La nuova puntata di Letteratitudine Cinema la dedichiamo per ricordare il grande regista e sceneggiatore francese Jean-Luc Godard
Jean-Luc Godard: Parigi, 3 dicembre 1930 – Rolle, 13 settembre 2022) è stato un regista, sceneggiatore, montatore e critico cinematografico francese, fra i più significativi registi della seconda metà del Novecento e fra i principali esponenti della Nouvelle Vague.
La sua carriera è contraddistinta da una grande prolificità e da seminali innovazioni linguistiche apportate al mezzo cinematografico. Premiato con il Leone d’oro nel 1984 e l’Oscar alla carriera nel 2011, le sue opere sono state fonte di ispirazione per molti registi statunitensi della New Hollywood e, più recentemente, per autori come Quentin Tarantino, il quale ha chiamato la sua casa di produzione come uno dei suoi primi film, Bande à part.
Approfondimenti su: la Repubblica, Ansa, La Stampa, RaiNews, Il Sole 24Ore, Il Foglio, Il Fatto Quotidiano
A seguire il nostro articolo che lega Moravia a Godard, firmato da Daniela Sessa
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Metanarrazioni: Moravia, Godard e “Il disprezzo”
Da qualche mese è nelle sale la versione integrale del film di Jean- Luc Godard “Le mépris” (1963). Film dal cast importante- Brigitte Bardot, Michel Piccoli, Jack Palance, Fritz Lang- , dalla sceneggiatura e dalla regia dissacranti ed emotive che stravolgono in gran parte il libro da cui il film è tratto, “Il disprezzo” di Alberto Moravia. I 20’ in più della versione integrale, concessi da un prudente produttore Carlo Ponti, sono dominati dal nudo di Brigitte Bardot: il filtro rosso illumina il mezzo primo piano dei particolari del corpo bellissimo di una Bardot, finalmente a suo agio. In quei 20’ si giocò la dura competizione tra Godard e Ponti, in quei 20’ minuti strappati via alla pellicola godardiana si manifesta una sorta di fantasma dell’opera che esige la messa in scena della competizione tra i protagonisti del romanzo di Moravia e tra Moravia e Godard, tra cinema e letteratura. Rileggiamo qui qualche passo del romanzo di Moravia per riflettere sul fascino della metanarrazione.
Il regista francese definì il romanzo di Moravia un’opera da ferrovieri amandola e detestandola allo stesso tempo proprio per questo. Amandola e disprezzandola, verrebbe da dire. Perché è tenendo come capo di una matassa da sbrogliare la parola “disprezzo” che possiamo leggere non solo la storia di Emila e Riccardo ma anche quella di Alberto Moravia e il cinema.
‹‹Io ti disprezzo… ecco quello che provo per te, ed ecco il motivo per cui non ti amo più… Ti disprezzo e mi fai schifo ogni volta che mi tocchi… Eccola la verità… ti disprezzo e mi fai schifo››.
Così Emilia, giovane, bella e svogliata moglie di Riccardo Molteni. Lui sogna di diventare autore teatrale ma è costretto a scrivere sceneggiature: un ripiego che lo fa sentire ‹‹spossato, languido, inerte››. Le rate per la casa e l’automobile, simbolo del debito degli anni del boom economico (il romanzo è del 1954), gravano sulla personalità di Riccardo, svelandone l’indole vittimistica che mescola i piani dell’autoaccusa a quelli della costruzione di alibi. Proiettato verso un agnosticismo dell’anima, Riccardo sembra portarsi addosso tutto il peso di noia e indifferenza di personaggi come Michele di “Gli indifferenti” prototipo dell’irresolutezza o come Dino l’antieroe di “La noia”, della malattia del fiore che passa ‹‹dal boccio all’appassimento alla polvere››. La sua goffaggine di pensieri e di gesti si scontra con Emilia, così erotica e triste, con Battista il produttore cinematografico brutale nell’aspetto ma con una ‹‹voce dolce, insinuante, conciliante, di accento levigato›› e con Rheingold ‹‹sagomato nel suo sguardo contratto››, il regista tedesco chiamato a dirigere un nuovo film sull’Odissea di Omero. E lo scontro allora si moltiplica perché Emilia diventa