LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » tuttolibri http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 CINQUANT’ANNI DALLA MORTE DI HEMINGWAY E DI CÉLINE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/07/02/cinquant%e2%80%99anni-dalla-morte-di-hemingway-e-di-celine/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/07/02/cinquant%e2%80%99anni-dalla-morte-di-hemingway-e-di-celine/#comments Sat, 02 Jul 2011 18:15:13 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=3408 Cinquant’anni fa, il 2 luglio 1961, moriva lo scrittore statunitense Ernest Hemingway. Poche ore prima era deceduto lo scrittore e medico francese Louis-Ferdinand Céline

hemingway-celine

Vorrei ricordare questi due colossi della letteratura mondiale nell’apposito spazio letteratitudiniano dedicato alla memoria, agli anniversari e alle ricorrenze. Chiedo, come sempre, il vostro contributo per riempire questa pagina on line. Per incentivare la discussione, come sempre, vi rivolgerò alcune domande in tema (subito dopo queste due brevi schede sugli autori citati, “estrapolate” – per par condicio – da wikipedia)… invitandovi a fornire le vostre risposte.

Ernest Miller Hemingway (Oak Park, 21 luglio 1899 – Ketchum, 2 luglio 1961) è stato uno scrittore statunitense. Fu romanziere, autore di racconti brevi e giornalista.
Soprannominato Papa, fece parte della comunità di espatriati a Parigi durante gli anni venti, conosciuta come “la Generazione perduta”, e da lui stesso così chiamata nel suo libro di memorie “Festa mobile”. Condusse una vita sociale turbolenta, si sposò quattro volte e gli furono attribuite varie relazioni sentimentali. Raggiunse già in vita una non comune popolarità e fama, che lo elevarono a mito delle nuove generazioni. Hemingway ricevette il Premio Pulitzer nel 1953 per “Il vecchio e il mare”, e vinse il Premio Nobel per la letteratura nel 1954.
Lo stile letterario di Hemingway, caratterizzato dall’essenzialità e asciuttezza del linguaggio e dall’understatement, ebbe una significativa influenza sullo sviluppo del Romanzo nel XX secolo. I suoi protagonisti sono tipicamente uomini dall’indole stoica, i quali vengono chiamati a mostrare “grazia” in situazioni di disagio. Molte delle sue opere sono considerate pietre miliari della letteratura americana.

1. Che rapporti avete con le opere di Ernest Hemingway?
2. Qual è quella che avete amato di più?
3. E l’opera di Hemingway che ritenete più rappresentativa (a prescindere dalle vostre preferenze)?
4. Preferite l’Hemingway romanziere o l’Hemingway autore di racconti?
5. Tra le varie “citazione” di (o su) Hemingway di cui avete memoria… qual è quella con cui vi sentite più in sintonia?
6. A cinquant’anni dalla morte, qual è l’eredità che Hemingway ha lasciato nella letteratura mondiale?

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Louis-Ferdinand Céline, pseudonimo di Louis-Ferdinand Auguste Destouches (Courbevoie, 27 maggio 1894 – Meudon, 1 luglio 1961), è stato uno scrittore e medico francese. Lo pseudonimo, con cui firmò tutte le sue opere, era il nome della nonna materna.
Céline è considerato uno dei più influenti scrittori del XX secolo, celebrato per aver dato vita a un nuovo stile letterario che modernizzò la letteratura francese ed europea. La sua opera più famosa, “Viaggio al termine della notte” (Voyage au bout de la nuit, 1932), è un’esplorazione cupa e nichilista della natura umana e delle sue miserie quotidiane, dove la misantropia dello scrittore è costantemente ravvivata da un acuto cinismo. Lo stile del romanzo – con il continuo mischiarsi di linguaggio popolare ed erudito e il frequente uso di iperboli ed ellissi – impose Céline come un innovatore nel panorama letterario francese.
Per le sue prese di posizione e affermazioni durante la Seconda guerra mondiale, esposte in alcuni pamphlet successivamente accusati di antisemitismo, Céline rimane oggi una figura controversa e discussa.

1. Che rapporti avete con le opere di Céline?
2. Qual è quella che avete apprezzato di più?
3. E l’opera di Céline che ritenete più rappresentativa (a prescindere dalle vostre preferenze)?
4. Tra le varie “citazione” di (o su) Céline di cui avete memoria… qual è quella con cui vi sentite più in sintonia?
5. A cinquant’anni dalla morte, qual è l’eredità che Céline ha lasciato nella letteratura mondiale?

Di seguito un articolo pubblicato su Tuttolibri (de “La Stampa”) di sabato 25 giugno in cui si ricordano entrambe le ricorrenze.

