

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LO SCIOPERO DEI PESCI – Salvo Zappulla, Carla Manea – Il Pozzo di Giacobbe – pagg. 32 – € 11,90

recensione di Roberta Murgia

Questo pregiato volumetto dalla veste grafica elegantissima, con la copertina cartonata, edito da “Il pozzo di Giacobbe”, ha nei colori dominanti tutte le tonalità dell’azzurro, del blu e del verde. Le stesse tonalità di azzurro e di blu del mare in cui amiamo tuffarci. Ed è l’amore per questo mare limpido che ha spinto Salvo Zappulla a parlare ai piccini della salvaguardia dell’ambiente in cui viviamo, attraverso un racconto in cui i protagonisti sono il mare e i suoi abitanti. Non a caso essi “parlano” e possono finalmente esprimere il proprio disappunto: ecco… è il fascino surreale di questa favola che incanta i bambini, anche e soprattutto per i discorsi tenuti dai suoi stravaganti protagonisti.
L’espressione visiva e l’espressione verbale di ciascun personaggio della fiaba sono in perfetta armonia. La prima apparizione, infatti, è quella di un essere umano: una madre, la quale con indifferenza e con lo sguardo di chi poco si preoccupa delle conseguenze delle proprie parole, suggerisce al suo piccolino di allontanarsi da lei e dalla spiaggia ed immergersi nel mare, se vuol fare pipì. Il mare, sullo sfondo e in lontananza, con uno svolazzante ciuffo azzurro spinto dal vento, già manifesta la sua disapprovazione. Fatto sta che all’udire quelle parole si “risente” e decide che ogni mancanza di rispetto nei suoi confronti è diventata “insopportabile”. In questa prima parte della favola l’autore spinge sapientemente i giovani lettori ad immedesimarsi con i pensieri e i sentimenti del mare e quindi a “parteggiare” per lui, “se non altro per ragioni d’età”. Dal risentimento il mare passa immediatamente ad un’azione: travolge con una piccola onda “la signora in costume da bagno, sdraiata pigramente al sole”. E a questo punto del racconto la complicità tra il mare e i piccoli lettori della favola diventa totale: il mare SEMBRA aver “spruzzato” un po’ d’acqua sulla signora “in modo del tutto involontario, ci mancherebbe”; in realtà è scattato un meccanismo di ribellione che di involontario non ha nulla, e chi legge lo sa. I disegni accompagnano anche qui il sottile umorismo del linguaggio: i pesci, “stravolti” anche loro dall’innocente ondina, si ritrovano capovolti e attoniti all’interno di una nuvoletta che traduce in immagine tutto lo sdegno verbalmente inespresso della signora investita dall’ondina.
In seguito, e prima della rivolta vera e propria, il mare riprende il suo monologo interiore: pensa al suo passato, alla sua importanza nella vita degli esseri umani nel corso dei secoli, al suo eterno ruolo di “ispiratore dei poeti”, di “protagonista di avventure” e di “spettatore immortale della storia degli uomini”. Com’è possibile che sia trattato in modo così irrispettoso? La rivolta è dunque l’immediata, inevitabile conseguenza dello sdegno marino… Il mare convoca un’ “assemblea” radunando tutti i pesci: si entra in “sciopero a tempo indeterminato”. Anche in queste pagine i dialoghi sono mirabilmente in sintonia con i disegni: i pesci mostrano sgranati occhioni bianchi e il mare una bocca spalancata ad esprimere il suo risentimento.
Dietro la proposta del pesce-martello, lo sciopero viene tramutato in vacanza: così il mare e i suoi abitanti partono per la montagna. L’inverosimiglianza della proposta non turba i protagonisti, né i giovani lettori che, avvolti dal linguaggio familiare e dall’umorismo del racconto unito a quello dei dialoghi, anche in questa seconda parte della favola, accompagnano il mare nella sua strepitosa avventura.
L’incontro tra i due ambienti, mare e montagna, tranne lo spavento iniziale delle lepri, è oltremodo cordiale: l’umanizzazione degli incontri si manifesta, come sempre, attraverso l’uso del linguaggio: “Come sta la vecchia carpa?” –“Bene, bene”- “E la famiglia Scorfano?” – “Ottimamente”. Insomma la vacanza ristabilisce contatti dimenticati da millenni e la fratellanza tra popoli diversi è ribadita.
Nella terza parte il mare e i pesci trascorrono felicemente la loro vacanza in montagna, fino al giorno in cui tutti i pesci, essendosi a lungo riposati e svagati, cominciano a stancarsi di star là. Nel frattempo il mare ha mandato una delegazione sindacale a trattare col governo circa il riconoscimento dei propri diritti e quelli dei suoi abitanti. L’animale inviato in delegazione, la piovra, al suo rientro, riferisce gli innumerevoli disguidi causati agli umani dall’assenza del mare: nessuno riesce a vivere senza il mare. Il governo ha deciso di tutelare l’ambiente marino, perché “l’ecologia viene prima delle industrie”. Una gran festa apre la quarta ed ultima parte del racconto: la fauna marina si unisce a quella terrestre in una grande “danza per la fratellanza” che coinvolge anche le stelle, fino a “farle brillare di commozione”.
Questa favola di Salvo Zappulla è davvero una favola che fa sognare, una favola che spiega ai piccini quanto è importante rispettare l’ambiente, amarlo, capirlo e osservarlo sotto una prospettiva diversa: per la prima volta essi scoprono che il mare e la montagna sono abitati da “esseri pensanti”, con sentimenti, paure, timori, gioie, preoccupazioni e ansie. L’umanizzazione della fauna marina è finalizzata all’immedesimazione dei piccoli lettori, i quali vengono letteralmente catturati dalla simpatia del mare, dei suoi colorati e buffi abitanti, del suo linguaggio ironico e talvolta beffardo. E i piccoli lettori si immedesimano perfettamente, si divertono; e divertendosi, imparano. Salvo Zappulla e Carla Manea (mirabile interprete del pensiero dell’autore) ci suggeriscono di proporre ai nostri giovani figli, ai nipoti, agli allievi un nuovo orizzonte di pensiero: quello dell’amore ANCHE per tutto ciò che vive e che non è esclusivamente umano: è un’incredibile, affascinante sfida.
Questo autore, la cui fervida inventiva “burlesca” nasconde una vena di malinconia lascia intendere che il futuro del pianeta non è più esclusivamente nelle mani degli adulti, ormai; il futuro del nostro pianeta, il “futuro migliore di cui tutti sognano” alla fine della fiaba, è nelle mani di coloro che potranno salvarlo solamente prendendo coscienza del suo stato di perenne sofferenza. Che la salvezza del pianeta sia strettamente legata a princìpi quali la comprensione reciproca, l’ascolto, il rispetto, la buona educazione, la solidarietà, la cordialità tra simili e tra dissimili; e infine la fratellanza è un concetto che attraversa l’intero racconto in modo implicito e leggero, come un sottile filo azzurro.

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recensione di Simona Lo Iacono

Tutti i bambini crescono, eccetto uno…leggevo ad alta voce a mio figlio quella sera in cui mi chiese di Peter Pan.
Ma forse avrei dovuto dire: tutti i bambini crescono, tranne gli scrittori. Tranne chi – con la penna -allunga uno sguardo oltre, dove lo smacco della quotidianità si stempera in gioco, dove le regole dell’ordinario rispondono a una sovversione segreta: l’avventura, il magico che s’intesse negli oggetti, nelle forme, negli animali. Il mondo che parla con le voci che gli uomini non possono udire e che – forse – catturano e riproducono quelle degli angeli.
Ecco. Nello “Sciopero dei pesci” di Salvo Zappulla (corredato dalle immaginifiche visioni di Carla Manea, ed. Il pozzo di Giacobbe, € 11,90), lo scrittore è quel bambino che conserva la logica del contrario e che la fa assurgere – anche – a grido di giustizia, perché niente come l’infanzia è giusto, niente come l’innocenza sovverte l’ordine del mondo.
E allora non stupirà che i pesci si diano convitto misterioso nel cuore del mare, che il mare stesso li inciti alla rivolta, che l’odioso reflusso di rifiuti e scarichi li convinca, infine, a uno sciopero ad oltranza…in zona di montagna. Le acque salate che scalano vette, i pesci che si bardano da alpinisti, i salmoni che fendono i fiumi facendo da apripista.
Il mondo capovolto o, forse, il mondo come dovrebbe essere se davvero potesse scioperare, prendere tempo, spezzare la marcia della velocità e concedersi una tregua.
Il mondo bambino o come lo vedrebbe un bambino. Colorato, acquoso.
Vivo.

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da REPUBBLICA del 6 marzo 2009

Peter Pan il bambino magico figlio di Alice

di Pietro Citati

IL NOSTRO universo, dove regnano il Peso ed il Numero, dove il tempo è rettilineo e gli oggetti impenetrabili, dove i libri si leggono da sinistra a destra e dal principio alla fine, affida il compito di conoscere l’ “altro” universo al più amabile dei suoi messaggeri, nei due capolavori di Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio. I grandi, limpidi occhi infantili di Alice rispecchiano fedelmente ogni minima notizia nel lago serio e incuriosito delle pupille. Ma, sebbene Carroll la credesse una “creatura di sogno”, Alice appartiene saldamente e interamente al mondo che noi abitiamo. Nessuna creatura è più terrestre di lei, e possiede come lei lo “spirito della realtà”: ragionevolezza, buon senso, buona educazione, cortesia, diplomazia innata, capacità di giudizio, istinto pratico, tutte le qualità che ci aiutano a vivere sulla terra si combinano nella figura di questa deliziosa bambina vittoriana. Lewis Carroll comprese che la lingua non combacia con la realtà. La lingua è arbitraria, come diceva de Saussure. Da un lato, sta la “cosa” – questo pezzo di pane, q u e s t a p i e t r a , questo paesaggio sul quale si posano indolentemente i miei occhi , che, a rigore, non può essere nominata: dall’ altra, il “nome”; e fra loro si apre un abisso incolmabile. Se egli avesse spiato attentamente nella dissonanza tra l’ oggetto e la parola, se avesse scrutato nella fessura apertasi nel blocco compatto della realtà, forse sarebbe riuscito a descrivere l’ “altro mondo”. Giacché la lingua è arbitraria, egli poteva desumere dai suoni che ne formano la superficie un universo del tutto differente dal nostro. Bastava rispettare la lingua, come noi non facciamo: intendere alla lettera i suoi suggerimenti; ricordare che i nomi non sono consequentia rerum, ma, al contrario, le cose sono le conseguenze dei loro nomi. Così, per esempio, se in inglese i rami si pronunciano bau essi abbaieranno “dietro lo specchio”: i fiori sonnecchieranno pigramente perché “aiuola” vale, in inglese, “letto di fiori”; e se la farfalla si chiama butterfly, essa aprirà delle sottili ali di pane e di burro. In questo modo, egli poteva scivolare dolcemente “di là” senza violare leggi di nessuna specie, senza sconvolgere la convenzione della sintassi, senza nemmeno crearsi una lingua personale, c o m e s u g g e r i v a H u m p t y Dumpty, questo grottesco precursore di ogni avanguardia. Egli non era disceso sulla terra per infrangere delle leggi, ma per aggiungere nuove regole, tanto convenzionali quanto assurde, a quelle che già conosciamo. Soccorso dalla logica della lingua, Carroll cominciò dunque a descrivere il mondo che costeggia il nostro. Senza affidarsi mai alle pericolose invenzioni della fantasia pura, partiva da un dato della lingua e della tradizione; e poi, via via, tesseva intorno a questi dati variazioni sempre più vaste, combinazioni sempre più ricche, rivelando una immaginazione rigogliosissima, seconda soltanto, nel suo tempo, a quella di Dickens. Mentre scriveva, dimenticava se stesso. Sacrificava i suoi sogni, le sue nostalgie amorose, la sua dolorosae traboccante morbidezza. La mano impeccabile segnava sulla carta linee esatte, parole senz’ ombra, ambiguità in piena luce, mosse di scacchi:i prodigi continuamente rinnovati di una mente malinconica abitata dalle bizzarre chiarezze della matematica. Come i filosofi di ogni tempo, speculava arditamente intorno ai grandi problemi della metafisica e della conoscenza. Quanto più il pensiero toccava la vertigine della complicazione, tanto più egli amava nasconderlo dietro piccole farse, giochi, guizzi allusivi infinitamente delicati. Il massimo della concentrazione nel contenuto si alleava col massimo di futilità nella forma: la ricchezza filosofica con l’ amore per gli indovinelli, la gravità con la leggerezza. Come i Vangeli e le parabole buddiste, Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio sono insieme dei libri esoterici e dei libri popolari. Ogni bambino continua a leggerli, abbandonandosi perdutamente alle vicende di Alice e del Coniglio Bianco; e ognuno di noi deve riprenderli, sfogliarli, consultarli, tornare a rileggerli, se vuole orientarsi negli spazi troppo vasti tra la terra ed il cielo. “Di là”, Alice incontra delle leggi, interamente diverse dalle nostre. Non esiste il Peso: né il Numero, e la tavola pitagorica impazzisce. L’ “io”, del quale noi siamo tanto fieri, si perde, insieme a quel supremo simbolo della identità che è la memoria. Tutto viene rovesciato. Per raggiungere un luogo, dobbiamo voltargli le spalle: per restare fermi, dobbiamo correre: per arrivare in un punto, dobbiamo averlo già superato; e il tempo corre all’ indietro, – prima il futuro, quindi il presente, infine il passato. Quando Alice recita una poesia, le parole si trasformano sulla sua bocca: sapeva a memoria dei versi edificanti; ed ecco che il suo inconscio, governato tirannicamente dalle leggi “di là”, le impone di pronunciare parodie, nonsensi, parole stravolte. Così non ci meravigliamo se finisca per tramontare lo stesso principio di contraddizione, sul quale è fondata l’ esistenza terrestre: se il sì e il no, il negativo e il positivo, il più e il meno, l’ “importante” e il “non-importante” significhino la medesima cosa. Ora il tempo corre all’ indietro, ora avanti: ora l’ anarchica lingua individuale di Humpty Dumpty abolisce ogni convenzione linguistica, ora tutti parlano con le parole dell’ uso quotidiano. L’ unica, grande legge, che regge senza eccezione sia Alice sia Attraverso lo specchio è quella della Metamorfosi, che trasforma le persone e le cose, dissolvendole nella fantastica pantomima della possibilità. Nel primo libro, Alice cresce mostruosamente e snoda il collo come un serpente tra le cime degli alberi: poi rimpicciolisce fino alle dimensioni di un topo, rischiando di annegare nel lago delle proprie lacrime. Nel secondo libro, la Metamorfosi diventa il principio stesso della narrazione. Non sappiamo chi muova gli scacchi sopra l’ immensa scacchiera, distinta, come la terra, da siepi, ruscelli, prati, stagni, boschi e campagne. Ogni volta che uno dei giocatori sposta una pedina, la narrazione si interrompe di scatto, e il paesaggio e i personaggi si dissolvono. Entriamo in un nuovo spazio-tempo: un treno nasce dal bianco tipograficoe vi scompare, una bottega diventa una barca e un gruppo d’ alberi, un uovo si trasforma in Humpty Dumpty, il russare della Regina Rossa e della Regina Bianca cede a un’ aria musicale… Così l’ altro mondo rivela finalmente la propria essenza. Mentre la struttura superficiale del nostro mondo è compatta e continua, quella dell’ universo dietro lo specchio è discontinua e frammentaria: briciole, pezzettini, tessere di mosaico, caselle di scacchi, atomi, tenuti insieme da una forza che non conosciamo.