Penelope, Battista Antinoo e Rheingold l’ennesimo lettore critico del poema di Omero. Un gioco di rimandi che precede il romanzo stesso e che risale a “I due amici”, il romanzo ritrovato dallo studioso Simone Casini, tra i responsabili ora del Fondo Moravia. “I due amici” fu abbandonato per fare posto a “Il disprezzo”debitore della dicotomia dei personaggi un borghese e un intellettuale comunista forse proletario, che nel romanzo del 1954 pare delinearsi nelle differenze di classe tra il borghese e istruito Riccardo ed Emilia. L’ex dattilografa Emilia è di famiglia povera, figlia di ‹‹gente diseredata, cronicamente incapace di mettere su una propria dimora››- . Senza trascurare nel debito dell’inedito la figura di Moroni che nella terza redazione del manoscritto di “I due amici” è un produttore. La perdita del tema politico non nuoce al rapporto tra i due romanzi perché anche nell’abbozzo c’è la specificità della letteratura moraviana, tutta giocata sul movente psicologico debordante rispetto al motivo politico. L’amore si contrappone lì al motivo ideologico qui a quello morale: in entrambi i casi il confronto diventa duello, in cui la posta in gioco è la conversione di Riccardo alla risolutezza con la contropartita del possesso della donna. Riccardo sa che Battista vuole Emilia, Riccardo sospetta anzi sa che Emilia lo disprezza per non aver reagito da uomo di fronte alle viscide avances di Battista, Riccardo si crogiola nell’essere un ‹‹poveruomo impigliato in una patetica e meschina trappola›› tesagli non da Battista ma dall’Ulisse incompiuto che è. E che non vuole scrivere. Non di certo come gli suggerisce Rheingold ‹‹…il signor Battista, però, ha parlato da produttore, tenendo conto soprattutto degli elementi spettacolari… ma se lei si sente tagliato per i soggetti psicologici, lei deve fare senz’altro questo film… perché questo film non è altro che un film sui rapporti psicologici tra Ulisse e Penelope… Io intendo fare un film su un uomo che ama sua moglie e non ne è riamato››.
La cifra più importante del romanzo di Moravia sta nell’intreccio tra la storia e i rimandi ad altri testi. Una tessitura quasi geometrica lega scrittori e personaggi. Chi è Ulisse per l’autore Omero? Moravia risponde con una triplicità tutta ironica di punti di vista. Ecco le riflessioni di Riccardo Molteni:
“A questo punto, però, un dubbio sull’opportunità o meno di introdurre nel mio riassunto il consiglio degli dèi, durante il quale viene, appunto, discusso il ritorno di Ulisse a Itaca, mi fece sospendere il lavoro. Questo consiglio era importante, come pensai, perché introduceva nel poema la nozione del fato e della vanità e, al tempo stesso, nobiltà ed eroismo degli sforzi umani. Togliere il consiglio voleva dire togliere il sopramondo dal poema, eliminare ogni intervento divino, sopprimere le presenze così amabili e così poetiche delle diverse divinità. Ma non c’era dubbio che Battista non avrebbe voluto saperne degli dèi, i quali gli sarebbero parsi nient’altro che inconcludenti chiacchieroni, indaffarati a decidere cose che potevano essere benissimo decise dai protagonisti. Quanto a Rheingold, quel suo ambiguo accenno al film psicologico non presagiva nulla di buono per le divinità: la psicologia, ovviamente, esclude il fato e gli interventi divini; nel caso migliore ritrova il fato in fondo all’animo umano, nei bui anfratti del cosiddetto subcosciente. Superflui dunque gli dèi perché né spettacolari, né psicologici”.
Moravia si diverte a indossare i panni del suo scrittore fallito così può polemizzare con le produzioni di colossal –volgare mezzo per far cassa- e con il cinema (e la letteratura) intimista rispetto al quale la sua scrittura sembrava il passo all’indietro, il ritorno all’ordine del realismo seppur languido e inerte di ambienti e personaggi. E se la ride nascosto dietro le inconcludenze del suo Riccardo.
