Parliamo di letteratura, parliamo di Sud. L’occasione ce la fornisce questo interessante saggio di Daniela Carmosino (docente presso l’Università del Molise, editor e consulente editoriale) uscito di recente per i tipi di Donzelli con il titolo: “Uccidiamo la luna a Marechiaro. Il Sud nella nuova narrativa italiana”.
Ecco la scheda del libro:
Oggi che i problemi del Sud d’Italia sono temi di successo su cui puntano media ed editoria, viene da chiedersi: che ne è stato del riscatto sociale e culturale del Mezzogiorno che una quindicina d’anni fa pareva imminente? Questo volume è un ideale grido di battaglia “futurista” dei giovani scrittori – Saviano, De Silva, Parrella, Cilento, Cappelli, Pascale – che, a partire dagli anni novanta, hanno deciso di raccontare un Sud svincolato dagli stereotipi del paradiso turistico o dell’inferno senza redenzione, svincolato dalla pizza, dal mandolino e dal vittimismo. Un sud diverso, aggiornato al presente: il sud della nuova criminalità e della nuova borghesia, degli extracomunitari integrati e dei lavoratori precari. A metà tra il saggio e il reportage, la ricostruzione e il pamphlet, il testo esamina il fenomeno della rinascita della narrativa meridionale tanto auspicata negli anni novanta, e nel frattempo raccoglie dichiarazioni inedite, ragiona su contestazioni e polemiche e finisce per toccare questioni che oltrepassano i confini del sud. Sempre nel tentativo di ricostruire, al di là delle più immediate letture, un fenomeno tuttora fonte di dibattiti e capire il ruolo che può avere la letteratura nella comprensione e nella rappresentazione del sud di oggi.
Mi piacerebbe organizzare un dibattito su questo interessante volume ragionando insieme a voi sul “Sud nella nuova narrativa italiana” e sulle tematiche a esso connesse. Inoltre vorrei tentare di mettere “a confronto” Daniela Carmosino con alcuni degli scrittori citati nel suo saggio. Fino a questo momento ho avuto modo di contattare: Roberto Alajmo, Gaetano Cappelli, Antonella Cilento, Francesco Dezio, Giuseppe Montesano, Antonio Pascale, Livio Romano (i quali – compatibilmente con i loro impegni – cercheranno di prendere parte, più o meno direttamente, alla discussione).
Naturalmente sono invitati a partecipare al dibattito tutti gli altri amici scrittori, critici, giornalisti culturali, lettori, ecc.
Come al solito proverò a porre alcune domande al fine di favorire la discussione. Eccole:
Che rapporto dovrebbe avere un autore nei confronti della tradizione letteraria?
La tradizione letteraria (e quella meridionale, in particolare) deve essere vista più come un fardello di cui liberarsi o come punto di riferimento da cui ripartire? E perché?
È corretto parlare di “regionalismo letterario”? Se sì, quali dovrebbero essere gli elementi distintivi? (Per esempio: più “il luogo” o “il linguaggio”)? E i “canoni caratterizzanti”? Fino a che punto la letteratura è circoscrivibile entro ambiti regionali?
Chi ha maggiori possibilità di narrare di un luogo (nella fattispecie del Sud d’Italia) con efficacia maggiore: lo scrittore che ci vive e ha la possibilità di osservarlo dal di dentro, o quello che – essendosene allontanato, quantomeno fisicamente – riesce a guardarlo con più distacco?
Qual è il ruolo della narrativa italiana (e meridionale), oggi? Può contribuire, in qualche modo, a incidere sulle coscienze, a “rimisurare l’immaginario” (spesso deviato dai media), oppure – come sostiene Antonio Pascale (vedi video in basso) – bisogna puntare più sul ruolo dell’intellettuale (inteso come “amministratore del sistema”) che sul ruolo della narrativa?
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Nella letteratura di oggi (meridionale e non) c’è – e/o ci deve essere – ancora spazio per il mito? E per la metafora?
E ancora… che rapporto c’è tra la letteratura di oggi (meridionale e non) e i nuovi e vecchi media?
Infine una richiesta accorata: quella di rispettare lo spirito e la filosofia di Letteratitudine. Auspico, dunque, che questo dibattito possa essere caratterizzato dalla presenza di opinioni diverse (anche contrapposte) ma sempre espresse con garbo e nel rispetto delle opinioni altrui.
Grazie mille.
Massimo Maugeri
P.s. Avrò il piacere di presentare Daniela Carmosino a Catania – presso la libreria Tertulia (Via Michele Rapisardi, 1) venerdì 27 novembre, ore 18,30. Insieme a me: Caterina Pastura… e diversi ospiti (tra cui, molti scrittori)
Segue la recensione al libro apparsa su l’inserto settimanale Tuttolibri de La Stampa.
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Da TUTTOLIBRI del 12-09-2009
Narratori del Sud. Una vitale officina oltre Saviano e le eredità ingombranti
di FELICE PIEMONTESE
Tra i fenomeni letterari che hanno caratterizzato l’ultimo decennio del Novecento, c’e’ stato l’emergere di una nuova generazione di scrittori meridionali che hanno cercato di affrancarsi da ingombranti eredita’ e di raccontare – in modi naturalmente molto diversi – cio’ che sotto i loro occhi il Sud stava diventando o era gia’ diventato. In citta’ di alta valenza simbolica e narrativa, come Napoli e Palermo, e poi in luoghi meno inflazionati da libri, cinema e media – come la Puglia e la Basilicata – le pigre consuetudini letterarie sono state sovvertite dall’irrompere di narratori capaci di coprire quasi l’intero arco dei generi letterari: il noir e il fantastico, il grottesco e il satirico, il reportage «d’autore» e il barocco rivisitato, la ricostruzione storica e il pamphlet hanno avuto i loro cultori piu’ o meno dotati, ottenendo vasta (e talvolta sproporzionata) attenzione da giornali e riviste, pronti a dar credito a tutto cio’ che si presenta come «novita’». Il «fenomeno» Saviano, alla fine, non ha fatto altro che dare ulteriore evidenza – e in termini numericamente impressionanti – a cio’ che era sotto gli occhi di tutti, e oggetto di dibattito, magari falsandolo un po’, il dibattito, perche’ e’ sembrato a un certo punto che quella di Saviano fosse l’unica via percorribile, il che ovviamente non e’. Tutt’altro che priva di valide motivazioni, dunque, la ricerca della saggista Daniel Carmosino dedicata appunto al «Sud nella nuova narrativa italiana» e baldanzosamente intitolata (e’ pur sempre l’anniversario del Futurismo) Uccidiamo la luna a Marechiaro. Una ricognizione a tutto campo, come si dice, di (quasi) tutto cio’ che si e’ prodotto in ambito narrativo nell’ultimo quindicennio in quella parte d’Italia a sud di Roma, nella quale peraltro, per cio’ che riguarda la societa’ civile, sono accadute, nel periodo, cose di non poco conto. La speranza, con relativa enfasi, di un «nuovo Rinascimento», la «stagione dei sindaci», la disillusione, le stragi di camorra, le prime pagine dei giornali di tutto il mondo sulla questione monnezza, il peso sempre crescente della criminalita’ organizzata nella vita quotidiana, nell’economia, nell’organizzazione sociale. Centrale, secondo la Carmosino, in un fenomeno che ha peraltro infinite sfaccettature, la cesura rispetto alla piu’ recente tradizione meridionale, per cercare agganci e riferimenti in luoghi diversi, oppure privilegiando una sorta di istintivita’ che di riferimenti ritiene di poter fare a meno (e «in certe ingenuita’, in certa esibita naivete’ pare di scorgere una scarsa conoscenza» dei cosiddetti «padri», dice l’autrice. Mi e’ accaduto cosi’ di leggere con un certo sconcerto, in un’intervista, che una pur apprezzata, giovane scrittrice come Valeria Parrella stia «scoprendo» Celine). E la novita’, vera o presunta, dell’approccio impone la necessita’ – dice Carmosino – di «forgiare uno strumento linguistico capace di nominare il mondo ”secondo l’autore”», costruendo quindi «un ponte sul vuoto di senso delle parole e delle icone desemantizzate dell’ammaliante retorica meridionalista, neorealistica o mediatica che sia». Esigenza, in verita’, non da tutti avvertita con uguale urgenza: assai presente, ad esempio, in un autore colto come Montesano, molto meno in altri, la cui scrittura poco di discosta da quella giornalistica. Costante, comunque, secondo l’autrice, la spinta a «demolire» i molti stereotipi di cui tuttora si compiacciono la narrativa piu’ tradizionale e il giornalismo nel suo complesso, tranne rare eccezioni. Con strumenti critici che attingono alla sociologia e alla linguistica, e soprattutto all’ermeneutica (e con molte ripetizioni) la Carmosino ci da’ un quadro esauriente della produzione di autori come il gia’ citato Montesano e Pascale, Da Silva e Cilento, Cappelli e Alajmo, Parrella e Franchini, Piccolo e Atzeni, mettendo in luce punti di contatto e differenze nel comune processo di fuoriuscita da una sorta di «canone meridionalistico» che si e’ imposto nel tempo e che e’ sembrato a un certo punto una specie di camicia di forza.
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Aggiornamento del 26 novembre 2009
Aggiorno il post introducendo un altro libro perfettamente in tema con il dibattito in corso su “il Sud della nuova narrativa italiana”.
Si tratta di un’antologia curata da Filippo La Porta e pubblicata da Manni. Si initola “È finita la controra. La nuova narrativa in Puglia” e contiene brani dai romanzi di Cosimo Argentina, Vito Bruno, Gianrico Carofiglio, Carlo D’Amicis, Giancarlo De Cataldo, Girolamo De Michele, Mario Desiati, Omar Di Monopoli, Nicola Lagioia, Alessandro Leogrande, Elisabetta Liguori, Annalucia Lomunno, Flavia Piccinni, Andrea Piva, Emiliano Poddi, Pulsatilla, Angelo Roma, Livio Romano, Angela Scarparo.
Ecco la breve scheda del libro: “In questa antologia Filippo La Porta fa il punto sulla narrativa pugliese che, a partire dagli anni Novanta, vive una sua Nouvelle Vague, o Rinascimento, o in qualunque modo lo si voglia chiamare. 19 autori nati tra il 1956 e il 1986 provano a dare un senso, anzi sensi diversi alla mutazione delle Puglie.
Raccontano delle contraddizioni e dell’incanto di una terra che può declinarsi al plurale; e di fallimenti che non sono solo dissipazione ma anche creatività ed epica.
Si legge una inconsapevole opposizione alla modernità e un suo irresistibile, inquietante, fascino.”
Filippo La Porta ne ha parlato a Fahrenheit.
Invito Filippo La Porta e gli autori inseriti nell’antologia – compatibilmente ai loro impegni, e se ne hanno voglia – a partecipare alla discussione in corso.
Massimo Maugeri
Anticipo che questo post sarà… molto lungo… nel senso che rimarrà in primo piano per almeno una settimana.
Nel frattempo (cioè nei prossimi giorni) proverò a coinvolgere nella discussione altri autori citati nel saggio.
Ma, ripeto, l’invito a partecipare alla discussione è rivolto a tutti.
Una precisazione iniziale (ne ho parlato con la stessa autrice). È ovvio che l’analisi di Daniela Carmosino non può essere esaustiva… nel senso che era impossibile includere nel saggio tutti gli autori rappresentanti del “Sud nella nuova narrativa italiana”.
Questo si evince anche dalla prefazione del libro che inserirò più avanti, tra i commenti…
Ricapitolando…
Metto in evidenza i “passaggi” che già si evincono dalla scheda del saggio:
1. Oggi che i problemi del Sud d’Italia sono temi di successo su cui puntano media ed editoria, viene da chiedersi: che ne è stato del riscatto sociale e culturale del Mezzogiorno che una quindicina d’anni fa pareva imminente?
2. Questo volume è un ideale grido di battaglia “futurista” dei giovani scrittori – Saviano, De Silva, Parrella, Cilento, Cappelli, Pascale – che, a partire dagli anni novanta, hanno deciso di raccontare un Sud svincolato dagli stereotipi del paradiso turistico o dell’inferno senza redenzione, svincolato dalla pizza, dal mandolino e dal vittimismo. Un sud diverso, aggiornato al presente: il sud della nuova criminalità e della nuova borghesia, degli extracomunitari integrati e dei lavoratori precari.
3. A metà tra il saggio e il reportage, la ricostruzione e il pamphlet, il testo esamina il fenomeno della rinascita della narrativa meridionale tanto auspicata negli anni novanta, e nel frattempo raccoglie dichiarazioni inedite, ragiona su contestazioni e polemiche e finisce per toccare questioni che oltrepassano i confini del sud. Sempre nel tentativo di ricostruire, al di là delle più immediate letture, un fenomeno tuttora fonte di dibattiti e capire il ruolo che può avere la letteratura nella comprensione e nella rappresentazione del sud di oggi.
L’obiettivo del post, dicevo, è duplice:
I) tentare di avviare un dibattito su questo saggio di Daniela Carmosino ragionando insieme sul “Sud nella nuova narrativa italiana” e sulle tematiche a esso connesse.
II) tentare di mettere “a confronto” l’autrice con alcuni degli scrittori citati nel suo saggio
Gli scrittori “citati” che, al momento, sono riuscito ad allertare sono i seguenti: Roberto Alajmo, Gaetano Cappelli, Antonella Cilento, Francesco Dezio, Giuseppe Montesano, Antonio Pascale, Livio Romano.
Nei prossimi giorni non è escluso che riesca a contattarne altri…
Naturalmente (lo ribadisco ancora una volta) siete tutti invitati a partecipare: scrittori, critici, giornalisti culturali, lettori, operatori culturali, librai, editori, editor, ecc…
Ripropongo le domande che ho formulato nella speranza di favorire la discussione.
Non vogliatemene…
🙂
Che rapporto dovrebbe avere un autore nei confronti della tradizione letteraria?
La tradizione letteraria (e quella meridionale, in particolare) deve essere vista più come un fardello di cui liberarsi o come punto di riferimento da cui ripartire? E perché?
È corretto parlare di “regionalismo letterario”? Se sì, quali dovrebbero essere gli elementi distintivi? (Per esempio: più “il luogo” o “il linguaggio”)? E i “canoni caratterizzanti”? Fino a che punto la letteratura è circoscrivibile entro ambiti regionali?
Chi ha maggiori possibilità di narrare di un luogo (nella fattispecie del Sud d’Italia) con efficacia maggiore: lo scrittore che ci vive e ha la possibilità di osservarlo dal di dentro, o quello che – essendosene allontanato, quantomeno fisicamente – riesce a guardarlo con più distacco?
Qual è il ruolo della narrativa italiana (e meridionale), oggi? Può contribuire, in qualche modo, a incidere sulle coscienze, a “rimisurare l’immaginario” (spesso deviato dai media), oppure – come sostiene Antonio Pascale (vedere video in alto, sul post) – bisogna puntare più sul ruolo dell’intellettuale (inteso come “amministratore del sistema”) che sul ruolo della narrativa?
Nella letteratura di oggi (meridionale e non) c’è – e/o ci deve essere – ancora spazio per il mito? E per la metafora?
E ancora… che rapporto c’è tra la letteratura di oggi (meridionale e non) e i nuovi e vecchi media?
Infine, una richiesta accorata (ci tengo davvero tanto, lo sapete): quella di rispettare lo spirito e la filosofia di Letteratitudine. Auspico, dunque, che questo dibattito possa essere caratterizzato dalla presenza di opinioni diverse (anche contrapposte) ma sempre espresse con garbo e nel rispetto delle opinioni altrui.
Vi ringrazio anticipatamente per la collaborazione.
L’ho già scritto ne “la camera accanto”, ma preferisco ribadirlo anche qui…
La puntata odierna di Letteratitudine in FM (in collaborazione con Radio Hinterland) non andrà in onda. Sia Luca Corte (conduttore in studio, a Milano) che il sottoscritto siamo alle prese con l’influenza (in più Luca è proprio senza voce… ma davvero.. non esagero).
Trasmissione rinviata alla settimana prossima, dunque.
