La figlia della scrittrice Alice Munro ha accusato di aver subito abusi dal patrigno evidenziando il fatto che la madre ne era al corrente e non avrebbe fatto nulla per proteggerla
Un doloroso racconto sull’infanzia di Andrea Robin Skinner emerge dalle pagine del Toronto Star.
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Approfondimenti su: Ansa, Il Corriere della Sera, Internazionale
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IL FATTO
La celebre scrittrice canadese Alice Munro, vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura nel 2013, è stata al centro di un’accusa sconvolgente da parte della figlia Andrea Robin Skinner. Nel corso di un’intervista al Toronto Star, la donna ha rivelato di essere stata vittima di abusi sessuali da parte del secondo marito della madre, Gerald Fremlin, quando era solo una bambina.
Gli abusi, iniziati all’età di 9 anni, si sarebbero protratti per anni, con il tacito consenso della madre, che, pur a conoscenza dei fatti, non avrebbe mai preso provvedimenti contro il marito.
Skinner ha descritto nel dettaglio le violenze subite, raccontando come il patrigno approfittasse di varie occasioni per molestarla, sia in casa che durante le uscite in macchina. La donna ha inoltre rivelato di aver cercato di confidarsi con la madre all’età di 25 anni, dopo aver letto un racconto in cui la scrittrice esprimeva empatia per una protagonista vittima di abusi. La reazione di Munro, però, sarebbe stata di freddezza e indifferenza, spingendo la figlia a seppellire nuovamente il doloroso segreto.
Solo all’età di 38 anni, esasperata dal silenzio della madre e dal continuo elogio di Fremlin da parte di Munro, Skinner ha deciso di denunciare tutto alla polizia. Nel 2005, l’uomo, ormai ottantenne, è stato condannato a due anni di libertà vigilata per atti osceni e aggressione.
Tuttavia, il peso del segreto e la mancanza di sostegno da parte della madre hanno continuato a tormentare Skinner, che ha deciso di rendere pubblica la sua storia solo ora, dopo la morte di entrambi i genitori.
La vicenda ha avuto un forte impatto mediatico, sollevando interrogativi sulla condotta di Alice Munro e riaprendo il dibattito sul ruolo delle vittime di abusi. Una parte del dibattito si è spostata sul rapporto tra letteratura e biografia degli autori e sul concetto di se, e come, i libri debbano essere letti in relazione alle vite di chi li ha scritti.
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LE OPINIONI (riportate per ordine alfabetico di cognome) di Paolo Di Paolo, Giusi Marchetta, Carmen Pellegrino, Rosella Postorino
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Che cosa ricordano, gli altri, di noi?
È una domanda sciocca, per certi versi inessenziale, ma mi ha ossessionato al punto da costruirci intorno un romanzo. C’è chi l’ha giudicata narcisistica, forse in parte lo è, ma è anche – mi pare – arresa e disperata.
In una scena del mio ultimo libro, “Romanzo senza umani”, uno studente avvicina il protagonista, storico di mezza età invitato in un liceo per parlare di climi estremi, e lo rimprovera per avere evocato un glaciologo dell’Ottocento oggi contestato per le sue idee razziste. Lì per lì lo storico non dice niente, poi scrive al ragazzo una email fluviale che forse non gli spedirà.
Intanto, è tenuto a premettere che, sulla base delle domande e obiezioni del giovane, il più vecchio ha comunque cambiato punto di vista. Non è poco.
Poi aggiunge:
“Mi sento, dirò così, come credo si senta quel rincoglionito razzista di Jean Louis Rodolphe Agassiz, biologo zoologo paleontologo ittiologo alpinista e glaciologo svizzero, noto per avere teorizzato le ere glaciali e oggi contestato per non avere compreso Darwin e avere sparato opinioni ributtanti sulle “razze inferiori” – d’altra parte, l’intelligenza non è mai integrale, è sempre circoscritta, funziona comunque a sprazzi. Dico che mi sento come Agassiz di fronte alle polemiche sul suo nome dato a una piazza di Neuchâtel: indifferente!
