Ricordiamo la scrittrice Cristina Campo (Bologna, 29 aprile 1923 – Roma, 10 gennaio 1977), in occasione del centenario della nascita, con questo articolo della scrittrice Simona Lo Iacono
Con un’illustrazione di Rossella Grasso
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Era nata nel mese di tutte le resurrezioni, aprile. L’anno era il 1923. La casa, un villino di famiglia in stile liberty a Bologna.
Il vagito era sembrato quello di un maschio, tanto era forte e ardito. Ma poi si era visto che era una bambina rosea, con lo sguardo afflitto dalla cecità dei neonati.
Il padre, un compositore affermato, Guido Guerrini, era autoritario, forte, dedito al lavoro. La mamma, Emilia Putti, era la sorella di Vittorio Putti, uno degli ortopedici più famosi al mondo, direttore dell’ospedale Rizzoli dal 1915.
La chiamarono Vittoria proprio in ricordo dell’amatissimo zio, anche se si firmerà sempre come Cristina Campo.
Crebbe tra adulti, Cristina, nel villino del Rizzoli che aveva l’incanto dei mondi inccessibili, cinto da edera miracolosa e da un boschetto infestato dalle ombre dei personaggi letterari. Iniziò a leggere prestissimo. Favole francesi soprattutto, ricolme di re prodigiosi e gatti ammaestrati, carrozze trascinate da topi, principesse smemorate o addormentate in radure di spine inaccessibili. La affascinava la visione che il racconto sapeva evocare, ma anche la religiosità della parola, il suo sbocciare dall’intimità degli oggetti, persuadendoli a divenire belli, ammantati di sacro perchè pronunziati.
Sebbene nata a Bologna, la città del cuore era Firenze, con la cupola del Brunelleschi che svettava verso l’infinito, il coro supplice dei monaci di san Miniato, l’Arno implacabile e placido come un rivolo di sangue.
Tra i suoi vicoli fiutava il misticismo dello stil novo, la scia lasciata dai fatasmi dei poeti. Non erano morti, erano i consolatori scomparsi della sua fragilità, del corpo reduce da una battaglia.
Infatti era malata. Una malformazione congenita al cuore, lenita dai genitori con cure appassionate, con continue permanenze accanto al suo letto di bambina e poi di giovane donna.
Nella malattia tuttavia, faceva scoperte profonde, aveva intuizioni letterarie. Saggiava, ad esempio, le imprevedibili anomalie del tempo. Brevissimo, nella felicità. Interminabile nell’immobilità. “I giorni passano così in fretta, così lenti”, scriveva in una lettera.
Leggeva insaziabilmente. Non viveva che nei libri e per loro tramite, stabilendo con gli scrittori trapassati un colloquio ininterrotto, fatto di sentimenti debordanti, di affinità supplici, incantate.
Hofmannsthal, Lawrence, e di nuovo le favole che continuava a esaminare da adulta e la cui etimologia faceva risalire alla parola latina “fatum”, destino.
E poi lei, Simone Weil, l’amata. Ne condivideva lo sguardo sul mondo, quella compartecipazione che le faceva sentire come proprio ogni dolore degli altri. “Aver l’anima vulnerabile alle ferite di ogni carne, ad ogni morte come alla propria morte” scriveva la Weil, e lei ricopiava la frase per ognuno dei suoi numerosi amici.
Per lo stesso motivo aveva dell’amore un’idea assoluta. Negli anni del dopoguerra faceva coppia fissa con Leone Traverso, di tredici anni più grande, già letterato famoso, poeta, traduttore, germanista.
Era il tipo d’uomo che non riusciva a trattenere un’attenzione smodata per le donne, che corteggiava con sensualità e successo.
Con lui Cristina curava cenacoli di poeti fiorentini, intrecciava amicizie, fondava in casa propria, al 12 di via De Lauger, un luogo di scambi letterari. Mario Luzi, padre Turoldo, padre Vanucci. Ma, anche, si scontrava. Leone non voleva il matrimonio, non riusciva a darle fedeltà, nè a corrispondere a quella dedizione che lei invece pretendeva dalle persone amate.
Se ne separerà dolorosamente, all’inizio del 1954, e nel 1955 lascerà definitivamente Firenze per Roma.
La capitale all’inizio non le piaceva. Troppe le diversità con l’amatissima Firenze, troppo grandi le piazze, troppe le brutture della ricostruzione. Ma poi, l’isola Tiberina, “l’isola a forma di mandorla”, le si stagliò alla vista come per essere amata. E il vecchio Tevere, dove le chiatte galleggiavano solitarie, sulle cui acque si riflettevano i nodi di alberi altissimi, ghermiti da uccelli dal canto abbagliante.
Arrivavano anche nuovi amici. Maria Bellonci, Elsa Morante, Ignazio Silone. E Corrado Alvaro, che nel 1956 pativa una lunga malattia e che lei andava a trovare quasi tutti i giorni salendo la scalinata di trinità dei Monti e portandogli sempre un frutto, un vasetto di marmellata, un mazzo di fiori.