Il dibattito dedicato al ventennale della morte di Leonardo Sciascia, continua…
Ho invitato due nuovi ospiti (autori di due interessanti saggi): Daniela Privitera e Marcello Benfante.
Li trovate qui (ho anche aggiornato il post):
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/11/09/muro-e-sciascia/
Nell’altro post continua la discussione, con Barbara Gozzi, sul tema: “Letteratura e corpi”. Ho anche inserito, nel corso del dibattito, un interessante saggio messoci a disposizione da Donatella Trotta sulla letteratura giapponese (sempre in riferimento alla “corporeità”):
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/11/20/quando-la-letteratura-prende-corpo/
Ciò premesso…
rispondete (sempre se vi va, s’intende) con calma… prendetevela comoda.
Tanto, come vi ho detto, questo post citerrà compagnia a lungo.
–
[Se va come spero, un estratto di questo dibattito potrebbe confluire sul nuovo volume di “Letteratitudine, il libro”. Dunque… impegnatevi 🙂 ]
Mi stavo dimenticando di fornirvi un ulteriore “spunto”… cioè, il breve testo scritto in quarta di copertina del libro:
«I narratori del nuovo Sud devono guardarsi costantemente alle spalle, per difendersi dalle insidie del vecchio. La tradizione meridionalistica e quella neorealistica hanno infatti condotto al cristallizzarsi di temi, situazioni, linguaggi e prospettive tipicamente meridionali, in cui lo scrittore del Sud, anche il più vigile, rischia di restare invischiato a ogni passo. Di qui, il salutare lavoro di sottrazione, di disincrostazione dalle più viete chiavi di lettura».
Segue la “premessa” del libro…
Dalla “Premessa” del volume “Uccidiamo la luna a Marechiaro” – Donzelli (di Daniela Carmosino): pagg. VII – XI
–
Negli ultimi anni il Sud è tornato a imporsi all’attenzione dei media per la nuova impennata di criminalità che ha interessato alcune sue aree, così come per le nuove forme di reazione che questa ha provocato nella società, e in quella sana e in quella collusa.
Viene dunque da chiedersi: che ne è stato di quella rinascita del Sud che intorno alla metà degli anni novanta appassionò sociologi, antropologi, storici, economisti, artisti e critici? Anche allora generoso spazio venne concesso dai media al dibattito intorno alle effettive possibilità e alle eventuali configurazioni di un rinnovamento sociale e
culturale dell’area. E anche allora, come oggi, il mondo dell’arte si cimentò subito con la sfida di raccontare una realtà in via di trasformazione: la stessa letteratura, magari fiancheggiando l’informazione giornalistica senza rinunciare alla sua specificità, prese a dar voce a un Sud diverso dall’immagine satinata e stereotipata che buona parte dei media continuava a diffondere.
Tra le reazioni più decise e vitali, quella della narrativa, che dimostrava – come già in area centro-settentrionale con l’esperienza di «Ricercare» – un’irrefrenabile propensione a raccontare, con il linguaggio delle giovani generazioni, quella realtà contemporanea febbricitante di repentini e radicali mutamenti sociali. Questo nuovo, ben presto editorialmente etichettato, orientamento degli scrittori meridionali suscitò subito alcune perplessità: in merito sia al potenziale innovativo sia all’effettivo valore artistico della loro produzione. Resta però il fatto che il fenomeno, ascrivibile per confini cronologici e per comunanza di tratti sperimentali all’ormai storicizzata «narrativa anni novanta», costituì un evento da non liquidare come semplice testimonianza di una fase di transizione sociale – il diffondersi, alle nostre latitudini, dei modelli sociali e comportamentali propri della globalizzazione – ma da rileggere, contestualizzare, interpretare come progetto di riconsegnare
alla letteratura non il dovere, non il compito, ma il «potere» di raccontare con efficacia e di interpretare criticamente il presente.
Lo smantellamento dei tanti stereotipi sul Sud è stato uno dei primi – in ordine di tempo e di importanza – tratti caratterizzanti i narratori del nuovo Sud: così vogliamo definirli, ponendo subito l’accento non tanto sulla sperimentazione di nuove modalità di rappresentazione del reale
– sulla cui effettiva novità ancora si può discutere – quanto sull’apertura di questi scrittori verso l’indiscutibile novità dell’oggetto rappresentato, ovvero le nuove configurazioni sociali e antropologiche assunte negli ultimi decenni dal Mezzogiorno. Sono queste che, reclamando una loro presenza in letteratura, li hanno indotti a sperimentare o recuperare o reinterpretare forme e linguaggi capaci, da un lato, di dar voce, corpo, colori vividi a queste nuove configurazioni, dall’altro di rappresentarne criticamente il significato, il valore. Rispetto alla «narrativa anni novanta» dimatrice settentrionale, però, la narrativa del Sud deve fare
i conti con alcuni problemi specifici: se la novità risiede nella realtà rappresentata ancor prima che nella sperimentazione di nuovi modi di rappresentarla, se è vero che per misurarsi con la sfida lanciata dal «nuovo» occorre guardare al presente e ancor più al futuro, è pur vero che i narratori del nuovo Sud devono guardarsi costantemente anche
alle spalle, per difendersi dalle insidie del «vecchio». La tradizione meridionalistica e quella neorealistica hanno, infatti, involontariamente condotto al cristallizzarsi di una sorta di canone di temi, situazioni, linguaggi e prospettive «tipicamente» meridionali, in cui lo scrittore del Sud, anche il più vigile, rischia di restare invischiato a ogni passo.
Di qui, il salutare lavoro di sottrazione, di disincrostazione dalle più viete chiavi di lettura.
La scelta degli autori e dei brani segue alcuni precisi criteri.
La fascia generazionale presa in considerazione è quella di chi pubblicava, come giovane esordiente, negli anni novanta, partecipe, dunque, di alcune esperienze che determinavano una documentabile consonanza di prospettive, obiettivi, tematiche e modalità di rappresentazione.
Tra i narratori del Sud sono stati inclusi anche quelli sardi: li accomuna, infatti, una mutazione antropologica derivata dal rapido processo di modernizzazione avvenuto dagli anni ottanta e novanta, che, anche in questo caso, ha reso necessaria una riconfigurazione dell’identità che non si traducesse in resa incondizionata alla globalizzazione né in arroccamento nella tradizione. La scansione in capitoli, dedicati ai temi ricorrenti nei dibattiti sulla narrativa del nuovo Sud e a quegli elementi più significativi e ricorrenti nella produzione artistica, fa sì, inoltre, che autori e brani vengano scelti prevalentemente per il loro potere esemplificativo: ne consegue che le esclusioni non sottendono alcun giudizio di valore.
Si tratta, insomma, di un tentativo di ragionare a distanza, seppur breve, di quella piccola rivoluzione culturale che investì il Sud d’Italia intorno agli anni novanta, e del valore di ciò che ha prodotto e continua a produrre. Un ragionare che nega ogni ambizione di proporsi come dizionario o come manuale, e che non pretende, quindi, di tracciare una panoramica esaustiva.
Infine: questo lavoro nasce da un nucleo costituito dal resoconto di un convegno tenutosi a Campobasso nel 2003 e dedicato alla nuova narrativa meridionale. Al convegno si era voluto dare il titolo di Notizie dal Sud, a indicare il carattere non pregiudiziale, ma di onesta ricognizione su quel fenomeno editorialmente etichettato come «nuova (o giovane) narrativa del Sud». Molte delle dichiarazioni riportate in questo studio derivano dunque dai dibattiti svoltisi nelle tre giornate di incontri: dichiarazioni poste in un continuo confronto con le posizioni teoriche elaborate dai narratori, i risultati raggiunti nella produzione artistica e l’analisi delle une e delle altre compiuta oggi, a una distanza
temporale appena necessaria per poter tentare la storicizzazione e l’interpretazione di un fenomeno importante quale è stato quello della rinascita, se non del Sud, almeno della narrativa del Sud.
Per il momento chiudo qui (vado a curarmi l’influenza).
Auguro a tutti una serena notte.
Caro Massi,
se può consolarti anch’io sono influenzata…
🙂
Spero proprio di incontrare la Carmosino a Catania venerdì o a Siracusa sabato…
Il post si preannuncia interessantissimo, perché proprio dal Sud stanno emergendo o si stanno consolidando delle voci che stentiamo a rinchiudere nelle categorie del regionalismo.
Dopo quella stagione dell’impegno di cui si parlava sopra, con i vari Saviano Parrella e tanti validissimi altri autori credo che la letteratura del Sud stia di nuovo insistendo sulla via della denuncia, del rinnovamento, delle energie profuse a comprendere, spiegare, raccontare il Sud per potero eventualmente cambiare.
Chiaramente la tradizione letteraria siciliana, quella campana, la letteratura meridionale e il meridionalismo più o meno folkloristico, i sociologismi, le politicizzazioni, rendono il compito dello scrittore del Sud poco facile: avere alle spalle dei giganti può fare sentire dei nani a vita.
Credo però che “rimisurare l’immaginario” sia una sfida tutta da raccogliere.
Il mito, la metafora, la favola, la fiaba non scompariranno, anzi. Le fiabe sono universali proprio perché trascendono i contesti che le hanno generate. Ugualmente, la letteratura degli autori del Sud non dovrà essere tutta mafia camorra immigrati per rappresentare una realtà, un periodo storico. Pensiamo a certe rappresentazioni surreali di realtà brucianti.
Attendo l’intervento degli autori contattati da Massimo…
Caro Massi,
forse può esserci mito(e metafora) , passione civile, aggancio alla tradizione e sguardo al futuro tutto insieme…Ti riporto le parole di Vincenzo Consolo:«Io scrivo per dovere. Anzi, scrivo quando avverto il dovere di raccontare un avvenimento del passato che possa rappresentare in metafora il presente. Questo, da scrittore, credo sia il mio dovere civile».
Il passato come metafora del presente.
Il dovere di raccontare come dovere civile.
Forse, il recupero dell’immaginario può affondare le proprie radici dall’oservazione del reale, e il reale trasfondersi in fabula.
In fondo le schiere di uomini che approdano dagli scafi in Sicilia non vagolano nel mediterraneo come Odisseo? E le ciminiere di Melilli e Augusta non boccheggiano fumo come le grotte dell’Ade?
Vero è che …“coi miti non bisogna aver fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi a meditare su ogni dettaglio, ragionarci sopra senza uscire dal loro linguaggio di immagini” (Italo Calvino, Lezioni ameicane).
Ma vero è anche che i miti dispongono del loro (e del nostro) destino, provocando la loro (e la nostra) metamorfosi. La scrittura del mito appare allora esercizio di trasfigurazione, anche di quella materia che a prima vista “mitica” non sembra.
D’altra parte in Omero “mithos” vuol dire “parola”, e significativamente si oppone a ergon, “atto”, in una polarità che determina le due funzioni essenziali dell’operare umano. Sempre nei poemi omerici mythos assume anche il valore di “discorso”, “narrazione”, senza comportare distinzione tra vero e falso, con una qualifica “obiettiva” che permane fino all’avanzata età classica.
La parola stessa, dunque, è “mito”, perchè è trasfigurazione, sintesi, metamorfosi.
Sarebbe bellissimo, credo, che si recuperasse la sua centralità. Il suo suono. Il suo “gusto”.
La sua responsabilità.
Bel post. Mooolto interessante. Vi seguirò con molta attenzione!
Rispondo alla penultima. Si’, è importante che ci sia ancora spazio per il mito e la metafora nella letteratura d’oggi come come in quella di ieri. Poi uno sceglie il soggetto che vuole e lo svolge a modo suo. La libertà di uno scrittore deve essere totale.
Provo a rispondere alle domande, anche se non è facile. Ma a poco a poco, non tutte in una volta
– Che rapporto dovrebbe avere un autore nei confronti della tradizione letteraria?
Il primo rapporto dovrebbe essere di “conoscenza”. Questo è alla base. Prima di decidere se aderire o discostarsi, bisogna “conoscere”.
-La tradizione letteraria (e quella meridionale, in particolare) deve essere vista più come un fardello di cui liberarsi o come punto di riferimento da cui ripartire? E perché?
Una volta superata la fase della “conoscenza” della tradizione letteraria, un autore secondo me può guardarsi intorno per raccontare il mondo con un linguaggio del suo tempo ed in maniera sincera. Non avrebbe senso, oggi, scrivere come Verga.
– È corretto parlare di “regionalismo letterario”? Se sì, quali dovrebbero essere gli elementi distintivi? (Per esempio: più “il luogo” o “il linguaggio”)? E i “canoni caratterizzanti”? Fino a che punto la letteratura è circoscrivibile entro ambiti regionali?
Secondo me è corretto ed ha senso. Luogo e linguaggio incidono in egual misura. Ma questo non significa circoscrivere la letteratura entro ambiti regionali. La grande letteratura ha sempre una valenza globale, anche se racconta di un minuscolo villaggio sperduto.
– Chi ha maggiori possibilità di narrare di un luogo (nella fattispecie del Sud d’Italia) con efficacia maggiore: lo scrittore che ci vive e ha la possibilità di osservarlo dal di dentro, o quello che – essendosene allontanato, quantomeno fisicamente – riesce a guardarlo con più distacco?
Difficile rispondere. Forse lo scrittore che si è allontanato e torna solo ogni tanto.
Qual è il ruolo della narrativa italiana (e meridionale), oggi? Può contribuire, in qualche modo, a incidere sulle coscienze, a “rimisurare l’immaginario” (spesso deviato dai media), oppure – come sostiene Antonio Pascale (vedi video in basso) – bisogna puntare più sul ruolo dell’intellettuale (inteso come “amministratore del sistema”) che sul ruolo della narrativa?
– La narrativa potrebbe ancora incidere sulle coscienze, e “rimisurare l’immaginario”. Purché venga letta. Questa, forse, è la nota dolente.
Nella letteratura di oggi (meridionale e non) c’è – e/o ci deve essere – ancora spazio per il mito? E per la metafora?
– Suppongo di sì, purché non si esageri. Dopotutto il meridione è uno dei luoghi del mito. Stessa cosa dicasi per la metafora.
– E ancora… che rapporto c’è tra la letteratura di oggi (meridionale e non) e i nuovi e vecchi media?
Torniamo al punto di prima. La mia impressione è che i nuovi media non favoriscono la lettura. E senza lettura il fare letteratura perde senso.
Spero di aver esagerato con le banalità. Aspetto di leggere le altre opinioni. Salve.
beh, forse questa è più una discussione per addetti ai lavori. ma proverò comunque a dire la mia più tardi. saluti a tutti.
A Sebastiano Morra.
Non sono molto d’accordo quando dici ‘La mia impressione è che i nuovi media non favoriscono la lettura. E senza lettura il fare letteratura perde senso.’
Secondo me in alcuni casi i media possono fare moltissimo per favorire la lettura. La trasmissione di Fazio Che tempo che fa ne è un esempio. E’ innegabile che i libri lì presentati beneficino di una più o meno grande impennata nelle classifiche di vendita. Secondo me le trasmissioni che si occupano di libri dovrebbero aumentare.
caro Massimo,argomento corposo e stimolante,mentre attendo anch’io gli interventi degli autori invitati,proverò a dire cosa penso.
Non si può scrivere prescindendo dalla tradizione letteraria che è scritta nei geni della cultura e da cui attraverso la conoscenza ma anche e soprattutto attraverso la trasformazione di questa conoscenza lo scrittore deve partire.Credo però che una certa continuità nella scia di una tradizione letteraria in alcune regioni sia più forte di altre-es.la tradizione siciliana-.Regionalismo come senso di appartenenza ad un dato territorio ma non come una gabbia di pensiero e di stile e di lingua entro cui muoversi,se questo senso di appartenenza coniugato all’impegno civile si armonizza nello stile autentico di uno scrittore dà voce originale all’opera e all’autore;anche trovando nuovi linguaggio più consoni al momento storico o nuovi mezzi di comunicazione.Credo che negli ultimi anni le voci del sud si stiano diversificando maggiormente l’una dall’altra,distaccandosi da clichè e stereotipi del raccontare una certa “questione meridionale”.Non so quanto sia necessario e utile restare o andare via dal luogo per raccontare,credo che sia più una questione di capacità di sguardo dell’autore sulle cose della vita,che sappia entrare e poi uscirne per descriverla,ma a mio parere, mai solo e sempre con taglio cronachistico.Un autore può raccontare con autenticità e vero impegno civile la propria realtà circostante solo nel momento in cui compirà la magia di armonizzare sguardo realistico e senso del mito,allora secondo me,creerà quella magia di cui la tradizione letteraria del sud è ricca,raccontando la verità che ci appartiene senza perdere il gusto della narrativa creativa.
grazie per questo importante spunto di riflessione,un abbraccio.