Diamo pure per acquisita la ragione dei posteri sul suo conto: ebbene, a lui, a Agassiz, che cosa gliene importa? Non penso nemmeno che se la rida: questo già presupporrebbe una reazione di scherno, una sprezzatura ironica.
Lui, quel che resta o non resta di lui, è talmente oltre da non essere più nella condizione di dover controbattere alla lettura di chi non lo ha mai nemmeno incrociato per strada. Gente venuta al mondo due secoli secchi dopo di lui: bah, figurati! Come se mi interessassi di cosa penserà di me – sempre che ne abbia occasione, e ho seri, serissimi dubbi – chi nascerà nel 2180. Mi metto a ridere, io sì, e da solo.
Non so se riesci a seguirmi. Non sono questioni per diciottenni, o forse sì, sono proprio questioni per diciottenni. Sappi che se da una parte riesco a prendere le distanze da me stesso, dall’altra no, non riesco a prenderle da ciò che gli altri pensano di me. È il segno che, a differenza di Agassiz, sono vivo? Può darsi. Eppure, in certi passaggi dell’Inferno di Dante, mi impressionava la petulante aggressività di qualche anima dannata: intercettando il passeggero in carne e ossa, erano lì a implorarlo di fornire aggiornamenti sulle vicende terrene. Che si dice di me lassù?
Scusami, tutto questo non c’entra niente con le domande che mi hai fatto (rinnovo la promessa di rispondere), ma sai cosa? In questo momento mi trovo a Romanshorn, in Svizzera, a tre ore di macchina da Neuchâtel, là dove il nostro Agassiz centottanta anni fa esponeva le sue pionieristiche e geniali ipotesi sulle glaciazioni…
Sono qui per una serie di ragioni che sarebbe troppo lungo spiegare, davvero troppo lungo. A ogni modo, pur senza essere Agassiz, e soprattutto senza la sovrana indifferenza che può permettersi lui, da morto, verso il regno dei posteri, vivo una stagione in cui mi sento come la sua statua imbrattata, come la targa stradale manomessa che porta il suo nome. […] il problema è proprio questo: accettare tutte le interpretazioni, convivere con l’immagine di noi che gli altri stabiliscono, rendersi disponibili alla colata di vernice rossa che piove sulla testa del monumento che avremmo voluto oggetto di esclusiva adorazione.
Vedi qual è il punto? Il passato non esiste, e se esiste si moltiplica, si polverizza in una miriade di versioni, nessuna esattamente collimante. Ogni vangelo è sempre secondo qualcuno, la lettura sinottica rivela più le incongruenze che le analogie.
Non fraintendermi, non pensare che ti stia impartendo, da storico, una lezione di revisionismo selvaggio. Per carità. Sto parlando della vita cosiddetta privata, di tutto ciò che non diventa Storia, di ciò che ci riguarda riguardando gli altri, non tanti, uno, cinque, dieci altri – da cui è comunque impossibile, prima ancora che ingiusto, pretendere che ci vedano come vorremmo essere visti. Che ci ricordino come vorremmo essere ricordati.
Ovvero, semplicemente, nel miglior modo possibile.
Perché vedi, Dario, ti sembrerà che io cada in contraddizione – è possibile, e in fondo non sarebbe nemmeno così grave –, ma se da un lato sono certo che Agassiz sia in uno stato di disinteresse totale nei confronti della posterità, dall’altro credo sia morto (era quasi il Natale del 1873, a Cambridge) con la speranza di essere ricordato bene.
Meglio, o forse peggio: con la certezza di avere lasciato un buon ricordo. Come biologo, come zoologo, come paleontologo, come ittiologo, come alpinista, come glaciologo. Come ma- rito, come amante. Come padre. Come fottuto essere umano”.