Massimo Maugeri

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da LA STAMPA – TUTTOLIBRI del 25 giugno 2011

Céline, la musica infernale del secolo breve

di MASSIMO RAFFAELI

Due scrittori che non potrebbero essere più opposti e complementari, Ernest Hemingway e Louis-Ferdinand Céline, muoiono a distanza di poche ore, il 1˚ e il 2 luglio del 1961: l’uno, circonfuso di gloria e gonfio di rhum, si suicida nel suo buen retiro di Ketchum, Idaho, mentre l’altro, ancora lordo della duplice infamia di antisemitismo e collusione coi nazisti, si spegne per un aneurisma nel villino-catapecchia di Meudon, a Ovest di Parigi, dove è ritornato nel ’52 in semiclandestinità, dopo anni di prigione e di esilio in Danimarca. I giornali sparano su nove colonne il suicidio di colui che traduceva l’esistenza in velocità dattilografica incarnando la via americana alla letteratura, come ne fosse il mito temerariamente hard boiled ; al recluso di Meudon, viceversa, riservano scarne notizie di agenzia e qualche imbarazzato necrologio in cui si riferisce la scomparsa di una belva collaborazionista.
A cinquant’anni esatti di distanza, il rapporto può dirsi invertito: il nome di Hemingway è chiuso in una cifra stilistica che retrospettivamente sembra simulare la velocità della radio e del cinema nello stesso momento in cui la subisce e vi soggiace, mentre la petite musique del narratore francese, la musica infera che risuona nel Viaggio al termine della notte o in Morte a credito , con lo spartito che registra il delirio emotivo dell’individuo solo nella massa (e nell’epoca delle guerre mondiali, del colonialismo e del fordismo), sembra oggi l’unica tonalità all’altezza degli orrori del Secolo Breve.
Il libro-intervista di Robert Poulet mio amico Céline (ora riproposto da Elliot) esce in Francia nel 1958, tre anni prima della morte dello scrittore, però annuncia un’inversione di tendenza. Poulet (Liegi 1893 – Marly-le-Roi 1989) è uno sparring ideale, anzi è un sosia céliniano in quanto pure lui risulta essere un ex collaborazionista, un ex condannato a morte e un ex amnistiato; scrittore poligrafo, di ascendenza reazionaria, rivivrà trasfigurato, tra Occupazione e Resistenza, nel romanzo-epopea di Hugo Claus che si intitola La sofferenza del Belgio .
Per parte sua, Céline lo accoglie volentieri nell’arca di Meudon (tra i cani molossi e l’ineffabile Coco, il pappagallo), gli dà corda, parla e come di consueto straparla, inscena il teatro della propria decadenza e tuttavia non smette mai di raccontarsi e di tornare sui frangenti di un’autobiografia ossessiva, mentre la sua voce è già scrittura in atto, prosodia in forma di jazz, quella stessa che abita la cosiddetta Trilogia del Nord , il ciclo di romanzi che equivale al suo testamento d’autore.
È una lingua del risentimento e del rancore, la sua, che ritrova la propria scaturigine nella coscienza del dolore quale atto primordiale dell’essere nel mondo: essa, in altri termini, è la lingua del male che cerca ogni momento di combatterlo prodigando il ricordo del male medesimo.
Senza affatto prevederlo, il libro di Poulet anticipa un processo di canonizzazione letteraria che in Francia si avvia poco dopo con l’uscita di un primo volume céliniano nella collana della Pléiade, l’equivalente di uno scranno fra gli immortali: perciò all’avaro stillicidio della bibliografia presto subentrerà il tornado editoriale (tra riedizioni, inediti, carteggi, studi biografici e critici) che trova un suo corrispettivo, dall’altra parte dell’immaginario secolare, solamente in Marcel Proust.
Qualcosa di simile gli accade in Italia se è vero che, quando nel novembre del ’93 esce per la prima volta da un piccolo editore marchigiano Il mio amico Céline , il terreno della sua ricezione è da tempo predisposto dove nessuno se lo aspetterebbe, vale a dire con il marchio della sinistra intellettuale. In maniera rigorosamente ufficiosa, è Italo Calvino a propiziare l’ingresso di Céline nel catalogo di Einaudi con la traduzione vivacissima de Il Ponte di Londra – Guignol’s Band I (1971) a cura di due giovani promesse, il francesista Lino Gabellone e lo scrittore Gianni Celati, ed è ancora Italo Calvino a volere il doppiaggio di Nord (’75), l’epicentro della Trilogia , a firma del poeta Giuseppe Guglielmi, che diviene la sua voce consanguinea nel doppiaggio che sa commemorarne la violenza inventiva come il ritmo travolgente e sincopato della partitura: nemmeno è un caso che nel novembre del ’92, già in vista del centenario della nascita, sia un altro einaudiano di lungo periodo, Ernesto Ferrero, a pubblicare la bella e in tutto rinnovata traduzione del Voyage .
Così come accade in Francia, dopo una messe di pubblicazioni e riconoscimenti, anche in Italia la comunità dei lettori sa distinguere oramai Céline da Céline, cioè l’ambiguo amico della Kommandantur parigina, il pornografo razzista di Bagatelle per un massacro dal grande narratore (martire, per etimologia) che guarda alle vicende del secolo dai bassi di un’umanità assoggettata, derelitta, priva di qualunque speranza.
In quest’ottica, anche Il mio amico Céline, un libro concepito da Poulet come una vera e propria apologia, riguadagna la funzione originaria che lo fa essere tanto un referto in presa diretta quanto un’autobiografia scritta per procura. All’uscita del volume un altro céliniano accanito, il poeta Giovanni Raboni, ne coglie il senso e la necessità alludendo a «un Céline al quadrato, parlato e al tempo stesso scritto, un Céline dal vivo che tuttavia è anche un Céline ricostruito, un personaggio da Museo Grévin». Insomma un autore finalmente approdato alla perfetta solitudine e insieme alla paradossale condizione di ogni classico, la cui attualità è garantita dal fatto che la pagina, già declinata al passato remoto, brucia nel tempo presente solo per ritrovarsi intatta al futuro anteriore.
Pure all’eremita di Meudon è dunque capitato, per esclusivo amore della verità, di «venire trascinato più avanti di dove si può andare, fin dove nessuno poteva aiutarlo»: anche se gli si attaglia maledettamente, non è una frase che si debba attribuire a lui, perché a pronunciarla fu invece Ernest Hemingway, un fratello che la morte gli impedì di riconoscere.