Peter Pan nei giardini di Kensington e Peter e Wendy, (ripubblicati da Einaudi con uno scritto di Giorgio Manganelli, un’ introduzione di Luca Scarlini e la traduzione di Milli Dandolo, pagg. 248, 16 euro), non sarebbero mai stati scritti senza i libri di Carroll, ma il loro significato è esattamente opposto. Qui i protagonisti non sono una bambina vittoriana, ma gli uccelli, i bambini-uccelli, oppure un giovanissimo-vecchissimo bambinouccello. Prima di diventare esseri umani, i bambini sono stati uccelli, lo sono rimasti per sette giorni,e nelle prime settimane di vita sentono un lieve pizzicore alle spalle, dove prima erano attaccate le ali. Come gli uccelli, sono allegri, innocenti e senza cuore, e volano appunto perché sono allegri, innocenti e senza cuore. Quando non lo sono più quando hanno ceduto alla maturitàe normalità che li minaccia da ogni parte – dimenticano di volare. Con le fate hanno rapporti molto stretti. Quando ridono per la prima volta, il loro riso si spezza in mille frantumi ghiacciati che si spargono saltellando; e in quel momento nasce una nuova fata. Peter Pan è un bambino-uccello: come dicono nei giardini di Kensington, è un mezzo-emezzo. Vola come un uccello, ma in parte si comporta come un bambino: tenta di afferrare le mosche con le mani invece che con il becco; ma, al tempo stesso, non è un vero bambino perché gioca in modo sbagliato, ignora cosa siano i secchielli o i palloncini colorati o cosa siano i baci. Vive sempre sul margine, sul limite, senza appartenere ad un mondo. È velocissimo, perché è molteplice e stravagante: è onnipresente e nascosto. Detesta gli adulti, le persone normali, la scuola, le abitudini e le istituzioni. Sta sempre da un’ altra parte. Non vuole crescere e abbandonare le ali: ma, qualche volta, sembra stranamente senile. Non finisce mai di tentare i bambini, portandoli via con sé, in un eterno volo. La madre l’ ha abbandonato: Peter Pan non riesce a ritornare da lei, varcando le finestre chiuse: e questa acutissima nostalgia è l’ unica cosa che egli possegga di veramente umano. Nei giardini di Kensington, vivono le fate: tra loro e il mondo umano non esiste nessuna vera distinzione; un antropomorfismo possente come quello di Carroll si insinua in tutto ciò che è feerico e lo trasforma. Le fate preparano la colazione, mungono le vacche, segano i funghi, tirano su l’ acqua. Sono sempre indaffarate, come se non avessero un momento da perdere, ma non fanno mai niente di utile. Stanno in piedi quando dovrebbero sedere, e siedono quando dovrebbero stare in piedi: sono sveglie quando dovrebbero dormire, e dormono quando dovrebbero andare alla festa. Spesso si comportano male: mettono le dita nel burroo bevono troppo vino; sono dispettose, eccentriche, stravaganti. Qualche volta, avere rapporti con loro, come con tutto ciò che è feerico, è rischioso: senza accorgersene, ti fanno diventare una quercia sempreverde. Se escludiamo l’ Elogio degli uccelli di Leopardi, Peter Pan è il più bel testo uccellesco che abbia mai letto: per questo piace tanto ai bambini. James Barrie chiacchera, chiacchera, anzi cinguetta, vola, fa il nido, si nutre di vermi, ci becchetta, si dimentica, deride le fate, gli adulti, i bambini e i pirati; e il suo cinguettio brilla come una conversazione mondana. Non conosce l’ assoluto rigore matematico di Alice e di Attraverso lo specchio: pare sempre lievemente ebbro, come si fosse ubriacato con un liquore di corniole, distillato dalle fate. La sua è una fiaba, un vaudeville, un’ avventura fantastica, una farsa, un racconto piratesco, un racconto filosofico, una fantasticheria, un arcobaleno, un gioco funambolico, una sonata di flauto – che deve assolutamente venire eseguita nel paese che non c’ è.

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UN ANGELO CLANDESTINO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/09/un-angelo-clandestino/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/09/un-angelo-clandestino/#comments Mon, 09 Mar 2009 21:59:33 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/09/un-angelo-clandestino/ mano-tesa.JPGNon sempre capita di avere intuizioni giuste. A volte accade.
Accadde quella volta che, parlando con Simona Lo Iacono – scrittrice e magistrato – le accennai alla possibilità di elaborare una nuova poetica capace di unire letteratura e diritto, parola e processo. Leggendo le sue pagine ebbi la chiara percezione che quelle due identità di giurista e amante della letteratura potessero confluire dando vita a una voce ulteriore. Così mi venne in mente la frase: letteratura è diritto, letteratura è vita. Le proposi uno spazio, su questo blog, utilizzando quella frase come titolo. Accettò con entusiasmo.
Con altrettanto entusiasmo introduco la nuova puntata di questa rubrica a metà tra diritto e letteratura. Il tema trattato è attualissimo. Parliamo di clandestini.
Simona Lo Iacono ci racconterà, da par suo, una storia nata in un’aula del tribunale che dirige. Una storia che ha come protagonisti un ragazzo – un clandestino – e il potere taumaturgico della parola. Il ragazzo si chiamerà Angelo, anche se non è il suo vero nome. Un nome fittizio, ma evocativo, che forse sarebbe giusto tributare anche all’avvocato che ha seguito questo caso a titolo gratuito (e che parteciperà alla discussione con un nome altrettanto inventato).
La storia di Angelo è una storia forte, dura. Vedrete.
Ma vorrei andare oltre…
Vorrei tentare di moltiplicare le voci, alternare i punti di vista, mischiare storie vere a storie letterarie. Perché letteratura è diritto, letteratura è vita.
E allora mi viene in mente che la storia di Angelo è la storia di un senzaterra. Chi è più senzaterra di un clandestino? Un clandestino fugge dalla propria terra d’origine, dunque la perde; mette piede in una terra che non può accoglierlo in maniera regolare, dunque non la trova. Un clandestino è doppiamente senzaterra. Ha perso la terra in cui ha aperto gli occhi, non trova quella in cui li ha posati.
Senzaterra è anche il titolo di un romanzo di Evelina Santangelo: scrittrice, traduttrice ed editor della Einaudi. Questo di Evelina è “un libro durissimo sul nostro Sud e su tutti i Sud: una storia di spaesati in cerca di una terra” che racconta – tra le altre cose – le vicende di clandestini che arrivano su barconi, si disperdono nelle campagne, si acconciano a lavorare per una mancia di euro nelle serre che, come «un mare finto», dilagano nel paesaggio. Così è stato anche per Alì, un nordafricano che, espulso dalla propria terra, ha scelto la clandestinità e l’anonimato di quei tunnel di plastica. E proprio in un’azienda che produce ortaggi in serra s’incrociano i destini di Gaetano (un ragazzo di un remoto paese della Sicilia) e Alì. Una serra gestita da un boss della zone, don Michele, che apprezza i «bravi lavoratori» che non «parrano ammatula», che sanno cioè tenere la bocca chiusa. Le due vicende umane, quella di Alì e quella di Gaetano, finiscono così quasi per sovrapporsi, diventare una lo specchio dell’altra. Alì è un «senzaterra», in balìa del suo destino d’immigrato. Gaetano è uno che crede di averla, una terra, solo che, a poco a poco, sarà costretto a vedersela sfarinare sotto i piedi.
Ho invitato Evelina Santangelo a partecipare al dibattito per raccontarci la storia di questo suo libro, confrontarla con quella di Angelo e interagire con Simona e l’avvocato che tutela il ragazzo.
Un’altra voce di questo post sarà quella di Christiana de Caldas Brito, psicoterapeuta e scrittrice nata a Rio de Janeiro, ma che oggi vive e lavora a Roma. Ha iniziato a scrivere in Italia grazie al Concorso Eks&Tra. In antologie e on line ha pubblicato racconti e saggi. Da due anni svolge insieme a Livia Bazu, il laboratorio di scrittura con partecipanti italiani, romeni e francesi all’interno del progetto Grundtvig European Programme – Arte Terapia Sociale.
Queste voci, naturalmente, si mischieranno alle vostre. Il tema – dicevo – è quello della clandestinità e del potere della parola.
La parola è diritto, la parola è vita.
Di seguito potrete leggere il bel racconto di Simona Lo Iacono.

Massimo Maugeri

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LO CHIAMERÒ ANGELO
di Simona Lo Iacono

simona_lo_iacono.JPGLo chiamerò Angelo.
Gli darò un nome di ali e di cielo.
Ma è l’unica cosa che gli presterò. I suoi occhi rimarranno quelli con cui mi guardò quel giorno: acquosi. Sgranati come acini pesti. Le sue mani scure. Più bianche nei palmi. Addomesticate a trattenersi.
I denti perfettamente allineati sulle gengive nere. Sul sorriso perplesso.
Le parole a sillabe e a tratti. Poi un fiume. Come inabissate e affiorate da una feritoia imprevista. Balzate da un’ impensabile via.
Il giorno in cui conobbi Angelo l’udienza fermentava di voci. Sudore. Avvocati annoiati. Testi reticenti.
Era una di quelle giornate in cui giudicare stanca. L’umanità stanca. L’errore, la falla, la sentenza o l’ordinanza sembrano niente più che una firma, svolazzata su una scartoffia annerita. Polverosa. Senza emozione.
Il cancelliere non mi annunciò Angelo. Mi disse solo: dottoressa, quel ricorso.
Quale ricorso?
Quello del clandestino.
Ah, lo faccia entrare. E chiuda la porta.
Angelo entrò col suo avvocato nella stanza mezza scurata dalle tende pesanti. In una penombra creata per accecare il sole. Per rimediare alla controra di un martedì di fuoco in un precocissimo Maggio siciliano.
Mi si sedette davanti solo quando lo invitai a farlo.
Solite domande di rito: come ti chiami, da dove vieni, da quanto tempo sei sbarcato in Sicilia.
Angelo rispose senza interprete, in un italiano già ben scandito. Studiato.
Lo incoraggiai. Bravissimo, dissi. Parli bene l’italiano.
Ho fatto la scuola serale, dottoressa.
Allora raccontami la tua storia.
Abbiamo tempo? Si stupì Angelo.
Io ascoltai il tramestìo dietro la porta chiusa. Il cicaleccio crescente e spazientito. Pensai: no. Non abbiamo tempo. Ma risposi: tutto quello che vuoi.
Angelo sorrise per la prima volta.
Quando mi raccontò di come andò a scuola quel giorno, di come rientrò a casa, di come la trovò crivellata dalle bombe, ammassata in resti sui corpi dei genitori, non fece una piega.
Con uno sguardo asciutto mi spiegò che in Afganistan accade. Può accadere.
Quanti anni avevi?
Otto, dottoressa.
Abbasso gli occhi sul rapporto della questura. Leggo: rifugiato politico. Fuga in Iran senza permesso di soggiorno. Tre mesi di reclusione in un carcere iraniano per aver lavorato in nero. Perseguitato dai Talebani. Rimpatriato in Afganistan dall’Iran. Imbarcato. Approdato nei pressi di Portopalo di Capopassero.
E ora quanti anni hai?
Sedici, dottoressa.
Ce l’hai un sogno?
Come?
Un sogno. Cosa vuoi fare in Italia? Studiare, lavorare?
Voglio studiare.
Bravo. Ma cosa desideri veramente?
Non glielo posso dire , dottoressa.
Dimmelo.
Non può capire.
Tu dimmelo.
Voglio scrivere.
Mi illumino. Il cuore in galoppo. Chiedo: Scrivere cosa?
La mia storia.
Ecco. Era una di quelle giornate in cui giudicare stanca. L’umanità stanca. L’errore, la falla, la sentenza o l’ordinanza sembrano niente più che una firma, svolazzata su una scartoffia annerita. Polverosa. Senza emozione.
Era una di quelle giornate.
Ma quando dissi ad Angelo che anche io scrivevo, quando lo incoraggiai a iniziare la sua storia, a farmela leggere, a continuare a sognare, quando gli diedi il numero di telefono di un corso di scrittura, quando gli dissi: Angelo, scrivila per me, pensai no. No, l’umanità non stanca.
E no, non sono stanca.
L’avvocato della causa successiva a quella di Angelo entrò in udienza sbuffando. Imprecando. Facendomi capire che avevo dedicato troppo tempo al “clandestino”.
Sorrisi persino a lui.

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NOTE SULLE RECENTI DISPOSIZIONI NORMATIVE IN TEMA DI IMMIGRAZIONE CLANDESTINA:

Questo Gennaio è stato approvato dal Senato l’articolo 19 del disegno di legge sulla sicurezza che considera reato l’ingresso e il soggiorno illegale in Italia. Secondo la nuova norma, il clandestino che entra e risiede senza permesso di soggiorno in Italia non rischia il carcere, come stabilito inizialmente, ma sarà soggetto ad una sanzione amministrativa, compresa tra i 5mila e i 10mila euro.
Nella sua stesura iniziale, il testo prevedeva la reclusione da sei mesi a quattro anni e poneva, tra gli altri problemi, il rischio del sovraffollamento delle carceri, oltre a quello della mole di processi da tenere. Oltre alla trasformazione dell’immigrazione clandestina in reato, l’articolo 19 stabilisce ora anche la pena accessoria dell’espulsione che dovrà essere decisa dal giudice di pace. Se il clandestino non pagherà l’ammenda dovrà essere espulso.
Il reato di clandestinità era già stato inserito nel maggio scorso nel “pacchetto sicurezza”, ossia in quell’insieme di norme che hanno toccato diversi aspetti della sicurezza dei cittadini anche in altri campi (per esempio in materia di circolazione stradale e lavoro tra i più importanti). Ma la figura si era prestata a critiche dell’Unione Europea anche per l’aggravio del sistema carcerario e degli uffici giudiziari del Sud, più esposti geograficamente alla ricezione degli stranieri.