Questo per offrire un piccolo, superfluo contributo al dibattito social su Alice Munro. Era accaduto qualcosa di simile con Amos Oz e il racconto della figlia; e così con Salinger a suo tempo…
Le ferite di chi resta sono insindacabili e chiedono rispetto, e così le rivalse pubbliche che possono generare; ma è curioso che si resti sorpresi di fronte al fatto che dietro qualunque gesto espressivo ci sia un complesso di contraddizioni anche indicibili, e che dietro un capolavoro c’è comunque la macchia umana dell’errore, talvolta dell’orrore, e sempre di una imperfezione umana terribile e inemendabile.
© Paolo Di Paolo
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Pensare che un/un’ artista di valore sia superiore dal punto di vista morale o che le sue opere permettano una conoscenza più che superficiale della sua persona è un’illusione. I libri di Neil Gaiman e quelli di Alice Munro sono stati scritti e li abbiamo amati. Le persone che hanno fatto soffrire meritano la nostra empatia e il nostro supporto senza venire ulteriormente schiaffeggiate dai distinguo, le difese a oltranza, i se e i ma. Per il resto c’è la legge che nel caso del marito di Munro si è già espressa (nè dovrebbe sorprendere troppo il verificarsi di un dramma ancora comune e che lo era ancora di più per troppe donne cresciute durante il secolo scorso in quel mondo patriarcale che tra l’altro l’autrice stessa ha descritto in modo così puntuale e affilato). No, non sono sorpresa, solo dispiaciuta che questa cosa sia successa all’ennesima ragazza. So che la domanda è: e adesso che facciamo? Li/le leggiamo ancora? Certo. Ma aggiungiamo la nota biografica quando li usiamo in classe: ottimo libro, pessima persona. (Una bio che vale per moltissime penne e non intendo letteralmente: intendo che quando si propone la lettura o la visione di opere di qualche artista si può aggiungere la condanna che ha avuto per il crimine che ha commesso. O citare la fuga che ha messo in atto per non sottostare alla condanna che ha avuto ecc.) Questo aiuterebbe finalmente a limitare l’abitudine a diventare fan di un personaggio pubblico come se lo conoscessimo. Amo la scrittura di molti autori e autrici ma non mi sorprende mai quando si viene a sapere che hanno commesso cose orribili. E quando succede per quanto mi riguarda non c’è un lasciapassare perché vengano giustificati o continuino a commetterne, né una particolare gogna per vendicare l’amaro che ci lasciano in bocca.
© Giusi Marchetta
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Leggo le ultime notizie che riguardano Alice Munro, una delle scrittici che più ho amato per la forma breve, premio Nobel per la letteratura, morta da poco. Una delle sue tre figlie ha appena dichiarato, dopo anni di silenzio, che il patrigno Gerald Fremlin – secondo marito della Munro – aveva abusato di lei quando era una bambina e poi in seguito. Sua madre, messa di fronte all’evidenza (denunce e confessioni da parte di Gerald Fremlin) si era voltata dall’altra parte (“lo amavo troppo”) , decidendo infine di restare con il marito, e perdendo per sempre sua figlia.
Al di là dei tristi fatti raccontati, della vita compromessa di una bimba violata e poi tradita – due volte tradita – da sua madre (che si era sentita tradita a sua volta, dalle attenzioni del marito per la figlia, olè) – e comunque non mettendo per nessuna ragione in discussione il valore delle opere della scrittrice, perché altrimenti non dovremmo leggere più nulla, di nessuno, mai – provo molta pena per la donna, se leggo che non riusciva a fare un passo senza Fremlin, che lo amava al punto da giustificare anche l’innominabile, che chiudeva entrambi gli occhi sugli “amici” di poca età del marito…
Io mi chiedo che cosa diavolo passi per la testa di noi donne. Perché è più nostra questa “indulgenza” che non maschile. Quante volte, temendo di restare sole, sopportiamo ciò che non è sopportabile, giustifichiamo, sminuiamo, ridimensioniamo, accettiamo, ci raccontiamo un’altra verità, distogliamo lo sguardo per non vedere, per non rischiare di restare sole, per non affrontare da sole il peso di noi stesse?