“Quando dico che il film neorealistico non è sano, dico che non è un film che incoraggi a vivere, che aumenti la fiducia nella vita… il film neorealistico è deprimente, pessimistico, grigio… a parte il fatto che esso rappresenta l’Italia come un paese di straccioni, con gran gioia degli stranieri che hanno tutto l’interesse a pensare, appunto, che il nostro sia un paese di straccioni, a parte questo fatto dopo tutto già abbastanza importante, esso insiste troppo sui lati negativi della vita, su tutto quello che c’è di brutto, di sporco, di anormale nell’esistenza umana… insomma è un film pessimistico, malsano, un film che ricorda alla gente le sue difficoltà invece di aiutarla a sormontarle”.
Il realismo letterario e quel bagno di realtà che aiuterebbe Riccardo a sciogliere il nodo della sua vita – il disprezzo di Emilia – s’infrangono nel trauma dell’indecisione, nell’invasione della dimensione onirica (una fantasticheria moraviana c’è anche in questo romanzo), nella elaborazione della perdita e del lutto. Necessario infrangersi perché il romanzo “Il disprezzo” è action sans maxime.
“Pensavo queste cose sempre più confusamente e stancamente; ogni tanto guardavo la macchina da scrivere e mi dicevo che dovevo riprendere il lavoro, ma non ci riuscivo e non muovevo un dito; finalmente caddi, in una profonda e vacua meditazione, immobile davanti la scrivania, gli occhi fissi nel vuoto. In realtà, più che meditare, rimescolavo dentro di me il sapore agro e freddo dei vari e tutti sgradevoli sentimenti che mi agitavano; ma stordito, stanco e oscuramente irritato, non riuscivo a definirli a me stesso in una maniera precisa. Poi, tutto ad un tratto, come affiora improvvisamente alla superficie immobile di uno stagno una bolla d’aria rimasta chissà quanto tempo sott’acqua, questa riflessione si fece strada nella mia mente: “Ora dovrò far subire all’Odissea il solito scempio delle riduzioni cinematografiche… e una volta terminato il copione, questo libro tornerà nello scaffale, tra gli altri che mi sono serviti per altre sceneggiature… e io tra qualche anno, ricercando un altro libro da massacrare per un altro film, lo rivedrò e mi dirò: «Ah, già, allora facevo la sceneggiatura dell’Odissea insieme con Rheingold… e poi non se ne fece nulla… non se ne fece nulla dopo aver parlato per mesi, mattina e sera, ogni giorno, di Ulisse, di Penelope, dei Ciclopi, di Circe, delle Sirene… non se ne fece nulla perché… perché mancarono i quattrini»”. Mi accorsi di provare, a questo pensiero, una volta di più, un disgusto profondo per il mestiere che mi toccava fare. E di nuovo, con acuto dolore, mi accorsi che questo disgusto nasceva dalla certezza che Emilia non mi amava più. Io avevo finora lavorato per Emilia e soltanto per Emilia; venendomi a mancare il suo amore, il mio lavoro non aveva più scopo.”
Perché la letteratura comincia quando si strappano i cieli di carta, quando i piani del reale e del sogno si confondono e non si negano a vicenda: “capivo che la commozione nasce dalla chiarezza”, afferma Molteni. Emilia morta e Emilia sognata sono metafore letterarie.
“Emilia era ancora in vita quando avevo creduto di vederla seduta a poppa della barca. Ma era già morta, con ogni probabilità, durante il mio letargo sulla spiaggetta in fondo alla Grotta Rossa. Così nulla coincideva nella vita come nella morte. E io non avrei mai saputo se ella era stata un fantasma oppure un’allucinazione, oppure un sogno, oppure qualche altro errore. L’equivoco, che aveva avvelenato i nostri rapporti in vita, continuava anche dopo la sua morte”
E la tessitura continua nel film di Godard che alla domanda “chi è Ulisse per l’autore Omero?” ribalta gli interlocutori produttore e regista e costruisce il film con dialoghi a domanda scissa “si o no?”. Film della nouvelle vague in “Le mepris” Godard assottiglia i pensieri di Riccardo/Paolo: il romanzo di Moravia è la sceneggiatura quindi va disprezzata e va restituita la parola all’immagine, al regista. A Fritz Lang o a Godard? Moravia idealmente non risponde: uccide sceneggiatura e produttore. Godard fa di Lang un alter ego da rifiutare, disprezzare: racconta Michel Piccoli (Paolo nel film) che il regista tedesco taceva sulle inquadrature e Godard non gli chiedeva consigli. Forse avrebbero fatto del libro di Moravia un film diverso.
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