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AGGIORNAMENTO del 13 marzo 2009

Aggiorno il post annunciando la partecipazione al dibattito di Cristina Ali Farah, scrittrice e poetessa.
Nata nel 1973 da padre somalo e madre italiana, Cristina Ali Farah ha vissuto a Mogadiscio dall’età di tre anni fino al 1991, anno dello scoppio della guerra civile, in seguito alla quale scappa dal suo paese con il suo primogenito; rifugiatasi in un primo momento a Pécs (Ungheria), rientra in Italia nella sua città natale (Verona) e in seguito si trasferisce definitivamente a Roma, nel 1997, dove ha altri due figli e si laurea in Lettere.
Nella primavera 2007 è uscito Madre piccola (Premio Vittorini – opera prima – 2008) il suo primo romanzo, edito da Frassinelli. Il libro narra la storia di due cugine (Barni e Domenica) in esilio da una Somalia spezzata dalla guerra civile. Allo scoppio della guerra, le cugine sono costrette a separarsi. Barni trova a Roma un faticoso equilibrio grazie al lavoro di ostetrica. Domenica, invece, sradicata e trapiantata in un nuovo contesto, inizia un peregrinare senza meta e solo dopo un decennio di vagabondaggio sente il desiderio di raggiungere l’amata cugina, proprio mentre è in attesa di un figlio. Barni, soprannominata “madre piccola”, le starà accanto mentre affronta questo delicato momento. Sarà proprio la nascita del bambino a far ritrovare ai personaggi quelle radici preziose che sembravano spezzate per sempre.

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ROLAND BARTHES E ETICA DI UN AMORE IMPURO, Alessandro Savona http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/12/20/roland-barthes-e-etica-di-un-amore-impuro-alessandro-savona/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/12/20/roland-barthes-e-etica-di-un-amore-impuro-alessandro-savona/#comments Sat, 20 Dec 2008 22:38:43 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/12/20/roland-barthes-e-etica-di-un-amore-impuro-alessandro-savona/ Roland Barthes (Cherbourg 1915 – Parigi 1980) è stato uno dei maggiori esponenti della nuova critica francese di orientamento strutturalista (approfondimenti qui e qui).
Ce ne parla Alessandro Savona nel suo articolo “L’altro Barthes”.
Savona, peraltro, è autore del romanzo “Etica di un amore impuro” (Perrone, 2008), libro che presenta connessioni con Barthes e che, di seguito, è recensito da Simona Lo Iacono e Maria Rita Pennisi.
Propongo un dibattito sulla figura di Barthes e su questo romanzo di Alessandro Savona.
Simona Lo Iacono, Maria Rita Pennisi e lo stesso Savona mi aiuteranno a coordinarlo e a moderarlo.

Partendo dal bellissimo – e ossimorico – titolo del libro di Alessandro Savona, ne approfitto per porvi una domanda: quand’è che, a vostro avviso, un amore può definirsi… impuro?

Infine vi lascio questa citazione: la letteratura non permette di camminare ma permette di respirare. (Roland Barthes: da Letteratura e significazione, in Saggi critici)

Massimo Maugeri

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L’altro Barthes
di Alessandro Savona

two.jpgDue dita sfiorano la tastiera del pianoforte verticale, probabilmente un Ibach degli anni ’20 oppure uno Stein, verniciato di nero. Le prime note del Traumerei di Schumann si liberano nell’aria, nitide, indecise. L’uomo è in piedi, con indosso il paletot e la musica che viene fuori dal suo indice incerto. Sull’eco di una nota spezzata l’uomo lascia la stanza, spegne la luce ed esce. Cammina ora verso St. Sulpice, percorrendo rue Servandoni.
Parigi di notte sembra trattenere ancora le emozioni di quel lontano maggio, seppure siano trascorsi più di dieci anni. Forse accostando l’orecchio ad un muro si possono sentire le urla di protesta degli universitari, il rumore delle selci lanciate con rabbia, i colpi dei manganelli delle CRS sui corpi in fermento: voci e suoni trattenuti nelle connessure dei conci, nelle crepe sfarinate degli intonaci. Forse si sentono i passi di uno di quei giovani, che corre affannato, sudato di paura, nudo di disistima in cerca di lui. Quel giovane tanto amato e perduto per sempre.
L’uomo si accende una sigaretta. Il suo appuntamento è di trent’anni più giovane, è un sudafricano, è lì che lo aspetta, seduto sul bordo di un marciapiede di un vicolo del Quartiere Latino. Il calore di quel corpo ha un prezzo, una tariffa stabilita che segna il confine tra il desiderio e l’amore.
 - Quale sarà per me lo spettacolo del mondo? – forse una domanda viene fuori a voce bassa dalle labbra dell’uomo. Forse.

La stessa domanda la ritroviamo nelle pagine di un diario che Roland Barthes scriverà tra il 24 agosto e il 17 settembre 1979. Pagine intime, cariche di dolore che in forma di testo e col titolo Incidents, saranno pubblicate dalle Editions du Seuil nel 1987, sette anni dopo la morte dell’autore. Il 25 febbraio 1980 Roland Barthes, uscendo dal College de France, è investito dal furgoncino di una lavanderia; a seguito di complicazioni polmonari morirà un mese dopo nell’ospedale Salpetrière. Aveva 65 anni.
Fu uno dei più importanti animatori dell’avventura strutturalista francese insieme a personaggi come Foucault, Lacan, Greimas, Althusser, Lévi-Strauss. Con il suo Elementi di semiologia, pubblicato nel 1964, Roland Barthes può essere considerato erede a tutti gli effetti di una delle due “anime” della semiotica: quella strutturale elaborata da Ferdinand de Saussure a cavallo tra Ottocento e Novecento. L’altra sarà quella interpretativa, che muove dal lavoro di Charles Sanders Peirce. Merito di Roland Barthes sarà di andare oltre gli studi di de Saurrure, considerando non già la linguistica come figlia della semiotica ma viceversa comprendere che si devono studiare i sistemi di significazione solo in virtù di una traduzione linguistica. Da qui, secondo Umberto Eco, la sua grande lezione: l’interessamento per qualsiasi evento capace di produrre significato.
- Il semiologo è colui che quando va in giro, – ripeteva Barthes – fiuta e scorge significazione dove gli altri vedono fatti ed eventi -.
Amato, ma anche odiato da quei detrattori che gli rimproveravano una mancanza di rigore e di scientificità nella costruzione della semiologia, Roland Barthes applicherà le sue riflessioni argute e raffinate con la stessa spontaneità di un osservatore curioso della vita e di ogni sua manifestazione, interessandosi di letteratura, moda, teatro, musica, fotografia e tanto altro. Scriverà libri preziosi come Il grado zero della scrittura (1953), Miti d’oggi (1957), Il sistema della moda (1967), S/Z (1970), Sade, Fourier, Loyola (1971), Il piacere del testo (1973), Frammenti di un discorso amoroso (1977), La camera chiara (1980).
E Incidents, il libro che svela un Roland Barthes intimo, dove trova collocazione?
Fra le innumerevoli accuse a suo discredito una probabilmente pesa più delle altre, perché svela la più profonda fragilità della vita di R. B.: la taciuta omosessualità.
- (…) Gli ho chiesto di avvicinarsi a me, sul letto. Lo ha fatto con gentilezza, si è seduto sul bordo, ha sfogliato un libro di fotografie, il suo corpo era lontano; se allungavo il braccio verso di lui, lui non si muoveva: nessun compiacimento. E’ subito andato in un’altra stanza. Sono stato assalito da una specie di disperazione, avevo voglia di piangere. Era evidente che dovessi rinunciare ai ragazzi, perché non ero desiderato. (…) L’ho invitato ad andarsene, dicendo che avevo da lavorare, sapendo che era finita, e che al di là di lui qualcosa era finita: l’amore di un ragazzo. – Incidents, Parigi 1987, pagg. 115-116.
Queste parole sembrerebbero la descrizione, oltre l’immagine, di un quadro di Lucian Freud, Two men (vedi immagine in alto, n.d.r.): la distanza muta, l’incomunicabilità, il tocco leggero di una carezza.
La chiave di tutto sta nell’interpretazione. Durante un’intervista sui preconcetti R. B. dirà – Non possiamo pensare noi stessi in termini di aggettivi, ma anche gli aggettivi che ci vengono applicati non possiamo mai autenticarli: ci lasciano muti – Questo perché interpretare significa capire, capire significa rimandare ad altro, porsi domande, fermarsi a riflettere, ricominciare di nuovo. Quando scrisse Frammenti di un discorso amoroso affermò che l’amore, nell’ambiente intellettuale, fosse fuori moda. Ma al di fuori di esso era un sentimento universale, indipendentemente dal sesso di chi ama. Il desiderio di amare è come dragare, cercare senza sosta l’oggetto delle nostre attenzioni e instaurare un rapporto che, lo si voglia o no, resterà sempre all’orizzonte, al margine di una comprensione totale. Quindi l’emarginazione, evidente nei toni disperati di Incidents, è la realtà della “solitudine” che accomuna ogni essere umano che, quando ama, si rende fragile, esposto, cerca conferme, esita, vacilla.
 A ben guardare tutta l’opera di Roland Barthes può essere scandagliata attraverso quest’altra ottica. Nei Frammenti non si parla mai di un uomo e di una donna, ma di esseri che si amano, indipendentemente dal loro sesso, si evidenzia il ruolo dell’oggetto amato e l’incisività del soggetto che ama, siano essi eterosessuali o omosessuali. Barthes combatteva le etichette, l’impuro che la borghesia aveva instillato nella vita quotidiana con un perbenismo che spacciava come naturale. Lo ha fatto per tutta la vita, attraverso le parole che ha detto o scritto. Da acuto osservatore con un’anima pacata, di un poeta dei segni, non alzava mai il tono della voce, non prevaricava, non imponeva, ma induceva a riflettere. Così, in letteratura come nella vita quotidiana, si interessava di tutto ciò che potesse rimandare a un modello narrativo universale, ma sempre a piccoli passi, osservando un cartellone pubblicitario, le basole della strada, il gesto di un bambino, una frase di Proust, gli occhi di un ragazzo. Tutto è narrazione, e la narrazione è anche attesa, sospensione, rimando, desiderio. Come nel libro di Renaud Camus, dapprima suo discepolo e poi scrittore di Tricks (1978), libro che parla di omosessualità e che Roland Barthes ha recensito senza esitazioni.
- (…) L’omosessualità sciocca meno, ma continua a interessare; è ancora in uno stadio di eccitazione in cui provoca ciò che potremmo chiamare prodezze del discorso. Parlare di essa permette a coloro “che non lo sono” (espressione già appuntata da Proust) di mostrarsi aperti, liberali, moderni; e a coloro “che lo sono”, di testimoniare, rivendicare, militare. Ognuno si impiega, in modi diversi, a gonfiare l’argomento. Pertanto, proclamarsi qualcosa, è un parlare sotto l’istanza di un altro vendicatore, entrare nei suoi discorsi, discutere con lui, domandargli un briciolo di identità: – Lei è?… – Si, lo sono… -. In fondo poco importa l’attributo: ciò che la società non tollererebbe è che io non sia niente, o, per essere più precisi, che il qualcosa che io sono, sia dato apertamente per passare, revocabile, insignificante, inessenziale, in una parola: impertinente. Dite soltanto sono e sarete socialmente salvi. Rifiutare l’ingiunzione sociale lo si può fare attraverso questa forma di silenzio, che consiste nel dire le cose con semplicità. (…)
Di questa semplicità, da sempre cercata, Roland Barthes è stato un assoluto assertore, un infaticabile sostenitore. Avrebbe voluto scrivere un libro di narrativa, ha inseguito il sogno per tutta la vita, gli ha dato perfino un titolo, Vita nova. Non potrà mai farlo, ma della letteratura, grande amica e amante di tutta una vita, ha scritto una frase esaustiva:
La letteratura è là per donare un supplemento di gioia, non di decenza.
Alessandro Savona

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Il ponte. Una recensione al libro di Alessandro Savona: “Etica di un amore impuro” (Perrone Editore, € 10,00).
di Simona Lo Iacono

Siamo ponti senza saperlo.
Annodiamo esistenze. Solitudini. Mani tese.
Siamo ponti quando sussurriamo in una notte come tante: non lasciarmi. Quando balocchiamo dal fumo di un desiderio. Quando – vivi o morti, dentro – ci ostiniamo a percorrere una strada sospesa nel vuoto.
Questo è un ponte: una speranza nella precarietà.
Un punto d’appoggio tra due rive. Un modo per allungare una mano, per trattenere qualcuno.
Non sempre ci riusciamo. Non sempre il ponte ci avvicina. A volte frappone un inciampo, un impensabile ostacolo: noi. La nostra stessa fragilità.
Tuttavia, accade.
E il ponte sfreccia tra due destini, o tra tre, o tra mille. Balza su stagioni. Miracolosamente restituisce un senso.
È una struttura, dicono alcuni. E forse lo direbbe anche Marco, aspirante architetto e protagonista di questa storia.
Ma Roland Barthes direbbe: no. Non è una struttura. È un segno.
E lo direbbe a ragione, perché anche lui è protagonista di questa storia. Anche lui è tra Marco e un libro.
E tra un libro e Olivier.
Olivier vi si imbatte per caso, in una Parigi che risuona della voce rauca di Edith Piaf. Che si snoda tra le vie del quartiere latino. Che si inerpica verso il cielo, maglia dopo maglia. Svettando dalla Tour Eiffel. Rimandando l’illusione a cui – almeno una volta, a Parigi – vogliamo credere: la vie en rose.
Ne porta addosso ancora il calore quando – dopo molti anni – incrocerà anche Marco. Quando, come Barthes, avrà finalmente appreso la lezione dei segni.
Ma nel 1982 è ancora presto.
In quegli anni Olivier ignora i codici misteriosi che trafiggono l’esistenza. Che sta a noi decifrare pur nel travolgente spettacolo del mondo. Oltre la coltre che lo spalanca ai nostri occhi.
Ignora che persino in ciò che sembra impuro si annida un senso.
È ancora presto.
Nel 1982 Barthes è appena morto, Marco è un embrione nel corpo di una donna che attraversa il ponte Alexandre e questa storia non esisteva ancora.
O forse no: le storie nascono da prima di quando riusciamo a comprenderle. Da prima di noi e dopo di noi.
Il vero ponte sono le storie.
Simona Lo Iacono