Si dovrebbe cominciare dalle cose apparentemente più innocenti. Se il tuo compagno si volta a guardare un’altra donna nonostante tu gli stia di fianco – il primo inequivocabile segno di qualcosa che non va – e poi, sebbene ti faccia male, per non “diventare pesante” ti racconti che “è solo uno sguardo”, allora stai giustificando, ti stai facendo male, stai di nuovo facendo agire la paura. Se ti fa male, glielo dici. Se continua a farlo, te ne vai. Così dovrebbe essere. Ma chi lo fa?
Perciò provo pena per la Munro. Non la giustifico, provo solo pena, perché conosco la trappola in cui le donne, anche le più attrezzate, anche i premi nobel, cadono per un malinteso senso d’amore, e finiscono per non capire più niente. Nemmeno il dolore di una figlia, che non è un’altra donna da temere, ma tua figlia: tua figlia.
Quando cominceremo a chiudere la porta di fronte all’abisso, invece di volerlo attraversare per forza? Quando ce ne andremo?
© Carmen Pellegrino
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Non riesco a capire in che senso decadrebbe di colpo la coerenza tra Alice Munro e le sue opere.
Esiste un’opera in cui Munro dice io e quell’io non è fiction, non è autofiction, ha la pretesa esatta (ma sempre illusoria) dell’autobiografia, e di fronte alla figlia abusata dal suo compagno, patrigno della figlia stessa, quell’io dice spacco tutto denuncio salvo mia figlia so come salvarla mi comporto nel modo migliore possibile (stabiliamo quale) senza strascichi di trauma per nessuno?
Ma no, obietterete, non è questo: stiamo parlando del fatto che Munro conosceva bene l’animo umano.
Eh. E quindi? Dove sarebbe l’incoerenza tra questa capacità di indagine, fra questa intuizione che la scrittura concede (e la vita no, e che comunque nella vita non serve a nulla), e la persona?
Davvero non capisco.
Ieri non mi si è spezzato il cuore, non mi sono sentita delusa, ho pensato prima di tutto che Munro era del ‘31 e che certi modi di porsi di fronte al maschile e dentro le famiglie possono anche essere determinati dal tempo, non solo dal vissuto individuale. Ma io sono un po’ ossessionata dalla Storia e dalla sua influenza nelle nostre vite personali, e quindi forse non faccio testo.
Non capisco perché adesso volete smettere di leggere Munro – e naturalmente siete liberi di farlo, come di non averla mai letta, o di averla letta nell’indifferenza. Ma io non capisco perché invece non vi venga ancora più voglia di leggere Munro, oggi, considerata questa voragine nella sua vita, questo tradimento, subìto e inflitto, questa sua enorme inaccettabile debolezza, questo segreto devastante, questo scandalo disgustoso, questa contraddizione che dà la nausea e fa angoscia.
D’altra parte, non ho trovato una ricostruzione dei fatti che fosse uguale all’altra, sui giornali. E su un fatto del genere, così complesso, qualunque articolo di giornale mi pare davvero troppo poco.
Qual è la storia vera? Non lo sapremo mai. Non solo perché Munro è morta. Ma perché non esiste mai un’unica e incontrovertibile verità.
Per me esistono solo le verità della letteratura, cui si può arrivare proprio malgrado. Cui ci si avvicina per epifania, per una forma di intelligenza che trascende lo scrittore stesso ed è lì, nella fortuita e miracolosa combinazione delle parole.
Ecco perché continuo a leggere Alice Munro.
Ecco perché continuo a leggere.
© Rosella Postorino
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