E, sempre nel 1956, usciva il suo primo libro, “Passo d’addio”, undici poesie in cui si accommiatava da Firenze, dalla giovinezza, da tutto ciò che lì era avvenuto. ” La città intricata dei miei amori” la chiamava.
Erano anche gli anni della RAI. Cristina otteneva una collaborazione fissa in cui si occupava di recensioni di libri, soprattutto poesia. E conosceva Elémire Zolla, futuro marito di Maria Luisa Spaziani, poetessa che Cristina ammirava ma con la quale non aveva un rapporto facile.
L’amore con Zolla mise in crisi il matrimonio con la Spaziani, le procurò la disapprovazione dei genitori, la costrinse a dividersi tra la casa paterna al Foro Italico e quella di Zolla, dato che il divorzio all’epoca non esisteva.
Elémire era, a quei tempi, molto più noto di lei. Introduceva in Italia le idee della scuola di Francoforte, parlava – tra i primi – di “uomo-massa” e di industria culturale. Il suo saggio “Eclissi dell’intellettuale” vinceva il Premio Crotone, era letto in tutti i salotti romani, generava riflessioni. E un suo romanzo, “Minuetto all’inferno” otteneva un premio speciale dalla giuria del Premio Strega.
Fu un rapporto segnato da eventi gravi. La perdita improvvisa della madre, seguita a solo un anno di distanza da quella del padre.
Dolori che la segneranno per sempre, che le faranno provare “Soprattutto, in tutto, l’orrore indicibile della loro assenza”, come dirà in una lettera. “E quel lavoro spietato della morte che, come sul volto umano, così anche nel nostro cuore non lascia che i lineamenti sovrani della creatura”.
Ma il tempo stringeva. La casa del foro Italico andava lasciata velocemente perchè concessa al padre dalla direzione del conservatorio. Cristina si trasferì allora con Elémire Zolla nella pensione Sant’Anselmo, in cima all’Aventino, sotto un’abbazia benedettina. Una sistemazione di comodo in cui finiranno per restare tre anni, lui nella stanza numero 25 e lei nella numero 9.
L’abbazia diventava così la concretizzazione di quel cielo a lungo cercato negli ideali di bellezza pura, nella poesia, nella foga di un assoluto che la dominava. Le campane tagliavano l’aria con il loro incedere maestoso, che evocava l’incenso e il vento dello Spirito Santo. “Quassù – scriverà – c’è una strana potenza negli uomini e nelle cose; e questa Abbazia benedettina, che domina il colle e la nostra vita, con la sua meravigliosa atmosfera da medioevo tedesco, con i suoi perfetti cerimoniali gregoriani, soprattutto con una carità incessante, discretissima”.
La conversione arrivò in quegli anni, come culmine di un percorso lento, che per tutta la vita l’aveva invasa e privata, innalzata e abbassata, resa viva e morta, pellegrina e superstite. Sarà come la conquista della terra a lungo promessa, il varco tra i lembi del mar Rosso, l’arrivo nella patria di latte e di miele.
Frattanto l’8 dicembre 1965 si chiudeva a Roma il Concilio Vaticano secondo, e Cristina assistette dolorosamente all’abbandono del latino nella liturgia e all’emarginazione del gregoriano per rendere più comprensibile il rito. Si ribellò, contribuì alla nascita della prima sezione italiana di “Una Voce”, che si batteva per la difesa del latino, organizzò una raccolta di firme per una lettera-manifesto al Papa. Il suo attivismo le costò l’affetto di Elémire Zolla, il suo allontanamento sempre più profondo.
Con l’abolizione del rito latino le pareva che si perdesse la preghiera dei Padri del deserto, l’atteggiamento espiante dei grandi mistici, l’oro, l’incenso e la mirra da destinare al Re dei re.
Furono anni amari, gli ultimi. Cristina si andava congedando dal tempo e dagli uomini, capiva di non essere compresa, di non avere che la poesia – ancora una volta – per dire. Dal silenzio affioravano sette componimenti liturgici, in cui versava il cuore. “Due mondi, scriveva, ed io vengo dall’altro”.
Morirà all’improvviso, tra gli amati gatti, l’11 gennaio del 1977, giorno di sant’Aldo Eremita. Tre mesi dopo avrebbe compiuto 54 anni.
Il 15 gennaio la Pretura di Roma poneva i sigilli alla sua casa in attesa di procedere all’inventario dei beni da dividere tra gli eredi. Le stanze venivano messe sottosopra, gli ufficiali giudiziari scattavano foto, segnavano, valutavano.
La vita se ne andava tra le cose rimaste, le carte, le bozze, le lettere. Restavano le parole dette, soprattuto le preghiere, la certezza che l’interminabile processione di eventi non fosse che preludio all’incontro. Scriveva: “Dio toglie il senno a chi vuol perdere, dicono. Ma con quale accortezza lo toglie a chi vuol salvare”.
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© Simona Lo Iacono e Rossella Grasso
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