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“Etica di un amore impuro” di Alessandro Savona (Perrone Editore, € 10,00)
recensione di Maria Rita Pennisi

Prova di grande destrezza letteraria è questa seconda fatica di Alessandro Savona, “Etica di un amore impuro”, dopo “Corpi contro”. Storia di un’anima tormentata alla ricerca della redenzione.
Teatro di un amore disperato è una Parigi tutta interiore, le cui strade coincidono con i canali dell’anima e le larghe piazze con i profondi laghi del cuore. Quindi nulla di topografico, se non in apparenza, ma un getto d’inchiostro continuo, che si espande a macchia d’olio sui sentimenti fino agli anfratti più segreti di un’esistenza violata, che cerca una via d’uscita nell’amore e nel perdono. Atmosfere rarefatte che si snodano a Saint-Germain-des-Près e alimentano le vite sospese di Olivier e di Marco, protagonisti di due storie diverse, collegate da un misterioso biglietto. Olivier, appena arrivato a Parigi dalla tranquilla Provenza, si trova suo malgrado coinvolto in una guerriglia sessantottina. A salvarlo è un professore. Un uomo tranquillo che si nutre dei suoi studi e che sembra vivere ai margini della sua anima, forse per paura di se stesso. Olivier ne viene attratto, come la falena dalla luce e se ne innamora perdutamente. Il professore non si fa coinvolgere e mantiene la distanza da quell’amore disperato e inappagato. L’elemento perturbante si presenta nei panni del medico Jean Greimas, che soccorre Olivier in preda a un attacco epilettico, che sembra anticipare l’inferno che dilanierà la sua anima da lì a poco. Il medico, ben presto, svelerà il suo lato mefistofelico. Sarà lui a far precipitare Olivier in una voragine infernale. Olivier non riuscirà a confidare al professore l’abisso in cui è caduto, per la disperazione del suo muto rifiuto. Dal canto suo Marco, a distanza di anni da questi avvenimenti, vive in una Palermo marginale nella speranza che qualcosa possa cambiare.
Un destino ineluttabile lo porta a Parigi, per ripercorrere Saint-Germain-des- Près, tante volte percorsa da Olivier e dal professore. Un destino che ha origine tra le pagine di un libro di Roland Barthes, che contiene un segreto, che vuole venire alla luce.
Maria Rita Pennisi

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http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/12/20/roland-barthes-e-etica-di-un-amore-impuro-alessandro-savona/feed/ 103
RESPONSABILITA’ LEGALE DELLA SCRITTURA IN RETE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/11/18/responsabilita-legale-della-scrittura-in-rete/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/11/18/responsabilita-legale-della-scrittura-in-rete/#comments Tue, 18 Nov 2008 22:12:54 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/11/18/responsabilita-legale-della-scrittura-in-rete/ accoglienza.jpgLa libertà individuale, anche di espressione, trova argini nel rispetto altrui.
La suddetta frase la trovate all’interno di una nota dal titolo “Avvertenza” che trovate sulla colonna di sinistra del blog. Si tratta di una dichiarazione di principio in cui credo fermamente.
Sulla destra del blog, invece, all’interno dello spazio “Nota legale, Responsabilità, Netiquette” (sotto “Netiquette”) trovate scritto quanto segue:
“Letteratitudine nasce fondamentalmente come luogo di incontro. Per tale motivo si basa sui principii dell’accoglienza e della cordialità. Il creatore e gestore del blog ringrazia anticipatamente tutti coloro che, con i loro interventi, daranno un contributo a mantenere un clima di accoglienza e serenità.
Naturalmente, nell’ambito delle discussioni proposte, è ammessa la polemica… purché sia sensata, utile e costruttiva; ma sempre entro i limiti dell’assoluto rispetto di persone e opinioni
.”

Ecco. Io questo blog lo intendo così. 

Credo nei principii dell’accoglienza e della condivisione. E continuerò a crederci.

Ciò premesso, questo post ha una funzione di “servizio”.
Troppo spesso si interviene in Rete con l’errata convinzione di poter scrivere qualunque cosa, dimenticando che accanto ai diritti figurano… “responsabilità”.
Ebbene sì. Scrivere in Rete implica anche responsabilità di natura legale. Non tutti ne sono a conoscenza, e qualcuno talvolta – magari in buona fede – assume un comportamento che potrebbe dar luogo a gravi conseguenze.

E questo è un altro dei motivi per cui spesso intervengo per smorzare i toni. E per invitarvi alla moderazione.

Ho chiesto a Simona Lo Iacono, scrittrice e magistrato, dirigente del Tribunale di Avola (SR), di predisporre un intervento sul tema accennatovi.
Il fine è quello di poter fare chiarezza e soprattutto… informare. Credo sia importante. Per questo chiedo a tutti i miei amici blogger di aiutarmi a divulgare questo post.
Simona Lo Iacono risponderà alle vostre domande di natura tecnica (e lo farà avvalendosi della sua esperienza di magistrato maturata in undici anni di brillante carriera), mentre è invece invitata dal sottoscritto a non replicare a eventuali considerazioni di carattere politico o di altra natura.

Contestualmente avremo modo di discutere del Disegno di Legge Levi, il cosiddetto decreto “ammazzablog”.

Quello che propongo è un dibattito sereno, alla conclusione del quale ciascuno di noi avrà modo di trarre le proprie conclusioni.

Prima di lasciare lo spazio a Simona vi pongo una domanda.
A vostro avviso, quale deve essere (se ci deve essere) il limite della libertà di espressione, peraltro garantita dalla nostra Costituzione?
Vi ringrazio anticipatamente per la collaborazione.

Massimo Maugeri

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COMUNICAZIONE IN RETE. ONORE. REPUTAZIONE.
di Simona Lo Iacono

simona_lo_iacono.JPGIl pensiero in rete.
Basta poco. Coincide con un click. Con la pressione sul tasto “invio”. Con la velocità di un guizzo sul mouse. Una misteriosa – e imperiosa – corrispondenza tra riflessione e visione.
Eppure.
Non esiste ancora una radicata coscienza giuridica del rilievo che le opinioni espresse in Rete possiedono. Della velocità con cui si propagano. Dei limiti che incontrano.
E ciò perché lo spazio virtuale viene percepito come un mondo di libertà. Possibilità. Fantasia. Uno spazio franco e di mezzo. Un accesso segreto alle – altrimenti – impossibili esplicazioni dell’anima.

La comunicazione in Rete assume molte vesti. Siti web. Chatline. E-mail. E, per ciò che più da vicino ci riguarda, newsgroup.

Il newsgroup è un’area virtuale dove si lasciano (si “postano”) messaggi per partecipare a forum di discussione su argomenti determinati. Collegandosi al newsgroup i vari partecipanti interagiscono come in una conversazione reale. Spesso rimandando “botta e risposta”. Esprimono le proprie opinioni e lanciano dibattiti.

I sociologi stimano il newsgroup una delle maggiori fonti di informazione specializzate, vista la comunanza di interessi tra i soggetti che lo frequentano.
I frequentatori infatti inviano i propri messaggi al server che – a titolo gratuito o a pagamento – ospita i contenuti ricevuti e li rende fruibili a chi vi ha accesso. L’accesso è gestito dal Webmaster che provvede all’amministrazione e alla gestione del sito, sovrintende al suo regolare funzionamento, si occupa di organizzare graficamente i messaggi ed, eventualmente, svolge funzioni di filtro sul contenuto dell’informazione.

Si tratta di tipologie “sociali” del tutto nuove e non ritualmente organizzate, prive di un codice di comportamento ma ispirate a regole di stampo consuetudinario, una sorta di “consuetudine telematica” (netiquette) che ha valore non giuridico ma “etico”. Le regole di queste “società virtuali” diventano però più pregnanti ove i newsgroup siano “moderati” da un soggetto deputato al controllo del contenuto dell’informazione, prima che sia resa accessibile ai partecipanti. In questo caso i frequentatori si attengono alle direttive impartite dal “moderatore” e “organizzatore” del sito.

Da un punto di vista giuridico però deve porsi assolutamente in rilievo che tali nuove forme di comunicazione rientrano a pieno titolo nella nozione di “ogni altro mezzo di diffusione” dell’art. 21 della Costituzione nonché nella previsione dell’art. 10 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo che garantisce la libera manifestazione del pensiero.

Tale libertà – in quanto esplicazione primaria della personalità dell’individuo – può trovare un limite e un contemperamento solo nel rispetto dell’altrui libertà e nell’altrui esplicazione della propria personalità. Ecco perché anche in Rete – e soprattutto in Rete – deve essere riconosciuto il pieno rispetto dei diritti della persona: il diritto al nome, all’immagine, all’onore, alla reputazione, alla riservatezza e all’identità personale.

Se Internet infatti è, per eccellenza, il luogo della democraticità e della libertà, di contro possiede caratteristiche quali la sua ATERRITORIALITA’ E VELOCITA’ che consentono una maggiore lesività (rispetto ai mezzi tradizionali) sull’onore e la reputazione altrui.

Le casistiche giudiziarie dimostrano infatti che la percezione collettiva di una ingiuria o una diffamazione a mezzo Rete ha un’incidenza sul soggetto leso pressoché irrimediabile e irreversibile, proprio per l’impossibilità di riparare a un danno che non ha limite spaziale né temporale.

Ciò che maggiormente può essere compromesso in rete sono infatti i “classici” beni dell’onore e della reputazione, come già riferito. È noto che si tratta di due beni della persona che hanno ricevuto giuridico riconoscimento sin dalla tradizione romanistica e che il legislatore penale del 1930 si è preoccupato di tutelare adeguatamente, costruendo i due reati di ingiuria (art. 594 c.p.) e diffamazione (art. 595 c.p.) proprio intorno alle due distinte nozioni.

Secondo l’opinione tradizionale, l’onore consiste nel sentimento che il soggetto ha di sé e del proprio valore, mentre la reputazione nel sentimento che di tale soggetto ha la collettività. Mentre il primo viene leso solo in caso di offese rese in presenza del destinatario, il secondo può essere leso solo in caso di offese fatte in presenza di altri: la presenza del destinatario segna dunque il confine tra le due figure di reato.

Si tratta in entrambi i casi di comportamenti ben configurabili in Rete, ove semmai, data la aterritorialità sopra indicata, il problema riguarda la difficoltà di stabilire quale sia il tribunale competente a decidere (difficoltà superata da alcuni tribunali di merito – cfr. Lecce – con il luogo in cui è ubicato il server).

C’è ancora da rilevare che la condotta antigiuridica sopra evidenziata – e spesso perpetrata a mezzo stampa – in Rete assume gravità assai maggiore. Non solo, come si è detto, per la velocità di diffusione del mezzo, ma altresì per l’impossibilità di applicare alla Rete le scriminanti del diritto di cronaca. Infatti il diritto di esprimere il proprio pensiero in Internet e di diffondere informazioni – se espresso da un privato in newsgroup – non è assimilabile all’esercizio del diritto di cronaca, non essendo svolto da un soggetto – il giornalista – che esercita una attività di natura professionale.
La partecipazione a newsgroup invece si caratterizza per occasionalità e può essere svolta anche da tipologie di persone che non svolgano attività giornalistica in modo professionale.

Deve infine osservarsi che la condotta di diffamazione ha rilevanza anche civilistica e – anzi – ha un campo applicativo anche più vasto della fattispecie penale. Infatti in sede civile da un lato assumono giuridico rilievo, ai fini risarcitori, anche le condotte diffamatorie colpose (mentre in penale solo quelle dolose), dall’altro la lesione alla reputazione si ritiene perpetrata anche se l’offesa è avvenuta comunicando con una sola persona e anche se il fatto si è verificato a seguito di provocazione (che, in ambito penale, opera come un’esimente che esclude la punibilità).

In conclusione: il mondo della Rete non si sottrae alle regole che disciplinano la tutela dei diritti della persona e, anzi, si pone come un campo privilegiato – data la sua diffusione e aterritorialità – per la perpetrazione di un danno irreparabile all’onore e alla reputazione.
Beni che da sempre costituiscono il corredo dell’individuo. Un patrimonio immateriale ed evanescente, forse. Ma in grado di assicurargli – o negargli – la felicità.

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DISEGNO DI LEGGE LEVI
di Simona Lo Iacono

Mettiamo un po’ d’ordine…
Le preoccupazioni relative al nuovo disegno di legge Levi hanno varie origini e diversi profili.

1. DDL e controllo da parte di un soggetto promanante dal potere legislativo ed esecutivo.
La preoccupazione maggiore (e che allarma particolarmente i giornalisti) riguarda l’iscrizione dei “soggetti che esercitano l’attività editoriale” al Registro degli operatori della comunicazione (Roc) su cui vigila l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.
Prima di comprendere chi sono i “soggetti che esercitano attività editoriale” e quali siano le conseguenze dell’iscrizione (o della mancata iscrizione) bisogna precisare che attualmente il sistema di registrazione è di spettanza del tribunale. Infatti l’articolo 5 della legge n. 47 sulla stampa dell’8 febbraio 1948, afferma che “nessun giornale o periodico può essere pubblicato se non sia stato registrato presso la cancelleria del tribunale, nella cui circoscrizione la pubblicazione deve effettuarsi”.
Il primo timore che è stato palesato è quindi quello relativo alla libera manifestazione del pensiero. Infatti il Registro degli operatori della comunicazione (Roc) è gestito, come sopra detto, dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (il vecchio “Garante dell’editoria” del 1981 diventato nel 1990 Garante dell’editoria e delle radiodiffusioni). L’Autorità è governata da 9 membri, che sono nominati secondo questo schema: 4 dal Senato, 4 dalla Camera, mentre il presidente “è nominato con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri d’intesa con il Ministro delle comunicazioni”. In nessun caso la nomina può “essere effettuata in mancanza del parere favorevole espresso dalle Commissioni parlamentari a maggioranza dei due terzi dei componenti”.
Si teme in sostanza che un controllo proveniente dal potere legislativo ed esecutivo comprima la libera manifestazione del pensiero in analogia a quanto avveniva nello statuto albertino. L’articolo 36 dell’Editto albertino stabiliva infatti che “chi intende pubblicare un giornale od altro scritto periodico dovrà presentare alla Segreteria di Stato per gli affari interni una dichiarazione in iscritto corredata degli opportuni documenti”.