Hemingway, più del personaggio conta lo stile

di GIUSEPPE CULICCHIA

Molti anni fa a Parigi entrai alla Closerie des Lilas per chiedere dov’era solito sedere Ernest Hemingway. Ma non appena messo piede nel locale sul Boulevard Montparnasse scoprii che la direzione aveva pensato bene di prevenire questo genere di domande: decine di targhette di ottone indicavano ai vari tavoli i posti prediletti dai Mostri Sacri dei Roaring Twenties e seguenti. Qua Pablo Picasso, là James Joyce, e accanto a loro tutti gli altri, Scott Fitzgerald e Dos Passos, Gertrude Stein e Crystal Tzara. Quanto a lui, Hemingway, malgrado le pagine di Festa Mobile in cui aveva raccontato come per trovare la concentrazione necessaria a scrivere dopo la nascita del primogenito Bumby avesse scelto di lavorare a un tavolo d’angolo accanto alle vetrine da cui si intravedeva la statua del Maresciallo Ney, la targhetta con il suo nome era stata applicata al bancone del bar.
Questa scelta ai miei occhi ingenerosa costituiva una somma di tutti gli stereotipi della mitologia hemingwayana. Hemingway il beone, lo spaccone, il macho. Hemingway e le corride, le battute di pesca, i safari. Hemingway sempre pronto a tirare di box, inventarsi un cocktail, sparare a un’anatra. Hemingway lo specialista in guerre, tra cui la greco-turca, le due mondiali e la civile spagnola. Hemingway che amava vivere pericolosamente e aveva liberato da solo l’hotel Ritz e si era sposato quattro mogli e concesso svariati flirt, da Marlene Dietrich a Jane Mason, giovane e bionda miliardaria incontrata in Africa, alla nobildonna veneziana che gli aveva ispirato Di qua dal fiume e tra gli alberi . Poi c’erano l’Hemingway antitedesco e quello che faceva battute sugli ebrei. E l’omofobo. E il filocastrista, o forse l’anti. E quello che sosteneva di aver dato la caccia agli u-boot a bordo della sua Pilar. E il paranoico convinto di essere spiato dall’Fbi (era vero, tra l’altro). Una folla di Hemingway, insomma, dal diciannovenne in uniforme militare fotografato in un ospedale di Milano al vecchio con la barba bianca e il maglione da pescatore immortalato dalle parti di Key West.
E l’Hemingway scrittore? Quello che alla Finca Vigia si ostinava a battere a macchina in piedi e che alla Closerie e altrove si era sforzato di scolpire sulla carta una prosa spesso straordinaria e dialoghi ineguagliabili, vedi gemme quali Un posto pulito, illuminato bene oColline come elefanti bianchi oLe nevi del Kilimangiaro , o ancora Breve la vita felice di Francis Macomber , per tacere naturalmente di Fiesta o di Morte nel pomeriggio , un romanzo che all’epoca venne stroncato dalla critica marxista perchè il futuro Nobel si opponeva alla letteratura come presa di posizione politica?
Sparito, inghiottito dal personaggio e dalle sue innumerevoli sfaccettature. Un personaggio che egli stesso d’altronde si era premurato di costruire in vita, facilitando l’opera di tanti biografi a cominciare da Scott Donaldson, Carlos Baker e dall’amico Aaron E. Hotchner, e agevolando il sarcasmo spesso feroce e non solo postumo di innumerevoli, volenterosi e non di rado interessati denigratori. Così, a 50 anni esatti dal suicidio di quello che al di là di tutto (e dunque anche delle mode e delle invidie letterarie e dei mutamenti del costume e dei costumi, tra cui l’avvento in epoca recente del politicamente corretto: secondo nuove ricerche nell’ottica dei gender studies , Hemingway era semplicemente «un giovane disturbato») resta con buona pace di tanti snob il maggior scrittore americano del Novecento, è con interesse che si legge la nuova biografia di Linda Wagner-Martin ora tradotta da Castelvecchi.
E l’interesse deriva in primo luogo dal fatto che l’autrice muove a partire da un elemento che pochi associano all’autore di Il vecchio e il mare , ovvero dall’ironia: quella insita nel fatto che un uomo tanto complesso sia stato ridotto a un personaggio così stereotipato. Una delle creazioni più riuscite di Ernest Hemingway, ci dice la WagnerMartin, fu proprio Ernest Hemingway, inteso sia come persona vivente sia come personaggio di finzione. L’ex ragazzino cresciuto all’aria aperta in Michigan sapeva fin troppo bene di essere diventato, oltre che uno scrittore, una celebrità.
L’altra scelta di questa biografia è quella di raccontare Hemingway innanzitutto attraverso i suoi rapporti con l’universo femminile, dalla madre Grace Hall (una di quelle donne che ritengono che i figli debbano diventare immagini speculari dei genitori) alle mogli (che lui voleva sportive e forti, anche se Pauline, la seconda, detestava la pesca e non poteva fare a meno di tate e servitù), passando per le sorelle e per figure rivelatesi fondamentali durante gli anni del suo apprendistato parigino, quali Sylvia Beach e Gertrude Stein. In quella vera e propria miniera che è la corrispondenza dello scrittore con consorti e fidanzate, ma anche con amici, editori, colleghi, la Wagner-Martin ha rintracciato svariate vene aurifere e inevitabilmente anche non poca di quella materia che oggi va sotto il nome di gossip .
Ma l’Hemingway che ritroviamo in queste pagine, ora vitale e felice grazie alla scrittura di un nuovo libro o alla pratica dei suoi sport preferiti o alla frequentazione di una delle sue donne, ora ferito e irascibile perchè alle prese con la propria fragilità e aggredito dalle paure economiche e dalla depressione (di cui aveva sofferto il padre Clarence, a sua volta suicida come poi altri discendenti della famiglia Hemingway, tra cui l’attrice Margaux), ci appare credibile a cominciare dalla sua imprevedibilità e dal suo non facile carattere, sperimentato tra gli altri anche da Scott Fitzgerald.
La biografa ha poi l’umiltà di ammettere che la grandezza dell’Hemingway scrittore rimane la sua più autentica biografia. E con questo rende giustizia a un uomo convinto che per uno scrittore la cosa fondamentale fosse lo stile, uno stile capace di durare nel tempo.