Aspetto gli interventi.
Concordo con quanto asserito da Francesca Giulia.
Il tema è molto interessante. Se sarò a Catania, sicuramente parteciperò perché mi tocca molto da vicino, non solo come giornalista ma soprattutto come autore che, pur vivendo fuori, ha dedicato molti libri alla Sicilia con tutte le conseguenze che questo comporta. E’ diverso, infatti, parlare di letterature del Sud in Sicilia ed in Italia, perché i presupposti sono diversi. Confesso di non aver mai avuto la possibilità di seguire questo tipo di dibattito in Sicilia e, soprattutto, a Catania, che non è solo la mia città, ma un centro denso di fermenti culturali. Almeno tale era quando frequentavo il liceo Cutelli.
Ciao
Salvatore Spoto
trovo che sia un dibattito interessante e complesso.
L’argomento mi tocca in quanto sono napoletana, ma vivo a Milano dove lavoro.
Provo a mettere in forma scritta alcune delle sensazioni e delle considerazioni che si sono smosse leggendo il post e qualora ci riuscissi, le invio.
Grazie comunque perché mi informerò sugli interventi.
Saluti
Avrei una domanda per la prof.ssa Carmosino.
Rispetto al periodo che ha preso in considerazione cosa è cambiato in questi ultimissimi anni nella narrativa del Sud?
Se non ho capito male il libro analizza gli anni Novanta.
Ci provo, ma da semplice lettrice appassionata di narrativa.
(Che rapporto dovrebbe avere un autore nei confronti della tradizione letteraria?)
Il passato e la tradizione non vanno rinnegati, ma lo sguardo va posato sul presente. Il bravo scrittore è colui che riesce a decifrare il presente, raccontandolo, senza rimanere invischiato nel passato.
(La tradizione letteraria (e quella meridionale, in particolare) deve essere vista più come un fardello di cui liberarsi o come punto di riferimento da cui ripartire? E perché?)
Se diventa un recinto è meglio liberarsene, se diventa una postazione da cui affacciarsi al mondo è bene farne puntodi riferimento.
Per ora mi fermo qui. Grazie.
Saluti.
Come corollario alla discussione, vi segnalo “È finita la controra – La nuova narrativa in Puglia”, a cura di Filippo La Porta, Manni, fresco di stampa. Sempre da Manni, e sempre con partenza dagli anni novanta, varrebbe la pena di considerare l’approccio rigorosamente linguistico alla narrativa italiana (non solo meridionale) di Giuseppe Antonelli, “Lingua ipermedia – La parola di scrittore oggi in Italia”.
Un saluto a tutti.
cl
Parlo per me: certe volte immagino di essere un nano sulle spalle di un gigante, che si trova sulle spalle di un gigante, che…
Ho persino le vertigini, quando guardo di sotto. Ma questo non mi impedisce di scalciare, e fare sentire i talloni al povero Sciascia, cui è toccato il destino di sobbarcarsi il sottoscritto – povero lui.
Per quanto nano, sento come un diritto quello di scalciare il gigante di sotto: a prescindere da ogni valutazione di grandezza, da cui mi sentirei annichilito.
l’intervento di Roberto Alajmo è divertente, calzante e rende proprio l’idea.
Non vorrei essere nei panni del gigante di sotto, quello più in basso di tutti, che deve reggere il massimo peso e subire i calcetti degli altri sopra di lui 🙂
a proposito, chi è il gigante più in basso?
saluti a tutti 😉
non scrivo, non sono una scrittrice. ma leggo, leggo tanto.
leggendo questo post mi sono resa conto di quanto dev’essere difficile per uno scrittore offrirsi al mondo con una nuova storia. una storia che non sia banale, che non rinneghi per forza la tradizione, ma che non ci scenda a patti, che porti elementi di novità senza essere fuori dal mondo.
non sono una scrittrice, ma se lo fossi credo che rischierei di bloccarmi di fronte alla pagina bianca.
Interverrò con calma più tardi. Per il momento mi limito a ringraziarvi tutti per i commenti pervenuti.
A dopo!
Roberto Alajmo ha reso spiritosa la metafora un po’ trita che avevo usato…
🙂
Sottoscrivo quello che ha scritto Francesca Giulia e aggiungo che il rapporto con la tradizione deve essere creativo e magari paritario come auspica ridendo ma non troppo Alajmo…
Belle questioni poni tu, ottimo Maugeri! Belle questioni pone la Carmosino! Praticamente io ho trascorso gli ultimi dieci anni della mia vita a girare l’Italia, a scrivere articoli, rilasciare interviste: esattamente per discorrere di questi temi qua. Potrei in teoria postare un saggio di trenta pagine (più o meno la conferenza standard che ho tenuto per librerie, università, associazioni in Italia e a volte all’estero), e ancora avrei di che dire. Tuttavia stasera me ne vado a dormire. Spero di riuscire a dire qualcosa -sinteticamente!- durante il weekend (molto dipende se le mie figlie si beccano o meno l’influenza, ormai siam circondati, sento che è questione di ore). Per il momento rimando senz’altro a uno dei tanti link possibili, un dialogo con Giulio Mozzi in occasione dell’uscita del mio secondo librino “Porto di mare”: si discetta anche dei temi che tu proponi. http://www.sironieditore.it/sezioni/articolo.php?ID_articolo=4&ID_libro=978-88-518-0003-1 .
Ah, e quest’altro pezzuncolo, tanto per aggiungere carne al fuoco: http://www.nazioneindiana.com/2005/04/13/chi-me-le-racconta-queste-cose/
Eccomi di nuovo qui…
Ehi, Livio… grazie per essere intervenuto.
Pensa: dieci anni della tua vita condensati in un post letteratitudiniano.
🙂
A parte gli scherzi, grazie per i link.
E grazie in anticipo se riuscirai a inserire considerazioni inedite.
–
[Ehm… te lo dico all’orecchio, ma… acqua in bocca, eh… quello che scriverai potrebbe finire sul nuovo volume di “Letteratitudine, il libro”]
😉
Intanto ne approfitto per salutare e ringraziare (come d’abitudine) tutti gli intervenuti (oltre a Livio): Simona, Maria Lucia, Mariano, Benedetta, Sebastiano, Letizia, Arianna, Francesca Giulia, Vale, Salvatore, Patrizia, Renato, Claudio, Marta, Roberto, Manuela, Francesca…
@ Roberto Alajmo
Grazie per essere intervenuto, Roby. Mi raccomando… non maltrattrare Sciascia…
Come dicevo, questa discussione ci terrà compagnia per diversi giorni.
Siete tutti invitati a intervenire per rispondere alle “domande del post” (se ne avete voglia, s’intende).
Per il momento chiudo qui e vi auguro una serena notte.
E’ già un trentennio, credo, che la luna non tramonta più a Marechiaro, ma appare livida a Scampia, da quel 23 novembre ’80, di cui in questi giorni ricorre il 29° anniversario.
Trenta anni in cui l’oleografia di Napoli spesso è stata associata come immagine, culturale e politica, di tutto il sud (suo malgrado) e, ancora una volta viene usata come icona, negativa o positiva si vedrà nel dibattito interessante che presumo scaturirà da questo post, che per come è stato impostato da @Massimo penso sarà uno dei più interessanti mai visti su questa bella pagina web.
Il sud è spesso Napoli e, nonostante abbia cercato di affrancarsene, il meridione d’Italia ha dovuto sempre fare i conti con questa città-mito, dove tutto e il contrario di tutto accade.
Il grande fermento che si scatenò nel post-terremoto, capeggiato dal gallerista (ma è riduttivo chiamare così uno dei più grandi personaggi della cultura italiana di fine novecento) Lucio Amelio e che inizio col meraviglioso manifesto (che suggerirò a parte a @Massimo) sul’emergenza, quel “Fate presto” che non riguardava solo la fisicità del mezzogiorno, ma anche il ritardo sulla cultura in toto.
Alla nascita di una reale letteratura meridionale è mancato il nervo centrale aggregante che doveva essere Napoli, in parte vi ha supplito il movimento siciliano, ma è stato un unicum etnico grandioso che non ha riguardato, ne inglobato tutto il sud, al quale è mancato una grande casa editrice major, come quelle del nord, che fosse punto di riferimento e stimolo. Buona parte degli scrittori partenopei ha preferito vivere e scrivere fuori, facendo l’errore di parlare del sud scrivendone sui loro terrazzi romani, da emigranti di lusso.
Oggi i Saviano, le Cilento, i Montesano sono già punto di riferimento perché vivono l’humus ambientale, passeggiano nel degrado e raccontano dall’interno della morfologia, sono sangue che parla.
Roberto Saviano poi, di questo suo parlare dall’interno del corpo sanguigno, ne ha fatto un modello di riferimento. La sua cronistoria, il suo raccontare semplici fatti ha riproposto il giornalismo hemingweyano e ne ha fatto letteratura .
Buon giorno a tutti (anche se qui nelle piane emiliane tra nebbia e umidità che resta appiccicata alla pelle, l’impressione alzandosi dal letto è di tutt’altro impatto… -off topic)
@Massimo mi raccomando curati che tra influenze, raffreddori, febbri varie e malanni mutevoli è periodo da non trascurare..
@Roberto Alajmo: bellissima l’immagine di te (nano, tu?) sulle spalle di che sta sulle spalle di, di, … e scalciare, colpire coi talloni, muovere ogni angolo possibile del corpo pur di farsi sentire fin dove si arriva, fin dove le estensioni permettono…
Aggiungo senza addentrarmi troppo (la solita fretta sì, bisogna portare pazienza): secondo me la tradizione letteraria è comunque un bagaglio, uno zaino, una borsetta, un cappello, un portafoglio dismesso, un paio di scarpe usate, che prima o poi tornano in mano o addosso. Ognuno poi si confronta inevitabilmente con quella ‘parte’ di tradizione che più ha potuto avvicinare a sé. Eppure non credo si possa stare ‘oggi nell’oggi’, ed essere entro le ossa del vivere quanto in quelle della scrittura, senza volgere mai sguardi e tocchi indietro. Ciò che poi, di quella tradizione, resta più ‘addosso’ a mio parere finisce per filtrare e trasmettersi anche negli approcci, nei modi in cui si contribuisce alla letteratura (ognuno dalle proprie finestre dunque leggendo, scrivendo, studiando, ragionando, confrontando, dibattendo..)
Lascio un abbraccio a tutti!
visto che – pascale dixit – non si può partire da zero partiamo dagli anni 90 come giustamente la dani carmosino fa. spegnere la luna di marechiaro è possibile ma solo perché, dopo aver attraversato le tenebre degli anni 70 – non solo letterararie – e il diffondersi della luce negli ottanta, quel bagliore è arrivato anche qui a sud. ancora verso la metà dei novanta ricevetti una telefonata da michele trecca. mi proponeva di curare insieme un antologia di autori giovani suditi. solo terroni faccio io?, ma non si rischiamo di fare i leghisti del sud? già, dice il trek, ma hai notato che persino nelle antologie di tondelli di suddisti non ce ne sono. vero, non ce n’erano. cosa è successo nel frattempo visto che di scrittori dal sud ne sono usciti tanti? non penso la tradizione del sud c’entri molto. c’entrano la cultura giovanile, la musica – non dirò il rock per non rompere il cazzo ma è chiaro che sì – c’entranto il cinema, la tivvù, il fitness, l’arte pop, le mode, il dialetto filtrato dalle scritture del mondo, l’idea, ma meglio il mito dello scrittore giovane che conosce e maneggia tutti questi materiali.
uè quello qui sopra sono. dimenticai di firmar
I post e le domande sono davvero stimolanti, così come i messaggi degli intervenuti. Studio letteratura da anni e mi sono sempre schierata contro le ‘chiacchiere letterarie’ in rete. Però essendomi imbattuta in questo dibattito, mi devo ricredere. Davvero interessante. Spero di riuscire a tornare in serata per dire la mia.
Complimenti e arrivederci.
parlo da semplice lettore. secondo me lo scrittore deve evitare di farsi condizionare troppo dalla tradizione. la tradizione a volte è soffocante. quando leggo, mi piace leggere una storia che racconta del tempo presente. riferimenti al passato non devono essere percepibili, non devono emergere. la tradizione, cioè, se c’è, deve essere metabolizzata, digerita, non rigurgitata sulle pagine della narrativa di oggi.
certo, leggendo i post degli scrittori sopra mi rendo conto che non dev’essere semplice. il rischio del paragone a tutti i costi col passato c’è sempre, così come il rischio di essere fraintesi ed etichettati.
per fortuna non è un problema che riguarda noi lettori 🙂
ciao
A Arianna.
Io ho sostenuto che i nuovi media non favoriscono la lettura.
Tu ritieni che in alcuni casi i media possono fare moltissimo per favorire la lettura.
Certo, non lo nego. Ma devi ammettere che i nuovi media ( non li voglio demonizzare, attenzione) offrono miriadi di alternative alla lettura. Il problema è che la nostra giornata è fatta sempre di 24 h.
Tra televisione, facebook e quant’altro chi è che ha più il tempo di leggere? O meglio, chi è che ha più il tempo di leggere come una volta?
Preciso: in termini assoluti una volta, forse, si leggeva di meno perché il tasso di alfabetizzazione era nettamente più basso. Ma in termini relativi, oggi, la percentuale di gente che legge tra gli alfabetizzati è indubbiamente più bassa rispetto a 50 anni fa.
Scusate il fuori tema.
Ultimo inciso: per quanto sostenuto sopra rimango molto scettico, ahimé, sulla possibilità di un riscatto sociale e culturale collegato alla letteratura. Ma spero di sbagliarmi.
eccomi! è incredibile, in una cinquantina di post mi avete scompigliato tutte le questioni che avevo faticosamente cercato di mettere in ordine nella mia testa… ciao maria lucia -anch’io sarò lieta di incontrarti in sicilia. vedo che inauguri il dibattito con due parole chiave che rimbalzano da un post all’altro: mito e denuncia. Il mito, il mytos, è per me quello che giacomo debenedetti sperava di trovare nelle sue letture, la capacità di rappresentare nella particolarità di un personaggio, di una situazione ben identificati, vivi, concreti, un tema di carattere universale, una questione di più ampio respiro, magari caratterizzante quel momento storico. in questo senso la creazione di un mito non è legata necessariamente alla tradizione favolistica -pure frequentata anche oggi dai narratori del sud- è qualcosa che o riesce o non riesce: è la creazione di qualcosa di vivo, seppur letterario, che rappresenta molto e ‘molti’ di più di quanto non mostri concretamente sulla pagina, magari nei confini ristretti di una quotidianità un po’ asfittica descritta (e penso a certe pagine di Pascale o di Parrella o di Romano o di Argentina, ma tanto per dire i primi che mi vengono in mente). Quella che non può essere asfittica è la prospettiva di chi scrive.
anche a parità di ambientazione e situazione -es: quattro mura con dentro due tossicodipendenti, a Scampia o Taranto- e’ la prospettiva, e il progetto che c’è dietro e che orienta ogni scleta di chi racconta che differenzia il folklore becero e ammiccante (al mercato) dalla proposta di una lettura critica, stimolante, meglio se spiazzante. della realtà.
non è finita: proseguo
Il sud alla fine è un territorio, e la tradizione letteraria consiste alla fine in un complesso di libri.
Considerazioni piuttosto ovvie, ma necessarie per ricondurrenei confini reali i termini dei rapporti tra la nuova letteratura del sud e la tradizione.