2. Destinatari del controllo:
La seconda preoccupazione ha invece travolto il mondo della Rete poiché al controllo sono sottoposti i soggetti che svolgano attività editoriale anche on line.
Per attività editoriale si intende ogni attività diretta alla realizzazione e alla distribuzione di prodotti editoriali, nonché alla relativa raccolta pubblicitaria. L’esercizio dell’attività editoriale può essere svolto anche in forma non imprenditoriale per finalità non lucrative (art 6 ddl). E con ogni mezzo.
Tale articolo che tocca anche attività di natura non imprenditoriale e di natura non lucrativa va però – per ciò che attiene alla Rete – letto in combinato disposto col successivo art. 8 che così recita: sono esclusi dall’obbligo dell’iscrizione nel Registro degli operatori di comunicazione i soggetti che accedono alla rete internet o che operano sulla stessa in forme o con prodotti, quali i siti personali o a uso collettivo, che non costituiscono il frutto di un’organizzazione imprenditoriale del lavoro.
Leggendo queste due norme deve desumersi che:
mentre per l’attività editoriale svolta al di fuori dalla Rete il legislatore all’art. 6 ha previsto che il controllo debba estendersi anche a realtà non imprenditoriali e non aventi fini di lucro, per la Rete ha fatto un’esplicita eccezione rispetto a questa regola. Non sono quindi soggetti a controllo i siti personali o a uso collettivo (blog, newsgroup) che non costituiscano il frutto di un’organizzazione imprenditoriale del lavoro.
Sotto questo profilo il legislatore ha preso atto della libertà espressiva inerente la Rete con blog e altre forme collettive, e ha escluso che – ove non siano organizzate imprenditorialmente – debbano iscriversi al Roc.
Vale la pena sottolineare tuttavia che anche in tali sedi deve ritenersi applicabile la tutela penalistica e civilistica connessa alla tutela del diritto all’onore e alla reputazione, sia pure non nelle forme (aggravate) dei reati a mezzo stampa.

3. Cosa deve intendersi per attività d’impresa?
L’art 2082 cc afferma che è imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni e servizi.
Da questa definizione desumiamo che perché ci sia impresa devono sussistere- in linea di estrema sintesi – i seguenti elementi:
1-un’organizzazione
2-la professionalità dell’imprenditore
3-l’economicità e lo scopo di lucro
Tali elementi devono sussistere contestualmente e sono quindi da escludere in seno a quelle realtà in Rete che – se pure possono vantare una forma organizzativa – tuttavia manchino dell’indispensabile requisito dell’economicità e dello scopo di lucro (intendendo per il primo la copertura almeno dei costi non potendo mai essere considerata imprenditoriale l’erogazione GRATUITA dei beni e dei servizi : Cass. 14-6-1994 n. 5766).

4. Conseguenze della mancata iscrizione ed esatto inquadramento della tutela penalistica e civilistica in rete.
L’iscrizione al Roc è condizione per il ddl dell’esercizio dell’attività, in carenza della quale la stessa va considerata clandestina.
Inoltre l’iscrizione comporta per il direttore responsabile o per l’organizzatore l’estensione delle responsabilità penalistiche dei reati a mezzo stampa.

Tuttavia giova sottolineare che:
a- Solo in apparenza tale normativa comporta delle novità in campo legislativo. Infatti anche attualmente le testate giornalistiche on-line – definite “prodotto editoriale” – devono obbligatoriamente essere registrate nei tribunali e avere un direttore responsabile, un editore e uno stampatore-provider, quando hanno una regolare periodicità (quotidiana, settimanale, bisettimanale, trisettimanale, mensile, bimestrale, etc), quando puntano a ottenere dallo Stato “benefici, agevolazioni e provvidenze”, quando prevedono di conseguire ricavi e anche quando utilizzano giornalisti professionisti, pubblicisti e praticanti.
Ne consegue che attualmente anche in rete è applicabile a siffatte testate la tutela penalistica dei reati a mezzo stampa la quale, se è più stringente sotto il profilo dell’addebito di responsabilità per il direttore, offre però l’indubbio vantaggio dell’applicazione a quest’ultimo dell’ESIMENTE DEL DIRITTO DI CRONACA, non applicabile ove l’attività editoriale in Rete non sia svolta in forma di impresa.
b- Anche le realtà collettive sorte in Internet che non siano svolte in attività di impresa non si sottraggono alla generale normazione riguardante la tutela dell’onore e della reputazione.

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IL CENTENARIO DELLA NASCITA DI ELIO VITTORINI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/08/04/il-centenario-della-nascita-di-elio-vittorini/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/08/04/il-centenario-della-nascita-di-elio-vittorini/#comments Mon, 04 Aug 2008 13:32:37 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/08/04/il-centenario-della-nascita-di-elio-vittorini/ elio-vittorini-ritratto.JPGCent’anni fa – per esattezza il 23 luglio 1908 – nasceva Elio Vittorini.
Dedichiamo uno spazio (e un dibattito) a questo grande intellettuale e scrittore siracusano.
Di seguito avrete la possibilità di leggere quattro interventi.
Il primo è firmato da Ernesto Ferrero ed è stato pubblicato su Tuttolibri del 26 luglio.
Gli altri sono stati realizzati, dietro mia richiesta, dagli amici scrittori siracusani che frequentano questo blog: Maria Lucia Riccioli, Salvo Zappulla, Simona Lo Iacono (Maria Lucia, Salvo e Simona mi daranno una mano per moderare e animare il post).

Vi pongo alcune domande, estrapolate dagli articoli che leggerete di seguito.
Le prime sono di Ferrero (pensate con riferimento a Vittorini):
Chi è, cosa deve fare uno scrittore? In che modo deve mettersi in relazione con la società? Cosa può fare per la collettività?
E poi (pescando dal pezzo della Riccioli)…
Cosa rimane di Elio Vittorini?
Quali sono stati i frutti della sua opera? Riusciamo a scorgerli ancora oggi? Vittorini è ancora un autore fecondo e vitale, a parte il suo ruolo di “editor” e organizzatore di cultura?
Il suo stile? L’ermetismo, il simbolismo allegorico? Sono ancora proponibili?

Insomma… Vittorini.
Un’occasione per ricordarlo. E per parlarne.
Massimo Maugeri

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Il centenario della nascita di Elio Vittorini
di Ernesto Ferrero (da Tuttolibri del 26 luglio 2008)

Non c’era davvero miglior modo di ricordare il centenario della nascita di Elio Vittorini (23 luglio 1908) che evitare la melassa buonista di simili occasioni e stare ai testi: come questo secondo e ultimo tomo che raccoglie i suoi articoli e interventi 1938-1965 (il primo copriva gli anni 1926-37, in cui ebbe tanta parte il soggiorno a Firenze e la furiosa attività traduttoria).
Sono oltre mille pagine, curate come meglio non si potrebbe da Raffaella Rodondi, degna allieva di Dante Isella. Dico subito che le sue note sono così approfondite ed esaustive che chi vuole occuparsi della cultura italiana del periodo dovrà passare di lì. Vi troverà una miniera di notizie e documenti.
Lo si frequenta poco, Vittorini, a parte Conversazione in Sicilia, che tiene ancora benissimo.
Da tempo è sparita dal nostro orizzonte la sua fervida progettualità utopistica a 360 gradi. Non parliamo poi della sua pretesa di concorrere attraverso la letteratura a una rigenerazione collettiva, addirittura alla nascita di un uomo nuovo. La tensione appassionata e sciamanica con
cui il Gran Siracusano insegue il moderno, inventandoselo anche quando non se ne vedono tracce, ripercorsa adesso risulta commovente.
Uscito da un arcaico mondo contadino, lo conosce troppo bene per abbandonarsi a idilli e nostalgie, che anzi non si stanca di deprecare. Gli interessa l’incontro-scontro con le metropoli, con l’industria, il nuovo mondo che dovrebbe nascere da una sorta di palingenesi collettiva. Ha la bulimia del futuro prossimo. Se le domande sono sempre le stesse (chi è, cosa deve fare uno
scrittore? In che modo deve mettersi in relazione con la società, cosa può fare per la collettività?), ricorrenti sono anche le risposte, pur nel variare di quell’«irta vegetazione di metafore» di cui parla Italo Calvino (ma forse più avvolgente che irta): scoprire qualcosa che ancora non si conosce, aggiungere qualcosa di nuovo all’umana coscienza, fuori dai lacci delle ideologie e dei concetti astratti. Certo non «suonare il piffero per la rivoluzione», come scrisse a Togliatti nel corso della famosa polemica su «Politecnico». Vittorini sognava una letteratura che sapesse interagire al livello più alto con tutte le attività umane, che ne fosse il lievito, lo stimolo permanente.
Era (dice ancora Calvino) totalmente immune dalla negatività esistenziale, dalle voluttà del nichilismo, dalle scissioni dell’Io che connotano il Novecento degli sconfitti contenti di esserlo. Anteponeva l’urgenza di un rinnovamento vero alla sua stessa creatività personale, esempio unico di disinteresse.
Nel volume c’è di tutto: saggi, articoli di varia occasione, recensioni, i risvolti per i «Gettoni» einaudiani (sempre imprevedibili, spesso a contropelo), schede di lettura, interviste autobiografiche (tenerissime), risposte a inchieste e dibattiti, elzeviri, corsivi, scritti sull’arte (Dosso Dossi ma anche Cassinari e Guttuso), dibatti sul fumetto (con Eco), abbozzi di storie letterarie, lucidi ripensamenti dei propri libri, ma si possono comunque identificare alcuni nuclei forti. Il gran lavoro sugli americani, anche in vista dell’antologia poi pubblicata da Bompiani (Saroyan, James Cain, Caldwell, Faulkner, Steinbeck, Wright, John Fante); gli interventi febbrili su Politecnico (1945-47), poi sul Menabò (1959-65), principalmente centrati sul solito dolente nodo dei rapporti tra cultura e politica e sull’impegno.
Non c’è campo in cui l’autodidatta non scateni le sue curiosità, creando collegamenti fulminei,
sorprendendo il lettore laddove meno se lo aspetta.
Parla schietto, trasferendo nello scritto la vivacità orale. Gran comunicatore, incantatore nato,
immune da rigidezze accademiche e specialistiche, mercuriale sempre. Così pronto ad ammettere i propri errori che anche un nemico non può che rassegnarsi ad amarlo. Dichiara
odi e amori con il candore degli innocenti. Dice (negli Anni 30) di detestare Voltaire e Balzac,
Kipling, Rilke e Kafka, D’Annunzio e Dostoevskij e idolatra Hemingway al di là del ragionevole,
ma è capace di mandare a Montale, dalle colonne di un periodico giovanile, un saluto di ringraziamento per le Occasioni appena uscite («il fatto più importante, oltreché il più felice, dei nostri ultimi mesi di storia umana»).
Perché nel cuore di Vittorini, felice perché sempre in movimento, lanciato verso il prossimo
ostacolo, non c’è la letteratura, c’è l’uomo. La letteratura è uno strumento da usare bene, come tanti altri. Per questo si sdegna perché nel primo governo repubblicano non è stata chiamata una sola donna, nemmeno come sottosegretario.
Ripete che il più umile dei problemi di una città ha un significato per la cultura in assoluto. Richiesto di autodefinirsi, si iscrive nella categoria dei «poeti civili», lui che non ha scritto un verso. E nel 1964 arriva a dire che la letteratura è ormai destituita d’importanza, si è fatta semplice mediatrice di cose scoperte da altri.
Che la nostra fantasia è vecchia, governata da una concezione del mondo che risale a Tolomeo. Negli ultimi anni, per coerenza, si butta a leggere di scienza, matematica, biologia,
astrofisica. Dice che bisogna continuare a scrivere senza la presunzione di credere che sia importante.
Come sarebbe bello che il calore delle indomite passioni di questo «indiano delle riserve» (come si definiva autoironicamente, ma senza indietreggiare di un pollice) arrivasse fino a noi, al nostro deserto di cenere governato dal marketing.

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Cosa rimane di Vittorini?
di Maria Lucia Riccioli

maria_lucia-riccioli.JPG23 luglio 1908 – 23 luglio 2008.
Vittorini cent’anni dopo la sua nascita.
Cosa rimane di uno scrittore? Ce lo chiediamo spesso, in particolare quando si verificano ricorrenze come quelle dei cinquantenari o in questo caso dei centenari.
La figura e l’opera di Vittorini sono state fondamentali per la cultura italiana tra le due guerre e oltre. Ma quali ne sono stati i frutti? Riusciamo a scorgerli ancora oggi? Vittorini è ancora un autore fecondo e vitale, a parte il suo ruolo di “editor” e organizzatore di cultura?
Siracusa dedica da anni un premio letterario ad Elio Vittorini e quest’anno è stata curata la pubblicazione di un volumetto che raccoglie estratti dalle sue opere più note, dei disegni realizzati da Guttuso per un’edizione di “Conversazione in Sicilia” che però vide la luce solo nel 1986. Speriamo che si realizzi il sogno di Siracusa di fare di più – magari una casa museo, una biblioteca – per onorarlo degnamente.
La Sicilia è stata sempre mater poco materna con i suoi figli più illustri e con Vittorini non ha fatto eccezione. Il figlio del ferroviere, cognato di Salvatore Quasimodo, che vide la luce nell’isola di Ortigia, alla Mastrarua, poi Via Vittorio Veneto, dopo i primi studi, il formarsi di una precoce coscienza politica e le febbrili entusiastiche letture, ha fatto la sua fortuna “in continente”.
Cosa resta, dicevamo, di Vittorini? Le istanze della denuncia civile? L’ideale riscatto degli umiliati e offesi? Vittorini patì anche l’ottusità ideologica degli stessi compagni di partito (Togliatti e il suo becero “Vittorini se n’è gliuto e soli ci ha lasciato”), oltre alla sostanziale incomprensione e indifferenza dei conterranei.
La sprovincializzazione della nostra letteratura? Grazie all’antologia “Americana”, grazie ad uno stile che risente della lezione degli autori statunitensi. L’esperienza neoilluministica de “Il Politecnico” fu fondamentale, come la sua opera di “talent scout”.
Il suo stile? L’ermetismo, il simbolismo allegorico? Sono ancora proponibili?
Certo rimane memorabile il lirismo dell’incipit di “Conversazione in Sicilia”:

Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi sono messo a raccontare. Ma bisogna dica che ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, i qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero a capo chino.vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo.
Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.