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LA CAMERA ACCANTO 18° appuntamento (LA QUESTIONE NUCLEARE) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/06/11/camera-accanto-18/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/06/11/camera-accanto-18/#comments Sat, 11 Jun 2011 16:17:51 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=2977 Il titolo di questo post non si riferisce a un romanzo erotico o a un film spinto. La camera accanto è la stanza, per l’appunto, posta di fianco a quella ufficiale (letteratitudine). Se letteratitudine è una sorta di caffè letterario virtuale, la camera accanto è un luogo dove si possono affrontare argomenti di diverso genere. Si può parlare di letteratura – certo -, di libri; ma anche di cinema, sport, televisione, politica, gossip, ecc. Insomma, si può parlare di tutto ciò che volete. Ciascuno di voi può sentirsi libero di avviare un dibattito o, più semplicemente, scambiare quattro chiacchiere. Anche qui, però, vige la nota avvertenza (colonna di sinistra del blog); per cui vi chiedo di rispettare persone e opinioni. Vi chiedo, inoltre, la cortesia di evitare litigi e toni eccessivamente scurrili. Aggiungo che la camera accanto è anche un luogo “integrato” con altri spazi di Letteratitudine, ovvero… il programma radiofonico Letteratitudine in Fm e la pagina Libri segnalati speciali. Di conseguenza potete lasciare qui i commenti riferiti ai suddetti spazi. (Massimo Maugeri)

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AGGIORNAMENTO DELL’8 giugno 2011

Aggiorno il post segnalando l’uscita di un libro pubblicato (anche in formato elettronico) da Nottetempo – Aliberti. Si tratta di un libro attinente alla “questione nucleare” di cui abbiamo discusso in questa puntata della camera accanto.
Segue la scheda del libro.
Massimo Maugeri

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LA FINE DEI DINOSAURI
nottetempo – Aliberti editore

La fine dei dinosauriEsce venerdì 10 giugno in tutte le librerie La fine dei dinosauri, (nottetempo/Aliberti editore), un libro nato dopo Fukushima per affiancare il referendum sugli impianti e le energie nucleari in Italia, e fornire gli argomenti sia per una risposta immediata che per una riflessione futura. Il libro è composto dagli interventi originali dei maggiori scienziati nucleari italiani, di scrittori, e dei referenti di alcune delle maggiori associazioni ecologiste internazionali, di esperti europei di energie alternative.
La considerazione di fondo di tutti coloro che hanno contribuito è concorde: una società che investe sull’energia nucleare è una società che ha deciso di non fare i conti con l’estinzione nostra e della Terra. Le politiche energetiche attuali infatti non prevedono un futuro, sia che si concentrino sui combustibili fossili, sia che scommettano sul nucleare.
nottetempo e Aliberti si sono uniti in questo progetto per dargli maggiore forza e tempestività:
La fine dei dinosauri non è solo un libro “contro”, ma la descrizione di un futuro possibile, purché gli investimenti si concentrino decisamente sulle energie rinnovabili, con un impegno generale, di cui i comuni, le regioni e i cittadini saranno i principali protagonisti.
“La fine dei dinosauri” richiama il rischio che corre la specie umana proseguendo sulla strada che il nucleare sta delineando.
Hanno contribuito Stefano Argirò (fisico), Federico M. Butera (fisico), Stefano Caserini (climatologo), Marcello Cini (fisico), Guido Cosenza (fisico), Giuseppe Genna (scrittore), Roberto Natalini (matematico), Giuseppe Onufrio (fisico, Greenpeace Italia), Wolfgang Palz (fisico), Giorgio Parisi (fisico), Tommaso Pincio (scrittore), Francesca Sartogo (architetto, EuroSolar Italia), Hermann Scheer (premio Nobel alternativo ’99 per l’Energia Solare), Stefano Sylos Labini (geologo), Junko Terao (giornalista), Paolo Valente (fisico).