Premetto che parlo da lettore attento e innamorato della scrittura della propria terra, prima ancora che da inventore di storie: ognuno di noi, quando comincia a picchiare su una tastiera, mette in quello che inventa o descrive se stesso, e quindi il contesto in cui vive e che è abituato a guardare come la realtà, e tutto quello che ha letto. Ciò diventa cruciale quando il territorio in cui ci muoviamo non è mai banale né uguale ad altri, a volte nemmeno a se stesso, polimorfo e complesso com’è il meridione d’Italia. E quando, come appunto nel nostro caso, la tradizione lontana e vicina porta in sé tutto e il contrario di tutto, il problema del reperimento di eventuali modelli è del critico e non dell’autore.
Quello che sarebbe importante è che gli scrittori meridionali rivendicassero con forza il diritto di scrivere di sud, e quindi di se stessi, ognuno con la propria voce, nel pieno rispetto delle posizioni altrui: che i narratori raccontassero presente, passato o futuro mantenendo la propria originalità.
A volte invece succede che il fatto di non toccare necessariamente certi argomenti venga scambiato per superficialità o ricorso all’iconografia. Non è così.
La verità è che in noi sono presenti tante voci. Tutte da leggere e da rispettare.
Che rapporto dovrebbe avere un autore nei confronti della tradizione letteraria?
Non deve essere succube, ma non può ignorarla.
La tradizione letteraria (e quella meridionale, in particolare) deve essere vista più come un fardello di cui liberarsi o come punto di riferimento da cui ripartire? E perché?
Un punto di riferimento, soprttutto quella del Sud, perché ha un’importanza vitale, a mio modestissimo avviso.
È corretto parlare di “regionalismo letterario”? Se sì, quali dovrebbero essere gli elementi distintivi? (Per esempio: più “il luogo” o “il linguaggio”)? E i “canoni caratterizzanti”? Fino a che punto la letteratura è circoscrivibile entro ambiti regionali?
La letteratura deve respirare libera da qualsiasi vincolo. Circoscriverla vuol dire, spesso, soffocarla.
Chi ha maggiori possibilità di narrare di un luogo (nella fattispecie del Sud d’Italia) con efficacia maggiore: lo scrittore che ci vive e ha la possibilità di osservarlo dal di dentro, o quello che – essendosene allontanato, quantomeno fisicamente – riesce a guardarlo con più distacco?
Entrambi. Il secondo forse sarà più obiettivo, meno dolorosamente coinvolto.
Qual è il ruolo della narrativa italiana (e meridionale), oggi? Può contribuire, in qualche modo, a incidere sulle coscienze, a “rimisurare l’immaginario” (spesso deviato dai media), oppure – come sostiene Antonio Pascale (vedi video in basso) – bisogna puntare più sul ruolo dell’intellettuale (inteso come “amministratore del sistema”) che sul ruolo della narrativa?
Io punterei sempre sul ruolo della narrativa. E darei il massimo risalto alla qualità dei testi.
Nella letteratura di oggi (meridionale e non) c’è – e/o ci deve essere – ancora spazio per il mito? E per la metafora?
Perché no? Mai imporre vincoli allo scrittore.
E ancora… che rapporto c’è tra la letteratura di oggi (meridionale e non) e i nuovi e vecchi media?
Non saprei. Il panorama è piuttosto squallido e deludente. Se uno scrittore non buca lo schermo o non vende almeno 100.000 copie non esiste. Invece ci sono libri molto validi, scritti benissimo, decisamente buoni che passano senza quasi lasciare traccia. Uno spreco di cervelli e di valori che non potremmo permetterci.
…E la tradizione -così tocco anche un altro punto- la ‘conoscenza’ della tradizione (lo diceva sebastiano morra poco sopra) è uno dei due poli da tenere strabicamente sotto controllo. l’altro è la realtà che abbiamo intorno. il problema -anche questo è stato ricordato- è ‘informarsi su’ come la realtà -certe realtà- siano state già raccontate precedentemente. Poi guardarsi intorno e decidere (con un po’ di competenza) cosa, come, in che prospettiva, con quali strumenti si vuole cominciare a raccontare. ricordo quanto mi dessero sui nervi le confessioni di verginità letteraria -oggi rarissime per fortuna- di alcuni scrittori degli anni Novanta, come a dire: “tutto quel che creo è frutto originalissimo, perché non l’ho letto da nessuna parte”. Non l’hai letto, appunto!
Rivolgo a voi una domanda: perché se in una chiacchierata calcistica uno dimostra di ricordare perfettamente le specialità di un mediano della nazionale di vent’anni prima è un vero esperto e se durante una chiacchierata -o una presentazione- sulla narrativa del sud, la stessa persona, magari, (perché, non può essere?) cita Verga, ecco subito i sorrisini di sufficienza? Certo, se però si citano, che ne so, Hemingway o Musil, beh, allora è diverso…
Insomma, mi sembra ovvio che ferri del mestiere -anche quello dello scrittore, che a me piacerebbe tanto si sentisse più ‘artigiano’, magari pure come Michelangelo, e meno improvvisato- si imparano a maneggiare prima osservando come vengono maneggiati da altri, e poi sperimentando in proprio. Un utlima battuta sulla tradizione, perché davvero, ogni volta è un problema che si ripropone. Credo sia necessario togliere alla ‘tradizione’ quell’aura di sacralità che la mummifica e la rende sospetta. faccio un esempio: Verga in letteratura è stato un rivoluzionario, noi ancora discutiamo -è una domanda posta da massimo- sulla minore o maggiore efficacia nel raccontare il sud da parte di chi se ne è allontanato. beh, Verga aveva le sue idee in proposito, tutt’altro che stupide o distanti dalle posizioni di alcuni narratori di oggi. e ne discuteva con Capuana: per lettera, ma se avesse avuto a disposizione Letteratitudine avrebbe fatto quello che stiamo facendo noi. Allora, sapere come la pensava Verga su una questione ancora attuale, non è che faccia male o sia sintono di posizioni arretrate o arroccamenti nella ‘tradizione’. può essere utile, forse, quanto sapere quel che ne pensa Cappelli -gaeta’, lo sai che non è un caso se tiro in ballo te…-
Vi dò un po’ di tregua e poi torno sulla questione della denuncia e dell’impegno cicvile.
@ daniela carmosino
riprendo questo suo passaggio . “perché se in una chiacchierata calcistica uno dimostra di ricordare perfettamente le specialità di un mediano della nazionale di vent’anni prima è un vero esperto e se durante una chiacchierata -o una presentazione- sulla narrativa del sud, la stessa persona, magari, (perché, non può essere?) cita Verga, ecco subito i sorrisini di sufficienza? Certo, se però si citano, che ne so, Hemingway o Musil, beh, allora è diverso…”
–
condivido in pieno!
il fatto è – mia cara dani – che a un certo punto c’è stato uno stacco. verga l’abbiamo letto al liceo – c’è anche chi non l’ha letto, certo – e abbiamo letto tanto altro – c’è stato anche chi non l’ha fatto – ma insomma è arrivata la modernità e da allora scrivere è quasi sempre un’altra cosa. voglio dire: se tu hai tra le mani il nuovo romanzo di austen non è che stai lì a chiederti del suo rapporto con la tradizione, né in egual misura, devo dire, se sia uno o no scrittore – oddio – militante. ne valuti il peso, la densità, la vividezza, la storia. gli scrittori del sud scrivono diverso, hanno una loro particolrità rispetto agli altri? sicuramente, ma questo dipende poco dalla tradizione. piuttosto dal nostro grado di reazione e permeabilità alla modernità. come del resto, o dani, metti ben in evidenza nel tuo libro già a partire dal titolo.
Però è anche vero che se Verga, dopo cent’anni, continuiamo a leggerlo, se è vero, come sostiene la Carmosino, che Verga è stato un rivoluzionario della e nella scrittura, beh, qualcosa vorrà pur dire. Questo non significa che uno scrittore siciliano, o del sud, oggi, deve scrivere guardando a Verga, ma nemmeno deve far finta che non esiste.
O no?
Mi pare questo, più o meno, il discorso della Carmosino, se ho ben capito.
Sì, Milano è proprio bella, amico mio, e credimi che qualche volta c’è proprio bisogno di una tenace volontà per resistere alle sue seduzioni, e restare al lavoro. Ma queste seduzioni sono fomite, eccitamento continuo al lavoro, sono l’aria respirabile perché viva la mente; ed il cuore, lungi dal farci torto non serve spesso che a rinvigorirla. Provasi davvero la febbre di fare; in mezzo a cotesta folla briosa, seducente, bella, che ti si aggira attorno, provi il bisogno d’isolarti, assai meglio di come se tu fossi in una solitaria campagna. E la solitudine ti è popolata da tutte le larve affascinanti che ti hanno sorriso per le vie e che son diventate patrimonio della tua mente.
Giovanni Verga
(Lettera a Luigi Capuana, 5 aprile 1873)
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Tu hai bisogno di vivere alla grand’aria, come me, e per noi altri infermi di mente e di nervi la grand’aria è la vita di una grande città, le continue emozioni, il movimento, le lotte con sé e con gli altri, se vuoi pur così. Tutto quello che senti ribollire dentro di te irromperà improvviso, vigoroso, fecondo appena sarai in mezzo ai combattenti di tutte le passioni e di tutti i partiti.
Giovanni Verga
(Lettera a Luigi Capuana, 13 marzo 1874)
… così com’è vero che non è possibile pensare di dover tenere a mente tutti i maggiori scrittori del passato per poter raccontare le proprie storie, figlie del presente e del mondo in cui si vive.
La tradizione letteraria meridionale è forte e consapevole, e sono d’accordo con chi dice che spesso è criminalmente dimenticata: alcuni grandissimi come la Serao o Mastriani, per fare un esempio, o Compagnone e Prisco ricorrono più facilmente di quanto si possa pensare nelle tematiche di autori contemporanei. Ma è giusto che ciascuno racconti le sue vicende, immagini i propri personaggi, e poco male se questi sono simili a certi archetipi tradizionali: saranno comunque nuovi se contestualizzati nel presente.
La signorina Deledda fa benissimo di non uscire dalla sua Sardegna e di continuare a lavorare in questa preziosa miniera, dove ha già trovato un forte elemento di originalità. I suoi personaggi non possono esser confusi con personaggi di altre regioni; i suoi paesaggi non sono vuote generalità decorative. Il lettore, chiuso il libro, conserva vivo il ricordo di quelle figure caratteristiche, di quei paesaggi grandiosi; e le impressioni sono cosi forti, che sembrano quasi immediate, e non di seconda mano, a traverso un’opera d’arte.
Luigi Capuana
(da “Gli ismi contemporanei”)
@ maurizio de giovanni
ti trovi tra verga e capuana.
non vorrei essere nei tuoi panni 🙂
hai visto, massimo, s’è scomodato persino Verga!! un’ultima cosa a partire dall’intervento di gaetano -cappelli, ovviamente, l’unico, il ‘mitico’…- la questione non è tanto se sia utile che il critico induividui una filiazione da un classico – spesso diventa un gioco accademico- quanto il fatto che E’ utile, scusa la perentorietà, che uno scrittore legga un po’ di più, prima di scrivere. e legga almeno chi a suo tempo ha segnato un punto di svolta nella letteratura. chi è riuscito a dar vita a un ‘mito’. pensa che bello, una letteratura in cui ci siano più ‘miti’ nelle pagine dei libri e meno fuori, a firmare autografi…
Ma perchè uno scrittore siciliano (o del Sud) contemporaneo dovrebbe rimanere ancorato alle tradizioni? Perchè dovrebbe scrivere del proprio territorio? Di vinti, di mafia, di sangue e lacrime? La scrittura non ha confini, né appartenenza territoriale. I grandi scrittori, ma quelli grandi grandi, ricorrono alla fantasia per raccontare le loro storie, volano nel cielo, vanno negli altri pianeti, oppure scavano dentro i propri incubi, trasferiscono su carta i mostri che si portano dentro. Sono d’accordo con la Carmosino quando afferma: ” Credo sia necessario togliere alla ‘tradizione’ quell’aura di sacralità che la mummifica e la rende sospetta”. Sciascia ha fatto conoscere il fenomeno mafia in tutto il mondo con i suoi libri, ma non è che ciò abbia mai servito a fare arrestare un mafioso. Non per questo voglio disconoscere il suo impegno civile, di uomo, politico e letterato, però la letteratura rimane sempre finzione, menzogna, incide poco sui problemi materiali, modifica il vivere quotidiano fino a un certo punto, tutt’ al più si può rendere strumento di persuasione e di sensibilizzazione.
Grande Salvo! D’accordo per filo e per segno. A Napoli ormai sembra proibito scrivere qualsiasi cosa che non sia ambientata nella 167 di Secondigliano o nei Quartieri Spagnoli: se lo fai, sei un ottuso superficiale che non vuole vedere la realtà.
E invece l’unica cosa che caratterizza uno scrittore del sud è il contesto del sud, ma questo caratterizza qualsiasi scrittore.
Tema assai interessante! Non tenterò di rispondere a tutte le domande, ma enucleo un paio di temi cui esse rimandano. Per me non esiste una narrativa o una letteratura regionale, se non come folklore, esiste invece un problema di rapporto fra la lingua italiana e le lingue regionali e i dialetti. Manzoni pensava che fosse indispensabile sciacquare i panni in Arno, la vulgata scolaedtica dice che ciò fu necessario e anzi fu una delle intuizioni che permise l’unificazione linguistica della nazione italiana nascente. Come questo miracolo potesse avvenire fra milioni di analfabeti non è detto e infatti secondo me quel tanto di unificazione linguistica che c’è stata fu dovuta (cito Gramsci), alla scuola elementare e al servizio militare di leva.
La narrativa italiana (il discorso riguardo alla poesia vorrei lasciarlo fiuori in qiesto momento), e il teatro hanno imboccato una strada ben diversa grazie a Verga che arriva a Milano da manzoniano fanatico, entra in contatto con quei matti degli Scapigliati che Manzoni non lo possono vedere e se ne torna in Sicilia avendo colto di quel rapporto l’essenziale: che la lingua italiana andava nutrita di apporti linguistici plurimi, che era poi niente meno che il programma di Dante! Per me la tradizione italiana del ‘900 ha scelto questa via in larga maggioranza: dai siciliani ai lombardi, dai piemontesi ai liguri, ai sardi ecc. ecc. Non credo sia necessario fare molti nomi e mi limito a tre del secondo ‘900: D’Arrigo, Pasolini, Testori. Naturalmente esistono grandi autori che hanno seguito l’altra strada (Calvino, con la sua ricerca spasmodica di una lingua purissima è più manzoniano che verghiano e lo stgesso vale per Landolfi), ma se pariamo di tradizione credp che sia quella. Anche nella nostra conteporaneità Consolo, per esempio, va alla ricerca delle stratificazioni linguistiche e nei suoi romanzi ne rende testimonianza.
Ah Maurizio! quasi quasi faccio uno strappo alla regola e ti mando un bacio.
Ciao Maurizio! Che piacere leggerti qui su “Letteratitudine”!
Il rapporto con la tradizione non dev’essere schiacciante né servile, ma come dice Stephen King dovrebbe far parte della nostra cassetta degli attrezzi. Inconcepibile che uno scrittore non legga, che non sappia chi l’ha preceduto nella costruzione dell’immaginario della sua nazione e della sua regione in particolare.
Romanò cita Consolo, autore che amo per il suo sperimentalismo/tradizionalismo linguistico, nel senso che tiene conto delle stratificazioni linguistiche e di pensiero che si sono sedimentate in Sicilia. Pensiamo anche a un Bufalino, o alle più recenti Silvana Grasso e Silvana La Spina.