Rimangono la passione per i libri e la letteratura, scoperta e passione giovanile:

È una fortuna aver letto quando si era ragazzi. È doppia fortuna aver letto libri di vecchi tempi e vecchi paesi, libri di storia, libri di viaggi e le Mille e una notte in special modo. Uno può ricordare anche quello che ha letto come se lo avesse in qualche modo vissuto, e uno ha la storia degli uomini e tutto il mondo in sé, con la propria infanzia.

Vorrei che iniziassimo un dibattito innescato dalle mie domande e da quelle che ci verranno in mente. Sono onorata di scrivere su Vittorini per orgoglio di comune siracusanità e spero che i miei concittadini prima o poi si sveglino dall’apatica quiete della non speranza.

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Vittorini editore e il suo rapporto con il cinema
di Salvo Zappulla

salvo_zappulla.JPGVittorini è stato uno degli intellettuali più poliedrici del ventesimo secolo, autodidatta, letterato per vocazione, aveva una visione pessimistica della vita, una costante tristezza che esprimeva attraverso la scrittura. E’ stato sempre dalla parte degli ultimi, i lavoratori, gli oppressi. Loro sapevano che di lui potevano fidarsi, e lo amavano. Si definiva un solariano e questo termine ne racchiude altri che intendono antifascista, europeista, antitradizionalista. In poche parole: illuminista. Se consideriamo che egli dichiarava con forza le proprie idee, in un momento storico in cui un sistema autarchico consigliava una certa “prudenza”, ci possiamo rendere conto della grandezza di quest’uomo. E’ nota la sua collaborazione con la Einaudi per la quale curò la collana I gettoni che servì a lanciare autori come Calvino, Fenoglio, Romano, Rigoni Stern, Ottieri, Testori, Bonaviri ed altri. Altrettanto famoso – una macchia sulla sua coscienza di intellettuale – fu il suo rifiuto al romanzo di Tomasi di Lampedusa. Va precisato però che il romanzo subì prima un rifiuto da parte della Mondadori alla quale Tomasi di Lampedusa aveva inviato quattro capitoli tramite il cugino Lucio Piccolo. Il testo letto dai redattori (Ricci, Antonielli e Romanò) pur non ricevendo un giudizio del tutto negativo, non fu ritenuto idoneo alla pubblicazione. Vittorini in quel caso si limitò a dare il suo parere conclusivo senza leggere il dattiloscritto personalmente. Successivamente egli ricevette ancora parte del dattiloscritto affinché il romanzo venisse pubblicato su I gettoni, ma lo ritenne lontano per la sua idea della collana in quanto Il Gattopardo, emblema dell’inettitudine sociale e politica della nobiltà siciliana, era un tema ritenuto da lui piuttosto stantìo. Come sappiamo il romanzo verrà pubblicato da Feltrinelli nel 1958 a cura di Giorgio Bassani. Forse il suo rapporto con il cinema è il meno conosciuto rispetto alle molteplici attività di intellettuale. Alla fine degli anni Trenta non esisteva in Italia una vera e propria critica cinematografica e Solaria fu una delle prime riviste a dare ampio spazio a questo settore. Gli anni fiorentini (1930-1938) sono quelli in cui Elio Vittorini si avvicina alla critica cinematografica, anche se costituisce sempre un’attività marginale rispetto alla sua corposa produzione letteraria. Sono anni di difficoltà economica per la famiglia Vittorini, ed egli si presta persino a interpretare una parte nel film Romeo e Giulietta di Castellani. L’attività dello scrittore è frenetica ma l’impegno dedicato al cinema è autentico ed estremamente competente. Egli afferma: “L’essenza artistica del cinematografo è nel movimento”. E ad esso occorre, se necessario, sacrificare le bellezze accessorie. Quando si riferisce al movimento, di successioni, di immagini, di ritmo, si riferisce al montaggio così come è inteso dai grandi maestri dell’avanguardia russa. Aveva una grande passione per Charlie Chaplin, la cui arte – a suo parere – apparteneva alla storia. Era tale la stima per il grande comico, che nel numero 10 del Politecnico gli dedica un articolo, anche se non firmato, ma la cui impronta stilistica è inconfondibilmente sua. Vittorini attribuiva al cinema un ruolo fondamentale per l’educazione del popolo italiano e già, sempre nel Politecnico, secondo numero, pubblica un breve articolo dal titolo ”Il cinematografo dell’avvenire”, a cui fa seguito nel numero successivo un altro scritto a firma di Carlo Luzzari. Il cinema come specchio dei tempi e dei problemi sociali. Tutta l’attività di Vittorini si sviluppa all’insegna dell’impegno civile e ideologico, un neorealismo che non va inteso nel suo senso più ristretto ma che lascia spazio alla poesia, al lirismo, permeato da grande valenza etica. Sicuramente ha lasciato un segno tangibile sulla storia degli uomini.

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Vittorini e l’Isola
di Simona Lo Iacono

simona_lo_iacono.JPGSi dice che l’uomo sia una scaglia di terra. Che sia nato da fango misto a saliva. Si dice che è questo a suggerirgli i passi. Che è la forma di quella terra a dar corpo al suo corpo. Parola alla sua parola. Sguardo al suo sguardo.
Si dice.
Ma non si dice soltanto.
Si sente.
Si sente se è grumo di montagna, goccia di lago, o sale di mare.
Si sente se è uomo di isola o di continente.
Ecco. Elio Vittorini fu uomo di isola. E lo fu due volte.
Perché non fu solo siciliano. Ma Siracusano. E di quella parte di Siracusa che è isola dell’isola: Ortigia.
Il nome pare venga da “quaglia”, perché Ortigia è un isolotto arpionato alla città e che dall’alto richiama la fisionomia di questo uccello.
Ma io che ci abito, io che ne respiro l’accroccato divincolarsi tra strade dai nomi ebrei, arabi, greci, io che saluto lo scudo della dea Atena che svetta dal Duomo sol che apra le mie finestre – io so che Ortigia non è nome di quaglia.
E che – anzi – non è neanche nome.
Piuttosto modalità dell’essere. Del vivere.
Del morire.
Tanto che non se ne può prescindere per comprendere l’opera di Vittorini. Né si può ignorare il suo essere contemporaneamente dentro la Sicilia e fuori di essa, quasi su un battello pencolante, che con uno sboffo di corrente potrebbe mollare gli ormeggi.
Doppia isola, dunque. E doppia solitudine. Doppio errare.
Doppio esilio.
Perché l’isolano è esule. E’ straniero.
Ma l’isolano che dall’isola passa ad un’altra isola è quasi un pellegrino di mare. Un eterno viandante. Un Ulisse meno precario che deve fare i conti con una stabilità sempre da rincorrere.
A tal punto scava in noi, la forma della terra.
A tal punto un duplice rimando ci costringe ad allungare lo sguardo – avanti e ancora avanti – a tal punto ci impone di sognare due volte.
E poi, allontanarsi due volte. Tornare due volte. Intascarsi non una, ma due manciate di nostalgia.
Credo che in questa somma di ostacoli sia da cercare anche il senso del viaggio. Della navigata che in “Conversazione in Sicilia” non solca solo lo stretto di Messina, non Scilla e Cariddi, non una fetta di mare.
Ma un portale. Un ingresso in una dimensione e poi in un’altra. Un varco tagliato da uno Stige.
Quando questo confine viene oltrepassato la memoria di ciò che ci precede vacilla. Perché rientrando in Sicilia e poi ancora in Ortigia, il passo si abitua all’ondeggio del mare.
Lo vedi che ti assale ovunque, se vai avanti, se guardi indietro, se torni a casa.
Ovunque, ovunque. L’acqua a frastagliarti addosso come un dolore. Di non poter che essere questo. Questo oscillare e questo complicato rientro che non si accontenta di compiersi come per gli altri.
Che per te si raddoppierà sempre.
A tal punto scava in noi, la forma della terra.

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LETTERATURA È DIRITTO, LETTERATURA È VITA (di Simona Lo Iacono) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/07/10/letteratura-e-diritto-letteratura-e-vita/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/07/10/letteratura-e-diritto-letteratura-e-vita/#comments Thu, 10 Jul 2008 20:06:13 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/07/10/letteratura-e-diritto-letteratura-e-vita/ Simona Lo Iacono la conoscete molto bene, perché è di casa qui. Scrittrice dalla penna lirica e immaginifica, è la creatrice, la mente e il braccio di un importante salotto letterario che ha sede in casa sua, a Siracusa. Ma Simona Lo Iacono è anche un valente magistrato (dirige il Tribunale di Avola).
Ho pensato di intestare a Simona una nuova rubrica di Letteratitudine dove confluiranno talento letterario ed esperienza di giurista.
Il titolo è: Letteratura è diritto, letteratura è vita. Piuttosto evocativo, vero?
Qui potrete leggere storie nate nelle aule di Tribunale, articoli sulle “implicazioni giuridiche” della scrittura (soprattutto quella in rete), considerazioni su romanzi che incrociano la sfera del diritto e molto altro (perché letteratura è diritto… ma è, soprattutto, vita).

Intanto vi invito a gustarvi il pezzo omonimo della rubrica (lo trovate di seguito) e a interagire con l’autrice.

Vi ricordo che è disponibile, on line, il bellissimo racconto I semi delle fave, firmato – appunto – da Simona Lo Iacono.

Auguri, Simona!

Massimo Maugeri

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Letteratura è diritto, letteratura è vita

di Simona Lo Iacono

Ci sono albe che si somigliano. Che si sovrappongono. Che ci appartengono anche se le chiamiamo con nomi diversi.
Sono le albe in cui l’uomo ha immerso lo sguardo in se stesso. In cui si è contemplato e ha scoperto che era un’eredità. Che aveva un passato. Una storia da ricordare.
Le origini del diritto si confondono con le origini della letteratura. Con l’esigenza di raccontarsi e di codificare regole per migliorare la convivenza. E sebbene l’alba della parola sembri non avere assonanza con quella della norma, l’uomo le ha viste nascere insieme. Ha posato lo sguardo su di esse nello stesso momento.
Perchè raccontandosi e non perdendo memoria della propria storia, l’uomo la esaminava e formulava ipotesi per disciplinarla. Perché narrazione e regolamentazione fanno parte della stessa necessità: sopravvivere.
E perché laddove una smarriva la strada, l’altra sopravveniva a colmarla. Dove l’una perdeva la pietà, l’altra riesumava lacrime e dolori.
Letteratura e diritto sono sorelle.
Sono sorelle nel rappresentare l’uomo e i suoi errori. Nel raccoglierne i lamenti. Sono sorelle nell’identificarne la voce, nell’interpretarne i desideri.
Nessun intreccio è più complementare: diritto e letteratura. Rimandano l’uno all’altra lambendo un unico e misterioso continente: quello della natura umana.
Perché la legge non è un abito che dall’esterno ci vesta. Non è forma – indurita da precetti – che ignori la fragilità umana. La legge è frutto di quella fragilità. E’ sintesi della sua precarietà. E’ la stessa occhiata stupefatta su quell’alba. E nasconde lo stesso incanto nell’interrogarsi.
La pratica giudiziaria lo dimostra. Le norme più rispettate sono quelle percepite come conformi all’identità di un popolo. Alla sua esigenza di essere interpretato nei propri bisogni. Al risuonare della sua anima.
E le storie seguite con più passione sono quelle che nascono da una norma violata. Da un’esigenza di riparazione. Da un cambiamento che si concluda con una risposta. Non con un’altra domanda.
Perché la vita è già domanda. E’ già viaggio e cambiamento. Affastellarsi di umori sovrapposti che esigono giustificazione.
Il processo è una giustificazione. Così come il romanzo.
Io credo che il miglior processo sia quello che si conclude dopo aver scavato dolentemente e sinceramente nella ricerca di una giustificazione al mistero di esistere. E che tale sia anche il miglior romanzo.
Se entrambi conciliano pietà e fantasia, verità e desiderio di sottoporsi a questa verità, nessun imputato né alcun lettore potrà pensare di non avere avuto giustizia.
Simona Lo Iacono

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IL SUCCESSO DEL RICCIO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/06/09/il-successo-del-riccio/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/06/09/il-successo-del-riccio/#comments Sun, 08 Jun 2008 22:51:56 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/06/09/il-successo-del-riccio/ L’abbiamo detto altre volte. Costruire un best seller a tavolino è cosa assai difficile, praticamente impossibile. È più agevole ragionare in direzione opposta, con il “senno di poi”. Partire, cioè, da un caso di successo, magari inatteso, e interrogarsi sui motivi che tale successo, in un modo o nell’altro, l’hanno determinato.

In Francia, per esempio, c’è stato un libro che sul campo si è guadagnato il titolo di caso letterario del 2007 vendendo centinaia di migliaia di copie grazie a un impressionante passaparola. Il libro ha poi vinto il Premio dei Librai assegnato dalle librerie.

Il suddetto successo è stato sostanzialmente replicato anche qui in Italia.

Mi riferisco a L’eleganza del riccio di Muriel Barbery, tuttora in top ten, e che qualche settimana fa ha raggiunto la cima delle nostre classifiche dei libri più venduti segnando il più importante successo editoriale nella storia della casa editrice romana e/o (che al libro ha anche dedicato un apposito forum).

Vi propongo: un articolo di Daria Bignardi, la recensione della “nostra” Simona Lo Iacono (che mi darà una mano a moderare il post) e l’opinione di Giovanna Bentivoglio (editor e/o per la letteratura italiana).

A voi domando:

Cosa pensate del libro in questione? Vi ha sorpreso? Vi ha deluso? Vi aspettavate di più? Di meno? (Mi rivolgo, chiaramente, a chi ha letto il libro).

Quali sono le ragioni di tanto successo?

E poi… chiudersi a riccio, nascondersi, nascondere i propri sogni, le passioni, le aspirazioni, e coltivarle in segreto… è giusto o sbagliato? È bene o male?

Quali sono i pro e i contro?