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PROPOSTA DI DISCUSSIONE DEL 20 marzo 2011

LA QUESTIONE NUCLEARE

Il mondo guarda ancora attonito alla terribile sciagura che ha colpito il Giappone e il suo popolo: prima percossi da un terremoto devastante, poi sommersi da uno tsunami di inaudita violenza.
A questo si aggiunge l’agghiacciante tragedia nucleare. Una tragedia dalla portata enorme, destinata a varcare i confini giapponesi. Una tragedia che, tra l’altro, sta facendo discutere tutto il mondo circa il futuro dell’energia nucleare e del suo utilizzo.
Quella del nucleare è una questione planetaria, che varca qualunque tipo di confine (geografico, politico, di appartenenza di ogni genere).
Mi piacerebbe conoscere la vostra opinione in proposito…

Fino a che punto, a vostro avviso, siamo davvero al corrente di quali sono i pro e i contro della produzione e dell’utilizzo dell’energia nucleare?

Ritenete che l’attuale consumo di energia sia eccessivo, oppure in linea con le esigenze insopprimibili della società odierna?

Se qualcuno decidesse di impiantare una centrale nucleare di nuovissima generazione nei pressi di casa vostra, assicurandovi che è ultrasicura… come reagireste?

E comunque… è davvero immaginabile una società occidentale (e non solo) senza energia nucleare?

Aspetto i vostri pareri, ringraziandovi in anticipo.

Massimo Maugeri

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LE CERE DI BARACOA di Davide Barilli http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/07/20/le-cere-di-baracoa-di-davide-barilli/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/07/20/le-cere-di-baracoa-di-davide-barilli/#comments Mon, 20 Jul 2009 21:09:44 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=970 Conosco Davide Barilli dai tempi di Musica per lo Zar.
Non so se qualcuno l’ha mai fatto prima, ma osservando la foto che vedete qui sulla sinistra ho appena deciso di ribattezzare Barilli come il Tom Selleck della letteratura italiana.
Ciò premesso (e tornando seri) bisogna dire che Barilli è un ottimo romanziere dalla penna raffinata (uno di quelli che, già leggendo le prime pagine dei suoi libri, capisci subito che sa scrivere Storie con la esse maiuscola e ama la letteratura); fa parte della redazione della «Gazzetta di Parma» (si occupa di cronaca giudiziaria e della pagina culturale) e per la sua attività di giornalista ha vinto la prima edizione del Premio «Egisto Corradi». Oltre al già citato Musica per lo zar ha pubblicato il romanzo La fascia del turco e alcuni libri di racconti, Poltrona per acqua, La casa sul torrente e Piombo e argento.
Ho deciso di invitare Davide Barilli qui a Letteratitudine per approfondire la conoscenza del suo nuovo romanzo “Le cere di Baracoa” (Mursia, 2009, € 17).
Riporto il testo che trovate sulla bandella laterale del libro.
Novembre 1944. Durante una rappresaglia scoppia un incendio in una cereria della Bassa Padana. Muoiono due ragazzi: i fratelli Gabbi. Per oltre mezzo secolo Celso, il fratello maggiore emigrato in Centro America, cova la vendetta che, al suo ritorno, sfocia in un omicidio.
Risucchiato dalle leggende di un uomo dal sangue zingaro e incuriosito da una vecchia cartolina in bianco e nero, un misterioso narratore ripercorre la vita dell’assassino per inseguire un delitto privo di enigmi investigativi, ma ricco di misteri.
Dai nebbiosi argini del Po comincia un avvincente viaggio in una Cuba inedita, lontana dai luoghi comuni del turismo di massa, un peregrinare durante il quale il protagonista incontra le ombre, spesso appena accennate, di personaggi realmente esistiti: dal campione di scacchi cubano Capablanca a un inedito e immaginario Italo Calvino bambino, da Errol Flynn a Magdalena Rovieskuya, la cantante lirica russa che scappò dalla rivoluzione dei bolscevichi per gestire un hotel nell’antica città di Baracoa; ma anche Gino Donè Paro, l’ex partigiano veneto che sbarcò sull’isola con Fidel Castro per liberarla dalla dittatura di Batista. E poi il bicicletero Barroso, il tapizero Orlando e tanti altri anomali personaggi che affollano le assolate strade cubane.