Grazie, Daniela… sarà un piacere per me incontrarti… il concetto di Mythos potrebbe essere tradotto in termini correnti come catalizzatore: le energie, gli umori, le problematiche di un periodo storico – contemporaneo o meno – sembrano incarnarsi in un personaggio, in una storia, paiono condensarsi in una forma che può essere il poema (pensiamo ad Ariosto, che nell’ORLANDO FURIOSO cristallizza la società rinascimentale con i suoi splendori e le sue ansie), il teatro (pensiamo a Shakespeare, così inglese e così universale), la poesia o il romanzo (pensate al Novecento e a tutte le sue categorie: gli Indifferenti, gli Inetti…). Non c’è quindi bisogno di ritrarre Scampia o Via Italia 103 per essere scrittori impegnati, narratori che comprendono il loro tempo e lo trasfigurano. Spesso è più attuale un romanzo storico che la fotografia sfocata e falsamente realistica di chi non sa ritrarre e naccontare il suo tempo.
Verga è un autore che ho sempre tenuto come punto di riferimento, anche per scrivere il mio romanzo… imprescindibile per un siciliano, anche perché ha dovuto compiere uno sforzo immane per distaccarsi dai dettami scolastici e trovare la sua vera voce nel recupero creativo del dialetto e nella creazione di un linguaggio personale… immaginate uno cresciuto a classici nella natia Sicilia, che i primi romanzi li scrive uso feuilleton fuori tempo massimo. Poi va a Milano e a Firenze – shock! Parlava pochissimo nei salotti e questo faceva fascino, ma era anche perché voleva evitare spropositi linguistici! – , risciacqua i panni, ritrova la musica del proprio dialetto e comprende che fatta l’Italia bisogna fare anche la lingua letteraria, che può e deve provenire dall’uso anche delle parlate regionali.
Un percorso à rebours, a ritroso potremmo dire.
vi leggo e medito… per il momento. sono d’accordo con salvo e maurizio. per ora, almeno.
saluti a tutti
A proposito del Sud vorrei anch’io esporre alcune mie riflessioni e provo a partitre dalle domande che sono state “sollecitate da Massimo.
Riguardo alla prima ; beh, son convinta che in letteratura nulla nasce dal niente perciò ritengo che lo scrittore di tutti i tempi e quindi anche della generazione “globale” o cibernetica debba guardare alla tradizione come ad un prezioso retrobottega o ipotesto da cui trarre linfa vitale per attualizzare motivi, temi e messaggi.
Al secondo interrogativo rispondo che proprio dalla tradizione letteraria meridionale uno scrittore emergente dovrebbe ripartire non sentendosi un nano rispetto ai giganti, ma al contrario tentando di esprimere la sua visione del mondo e sfatando semmai l’idea (già superata ) di Un Sud sequestrato perchè troppo legato ai regionalismi o peggio ancora all’idea di una terra da invadere e colonizzare . Occorre rompere gli schemi di una questione meridionale fin troppo abusata e ahimè fortemente voluta sin dai tempi
dell’Unità.
Riguardo al dilemma se sia più efficace dal punto di vista narrativo descrivere il Sud dal di dentro o dall’esterno. Mi rimetto alla definizione di Nisticò dei siciliani di scoglio e d’alto mare. Credo che l’idea di Sud ti rimane comunque nel Dna anche quando non ci vivi.Pensiamo ai grandi autori : Verga, Sciascia . I messaggi che ci hanno lasciati sono eterni amche se entrambi hanno fatto esperienze extraisolane.
@Giorgia. Allora mando un bacio anche a te. (Stasera mi voglio rovinare).
Carissima Daniela, con vero piacere verrò ad ascoltarla domani a Catania.
Credo che il rapporto con la tradizione sia, prima di tutto, di identità. Di riconoscimento, di rivelazione a se stessi.
E’ nel viaggio, nella trasfigurazione di noi all’indietro, che scopriamo la soglia da cui ripartire.
La letteratura è senso. Strada. Scoperta. E’ forse il solo coerente sistema di segni da cui può essere colta la storia. Non svapora tra grumi di insondabili ragioni. Cerca. S’indigna. E’ inquieta.
E’ noi.
Credo quindi che debba conoscersi nel corpo del tempo. Dice Consolo: “In letteratura non si è mai innocenti. Non credo all’innocenza in arte. Bisogna avere consapevolezza di quello che è avvenuto prima di noi e intorno a noi, bisogna sapere da dove si parte e dove si vuole andare…”
Ecco. Credo anch’io nell’ormeggio. Nel passato. Nella sua inevitabile scoperta.
Andando a ritroso si affonda ad esempio nell’eterno dilemma del Meridione: natura e ragione, natura e cultura. E’ la sfida de futuro, credo, ora che la natura è spezzata, ora che uno dei topos più evocativi si è fatto svettante di ciminiere, di fumazzature, di tramonti ferrosi.
Insomma, è lo stesso nodo della storia a offrire il suo ribaltamento. E’ lo sguardo consapevole, pietoso, commosso su chi ci ha preceduto.
Credo che a nessuno, come allo scrittore, sia dato il compito di raccogliere un’eredità. Di redistribuirla. Di superarla.
Complimenti per questa interessantissima occasione di riflessione e un affettuoso arrivederci a domani.
mi viene in mente una cosa forse un po’ banale. però, da quel poco che ne so di letteratura, in genere quelli che avevano qualcosa da dire rompevano con le tradizioni. una delle cose che accomuna molti grandi scrittori è proprio la loro “rottura” con il passato, che vuol dire coraggio, sicurezza dei propri mezzi, volontà di innovazione, rifiuto degli schematismi, consapevolezza profonda di mezzi espressivi nuovi che coincidono con nuovi significati.
Poi, per uno strano scherzo del destino e della storia che in genere poi trova sempre il modo di fregare gli uomini con le loro stesse armi, quegli stessi innovatori sono diventati a loro volta “tradizione”. E però la loro grandezza non sta nell’essere diventati fari, simboli, riferimenti (= tradizione): sta nell’essere stati, un tempo, all’inizio, dei rivoluzionari.
e mi chiedo: come piacerebbe a loro essere ricordati? come “tradizione” o come “rivoluzione”?
Certo, ma il punto è che per decidere di rompere con il passato e con la tradizione bisogna prima conoscerli (passato e tradizione).
Altrimenti la rivoluzione si rischia di condurla sulle ali della propria ignoranza (intesa non in senso offensivo… ma nel senso di non conoscenza).
un’altra cosa. La tradizione dài e dài diventa maniera, e “l’impegno” può diventare retorica.
il rischio è sempre in agguato, tuttavia credo che i risultati parlino da soli: è il risultato, sempre, che distingue un capolavoro, ma anche un semplice “buon” lavoro, da opere prodotte dal manierismo e dalla retorica; non è la tradizione, nè la tematica.
perciò il problema non è tanto se sia giusto o meno tenere presente la tradizione, o superarla, e ancora di più se sia giusto dare spazio alle tematiche “meridionali”, sociali, politiche o culturali. Il problema credo che sia farlo in maniera intellettualmente onesta.
e quindi, rientriamo poi in logiche che con la letteratura credo abbiano poco a che fare.
@filippo
parlavo di grandi scrittori. e quindi non più di una decina per ogni secolo.
quelli si possono permettere tutto. in ogni caso, penso che tutti i grandi sapessero molto bene quel che facevano.
@ Giorgia
Credo che i grandi Scrittori siano stati anche grandi studiosi e grandi lettori.
Ma qui stiamo parlando di noi. Di noi che scriviamo oggi, del Sud nella nuova letteratura italiana.
Secondo me la tradizione diventa maniera se si prova a scimmiottarla, non se diventa parte di noi attraverso lo studio.
Sono d’accordo sul fatto che i risultati parlano da soli, ma per valutarli adeguatamente ci vuole tempo. Molto tempo. Qui stiamo ragionando su questi nostri anni. E un innovatore può innovare, con l’intenzione di farlo, solo se conosce ciò che ha alle spalle. Su questo sei d’accordo?
Eeeeeeeeeeeeeeeeeehhhhhhhhhhhhh!!!!!!!!! Ma qui si dà lezione di grande letteratura. La professoressa Lepore è salita in cattedra. Concordo in pieno, anche sulle cose che non sono riuscito a capire.
mi sembra che tutto oggi obbedisca a regole di mercato, arte e letteratura comprese. non è un fenomeno nuovo, ma è in costante ascesa e il trend non lascia ben sperare. da un lato questo è un bene. però purtroppo implica che, contrariamente a quanto possa sembrare a prima vista, oggi è molto più difficile fare innovazione, ricerca espressiva, di quanto non lo fosse in passato. Paradossalmente, nonostante Michelangelo operasse dietro committenza, era espressivamente molto più libero di quanto non lo sia un artista contemporaneo.
il mercato è un grosso freno all’innovazione, perchè se da un lato tende a creare nuovi bisogni, nuovi gusti, dall’altro asseconda le mode e il pubblico, e quest’ultimo vuole essere “rassicurato” da cose che già conosce e capisce. Quindi, c’è anche il rischio che la “tradizione” divenga abitudine, moda; e che per la scelta dei temi si obbedisca anche lì a tale logica.
faccio un esempio: sono una scrittrice pugliese, parlo della puglia, e ai pugliesi, con un linguaggio e con delle tematiche che possano essere comprese e apprezzate dal mio pubblico. Lo faccio per un senso di appartenenza, di legame con la mia terra, di amore per la gente e la cultura dle posto o perchè così mi assicuro una fetta di pubblico che si riconosce in quello che scrivo?
ecco, mi viene questo dubbio.
@Filippo. Io credo che sia abbastanza scontato che chi esercita una professione, in questo caso quella della scrittura, debba avere una buona se non ottima preparazione alle spalle. Nella vita non si inventa nulla. Produrre un’opera letteraria che tale possa definirsi è sempre frutto di studio, approfondimento, documentazione. Non si può barare. Gli sperimentalismi, le innovazioni, può apportarli solo chi è in pieno possesso della propria materia, che conosce il percorso e decide di oltrepassare la linea di demarcazione.
Il rischio opposto è quello della globalizzazione della cultura e della letteratura, della danbrownizzazione della scrittura. Anche questo può fare, e fa, trend e mercato.
Non è un caso che non è dato a tutti trovare il giusto equilibrio.
Sono d’accordo sul fatto che Michelangelo, sebbene operasse dietro committenza, era espressivamente molto più libero di quanto non lo sia un artista contemporaneo. Ma solo perché era un genio assoluto ed inimitabile.
Sono d’accordo con te, Salvo.
Gli sperimentalismi, le innovazioni, può apportarli solo chi è in pieno possesso della propria materia, che conosce il percorso e decide di oltrepassare la linea di demarcazione.
Sottoscrivo 🙂
@filippo
si, sono d’accordo.
e scusami, non volevo scavare un solco tra voi (io mi sento molto del sud e molto poco scrittrice) e i “grandi”.
ho anche detto che oltre al risultato, a fare un “buon” lavoro è l’onestà intellettuale. e quello vale per tutti, grandi e meno, capolavori e lavori.
Maniera non è un termine poi così brutto. Michelangelo alla fine della sua carriera era praticamente un manierista. E la maniera spesso sconfina nella sperimentazione. E’ un ciclo: natura-maniera-sperimentazione-innovazione-natura (ovviamente mooooolto semplificato) 🙂 Si è ripetuto molte volte nel corso dei secoli, e non vedo interruzioni all’orizzonte.
@salvo
poi ti faccio le ripetizioni. i corsi di recupero cominciano dopo natale.
intanto tu condividi a prescindere…. 🙂
Se essere uno scrittore del sud deve per forza significare restare ancora ti a degli stereotipi che il sud si porta addosso da secoli, allora non ci sto. Concordo con Salvo “Zap” Zappulla quando dice che “i grandi scrittori ricorrono alla fantasia per raccontare le loro storie, volano nel cielo, vanno negli altri pianeti, oppure scavano dentro i propri incubi, trasferiscono su carta i mostri che si portano dentro.” Peccato che il range di lettori si restringa a pochi estimatori. Perché pare che oggi se sei uno scrittore impegnato nel sociale allora meriti ascolto, altrimenti fai solo “letteratura leggera” o rischi di passare per una brutta copia dei più famosi.
Invece noi siamo un coro di tante voci. Magari molti di noi non pretendono di essere il Pavarotti di turno ma sperano di veder riconosciuto il valore della propria voce, di qualunque natura sia e a prescindere dalla tonalità.
Lo scrittore che vive il sud lo racconta con più “carnalità” perché ci vive dentro, ha il coraggio di restare e combatterne i tanti problemi e quando cerca di portare avanti un discorso lontano dagli stereotipi negativi per me è doppiamente da premiare. Perché è facile fare notizia quando tutto il mondo parla di quella cosa. Più difficile è uscire fuori dal coro (perdonatemi questa continua incursione nella musica).
Lo scrittore che vive altrove e parla del sud potrebbe essere più obiettivo ma rischia spesso di essere eccessivamente crudele: il sud gli è uscito dalle vene, il problema non è più suo, lui ormai se ne è lavato le mani, come Pilato.
Un libro che ho apprezzato molto è stato SCUORNO (Vergogna) di Francesco Durante (Mondadori). Lui ha saputo parlare di Napoli con la giusta obiettività, senza mai cadere nella retorica, nei luoghi comuni, nei plateali piagnistei, nei facili j’accuse. Si parla troppo dei mali del sud ma del bene poco o niente.
Il fatto che il sud partorisca tanti bravi scrittori, questa è innovazione. peccato poi che debbano elemosinare le pubblicazioni altrove; se avessimo un’editoria di riferimento avremmo almeno un minimo di autonomia. Almeno nella scrittura.
@filippo
non solo perchè era un genio. artisti meno geniali di lui lo erano ugualmente: ma non da un punto di vista economico, perchè anzi erano tempi durissimi, quanto da un punto di vista mentale, espressivo. le mode si muovevano molto più lentamente, però allo stesso tempo non erano così “globalizzate”. e la logica del mercato non era applicabile, se non in misura molto limitata.
comunque è vero, la globalizzazione è l’altra faccia, però sempre di mercato si tratta. e quindi l’unica discriminante è ancora una volta l’onestà intellettuale, la sincerità espressiva, la buona fede.
quando c’è quello, puoi fare tutto: scrivere di casa tua o dell’amazzonia, in dialetto o in esperanto, copiare dante o comunicare con gli alieni.
e però, come hai detto tu, solo il tempo potrà giudicare.
nel frattempo, io mi tengo i miei dubbi.
@Giorgia. Ma stasera sei uno spettacolo!!!
@simonetta
fantastica! applausi! clap clap!
soprattuto per :
“il sud gli è uscito dalle vene, il problema non è più suo, lui ormai se ne è lavato le mani, come Pilato.”
l’impegno è starci dentro, denunciare da fuori non serve a nulla. se te ne sei andato allora scrivi della patagonia. altrimenti torna e sbatti la testa contro i muri.
e poi mi piace anche che l’innovazione non sta nel prodotto letterario. sta nei fatti.
@ salvo
è che c’ho un po’ di stress da scaricare…
visto che siamo nel post meridionale: mer a c ‘capp!
Ecco, ci mancava solo Simonetta per completare questo bel quadretto. Grazie per il “Zap” Simo. Sembra una coltellata (sarà deformazione professionale la tua). Simonetta ha toccato un altro tasto dolente del Sud: la mancanza di editoria (e di imprenditoria) di una certa consistenza. Anche questo gioca un ruolo importante per la nascita di nuovi scrittori. In quanto agli stereotipi, cara Simonetta, se mi pubblichi un libro sui vampiri, (Simonetta ha appena pubblicato un libro sui vampiri. Din ! don! pubblicità) non mi pare che fai un’operazione commerciale. E non scrivi letteratura d’evasione, nè troppo impegnata. Segui semplicemente la tua indole, la predisposizione a raccontare storie cruenti. Mi pare un linguaggio universale, che c’entra poco con Napoli e con il sud. Ed è un bene che sia così, perchè uno scrittore non deve porsi limiti nelle sue opere, nè strizzare l’occhio a velleitarie nicchie di mercato. Deve seguire la propria aspirazione senza troppi calcoli. Lascia scorrere il sangue, cara simonetta, senza limiti alcuni. (Chissà perchè quando parlo con te sento sempre un certo prurito sul collo).