Massimo Maugeri

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L’articolo di Daria Bignardi

L’eleganza del riccio di Muriel Barbery è in classifica da parecchio, in Francia è stato il successo dell’anno scorso e sta diventando un caso anche qui: mentre scrivo è al primo posto della narrativa straniera. L’ho letto a Natale e non mi ha deluso, era dai tempi di Quella sera dorata di Peter Cameron che non m’imbattevo in un romanzo tanto romantico. In Internet se ne discute con foga: chi lo trova un romanzetto pretenzioso pieno di difetti, chi un libro delizioso. Io sono d’accordo con entrambe le curve, anche se, dovendo votare col maggioritario, do il mio voto al partito del delizioso. Voglio dire che L’eleganza del riccio non è certo un grande romanzo contemporaneo come, che so, La versione di Barney di Mordecai Richler, ma è un libro piacevolissimo che induce sane riflessioni. Riflessioni e ricordi: di quando da ragazzi si viveva d’arte e d’amore, letteralmente, e si pensava che sarebbe stato così per sempre. Chi prima e chi dopo, quasi tutti a un certo punto abbiamo scoperto quanto i bei libri, il buon cinema, l’arte possano dare piacere.Noi l’abbiamo scoperto alle superiori, o giù di lì; la portiera Renée, il Riccio, l’ha intuito addirittura da bambina, poi però la sua vita è andata in un modo che non prevedeva scuole né teatri né biblioteche. Ma il germe di quel piacere Renée l’ha coltivato da sola, di nascosto. Il motivo per cui decide di nascondere a tutti le sue buone letture, camuffandosi da persona ignorante, è uno dei limiti del romanzo: non molto credibile e un po’ di maniera.
Ma se l’artificio letterario non è riuscitissimo, lo è invece il suo personaggio: tutti ci nascondiamo. O, almeno, tutti crediamo di farlo. I più sensibili e irrisolti di noi si sentono sempre in incognito, come Renée, e passano la vita a cercare di non farsi notare mentre coltivano in segreto passioni, speranze, sogni. Renée non spera, ma in segreto coltiva il Bello. Finge di cucinare piatti grevi che dà al suo gatto (che si chiama Lev come Tolstoj) mentre lei si nutre di piatti semplici ma raffinati, finge di guardare programmi stupidi in Tv ma in segreto studia l’anti-cinema di Ozu, legge solo classici e saggi, ascolta Mahler.
Tutto questo mentre lavora per gli inquilini ricchi di un palazzo parigino di rue de Grenelle, uno più stupido e superficiale dell’altro tranne Paloma, figlia dodicenne di un deputato, così lucida e disperata che ha deciso di uccidersi il giorno del suo compleanno. Sarebbe la coprotagonista del romanzo, ma, per quanto simpatica, scompare di fronte alla forza del personaggio del riccio Renée.Quando in rue de Grenelle 7 trasloca un ricco ma sensibile vedovo giapponese, la storia prende un ritmo cinematografico incalzante e, improvvisamente, la cultura giapponese diventa la personificazione del Bello assoluto. Non è difficile capire che sia così anche per l’autrice e lo diventa immediatamente anche per il lettore: come non averlo capito prima? È bello tornare ragazzi e credere al potere salvifico dell’arte e dell’amore: deve essere questo il motivo del successo dell’Eleganza del riccio di Muriel Barbery, insegnante di filosofia.

Daria Bignardi

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La recensione di Simona Lo Iacono

simona_lo_iacono.JPGUn condominio. Una portinaia. La vita che s’innesta su ritmi lenti, scrutati da una guardiola. E uno sfilare innanzi a essa distratto, veloce, già preso dal pensiero del  dopo, delle scale che si abbarbicano su,  o dell’ascensore lussuoso che svetterà fino all’attico di rue de Grenelle numero 7.

Da questo andirivieni che la sfiora soltanto, che a stento la lambisce come onda che rallenti sulla schiena di un pesce, la portinaia è separata da un cortile, da piante curate con concimi e spray, da pochi passi scalpiccianti su un marmo levigato, incerato di fresco.Eppure è come se in questo brevissimo spazio si dilatassero terre e continenti. Come se Renée – anni 54, vedova, pantofole ciabattanti nel sottoscala – per gli abitanti di rue de Grenelle  non esistesse.Sarà perché è mattina di afa. E sudori svaporano dai seni delle signore imbellettate. Sarà perché nell’aria naviga l’odore acre di un profumo costoso e cani di razza ticchettano per i corridoi.Renée osserva dalla guardiola. Torna a lucidare gli ottoni delle maniglie. Di nuovo solleva lo sguardo. Alle sue spalle, l’ultimo libro letto pare occhieggiarla e sussurrarle un invito. Dopo, pensa, dopo.

E dopo, quando la guardiola serra gli usci, quando  lo scuro prende ad assediare l’atrio, le vetrate, le porte su cui splendono le targhette degli interni, Renée esiste. Esiste nelle speculazioni filosofiche che le balenano in testa con raffinata spavalderia. Nella lettura di  Tolstoj. Nell’assetata conoscenza della musica classica, dell’arte contemporanea, dei film d’autore.Allora è come se da un fodero consunto guizzasse fuori una lama d’argento.  Come se dal guscio di un riccio venisse allo scoperto un corpo elegante. Come se la portinaia svaporasse dal grembiule che la  cinge ai fianchi  e intonasse un canto.Un canto ironico, colto, contemplativo. Quello che la sua autrice – Muriel Barbery (“L’eleganza del riccio” ed. e/o) – le affida impavidamente, rompendo gli schemi dell’apparenza. Quello che stranamente si incrocia – in ondeggiante riflesso – a un altro canto.

Paloma. Figlia di un ministro. Disincantata abitante  del condominio. Contestatrice silenziosa delle amicizie che contano, della lingerie di lusso, dei cibi dell’aute cousine rosolati in essenze orientali. Paloma che scrive un diario. Che tesse riflessioni e poesie. Che programma di dar fuoco alle vacuità del suo mondo in un rogo infestante.

Paloma. Che ha 12 anni e che vuole morire.Una morte di cui riempie le pagine. Di cui organizza i particolari. Di cui  recita la parte con distacco, fingendosene disinteressata. Attendendo – disperatamente attendendo  – che qualcuno  la salvi.

Ecco. E’ forse in questa inconsapevole attesa della  salvezza che le due voci si somigliano. In questa sospensione senza dolore, senza speranze. Nell’immobilità che precede lo scroscio di un acquazzone, il saettare di un fulmine, il rombare di un tuono.Questa salvezza, Renèe e Paloma non sanno neanche di vagheggiarla. Di desiderarla. Di lambirla in notti stanche, cullate dal ronfare di un gatto o dal cicaleccio della  tv. Non sanno che è prefigurazione di un viaggio. E che è anche paura di essere salvate.

Quando questa salvezza irromperà nelle loro vite – e avrà volto di uomo e di poeta – forse al lettore sembrerà tardi. Forse penserà che il destino riscuote troppi interessi e che  Renée meritava più tempo. Penserà: non ora. Non ancora.

Ma non è beffa. Né malasorte. Tu, lector, ricorda che la rivincita sta nel far affiorare assonanze. Nel lasciare che il battito del cuore illanguidisca, che il respiro si riappropri di uno spazio, che qualcuno ci sradichi dalla guardiola. Dopo, sarà come andare – finalmente andare –  a fiato pieno. Allungare  il ricordo  sul passato. Tornare a ripercorrerlo, il passato, a farne un polverio da sfarinare, ormai, tra le dita.

Simona Lo Iacono

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L’opinione di Giovanna Bentivoglio 

Il romanzo di Barbery è sicuramente un caso letterario interessante da analizzare e a parer mio verte sulla straordinaria coincidenza di una mutazione nel comune sentire di una società, quella francese, che ha comportato la rottura di luoghi comuni con la conseguente insofferenza per quello che era ritenuto il politicamente corretto corrente, e il “tempismo” dell’autrice nel coglierne e rappresentare in un romanzo la mutata sensibilità. La scrittrice ne ha avvertito i segnali e li ha trasposti in una storia abitata da uno spirito sarcastico pungente, da un’ansia di riscatto per coloro che – per una ragione o per l’altra – restano emarginati o schiacciati e dall’insofferenza per una certa casta dominante ma in rovinoso declino politico sociale (quella della cosiddetta “gauche caviar”). Il grande successo registrato anche in Italia è a mio avviso il sintomo che, al di là del valore letterario specifico del romanzo (che pure c’è), esso corrisponda a una stessa mutazione nella sensibilità comune, una stessa insofferenza nei riguardi di una rappresentanza politica e culturale che ha durevolmente detenuto il primato dell’egemonia culturale ed etica e che, come si è visto, non corrisponde più a un sistema di valori e a una identità sentita e condivisa.

Giovanna Bentivoglio

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A CIASCUNO IL SUO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/18/a-ciascuno-il-suo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/18/a-ciascuno-il-suo/#comments Tue, 18 Mar 2008 20:25:16 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/18/a-ciascuno-il-suo/ Ho il piacere di presentarvi due racconti molto interessanti.

Naturalmente siete invitati a leggerli e a commentarli.

Il primo racconto, intitolato “A ciascuno il suo”, (titolo sciasciano) è firmato da Veronika Simoniti. E lo trovate in questo stesso post.

Il secondo, “I semi delle fave”, è di Simona Lo Iacono. E lo trovate qui.

Preciso subito che Veronika è la moglie del “nostro” Sergio Sozi.

Entrambi i racconti sono preceduti da una breve nota biografica.

Buona lettura.

(Massimo Maugeri)

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veronika_simoniti.jpg

Veronika Simoniti (1967, nella foto) vive a Lubiana, dove lavora, soprattutto per conto di grandi case editrici, come traduttrice letteraria dal francese e dall’italiano (Camilleri, Marani, Buzzati, Calvino, Pazzi, Tabucchi, Vassalli, ecc.), oltre che come Lettrice d’italiano presso
la Facoltà di Lettere e Filosofia di Lubiana.In quanto narratrice ha esordito in Slovenia nel 2005 con Zasukane štorije – raccolta di racconti brevi, segnalata dal Premio Esordio dell’Anno 2005 e due volte inclusa tra i finalisti del premio per la migliore raccolta di prosa breve, Fabula 2006 e Fabula 2007. Ha vinto premi o ricevuto segnalazioni anche per singoli racconti (per l’Italia ricordiamo la segnalazione del Premio Teramo). Pubblica per diverse riviste letterarie slovene e per Radio Slovenia. Alcuni suoi racconti sono stati tradotti in inglese, tedesco, ungherese, croato e italiano.Il racconto Egeo è incluso nell’antologia di scrittori sloveni nati dopo il ‘60, in inglese, A Lazy Sunday Afternoon, pubblicata dall’Associazione degli Scrittori Sloveni (Lubiana 2007) oltre che, in traduzione italiana, nell’antologia Cromografie (ed. bilingue ita/slo, 2007). Finora ha tenuto incontri letterari su invito a Budapest (Fiera del Libro – aprile 2006), Francoforte (Fiera del Libro – ottobre 2006), Roma (Università la Sapienza – maggio 2007), Torino (Salone del Libro – maggio 2007) e Berlino (Literatur Werkstatt – febbraio 2008). È membro della giuria del premio del Festival Letterario Internazionale Vilenica, dell’Associazione degli Scrittori Sloveni e dell’Associazione dei Traduttori Letterari sloveni.

Va infine precisato che il racconto A ciascuno il suo, tutt’ora inedito in Italia, ha ricevuto il personale apprezzamento di Claudio Magris.

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A CIASCUNO IL SUO

Abdul non sapeva dove sbattere la testa. Non sapeva che fare. In un anno che stava in Italia ancora non aveva combinato niente. L’unica cosa buona era aver incontrato Madjid. Madjid non era curdo come Abdul, era berbero. Comunicavano in un italiano zoppicante, con quelle poche parole che avevano imparato durante il loro breve soggiorno senza permesso in Italia.

«Abdul, cosa fare noi oggi?»

«Che ne dici di andare a vedere se troviamo qualche motorino?»

«Ah, ah, Abdul, motorino per girare, brrruumm, brrruumm, ah, ah…»

E cosí Abdul il Curdo e Madjid il Berbero in quella tiepida sera settembrina si misero a cercare «qualche motorino». Si avviarono per le vie del centro storico pordenonese, senza badare alle bellissime facciate delle case rinascimentali, senza degnare nemmeno di uno sguardo le arcate che proteggevano i maestosi portoni dei palazzi signorili, senza sentire i colpi dell’orologio municipale, senza accorgersi degli affreschi rosso-marrone in restauro. Il loro passo era diretto verso l’immediato futuro perché del passato e della storia che ancora attualmente opprimevano i loro rispettivi popoli non ne potevano più. 

II 

Silvano e la sua fidanzatina salparono troppo tardi. Quella tiepida ma piovosa sera settembrina la loro macchina sembrava piú una nave che un veicolo stradale. In più, la sua fidanzata, nonostante l’aspetto magro, smilzo e indifeso, quella tiepida sera settembrina era anche un bel po’ stronzetta. Tra gli scrosci che si sentivano mentre le ruote navigavano da una pozzanghera dell’autostrada all’altra, non smetteva di rimproverargli di essere partiti troppo tardi per colpa sua, per colpa di Silvano.

«Chi dorme non piglia pesci. Se sai che il giorno dopo devi fare duecento chilometri in macchina e che l’incontro è fissato per le sei e mezza, non parti mica alle quattro del pomeriggio».

Il naso della fidanzata sembrava allungarsi per l’offesa.

«Senti, stanotte stavo ancora rileggendo la cosa. Lo sai che non sono molto sicuro che tutto vada bene».

«Ma certo che va bene, Silvano! L’abbiamo rivista chissà quante volte. Lo sai che meriterebbe di essere pubblicata».

«Lo pensi davvero?»

«Certo, amore».

Il naso della fidanzata era tornato corto come prima.

«Il fatto è che oggi funziona tutto con le conoscenze. Se non stai nel giro, se non lecchi i piedi a nessuno, non combini niente».

«Ce la farai, amore, ce la faremo», rispose la promessa sposa come rispondono le regine che dietro le quinte tengono i fili del regno del marito.

Splash, splosh… oddio, è andata la gomma!  

III 

«Abdul, piacere a te quello motorino?»

No, a Abdul non piaceva perché stava troppo vicino al baretto, e davanti al baretto c’era della gente seduta che, sorseggiando il caffè o il refosco friulano, avrebbe potuto vedere il furto da vicino e dunque reagire.

Il curdo e il berbero erano stanchi. Si sedettero sugli scalini davanti a un negozio chiuso per le tarde ferie.

«Sta per cominciare a piovere», disse Abdul.

«Da noi non piovere mai. Tutto secco», aggiunse Madjid.

«Da noi raramente. C’è anche una leggenda sulla pioggia. È una leggenda molto bella».«Dimmi la leggenda, Abdul».