“Le cere di Baracoa” (lo sto leggendo in questi giorni) è un romanzo avvincente, ben scritto, ambientato in una Cuba diversa da quella “solita”. Ma è anche un romanzo che tocca diverse tematiche: c’è il tema della vendetta, quello della ricerca, quello del viaggio… e quello degli incontri.
E proprio rispetto a quest’ultimo mi piacerebbe aprire una discussione parallela.
Provo a porvi un paio di domande…

Cosa rimane degli incontri che facciamo nel corso della vita… durante il nostro peregrinare… nei nostri viaggi?

Quando e perché un incontro – piuttosto che un altro – riesce a incidere nelle nostre esistenze?

Davide Barilli parteciperà alla discussione.
Di seguito vi propongo la recensione di Giovanni Tesio, apparsa su Tuttolibri di sabato scorso e l’articolo – in esclusiva per Letteratitudine – di Francesca Giulia Marone (che mi darà una mano a animare il dibattito)
Massimo Maugeri


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DAVIDE BARILLI tra la Bassa e Cuba
di Giovanni Tesio

Due storie che s’incrociano e che si rimescolano fino a perdersi in una sorta di sentiero interrotto, che appartiene alla natura dei sogni. Le cere di Baracoa (Mursia, pp. 234, e 17), è il terzo romanzo di Davide Barilli, cinquantenne giornalista della «Gazzetta di Parma», che a partire da un delitto commesso nel clima avvelenato della guerra civile approda ai grovigli dei misteri cubani.
Non importa cercare quanto di documentabile e quanto di inventato ci sia in questo romanzo che associa le figure del cronista, del viaggiatore e del romanziere, perché di fatto a muovere le cose non è tanto la ricerca di una soluzione, ma piuttosto il filo segreto che lega i destini più remoti, la romantica suggestione che viene da una natura (non solo umana) così inafferrabile.
Ecco perché il filo del movente (la ricerca di un uomo di cui rimane solo la traccia di una cartolina), più che collegarsi al tema di una vendetta lungamente annunciata (e anche compiuta), si muove dentro un viaggio che si trasforma a poco a poco nella vera e più segreta – più inafferrabile – ragione del cercare. Cercare un uomo dentro un universo continuamente fuggiasco, trovando tante altre storie: uno scacchista di prodigiosa lentezza, un italiano finito sulla Sierra in compagnia dei barbudos di Fidel, un tedesco che tenta di catturare il rumore del silenzio, e così via, tra emarginati, avventurieri, dispersi.
Come già nel romanzo precedente, dove Parma si congiungeva alla Russia zarista, Barilli annoda qui il vicino e il lontano, la Bassa più sua alla Cuba meno turistica. E tutto impasta in un linguaggio che assomiglia alla sorprendente e surreale foresta dello Yunque (paesaggio-personaggio) che anima buona parte delle pagine finali.
Giovanni Tesio
(Fonte: Tuttolibri di sabato 18 luglio 2009)

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Davide Barilli e il suo ultimo romanzo “Le cere di Baracoa” edito da Mursia

di Francesca Giulia Marone (nella foto)

francesca_giulia_marone.JPGAnno 1944: da una tragedia consumata in una cereria della bassa padana si dipana la storia misteriosa dell’avvincente romanzo di Davide Barilli che ci conduce su un doppio binario tra realtà e invenzione, tra passato e futuro nelle maglie di una vicenda che si snoda dagli argini del Po fino alla magia di una Cuba lontana, per l’esattezza nell’atmosfera dell’antica città di Baracoa. Un concentrato di storie, di suggestioni, di ricordi che ci aprono ad immagini colorate, dense di profumi della realtà cubana e delle nebbie della bassa padana, conducendoci in un viaggio che è uno svelarsi di enigmi e di destini che si incrociano.
Alla fine della guerra, due ragazzi perdono la vita per una rappresaglia crudele e ingiusta. Il fratello Celso giurerà vendetta per questa morte, che riscatterà -o almeno crederà di averlo fatto- con l’uccisione del responsabile, tornando dopo essere stato cinquant’anni a Cuba.
Perché una vendetta covata nell’animo per mezzo secolo? Come ha vissuto Celso in questi lunghi anni lontano dalla sua terra?
La misteriosa voce dell’io narrante ci accompagnerà nella indagine della vita e dell’animo di Celso e del quarto fratello, Valdemaro, di cui sappiamo ben poco perché scomparso senza lasciare tracce. In un tortuoso peregrinare l’io narrante ripercorre la vita dell’assassino, sulle orme del fratello scomparso, ondeggiando fra passato e futuro, in continue anticipazioni e flashback narrativi che spingono l’azione oltre le caratteristiche tipiche del “giallo”, disegnando una cornice narrativa a cavallo fra il reportage e l’indagine psicologica di tipi umani poco comuni ma sempre veri. Fra storia e invenzione, con la forza di una capacità evocativa straordinaria, l’autore tiene in piedi piani temporali e spaziali differenti attraversando i temi dell’amicizia, della guerra, della morte tessendo i fili di una trama che – come già anticipato – sa fondere insieme ambientazioni fosche della bassa padana e scenari inediti e carichi di profumi magici della Cuba sconosciuta ai più. Con un linguaggio fluente, intessuto di un lessico alto ed elegante, frammisto ad espressioni linguistiche cubane, (di cui l’autore si è premurato di dare spiegazioni in un piccolo e utile glossario) l’autore mette in scena personaggi surreali, in bilico fra realtà e finzione: come lo scacchista Capablanca, l’Italo Calvino bambino, la cantante lirica russa sfuggita ai bolscevichi, l’ex partigiano veneto… e altri ancora.
Sorprende, inoltre, piacevolmente, la struttura narrativa in cui perde di importanza la centralità del protagonista per schiudersi in una storia polifonica ben orchestrata entro cui ogni voce, primaria o secondaria che sia, sa dare il suo contributo originale e avvincente.
E’ una ricerca tra indagine non convenzionale di una storia noir e un viaggio nel mistero dei luoghi delle strade del mondo, ma ancor più nelle pieghe enigmatiche dell’animo umano. Tutto dipanato di fronte allo sguardo del lettore come su uno schermo con l’occhio attento e obiettivo della visione disincantata, da esperto viaggiatore, dell’autore.
Barilli narra, inventa, mostra e viaggia portando il lettore a scavare sotto la crosta dell’apparenza in una incessante ricerca di luce. “Ho sempre cercato di guardare oltre le apparenze, convinto che le nebbie celino sempre una realtà più segreta di ogni altra cosa che emerge allo scoperto… ma a volte non è così… a volte accade che la realtà si presenti come un incubo così vero e concreto da lasciarti a bocca aperta e interdetto”.
Non ci resta che abbandonarci all’avventura.
Francesca Giulia Marone