@simonetta
ho fatto un giro sul tuo sito e ho visto che abbiamo frequentazioni funerarie in comune… per motivi diversi, ma sempre di morti e cimiteri e lapidi si tratta…. 🙂
@simonetta. Se scrivi un libro sulle streghe ricordati di inserire la Lepore.
@ Giorgia: innanzitutto grazie! Poi, provo a dare una mia interpretazione al tuo dubbio: credo che una cosa non escluda l’altra. Il senso di appartenenza ti fa scrivere di cose in cui inevitabilmente chi condivide la tua realtà si troverà rispecchiato. Ma anche chi ne vive una analoga ma altrove potrebbe trovare un suo riscontro. Perché tutto il mondo è paese, dopotutto. Noi scrittori del sud operiamo un po’ fuori dagli schemi, siamo meno precostituiti, scriviamo di getto e di cuore, il problema di se e chi ci gratificherà ce lo poniamo dopo. Camminiamo per la nostra strada tortuosa, facciamo il triplo della fatica di un nostro pari del nord a restare a galla, a tirare fuori almeno una mano nella speranza che qualcuno ci veda. Siamo abituati a portarci addosso delle etichette che spesso detestiamo e ci strappano la pelle. Però camminiamo. 😉
@ simonetta
non tutti. a volte le etichette fanno comodo… 😉
ma, come dice salvo, io sono un po’ strega, soprattutto stasera.
@ Zap: se ti prude il collo non sono io, sarà mica l’orticaria? 😉
Infatti, Vampiri è stata una bella sfida in un momento in cui si rischia di farsi venire un attacco di vomito a vedere tutti i libri e i film(acci) che ne parlano. Ma io ho scritto un non-saggio, un libro senza pretese, così mi sono messa il culo al riparo da (almeno una quota) di critiche. L’ho fatto perché mi andava, per dire la mia, da bravo bastian contrario, a modo mio. E sempre per dimostrare (o almeno provarci) che mica dobbiamo per forza aspettarci il solito autore americano del cavolo per gridare al fenomeno e sbavare in attesa del prossimo libro. Cose che capitano qui da noi, e qui da noi al sud ancora di più. Perché noi siamo fuori da certi circuiti dove tutti conoscono tutti, si va alle presentazioni, incontri i cosiddetti “pezzi grossi” e batti che ti ribatti alla fine se non sei proprio una puzza qualcuno ci riesce, a farsi notare.
@ Giorgia: ummaronna, e tu che tipo di cimiteri frequenti? 😉
@simonetta
roba di quei 15, 16, 17, 18, secoli fa… antichi, sparpagliati e soprattutto molto scheletrici.
@Zap, sempre a fare il beccamorto, e stavolta con mia sorella Simonoir – e lo vogliamo ricordare che oggi su
“Il Corriere del Mezzogiorno” il paginone Cultura era dedicato a Simonetta Santamaria e alla sua ultima fatica letteraria
“VAMPIRI- Gremese Editore – pg 191 €19.50 ?- e, che però, la mia sorellina rimarcava quello che avevo detto sopra, ma giacchè non leggete tutti i post non lo sapevate:
“Oggi i Saviano, le Cilento, i Montesano sono già punto di riferimento perché vivono l’humus ambientale, passeggiano nel degrado e raccontano dall’interno della morfologia, sono sangue che parla.”
@Ciccio. visto che sei arrivato tu, io me ne vado. Due galli nello stesso pollaio siamo troppi. Buonanotte a tutti, domani lavoro, non faccio mica l’insegnante.
Infatti, Didò, hai perfettamente ragione. Senza nulla togliere a loro, ma non esistono solo loro. Tutti noi abbiamo qualcosa da dire e lo facciamo ognuno a modo nostro, noir, unoristico, narrativo o horror che sia. Ma non per questo siamo meno scrittori.
signori, è stato un piacere. buona notte a tutti.
Arrivo tardissimo, e mi scuso…
Prima di qualunque altra cosa ci tenevo a esprimere la mia gratitudine a tuuti voi per aver espresso le vostre opinioni (diverse, sì… a volte contrapposte), ma in maniera assolutamente rispettosa delle opinioni altrui.
Grazie. Grazie davvero.
Poi… dò il doveroso benvenuto a Daniela Carmosino.
–
Grazie per essere intervenuta, Daniela. Domani ci ritroveremo a Catania.
E sì… ho visto gli interventi di Verga e Capuana. Ma non sono sorpreso.
Se non ricordo male in passato, sempre qui a Letteratitudine, è intervenuta gente coma Kafka, Tolstoj, Dostoevskij 🙂
Dò anche il benvenuto a Gaetano Cappelli.
–
Grazie per aver accettato il mio invito e per essere intervenuto, Gaetà…
E grazie a tutti gli altri amici: Didò, Barbara, Viviana, Lucio, Sebastiano, Maurizio (de Giovanni), Desi, Letizia, Filippo, Verga & Capuana (pensa tu!), Salvo, Franco, Maria Lucia, Simona, Simonetta, Giorgia, Filippo (chi dimentico?).
Nei prossimi giorni riprenderò alcuni dei vostri commenti e li metterò a confronto…
Non so se avete visto, ma ho aggiornato il post inserendo notizie sul volume “È finita la controra. La nuova narrativa in Puglia” (Manni): un’antologia curata da Filippo La Porta.
Era stata già segnalata da Claudio Morandini nei commenti precedenti…
Si tratta di un libro perfettamente in tema con il dibattito in corso…
Contiene brani dai romanzi di Cosimo Argentina, Vito Bruno, Gianrico Carofiglio, Carlo D’Amicis, Giancarlo De Cataldo, Girolamo De Michele, Mario Desiati, Omar Di Monopoli, Nicola Lagioia, Alessandro Leogrande, Elisabetta Liguori, Annalucia Lomunno, Flavia Piccinni, Andrea Piva, Emiliano Poddi, Pulsatilla, Angelo Roma, Livio Romano, Angela Scarparo.
Filippo La Porta ne ha parlato, ieri, a Fahrenheit:
http://www.radio.rai.it/RADIO3/FAHRENHEIT/mostra_evento.cfm?Q_EV_ID=304750
(Ringrazio la redazione di Fahrenheit per aver linkato questo post di Letteratitudine).
So che Filippo La Porta è in partenza per gli States…
Ne approfiito, invece, per invitare a partecipare alla discussione gli autori inseriti nell’antologia – compatibilmente ai loro impegni, e se ne hanno voglia…
Ne approfitto per ricordare ancora l’appuntamento di domani per i siciliani della costa Est…
Avrò il piacere di presentare Daniela Carmosino a Catania – presso la libreria Tertulia (Via Michele Rapisardi, 1) venerdì 27 novembre, ore 18,30. Insieme a me: Caterina Pastura… e diversi ospiti (tra cui, molti scrittori).
Vi aspettiamo!
Vi ringrazio ancora e – come sempre, prima di chiudere – vi auguro una serena notte.
Inizio alla cieca (nel senso che non ho avuto il tempo di leggere tutti gli interventi) partendo da una domanda di Maugeri. Il rapporto con la tradizione. E’ un rapporto inevitabile, la tradizione sta lì, ci segue e ci precede, ci parla nella testa con tutte le parole di cui è fatta e si sporge a suggerire (guai ad ascoltarla acriticamente) dal più insospettabile bordo della pagina bianca sulla quale stiamo per metterci al lavoro; in base alle letture fatte e alle esperienze avute possiamo disporre di strumenti più o meno affinati per trattarne nutrimenti e veleni, sempre incerti, comunque, se quanto di lei stiamo seguendo siano figure reali o ingannevoli miraggi. Credo che la tradizione sia emblematica del rischio che ogni nuova scrittura comporta; i valori che contiene, inoltre, sono mutevoli, e del dio che stabilisce di volta in volta quale sia bene e quale male, che è poi qull’entità complessa chiamata “lo spirito del tempo”, non sappiamo niente, e ci va di lusso se riusciamo a riconoscerne, senza troppi abbagli, la fisionomia; che anche noi, col nostro operare, contribuiamo a comporre.
grazie fabio per essere intervenuto. come scrittore e come intellettuale sempre sul campo di battaglia è importante che faccia sentire la tua voce anche qui. mi piacerebbe però che ti pronunciassi anche su un’altra questione a me cara e di grande attualità risollevata da antonio pascale: la figura dell’ intellettuale e quella dello scrittore sono necessariamente connesse e come può operare lo scrittore\intellettuale oggi, all’interno della società? davvero come ‘amministratore del sistema?’ vediti il video di antonio… io, credo, lo sai, che lo scrittore possa intevenire sulla realtà, nell’immaginario collettivo (si può ancora dire?) rimescolando le carte di una realtà mediaticamente confezionata per ridisegnarla in modo diverso, proporne una configurazione non convenzionale, inventata, certo, ma a partire dai dati reali. reinventarla, sì, ma non a caso, piuttosto per farci dire ‘ah, certo, vista in questa prospettiva è un’altra cosa’, ‘già, non ci avevo pensato’. demistificare i luoghi comuni è anche questo, in fondo. incidere nell’immaginario come intellettuale e attraverso la scrittura è anche questo. sono stata un po’ sbrigativa su un questione importante, ma rischio di perdere l’aereo. a tutti gli amici siciliani: sto arrivando!
solo per complimentarmi per il dibattito: vivace, ma composto. bravi tutti.
La rinascita del sud deve iniziare da una nuova educazione socio-culturale che partendo dalla famiglia dovrà estendersi a tutti gli organismi cointeressati. Un percorso lungo e difficile, ma possibile. Senza dimenticare l’importanza dell’aumento di opportunità di lavoro che rendono l’individuo libero da tentazioni fuorvianti.
Una piccola considerazione. Ho notato che, rispetto alle domande poste da Massimo, il dibattito si è incentrato soprattutto sul rapporto con la tradizione.
Come mai?
Sembra quasi le il rapporto con la tradizione tocchi molto la sensibilità di chi scrive. Non so se è solo una mia impressione………
Vedi, Daniela cara, io a questo ruolo salvifico dell’intellettuale non credo poi tanto. Quando uscì il mio “Porto di mare”, Pascale mi scrisse “ma non saremo un po’ troppo spiritosi?”. Non era una domanda peregrina. L’hanno letto in tanti, recensito, discusso. Hanno riso, anche. Eppure raccontavo cose gravissime di ‘sto nostro Sud, ma forse di come vanno certe cose un po’ in tutt’Italia. Fra l’altro io raccontavo una piccola battaglia civile ma è chiaro quella fosse la metafora di tutto un modo di intendere la vita pubblica in Italia. Non solo. Così come fa l’esilarante “Xenophobe guide to the Italians” (ce n’è per tutte le popolazioni, se vai a Londra le trovi), mettevo in scena il fighettame italiano, quella propensione tutta nostra a vivere d’immagine, di apparire, e il restare a casa con mammà fino a 40 anni, e il mammismo, appunto, la nostra grande piaga, il nepotismo, e questo fingere che va tutto bene mentre la nave sta colando a picco. Ma sai che impressione netta avevo quando giravo per presentazioni? Che la gente leggesse e riferisse sempre a qualcun altro le mie stiletatte satiriche. Del tipo “ah che risate, ma io non ci son dentro”. E invece quella donzella o quel marcantonio che mi si paravano innanzi chiednedo l’autografo erano l’ESATTO ARCHETIPO del tipo umano da me dileggeiato per 150 pagine. Mi scrivono, mi parlano, mi invitano, e vedo pari pari la gente che ho raccontato con ferocia in PdM, ma anche qua e là in altri libri e in una miriade di articoli. L’italiano pensa sempre “non sono io, di cui si parla”. E invece, cara la mia allieva di scrittura, guarda un po’: PARLAVO PROPRIO DI TE!!! E se non l’hai capito, se in te non è scattato niente quando hai letto PdM, quando ti prendevo sonoramente per il culo, be’: vuol dire che qualcosa non funziona più nel flusso comunicativo scrittore (o corsivista, commentatore, redattore radio e tutte le altre forme nelle quali ci trasformiamo via via) – lettore. Volevo dire una cosa sulla tradizione, inoltre. L’ha detto Gaetano. Io credo che tutti quelli quanto me che abbian deciso di prendere la penna in mano, lo abbiano fatto sotto la spinta di mitografie affatto lontane dal neorealismo terronico, illuminato più dalla letteratura, metti, emiliana (Tondelli), o americana, e dal rock dal cinema dalla pubblicità OCCIDENTALI. Mi fan sempre molto ridere le penose dichiarazioni di “alterità” ontologica del meridiano doc, del pugliese, del calabrese, del siciliano. Ma quando mai? Siamo completamente dentro a questo flusso tutto “western” (“How the west was born e when it got us”, cantavano qualche anno fa i geniali REM), altro che porte d’oriente e bacini mediterranei! Cosa ne sappiamo noi dei macedoni? Cosa abbiamo a che spartire con i persiani? Io mi sento molto più vicino a un mio coetaneo finlandese che a uno tunisino, dico cose ovvie ma quando giri per questi convegni rastrella-soldi (pubblici) ti fanno credere che si sta tutti per entrare nel Magreb Unito. Io sto dentro a un’altra storia, semplicemente. Se la vogliamo metter sul colto, sto dentro a un’altra METANARRAZIONE. Quella dello Stato di diritto, delle democrazie liberali e via discorrendo. Con tutto quello che questo implica anche per il mio modo di guardare il mondo e, quindi, di provare a raccontarlo.
@ livio romano
scusa se mi intrometto. sono solo una lettrice.
credo di aver capito cosa intendi. quando si tenta di ‘denunciare’ qualcosa con la scrittura, non importa se con ironia o con quale altro mezzo, tutti si sentono dalla parte del giusto. difficilmente si ha la lucidità, e forse anche il coraggio, di considerarsi concausa di qualcosa che non va.
questo lo capisco. hai ragione.
però dico, se non ci credete voi scrittori sul ruolo ( non dico salvifico, ma almeno di stimolo alla riflessione) della scrittura, chi ci deve credere?
io, sempre da lettrice, sarei un po’ più ottimista di te. paradossale, vero? perché molte volte ,leggendo, ho avuto la possibilità di pormi domande, di interrogarmi. domande che, se non avessi letto, non mi sarei mai posta.
coraggio, dunque, che il bicchiere è mezzo pieno 🙂
ciao Massimo che metti in campo i Massimi sistemi … e non sulla letteratura napoletana, ma sulla SCRITTURA in sè. ! Insomma, pesco a caso tra i tuoi quesiti estremi.
Io sì, ci credo nella specificità della scrittura di Napoli come in quella siciliana: quando i luoghi sono forti, carichi di storia e di bellezza, di sangue e di lune (anche uccise a Marechiaro) non possono non essere travasati, per fisiologia oltre che per passione e destino, nella narrazione. La relazione col Prima, la storia e la tradizione, secondo me è inevitabile e necessaria, ed è cosciente e inconsapevole.
Per me uno scrittore deve interpretare il presente, e un romanzo deve offrire una lettura del contemporaneo. I napoletani (registi scrittori artisti ecc) lo fanno. A volte indulgendo nel folk, nello stereotipo, nel vittimismo, nel compiacimento trash-estetico, tante altre volte con ironia, disincanto, provocazione, genialità.
…
Quanto ai miti, sì, lavoriamoci con solerte manutenzione, i miti vanno custoditi e nutriti, e abbracciati, tenuti stretti. Per difenderli dall’assedio della nuova fabbrica del nostro immaginario, la televisione.
Concordo con Simonetta… ed anche con Elvira Seminara. C’è una specificità degli autori del Sud… il frutto non cade lontano dall’albero. Bisogna poi tirar fuori la propria voce e confrontarsi con la contemporaneità. Chiaro che io ho più in comune con un finlandese o un americano (o l’antica diatriba sull’Occidente…) ma la penso come Karol Wojtyla che parlava di Europa a due polmoni (Oriente e Occidente). Il fatto di essere meridionali e di avere certe caratteristiche stratificate dentro – è poco scientifico ma innegabile – sarà per noi scrittori sel Sud – mi ci metto pure io, va’ – una volta tanto un vantaggio.