«Un giorno un giovane principe vaga per i campi e avvista una  pastorella. La pastorella si chiamava Leila e pascola una sola pecorella… Il principe Najad si avvicina alla pastorella e vede che lei è molto bella…»

«Bella come Naomi Cambel, ah, ah…»

«Bella come Naomi Campbell. Ma vede anche che la pastorella Leila piange. Allora le chiede: ‘Pastorella, perché piangi?’»

In quel momento davanti ad Abdul e Madjid passò un elegante signore in giacca e cravatta che, scambiando il berretto di Abdul per un contenitore elemosiniaco, ci gettò la nuova moneta da mille lire.

Abdul e Madjid si scambiarono gli sguardi e sorrisero con complicità. 

IV 

Il professor Jagris già da tempo soffriva di quello che negli ambienti letterari viene definito il «vuoto creativo». Dopo l’ultimo libro, Il Tagliamento, una riuscitissima metafora del «taglio» tra due mondi, quello italiano e quello «furlan», era rimasto avvolto in un vacuum e gli sembrava di stare sotto una campana di vetro. Non lo poteva consolare né l’attenzione che gli recavano gli intellettualetti provinciali né gli inviti di cui era bombardato da ogni parte della regione né le lettere, piene di lodi e complimenti, che riceveva tutti i santi giorni. Non ne poteva piú di sparpagliare la propria conoscenza tra i commensali accidentalmente occasionali nelle tavolate dopo le sue conferenze, quella  gente che gli succhiava il midollo mentre lui buttava il suo sapere come le perle ai porci. Solo che i porci tornavano a casa tutti orgogliosi e arricchiti, e lui rientrava del tutto esausto e vuoto. Il  professor Jagris era disperato. Il contratto lo obbligava a consegnare un nuovo libro entro la fine dell’anno. Era autunno, era una tiepida sera settembrina, gli rimanevano ancora tre mesi e nell’orfano file del suo computer non figurava neanche una frase completa. Gli abbozzi delle idee gli giravano sí nella testa, ma nessuna di esse era degna di essere approfondita. Il tema del suo saggio letterario avrebbe dovuto aggirasi intorno alle leggende antiche e moderne orientali e occidentali. Il professor Jagris negli ultimi mesi aveva letto tanta di quella letteratura scritta sull’argomento, ma non riusciva a sviluppare un proprio punto di vista. E quella sera doveva andare all’Auditorio, per un’ennesima conferenza su Il Tagliamento. Sapeva a memoria già le domande che gli avrebbero fatto e le risposte che lui avrebbe dato. Erano le sei, bisognava avviarsi verso la sala, stava nella piazzetta sotto il corso. E poi ha fatto bene ad aver lasciato il motorino nel vicoletto lí vicino, sarà facile tornare a casa. Pensieroso, il professor Jagris passò davanti a due extracomunitari gettando una nuova moneta da mille lire nel berretto che giaceva davanti a loro. Chissà da dove vengono questi due, pensò, e chissà come sono le leggende del loro Paese. 

Il carro attrezzi dell’ACI partí e Silvano e la sua fidanzatina tirarono un sospiro di sollievo. La gomma era a posto e dopo aver fatto la pipí nell’orrendo ed anonimo autogrill continuarono il viaggio verso Pordenone. Silvano diventava nervoso perché si stava facendo tardi; la gomma gli aveva preso un’ora del suo prezioso tempo.

«Se fossimo partiti prima…», ricominciava la fidanzata col naso sempre piu affilato.

«Se fossimo, se fossimo… fatto sta che non siamo partiti prima!» alzò la voce Silvano.

«Per colpa di chi?»

«Uffa!»«E che fai???» urlò lei.

«Cosa adesso?»

«Hai appena fallito l’uscita per Pordenone!»

«Come? Non è possibile!»

«Ma sí, certo, se sorpassi il camion nel momento in cui ti sta coprendo il cartello indicatore!»

Anche il naso di Silvano diventò lungo. E per di piú, rosso.

La fidanzata stese la cartina sulle ginocchia.

«Adesso dobbiamo fare la strada statale che è molto piú lunga». 

VI 

«Allora le chiede: ‘

Pastorella, perché piangi?’

‘Piango perché prima avevo un gregge numeroso.’

‘E dove sono andate le tue pecore?’ chiede il principe.

‘Le ha rubate il Dio della Pioggia.’

‘E dove le ha portate?’

‘Stanno nel suo Regno delle Nuvole.’

‘E perché te le ha prese?’

‘Perché si sentiva solo e vuoto.’

‘Non puoi chiedergli di ridartele?’

‘Ho paura.’

Il principe Najad che pian piano si innamora della pastorella decide di andare dal Dio della Pioggia e chiedergli di restituire le pecore a Leila».

«Abdul, lei bella come Naomi Cambel?»«Sí, bella come Naomi Campbell». 

VII. 

Quando arrivarono a Pordenone erano le sette e mezza. Prima che trovassero la sala dell’Auditorio si erano fatte le otto meno dieci.

La porta dell’ingresso si aprí e uscí un grappolo di signori con la barba, c’era chi intellettualmente si accendeva la pipa, le donne ridevano con discrezione, i giovani dirigevano lo sguardo verso l’uscita della sala da dove dovrebbe da un istante all’altro venire il celebre personaggio. C’era chi, alla bancarella di uno studente stile sessantotto, comprava Il Tagliamento e c’era chi un po’ piu avanti con il libro già comprato in una mano e la penna nell’altra aspettava l’illustre docente per farsi fare l’autografo. Era questa la scena nel momento in cui giunsero Silvano e la sua fidanzata.

«Forse ci riusciamo».

«Ma come faccio a dargli la mia copia, guarda!»

Dal portone uscí un altro grappolo appiccicato al professor Jagris. Sembrava un plotone di guardie del corpo. La piccola folla si eccitò e circondò la scorta.

«Aspetta, si libererà di loro prima o poi, no?»

E infatti, dopo qualche minuto, i fan cominciarono a diradarsi, finché non restò solo il primo nucleo che accompagnò il professor Jagris attraverso la strada.

«Seguiamoli!» si entusiasmò la fidanzata di Silvano.

«Ma che sei pazza?»

«Lo vuoi pubblicare il libro o no? È un’occasione che non possiamo perdere. E poi abbiamo fatto tutta questa strada!»

Il corteo jagrisiano si avviò verso l’osteria dell’Antico daino e si sedette a un tavolino fuori, sotto la tenda. La fidanzata trascinò attraverso la strada Silvano, paralizzato dalla paura. I due si sedettero due tavoli piú lontano. Sulla panchina di legno, Jagris era schiacciato da altri incravattati che guardavano solo lui e assorbivano ogni parola dalle sue labbra. Il professore stava scomodo e anche se avrebbe dovuto un’altra volta gettare le perle ai porci era contento poiché almeno per una sera gli facevano dimenticare il «vuoto creativo»…  

«È imbarazzante», disse Silvano.

«Come faccio, vado lí mentre parla e gli ficco le bozze sotto il naso? Che, gli dico: Professor Jagris, ecco il mio libro, che ne dice di leggerlo e mettere una buona parola per me presso qualche casa editrice?»

«E allora perché siamo venuti? Perché abbiamo fatto duecento chilometri? Dimentichi che per tornare ne faremo altri duecento?»

«E poi lo sai, non sono nemmeno sicuro che il titolo vada bene».

«Ne abbiamo parlato tanto, Silvano: perché Il Regno del Sole non andrebbe bene? È un saggio letterario, ci vuole un titolo un minimo misterioso».

«Forse non traspare bene il contenuto: tratto delle leggende».

«Ma l’hai scritto nel sottotitolo: Il Regno del Sole, Leggende antiche e moderne dell’Occidente e dell’Oriente».

«Forse sarebbe meglio A ciascuno il suo o Le cose cambiano. Cosí si capirebbe subito il messaggio dell’intercambio delle culture, delle ricchezze che si regalavano i popoli durante la storia, spesso senza rendersene conto».

«Sei troppo autocritico».

«E forse non ho fatto abbastanza ricerche sulle leggende ancora sconosciute con cui illustrare il mio saggio. Mi manca il materiale».

I commensali del professor Jagris si alzarono e si misero a stringersi la mano.

«Adesso, vedi, sta per attraversare la strada, seguilo!» 

VIII 

«Abdul, a te piacere questo motorino?»

«Hm, questo potrebbe andar bene. Senti, tu ti metti un po’ piú avanti, a quell’angolo e osserva. Se viene qualcuno, fischia».

«Fischia? Fiu-fiu, cosí?»

«Cosí».

Abdul cominciò a occuparsi della catena intorno alla Vespa rossa.

Il professor Jagris attraversava la strada quando sentí una voce fioca dietro di lui: «Professore, professore, scusi un attimo». Jagris si voltò e vide un giovanotto che stendeva la mano verso di lui porgendogli un fascicolo giallo. Ma la scena che aveva visto un secondo prima gli tornò davanti agli occhi, la scena di due extracomunitari che stavano aprendo la catena di un motorino. Di un motorino rosso. Della sua Vespa! Il professor Jagris non badò al giovane invadente ma corse verso i due delinquenti. In certe situazioni il nostro cervello ha delle idee geniali. Il quel momento il cervello di Silvano ebbe l’idea di acquistare la simpatia del professore salvandogli la moto. Si buttò in una corsa sfrenata dietro ai due ragazzi  che nel frattempo erano riusciti a liberare il veicolo dall’abbraccio della catena, saltarci sopra e fuggire. Si buttò allora, seguito dalla fidanzata, in una gara rocambolesca per essere pubblicato, per diventare un giorno famoso come il professor Jagris, gettando per terra la cartella gialla con dentro il suo saggio. Il professor Jagris si fermò, rimanendo immobile in mezzo alla strada. Ancora non aveva capito cosa gli fosse successo. I suoi accompagnatori erano già andati via e non avevano visto l’indescrivibile avvenimento. La pioggia sgocciolava sulla cartella gialla. Il professor Jagris si inchinò e la raccolse. Aprí il cartone e lesse il titolo: Il Regno del Sole, Leggende antiche e moderne dell’Occidente e dell’Oriente. Un sorriso malizioso gli attraversò il viso. 

 IX 

Dicono che quando uno alle cose ci tiene, riesca a attraversare mari e monti. Silvano, che teneva tanto a conoscere il professor Jagris e a pubblicare il suo saggio, riuscí a prendere i due mascalzoni e la moto del celebre intellettuale. L’ambizione gli dava un tale coraggio che se ne accorsero e si spaventarono anche Abdul il Curdo e Madjid il Berbero.

«Prego, prego, non fare male, noi poveri», supplicava Madjid.

«Non chiamare la polizia, per favore», lo pregava Abdul.

«Adesso torniamo dal legittimo proprietario, gli ridiamo la moto e voi vi scusate direttamente con lui!» era accanito Silvano che teneva le giacche dei due ragazzi sulla loro nuca mentre la fidanzata tirava la Vespa.

«Noi fare tutto, ma non dire polizia!»

Quando imboccarono la strada del furto, il professor Jagris non c’era più. Tornarono al luogo esatto del delitto e non c’era nemmeno la cartella gialla. Silvano lasciò i colletti di Abdul e Madjid, si sedette disperato all’orlo del marciapiede e, sull’orlo delle lacrime, si mise la testa tra le mani.

«Vedete cosa avete fatto, imbecilli!» disse la fidanzata abbracciando Silvano.

«Cosa? Il signore è già andato via, forse lui se ne frega della moto».

«Idioti, ho perso il mio saggio!»

«Saggio? Cosa saggio?» chiese Madjid.

«Sí, ciao, a spiegarlo a voi, cos’è un saggio. E cosa sono le leggende e cos’è la storia del Regno del Sole», singhiozzò Silvano.

«Abdul, questo come tua storia regno di nuvole».

«Sí, adesso non è piu il regno del sole, è il regno delle nuvole», ironizzò la fidanzata.

«La leggenda curda racconta che un giorno un giovane principe erra per i campi e incontra una pastorella, Leila, che pascola una sola pecorella… Il  principe Najad si avvicina alla pastorella e vede che lei è molto bella…»

«Bella come Naomi Cambel…» aggiunse Madjid.«Bella come Naomi Campbell», ripetè Abdul e continuò: «Ma vede anche che la pastorella Leila piange. Allora le chiede: ‘Pastorella, perché piangi?’

‘Piango perché prima avevo un gregge numeroso.’

 ’E dove sono andate le tue pecore?’ chiede il principe.

‘Le ha rubate il Dio della Pioggia.’

‘E dove le ha portate?”Stanno nel suo Regno delle Nuvole.’

‘E perché te le ha prese?’

‘Perché si sentiva solo e vuoto.’

‘Non puoi chiedergli di ridartele?’

‘Ho paura.’

Il principe che pian piano si innamora della pastorella decide di andare dal Dio della Pioggia a chiedergli di restituire le pecore a Leila.

Quando arriva al Regno delle Nuvole vede che le nuvole non sono nuvole bensí le pecore che pascolano sul cielo. Le pecore sono molto tristi perché non stanno piú con Leila. E le loro lacrime sono le gocce della pioggia.

Il principe va dal Dio della Pioggia e gli dice:

‘Dio della Pioggia, ridai le pecore alla pastorella Leila, perché lei è triste.’

‘Ma come faccio a essere il Dio della Pioggia se non mando la pioggia sulla Terra?

‘Allora il prinicipe Najad ha un’idea: ‘Senti,’ gli propone, ‘a ogni luna piena io ti porto cento barili di acqua dal fiume che scorre per il mio paese: tu dopo puoi rovesciarli sulla Terra come pioggia. E tu dài le pecore a Leila, lei non piangerà piú, si innamorerà di me e ci sposeremo.

‘Al Dio della Pioggia piace questa soluzione e cosi è ancora oggi: piove regolarmente e il principe Najad vive felicemente sposato con la pastorella Leila. A ciascuno il suo».

Il viso di Silvano si rasserenò. Prese la testa di Abdul tra le sue mani e lo baciò.

«Grazie, grazie, tu mi hai salvato, questa leggenda farà perfettamente da filo conduttore nel mio saggio Il regno del Sole! Grazie, grazie!» 

La macchina dei fidanzati cantanti divorava allegramente i duecento chilometri. Quella stessa sera, qualche passante infreddolito poteva intravedere attraverso una finestra del pianterreno di un palazzo liberty un professore felicemente assorto e chinato sopra un testo dalle copertine gialle.

«Bella come Naomi Cambel, vero, Abdul?» sorrise sognante Madjid.

«Bella come Naomi Campbell», rispose Abdul, tirando la motocicletta rossa nella fredda notte settembrina. 

Veronika Simoniti

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