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L’ESTATE CHE PERDEMMO DIO, di Rosella Postorino http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/07/06/lestate-che-perdemmo-dio-di-rosella-postorino/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/07/06/lestate-che-perdemmo-dio-di-rosella-postorino/#comments Mon, 06 Jul 2009 18:04:32 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=934 lestate-che-perdemmo-dioChe vuol dire avere colpa, quando sono proprio le tue radici la causa del tuo male, ed è così difficile liberarsene?

Qual è il confine tra colpa e innocenza?

Sono queste alcune delle domande che aleggiano sulle pagine del nuovo romanzo di Rosella Postorino, giovane scrittrice già segnalatasi con il precedente “La stanza di sopra” (Neri Pozza, 2007) molto apprezzato dalla critica e vincitore del Premio Rapallo Carige Opera Prima.
Questo nuovo libro si intitola “L’estate che perdemmo Dio” (Einaudi, € 19, p. 230). Un titolo forte, accompagnato da un incipit graffiante. Una frase urlata che segna l’inizio di un’irreversibile tragedia familiare.
I temi affrontati sono quelli dell’esilio e della forza dei sentimenti. L’esilio di chi è dovuto fuggire dalle spire ferali della ‘ndrangheta; i sentimenti di chi prova a reinventarsi dentro e fuori di sé per continuare a vivere.
Comincia tutto con quella frase: “Chi focu chi ‘ndi vinni”. Caterina aveva otto anni quando la zia la pronunciò. Adesso ne ha dodici, ma quelle parole le sono rimaste addosso. Parole di sciagura. Solo che certe sciagure non possono essere combattute. Bisogna andarsene, scappare; ché la ‘ndrangheta uccide. Quattro, i fuggiaschi verso l’Altitalia: Salvatore, il padre; Laura, la madre; Caterina, la figlia maggiore; Margherita, la piú piccola. Quattro esseri umani costretti a voltare le spalle alle proprie radici e a cercare salvezza e libertà in luoghi distanti, che non sono i loro. Ma poi Salvatore deve tornare indietro. E nella vicenda si aprono nuovi squarci.
La Postorino consegna una storia dura, dolente; resa al lettore con stile sferzante e linguaggio fluviale, dal quale emerge la “voce” di una ragazzina che è dovuta crescere troppo in fretta.
Nonostante la giovanissima età, Caterina percepisce il peso delle proprie origini; ne sente quasi il marchio sulla pelle. Eppure non si rassegna: «Piú di tutti, di tutti quanti loro, di tutta la loro famiglia messa assieme, piú di chiunque altro, Caterina lo ha preteso. Il diritto di essere felice. Loro no, non ci avevano mai pensato. Come se la felicità includesse anche un prezzo da pagare, un prezzo raddoppiato, lì dove è nato il padre si vive nel solco di una disgrazia sempre in agguato, non per paura, non per senso di minaccia, per fatalismo piuttosto, non si è altro che pedine nelle mani di Dio, non si può osare chiedere di piú, non si può scegliere».
Vorrei approfondire la conoscenza di questo libro insieme a voi e all’autrice (che parteciperà al dibattito). E contestualmente vorrei discutere dei temi che esso tratta.
Per favorire la discussione, come al solito, tento di porre qualche domanda ripartendo da quelle che hanno aperto il post:

Che vuol dire avere colpa, quando sono proprio le tue radici la causa del tuo male, ed è così difficile liberarsene?