Mi spiego meglio. Ho letto un bellissimo libro Sellerio: IL SOGNO E L’APPRODO – racconti di stranieri in Sicilia, con dei racconti di Maria Attanasio, Giosuè Calaciura, Davide Camarrone, Santo Piazzese, Gaetano Savatteri, Lilia Zaouali.
Chiaro che mi riconosco nella tradizione siciliana, che leggendo questi autori mi sento a casa, ma la familiarità c’è anche con l’autrice e studiosa tunisina.
L’apertura del Sud a varie esperienze e contaminazioni che gli viene dalla sua millenaria storia sarà una marcia in più.
Per quanto possa valere la mia opinione.
Daniela, ti aspettiamo!
🙂
La differenza tra i giovani scrittori del sud da quelli del nord o del resto dell’europa e del mondo, non esiste. Nei libri di tutti questi scrittori, a parte gli stili di scrittura che si differenziano, che sono ottimi, non c’è altro, se non il solito pianto che li accomuna. Ma sono lacrime di coccodrillo. Sono tutti lì a disperarsi per la condizione di vita personale e generale, come se nel passato si viveva in un perenne eden. Diciamo la verità: hanno stufato un bel po’ i lettori.
Cara Daniela, ho guardato il video di Pascale e non ci ho capito una mazza. Parla di fragole-pesce, che non so cosa siano, e rispetto alle quali, però, gli intellettuali italiani si rivelerebbero reazionari; equipara l’invenzione leghista della Padania (col suo notevole peso mistificatorio a sostegno del devastante berlusconismo) alle menzogne di slow food (ma non dice quali, né quale danno equivalente producano), pensa che tutti dovremmo sapere quello che lui sa solo per averlo studiato (nel suo caso, credo, le mutazioni genetiche, rispetto alle quali, comunque, non c’è nessuna certezza, e gli esperti sono profondamente divisi) e io penso che se per diventare intellettuali responsabili dovessimo approfondire la medicina per dibattere di bioetica e neuroscienze, la fisica per dire la nostra sulla teoria delle stringhe, il diritto costituzionale per sapere se il lodo Alfano deve assurgere alle stelle o sprofondare nelle stalle, e tante altre competenze simili, otterremmo di non avere più tempo per scrivere, non brilleremmo in nessuno di questi campi del sapere dove, comunque, gli addetti ai lavori si confrontano e scontrano con bagagli di conoscenze inattingibili per noi non specialisti. Che fare? Cerco di tenermi informato; seguo i dibattiti degli esperti nei più svariati campi, provo a cogliere il senso delle rispettive ragioni, e prendo parte per chi mi convince di più, consapevole che rischio di scegliere la parte sbagliata, e che comunque sbagliare è quasi inevitabile, e non è poi troppo grave se non ci costruiamo sopra palazzi di alibi e di autogiustificazioni. Ma soprattutto cerco di scrivere, che è l’attività in cui sono più esperto, e in questo ci metto la coscienza, la cultura, la fortuna, i fantasmi, l’istinto, la faccia, l’anima, le paure, il caso, i difetti, tutto il male e tutto il bene di cui sono capace, le angosce più soffocanti e le serenità più euforiche, e a ogni libro che pubblico butto sassi in mondi sconosciuti (quelli dei lettori) senza sapere se cadranno in placidi stagni o in mari in tempesta, su cristalliere o su cave di pietra. Non so di quanti centimetri, i miei libri, potranno spostare il presente verso un mondo migliore, perché quello che riesco a dare si mischia poi a tanto altro, frutto di forze che prendono e levano in maniera incontrollabile, ma so che se ci ho messo tutto, nel mio lavoro, se sono stato fedele alla passione civile e pacifica che ne sostiene ogni minima fase (come vorrei accadesse in ogni attimo della mia vita), allora va bene, anche se tantissimo ancora va male, ho fatto il massimo.
Ma forse sono andato fuori tema, non so, a volte mi lascio prendere la mano.
Come è andata la presentazione del tuo bel libro?
Cari amici, data l’ora tarda intervengo al volo giusto per ringraziarvi dei nuovi commenti pervenuti.
Domani vi racconterò, con calma, del fruttuoso incontro catanese con Daniela Carmosino. E replicherò a qualcuno dei vostri commenti (compresi quelli polemici). 😉
Una serena notte.
Cari tutti/e, carissima Daniela, ho promesso a Massimo di intervenire due giorni fa, ma poiché salgo e scendo dai treni sùdici (cioè del sud, ma anche zozzi) per insegnare scrittura a questo territorio confusissimo fra tradizione, mito e nomenclatura televisiva, dove nessuno legge (nelle scuole) e pochissimi hanno letto la tradizione, ma anche il presente, eccomi in ritardo e con una marea di post da leggere! Quindi, chiedo perdono, ma provo a rispondere sinteticamente alle domande poste da Massimo sperando che quel che dico abbia connessione con alcuni dei post che sono riuscita a vedere:
1) Che rapporto dovrebbe avere un autore nei confronti della tradizione letteraria?
La tradizione c’è, è il gigante sulle cui spalle, ecc.. (vedi post di Roberto Alajmo). Non si può evitarla e occorre conoscerla, altrimenti si crede di aver fatto qualcosa di nuovo e invece si ripercorrono strade già battute e si compiono errori già compiuti. Questo vale per la letteratura come per la vita. Tuttavia, bisogna conoscerla anche epr lasciarsela alle spalle. Non siete contenti, mi disse una volta, Giovanni Pacchiano, di essere autori napoletani? Siete parte di una tradizione, l’unica tradizione letteraria continua nel tempo in europa, o una delle poche. Io risposi: sì, però un po’ anche ci vergogniamo.
2) La tradizione letteraria (e quella meridionale, in particolare) deve essere vista più come un fardello di cui liberarsi o come punto di riferimento da cui ripartire? E perché?
Poiché si cresce, i modelli si trasformano (a meno di non scrivere sempre dagli stessi presupposti). Rompere con la tradizione è un atto innovativo, rivoluzionario. Ovviamente, bisogna che questa rottura abbia un senso produttivo. E’ evidente che questo non è un tempo di avanguardie, semmai di retroguardie, di comode dimenticanze. Quindi, basta con i modelli lontani (ma questi modelli in realtà gli scrittori italiani se li sono lasciati dietro già da alcuni decenni) ma non facciamo finta che questi modelli non ci siano: poiché nelle case editrici e presso il pubblico la memoria è corta, è facile riproporre con scuse postmoderne trame già scritte, narrazioni già percorse. Insomma, sorge qui il problema dell’autenticità di quel che si scrive. E della famosa necessità. Cose che vanno ben al di là del vestitino, facile da indossare, dell’impegno civile.
3) È corretto parlare di “regionalismo letterario”? Se sì, quali dovrebbero essere gli elementi distintivi? (Per esempio: più “il luogo” o “il linguaggio”)? E i “canoni caratterizzanti”? Fino a che punto la letteratura è circoscrivibile entro ambiti regionali?
Il regionalismo potrebbe essere una dote (vedi il compianto Carlo Dionisotti che parlava di geografie letterarie), diventa però anche uan prigione editoriale: se sei di napoli scrivi di napoli, se sei pugliese (ciao Livio) scrivi della Puglia e se, poco poco, scrivi d’altro, non sei più riconoscibile. Vogliamo napoeltani o vogliamo siciliani, per esempio, può essere il grido del giorno dell’editore, dopo qualche anno si cominica a dire: però, che palle, basta coi napoletani o i siciliani, o i pugliesi, ecc… Cioè, bisogna evitare che la nostra appartenenza ( e come si può negarla? esiste) diventi un oggetto di marketing, tipo le canzoni dialettali a Sanremo. Non è facile. Molti di noi lottano da una vita contro questo pregiudizio. Ed è vero che il pregiudizio spesso si approfondisce: scrivere, se si è napoletani, per forza di Scampia (vedi post di maurizio de giovanni). Quando presentai ad Avellino Napoli sul mare luccica, un amico scrittore, Marco Ciriello, mi accusò per tutta la presentazione di non aver scritto di Scampia. Ma perché? E’ obbligatorio?
4) Chi ha maggiori possibilità di narrare di un luogo (nella fattispecie del Sud d’Italia) con efficacia maggiore: lo scrittore che ci vive e ha la possibilità di osservarlo dal di dentro, o quello che – essendosene allontanato, quantomeno fisicamente – riesce a guardarlo con più distacco?
La questione del distacco è relativa. Io racconto da dentro, sto dentro fino al collo, per questo racconto in uno stato di immersione. Ma è compito dello scrittore mantenere sguardo di distanza letteraria. Osservare è il nostro lavoro, insieme a inventare.
4)Qual è il ruolo della narrativa italiana (e meridionale), oggi? Può contribuire, in qualche modo, a incidere sulle coscienze, a “rimisurare l’immaginario” (spesso deviato dai media), oppure – come sostiene Antonio Pascale (vedi video in basso) – bisogna puntare più sul ruolo dell’intellettuale (inteso come “amministratore del sistema”) che sul ruolo della narrativa?
Ho fede nella narrativa, ci credo, è la mia unica religione (nella letteratura, però, non solo nella narrativa of course). Sono però anche un operatore del territorio e sul territorio da 17 anni. Ho formato altri scrittori delle nuove leve, ho formato e formo insegnanti e studenti a centinaia in un anno. Insegno scrittura, insegno etica della scrittura e forse, almeno un po’, etica dello sguardo e del sentimento nella narrazione. So, senza alcuna presunzione, che questa insistenza sta producendo risultati. Gutta cavat lapidem, come dicevano gli antichi. E io sono 17 anni che scavo con le mia goccia.
Molti baci a tutti:-)
Antonella
Urka! Risulto anonima, quella del post precdente sono io, scusate: Antonella Cilento
Buon sabato a tutti.
Eccomi di nuovo qui (meglio tardi che mai).
Cara Antonella, grazie per il tuo corposo intervento e per aver risposto alle mie domande.
Confermo che le ultime due volte che ci siamo sentiti ti trovavi su uno di quei treni sùdici di cui parlavi sopra.
E lunga vita alla tua goccia e ai tuoi scavi 🙂
Vi dicevo di ieri sera, a Catania: non è stata una classica presentazione, ma un fruttuoso scambio di vedute tra molti dei partecipanti sui temi affrontati dal libro di Daniela Carmosino e proposti in questo post.
Ho avuto modo di leggere anche alcuni dei commenti pervenuti qui sul blog.
Quindi, in un certo senso, qualcuno di voi è stato presente… pur non essendoci.
–
P.s. oggi Daniela sarà a presentare il libro a Siracusa.
@ Fabio Ciriachi
Su Antonio Pascale e il ruolo dell’intellettuale (inteso come “amministratore del sistema”)
…
Il video che hai visto (purtroppo) è solo un piccolo estratto di un intervento lungo e articolato che Antonio Pascale ha tenuto agli inizi di ottobre, nel salento, in occasione di un evento (rapporto tra letteratura e nuovi media) organizzato da “Oronzo Macondo”.
Vedere (e ascoltare) solo quel pezzettino, in effetti, può causare confusione.
Anche per questo, prima di inserire il video sul post ho chiesto il permesso all’interessato (che ci legge: ciao Antonio… mandami quel contributo, se riesci).
Antonio Pascale non dice che l’intellettuale dev’essere un tuttologo a “guardia di tutto”… il ruolo di “amministratore del sistema”, per lui, deve essere esercitato nell’ambito del proprio campo di pertinenza (o di specializzazione).
E quando manifesta una sfiducia, in tal senso, sul ruolo della narrativa oggi… non è che intende impedire agli altri di scrivere narrativa… semplicemente lui ha deciso di concentrarsi su quell’altro aspetto, su quell’altro ruolo.
Reduce dall’incontro interessante e produttivo con Daniela Carmosino alla libreria Tertulia, entro nel blog per scrivere il mio commento e trovo proprio in coda il commento di Antonella Cilento che in pratica rende inutile il mio perchè concordo pienamente con quello che dice.
Ieri ho avuto l’impressione che molti dei partecipanti al dibattito giocassero a fraintendersi perchè in pratica molti di loro sostenevano la stessa cosa o in ogni caso avevano opinioni che non si escludevano l’una con l’altra.
Non sono intervenuta perchè il mio metabolismo è lento o per dirla con linguaggio telefonico sono “senza scatto alla risposta”,
quando assisto a un dibattito ho bisogno di digerire e riflettere.
La mia formazione è scientifica e non posso non sottolineare che il famoso nano che sale sulle spalle del gigante è un’immagine che è diventata cara a quegli scienziati di cultura anglosassone che scrivono nelle riviste.
Sarebbe impensabile credere che ogni ricercarore reinventasse il microscopio prima di intraprendere i suoi esperimenti, o, per rimanere nell’ambito dell’arte, che un pittore non fosse consapevole della prospettiva.
Mi è piaciuto molto quanto detto dalla Carmosino “conoscere per eventualmente disconoscere”.
Detto questo ritengo (trovandomi d’accordo con quello che credo fosse il gestore della libreria e di cui purtroppo non ricordo il nome) che ognuno scelga il suo personale percorso di formazione che non sempre ha connotazioni regionali, anche se inevitabilmente la cultura locale permea le nostre cellule anche inconsapevolmente.
Ma è meglio scrivere dall’interno o dall’esterno? Tea Ranno ha sostenuto che chi guarda da lontano riesce ad avere un distacco e una freddezza di giudizio che aiuta nella comprensione della realtà.
Questo non mi trova d’accordo, o meglio mi trova parzialmente d’accordo. Ogni prospettiva ha la sua ragione d’essere, ogni angolazione è quella giusta. E il distacco non deve essere necesariamente geografico. C’è un distacco sentimentale, affettivo, psicologico, un distacco “caldo”.
Vabbè, volevo esprimere il mio parere, un saluto a tutti gli amici del blog
Aggiungo che non sono molto d’accordo con la posizione di Antonio (che però rispetto moltissimo). Ne abbiamo parlato insieme (lui e io)… e l’ho manifestato pubblicamente in un successivo intervento, sempre nell’ambito di “Oronzo Macondo”.
Secondo me è possibile sforzarsi di essere “amministratore del sistema”(inteso in quel senso lì) senza rinunciare alla narrativa. I due ruoli, per me, sono perfettamente conciliabili e compatibili.
Però, dicevo, rispetto moltissimo la posizione di Antonio e -anzi – ne approfitto per segnalare i due suoi nuovi libri che vanno nella direzione accennata:
– “Qui dobbiamo fare qualcosa. Sì, ma cosa?” (Laterza, 2009)
http://www.ibs.it/code/9788842091288/pascale-antonio/qui-dobbiamo-fare.html
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– Scienza e sentimento (Einaudi, 20008)
http://www.ibs.it/code/9788806193591/pascale-antonio/scienza-sentimento.html
Grazie per il tuo parere, cara Mavie. È stato bello vederti ieri sera (e ritrovarti, adesso, qui).
@ Felice Muolo
Scrivi: “La differenza tra i giovani scrittori del sud da quelli del nord o del resto dell’europa e del mondo, non esiste. Nei libri di tutti questi scrittori, a parte gli stili di scrittura che si differenziano, che sono ottimi, non c’è altro, se non il solito pianto che li accomuna. Ma sono lacrime di coccodrillo. Sono tutti lì a disperarsi per la condizione di vita personale e generale, come se nel passato si viveva in un perenne eden. Diciamo la verità: hanno stufato un bel po’ i lettori.”
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Se ho ben capito accosti il concetto di disperazione (e lagnanza) a quello del giovane scrittore (non importa se del Sud o del Nord).
Riguardo ai lettori che si sono stufati propongo un rimedio semplicissimo ed economicamente conveniente: non comprare i libri di autori che hanno stufato!
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Però da autore meridionale, (ancora giovane?… magari!), mi verrebbe da dire – parafrasando Sciascia – “non sono io a essere pessimista, è la realtà che è pessima”.
😉
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[p.s. confesso che questa battuta la ripete spesso Roberto Alajmo]
[p.p.s.: Roby, per un attimo ti rubo il gigante di sotto… ma scendo subito, eh]
🙂
Ringrazio tutti gli altri intervenuti… e in particolare Elvira Seminara e Livio Romano.