Qual è il confine tra colpa e innocenza?

E poi… fino a che punto è possibile liberarsi delle proprie radici, pur essendo radici malefiche?

Viceversa… è sempre giusto mantenere saldi i legami con la propria famiglia, a prescindere da tutto?

Che tipo di responsabilità ha la società (se c’è l’ha) nei confronti dei bambini appartenenti a famiglie legate alla criminalità organizzata?

Per una ragazzina che vive una situazione simile a quella della protagonista di questo romanzo è davvero possibile raggiungere la felicità? E in che modo?

Di seguito, la recensione di Sergio Pent apparsa su Tuttolibri de La Stampa.

Massimo Maugeri

——–

Quando il sole è negato ai bambini
Una famiglia del Sud in fuga verso l’«Altitalia», dove nessuno possa ferirne il futuro

di SERGIO PENT

«I bambini ci guardano», recitava il famoso film di Vittorio De Sica. I bambini nutrono la vita e la giustificano, ma sono spesso gli adulti ad agire per primi sulla spinta delle emozioni istintive, degli impulsi selvaggi, dei raziocini maltrattati. I bambini hanno fatto la recente fortuna letteraria di Ammaniti – vittime inconsapevoli, miniature dell’eterno disagio adulto – e troviamo tracce di infanzie – più malmostose e infingarde, talvolta, ma sempre giustificabili – in certe belle storie di Simona Vinci, Diego De Silva, fino ai deliri rurali e goticheggianti di Eraldo Baldini.
Rosella Postorino è riuscita, già al secondo romanzo, a imporsi nella mente del critico-lettore come una scommessa vincente della nostra narrativa. Linguaggio scaltro e vigoroso, capacità introspettive assai più mature di quello che l’età – 29 invidiabili anni – lascerebbe supporre, senso del romanzo inteso come materia da modellare con abilità e gusto: tutto questo testimonia la presenza di una scrittrice vera, che racconta storie disagiate e strazianti dal punto di vista di una che sembra aver letto tutti i libri indispensabili. E alcuni anche li cita, in chiusura di romanzo, senza per questo averci tolto il gusto di ritrovarli, sulla pagina e nel cuore.
Sono omaggi necessari, poiché tutto ciò che amiamo ritorna, nel gioco sempre nuovo dei rimandi e degli accostamenti, delle sensazioni e delle riscoperte. Ma c’è – in più – la voglia di straziare il lettore con il senso di un disagio estremo, assoluto, in tempi di lotta sempre aperta con i tentacoli del Male.
Un male che allontana Caterina di nove anni e la sorellina Margherita di quattro – insieme ai genitori Salvatore e Laura – dal sole e dalla spensieratezza naturale di Nacamarina, il paese del Sud in cui, in un’estate degli Anni Ottanta, arriva un urlo che annuncia il «focu», la sciagura. In quella landa assolata e baciata dal mare, la guerra è ricominciata, ed è una guerra di adulti che si uccidono in tempo di pace, una guerra in cui anche gli amici muoiono o mettono in pericolo la loro famiglia.
Per questo Salvatore lascia il paese e porta la sua famiglia al sicuro, lontano, in «Altitalia», dove nessuno potrà ferire il loro futuro. Ma tre anni dopo Salvatore è costretto a tornare, per la tragica morte del cognato – N’toni – e per rimettere insieme ciò che resta del passato.
In questa odissea del distacco momentaneo, l’autrice riallaccia tutti i nodi della storia, dal punto di vista di Salvatore e Laura, della piccola e ancora inconsapevole Margherita, ma soprattutto di Caterina, che – ormai dodicenne – sogna un futuro sereno in cui possano trovare spazio i suoi desideri e la volontà di crescere senza paure.
E si incontrano, i sogni e la realtà, in un miscuglio di eroi dei cartoni animati e primi innamoramenti, memorie familiari e lettere a un ragazzo rapito proprio giù dalle sue parti – Cesare Casella – fino al ricordo di zio N’toni, lo zio pacato e sorridente, il padre di Lena e di Giacomo, ultima vittima di una guerra che i telegiornali chiamano in un altro modo.
La storia familiare si intreccia, nella solenne e mai faticosa lentezza del romanzo, con la storia di un Paese in cui l’onestà deve tramutarsi in fuga per sopravvivere, e lo spaesamento diventa rimpianto, rancore, ma anche voglia di riappropriarsi di una vita a cielo aperto.
Verga, Vittorini, grandi nomi che ritornano tra le pieghe di un libro sofferto e maturo, che non concede nulla al relax del lettore, ma lo sfida – e lo accoglie – nel calore unico delle narrazioni importanti, quelle a cui – senza tante discussioni e senza gossip da primedonne di un reame a corto di lettori – si dovrebbe assegnare a scatola chiusa qualcuno dei nostri premi nominalmente più prestigiosi.

Autore: Rosella Postorino
Titolo: L’estate in cui perdemmo dio
Edizioni: Einaudi
Pagine: 344
Prezzo: euro 19

(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 30 maggio)

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