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Per il momento vi saluto.
Auguro a tutti voi un ottimo sabato sera.
@ Massimo
“..non comprate i libri di autori che hanno stufato!”
Non c’è pericolo: se ne vendono pochi e se ne leggono di meno. Ma anche di questo i nostri si lagnano.
difficilmente, leggo i commenti, ma da quando vi seguo, non posso farne a meno. premetto che ci ho messo un paio di giorni per leggere tutto, e per sincerità verso me stessa, ho compreso che non posso rispondere a tutte le domande, ma ho scaturito una semplice riflessione. ci sono delle lotte interiori, quelle a cui non si può prescindere, perché sono avvinghiate a dei valori, a dei principi. forse sono sciocchi, ma fanno parte del bagaglio di una persona. della mia persona. io sono romana, e sento forte, forse troppo forte, la mancanza dei romani nella mia città. la cultura vuole che ci si unifichi, e sono in accordo, ma questo unificare se fa perdere le proprie radici, allora mi subentra il rifiuto totale. questo rifiuto è un danno, ché mi fa perdere l’oggettività, e poi è difficile, senza di lui, il discirnimento. non posso e non voglio, dimenticare il passato, perché è lui che forma un essere umano. il ricordo incide su ciò che si scrive, e senza fare il verso a nessuno, non si possono dimenticare gli autori del passato. se voglio dividere nord con sud, la prepotente carnalità del sud è quella che preferisco, ché in loro sento il sapore della radice, della terra, e mi fa ricordare che tutti, tutti siamo semi. ma è pur vero, che oggi tutto si può fare in un laboratorio, la vita stessa può nascere in una provetta, e allora…allora alzo le mani, e dico che non sono una scrittrice, e forse nemmeno una buona lettrice…
grazie, per darmi la possibilità, di condividere.
simonetta bumbi
Ieri sera la professoressa Carmosino ha presentato il libro a Siracusa. Che dire? Ne è nata una discussione molto interessante. Ci sarebbero volute tre serate, non una, per sviluppare tutti gli spunti forniti dal libro. Da moderatore avevo decine di domande da farle, ma il tempo è volato e alle nove meno venti abbiamo dovuto staccare. Peccato.
(Caro Massimo, io, che vivo ad Aosta, mi sento di intervenire in questa discussione solo tra parentesi, e dopo aver tentennato per giorni. Un giorno ti racconterò com’è lavorare – e scrivere, anche – quassù, in una piccola regione dalle tendenze culturali autoreferenziali. Posso solo dire che la tradizione letteraria del meridione va guardata con profondo rispetto, quei giganti sulle cui spalle si sente posato Alajmo sono modelli ancora attualissimi, vivi. Per dire, lo sguardo di Verga sul mondo e sugli uomini ha educato il mio, il suo stare addosso ai personaggi per osservarne i gesti, le smorfie, per odorarne il fiato, mi hanno insegnato moltissimo. È possibile che la scuola abbia provocato traumi con letture forzate di Verga e Pirandello, perfino di Sciascia, ma questo non toglie nulla alla forza delle loro pagine, all’approccio problematico e incontentabile alla realtà, alla nitida complessità della loro lingua. La Porta a Fahrenheit concludeva, se non sbaglio, parlando del sud come metafora di una condizione di diversità, o di estraneità, e auspicava un “sentirsi sud” indipendentemente dalle proprie radici. Ecco, mi ci sono riconosciuto in pieno. E ora chiudo la parentesi, non prima di aver salutato tutti).
@Caro Massimo, anche l’argomento attuale è quanto mai intrigante, colgo l’occasione per ringraziare te e Simona, saluto M. Luisa Riccioli, gli amici storici, Didò, Salvo, Maurizio De Giovanni.
Ringrazio per i felici contributi, la scrittrice Daniela Carosino e gli altri autori che hanno schiarito e ampliato le idee della tematica.
Condivido quasi tutto il pensiero di Sebastiano Morra.
Ringrazio e saluto tutti, anche quelli che ho dimenticato…..
Dal Gran Ducato di Toscana… tento di esprimere le mie considerazioni ?
O solo banali esternazioni?
A mio parere, la tradizione letteraria rappresenta un sostanziale punto di riferimento da cui ripartire, per attuare una scrupolosa analisi sulla odierna narrativa.
Tale improbo impegno, mi sembra una legittima aspirazione, atta a sperimentare ed affermare attraverso la scrittura e la cultura, di autori più giovani, la modificata identità sociale e del territorio.
Il desiderio di dar corpo alle diverse sfaccettature del problema nonché, la loro obbiettiva denuncia sul dilagante degrado e sulle mille
miserie morali, risulterà illuminante.
Oggi come non mai, il Sud sta pagando un prezzo alto ed esoso, per il fallimento inaccettabile di un sistema politico e clientelare, che ha impedito e ritardato la conservazione e la valorizzazione dei beni ambientali, come invece è stato oculatamente messo in opera, nella nostra bella Toscana.
Il Sud ha un patrimonio inestimabile di luoghi incantevoli, di paesaggi inimitabili, di costruzioni architettoniche, che sono il fulcro della sua straordinaria identità, di una aura misterica, di una inalienabile cultura e di magiche tradizioni popolari.
In questa disanima, non possiamo però ignorare, l’annosa questione meridionale e lo sfruttamento delle sue braccia, al servizio del nord industrializzato, voluto e accettato per unire l’Italia, lo sosteneva anche Sciascia ne “La Sicilia come metafora”, definendolo un “patto scellerato”.
Personalmente subisco ancora, il fascino del passato, di un mondo sobrio e genuino, nel quale la vita campestre, umile e decorosa era fiaccata dalla fatica.
Allora gli uomini erano rassegnati, possedevano un tale spiccato senso del sacrificio e del dovere, tanto da sembrare ai miei occhi inesperti, serenamente appagati.
Come lettrice appassionata , detesto il radicale cambiamento nel quale non mi ritrovo, deploro la lenta dissoluzione di un mondo arcaico. Rimpiango la calma rasserenante di quel paesaggio agreste, con i suoi lenti ritmi e il ciclico alternarsi delle stagioni.
In qualità di autrice, contesto la spietata distruzione di antichi valori, frutto di un arido dinamismo, teso solo al guadagno immediato e ad un esasperato consumismo .
La perdita definitiva della meravigliosa Arcadia che, alla mente riaffiora ,
testimonia un’ideale concezione di vita, mi riporta alla memoria un noto e significativo verso del Carducci:-
“ Oh quel che amai, quel che sognai fu invano…”.
Grazie Tessy
Secondo me il ruolo dell’ autore nei riguardi della tradizione letteraria dovrebbe essere di recupero creativo e dinamico, cioè di un impossessamento ripensato attraverso nuove realtà e proiettato in avanti. Un solco, insomma, la tradizione, entro cui muoversi e da cui di volta in volta ripartire. Tutta la buona letteratura, penso, in quanto legata a luoghi non solo fisici ma anche dell’ anima, ha una connotazione ” regionale”, ciò non toglie poi che ambientazione e linguaggio salgano ad un livello di universalità e comprensibilità. Utilizzando inoltre proprio i sistemi conoscitivi mediatici, certi contenuti non sono più circoscritti ma fruibili da chiunque. Il vissuto meridionale assume in letteratura un significato che va al di là di un resoconto cronachistico o folkloristico (v. Gaetano Cappelli, classe ’54 nativo di Potenza, uno dei rappresentanti più validi di una narrativa ” ponte” fra mondi diversi). E, malgrado il giornalista Cazzullo insista sul fatto che i rimescolamenti etnici e culturali ci abbiano resi tutti meridionali (nessun paese è ormai troppo distante e nessun confine invalicabile), la letteratura del Sud può avere ancora una funzione importante per creare consapevolezze e verità, quelle che i media non possono fornirci. Il Sud può venir forse raccontato meglio prendendone le distanze, anche fisicamente. Non è indispensabile esserci dentro per parlarne. I paesi che hai lasciato ti dimenticano, ti passano oltre (come dice C. Piersanti ne IL RITORNO A CASA DI E. METZ) ma chi li ha lasciati ha sempre con sè una chiave di lettura per interpretarne gli umori e i cambiamenti. Il luogo delle proprie origini del resto conserva un valore di ” mito” (nel senso appunto del mito pavesiano, v. FERIA D’ AGOSTO ) oltre che di metafora di una condizione esistenziale.
Grazie per l’attenzione
Luciana Prisciandaro
Cari amici, eccomi di nuovo qui… vi ringrazio per i nuovi interventi.
Felice, alla fine della scarsa vendita dei libri si lamentano tutti… non solo gli autori, ma anche (e soprattutto) gli editori, i librai e tutti coloro che in un modo o nell’altro hanno a che fare con il mondo del libro.
Lanciamo un nuovo appello: cari lettori, comprate e leggete libri… senza stufarvi. 🙂
@ simonetta bumbi
Carissima Simonetta, grazie per aver condiviso.
“Condivisione”, per me, è una parola magica. Aspetto altri tuoi interventi… :-))
@ Stefano Amato
Caro Stefano, ci racconteresti qualcosa in più sulla presentazione siracusana?
E poi – se hai tempo e voglia – ti invito a rispondere alle domande del post…
Grazie per essere intervenuto.
@ Claudio Morandini
Carissimo Claudio, grazie per il tuo intervento… non c’era bisogno delle parentesi 🙂
E m’interesserebbe anche sapere com’è, per te, scrivere ad Aosta.
Claudio, nel suo commento, citava l’intervento di Filippo La Porta a Fahrenheit in relazione al libro da lui curato “È finita la controra. La nuova narrativa in Puglia” (Manni).
Sopra avevo linkato Fahrenheit… la trasmissione è stata caricata sul sito. Potete ascoltarla qui:
http://www.radio.rai.it/RADIO3/FAHRENHEIT/mostra_evento.cfm?Q_EV_ID=304750
o direttamente qui…
http://www.radio.rai.it/RADIO3/FAHRENHEIT/archivio_2009/audio/fahrenheit2009_11_26.ram
Filippo La Porta è intervistato da Loredana Lipperini… nella discussione intervengono anche Evelina Santangelo e Mario Desiati.
@ M.Teresa Santalucia Scibona
Carissima Tessy, grazie a te per il tuo prezioso intervento.
E grazie anche a Luciana Prisciandaro.
Ho ricevuto una mail da parte di Giuseppe Montesano, il quale – dietro mia richiesta – mi ha inviato un suo parere sulla discussione da me proposta.
Inserò il suddetto testo nel commento a seguire (ringrazio Giuseppe per esser riuscito a trovare il tempo di scrivere qualcosa per Letteratitudine in mezzo ai molteplici impegni e spostamenti per ragioni di lavoro).
Vi preannuncio che è un’opinione molto amara…
Caro Massimo,
ho seguito la discussione su Sud e narrativa, e mi è sembrata davvero ricca, al punto che, in un certo senso, mi pare che tutti o quasi abbiano ragione, o almeno una parte di ragione, forse perché la discussione è mossa da una passione reale. Ti avevo promesso un contributo, e provo a dire qualcosa. Mi perdonerai se le cose che scrivo sono un po’ disordinate, disordinate come mi sento. Io non sono ottimista sul futuro, né della letteratura in genere, né di questo Paese, e tanto meno sono ottimista sul Sud: anello debole di una catena in crisi su cui probabilmente si scaricheranno le tensioni e i cedimenti di un’Italia che mi appare un luogo in decadenza, un Paese corrotto come un Dorian Gray di serie B antropologcamente littorio, un Paese innamorato del Padre che lo libera dalla responsabilità e punisce severo sempre gli altri, un Paese mosso dall’odio e dall’invidia imitativa tra i poveri e dall’amore dei poveri per i ricchi, un Paese illuso di essere entrato nella stessa Modernità di Francia o Gran Bretagna o Stati Uniti, ma che se ne allontana sempre più, modellandosi su un sudamerica caudillista in stile anni ’50 e ‘60. A partire dall’osservatorio Napoli, mi pare di assistere alla fine di ogni speranza per chi volesse essere critico con il presente e pretendere di avere un qualche influsso sulla politica o sulla società. Lo scrittore oggi non ha nessuno spazio per essere, come si usa dire, una “coscienza critica”, e se mai lo avesse, farebbe bene a rifiutarsi di essere coscienza di chi la coscienza non ha provveduto a formarsela da solo: è così dovunque, e qui ancora di più. A Napoli e forse nel Sud la “cultura” è stata usata dai politici e dalle istituzioni che se ne sono riempiti la bocca come paravento per coprire il malfare e la cancrena che ora vediamo tutta; a Napoli e forse nel Sud gli “intellettuali” che hanno accettato posti e prebende sono stati solo delle voci addomesticate al servizio del sistema che ha governato per quindici anni. Ma non c’è alcuna speranza che, cambiate le teste di questo sistema cooptativo, chi fa cultura e pensa criticamente a Napoli e probabilmente nel Sud e in Italia, abbia in futuro un ruolo, o un’influenza: almeno per mezzo secolo ci sarà solo la cenere delle disfatte rivendute come un nuovo folclore, ci sarà solo il razzolare degli opinionisti che andranno a prendere il loro becchime intellettuale direttamente dalle mani dei loro allevatori, ci saranno solo i vendutelli a ogni cucchiaino di lenticchie che come le streghe nel “Macbeth” diranno che il brutto è bello e il vero è falso. Che dirti? Forse è meglio così: gli scrittori hanno da fare gli scrittori, se ne hanno ancora voglia, e non le dive del potere mediatico e politico: e, se ne sono capaci, hanno da essere uomini e donne. Gli scrittori parlano ai singoli, agli individui, e non alle masse: e parlano cercando di mettere in crisi i luoghi comuni: non c’è spazio politico o civile, per loro, in un Sud e in un Paese conformista e suddito. E questo sistema asistematico, in cui tutti credono di avere un’opinione libera e sono prigionieri già solo se respirano, non farà che aumentare nei prossimi anni: soprattutto, probabilmente, nel Sud, dove il nuovo feudalesimo italiano ha prosperato magnificamente: un feudalesimo di fatto, castale, piramidale, burocratico, cooptativo in ogni ambito, che usa il mediatico come suo sacro Imperatore e il denaro come suo vero Dio, e di cui la criminalità non è altro che un’utile estensione.
* * *
Sulla letteratura a partire da Sud che mi ha influenzato, quella che si chiama “la tradizione”, è presto detto: da Napoli è fatta di Basile, di Totò, di Viviani, di Eduardo e Peppino De Filippo. Perché sono solo loro che hanno trasportato il genius loci nella lingua, e hanno gettato un ponte tra il suono della voce e il suono del corpo che è forse la cifra più profonda che giace nel corpo di Napoli: insomma, il teatro e il cinema. Il resto c’era altrove, e migliore: come si fa a dire, per esempio, che Croce è un maestro quando si è letto Hegel? Come si fa a considerare un nume letterario e un esperto reale di estetica chi come Croce considerò grandi poeti Gaeta e la Negri, non si accorse di Montale e degli altri veri poeti italiani o europei, e criticò Leopardi difendendo i gagà napoletani? Il caso Croce è chiaro e semplice: si tratta di un caso di analfabetismo della Modernità, in una mente congegnata benissimo ma che si è evirata molto presto di ogni ferita, di quelle ferite che sono alla base del Moderno: come testimonia del resto, per chi lo sappia leggere, lo stesso Croce nella sua autobiografia. La tradizione letteraria in senso stretto del Sud che invece mi tocca, o mi ha toccato in passato, ha tre nomi, molto banali e ovvi se vuoi: Pirandello per il trapiantare e contrabbandare il Moderno in un tessuto che lo rifiutava, il De Roberto dei Vicerè, il Verga di Mastro Don-Gesualdo e di alcune prodigiose novelle. In ogni caso il rapporto con la cosiddetta tradizione è sempre un rapporto conflittuale, di amore e odio, e il modo migliore, per me, di avere a che fare con la tradizione, è quello che praticarono gli artisti del Rinascimento con gli antichi: li tradirono per eccesso di amore.
Restare, andarsene: qual è la differenza? Sono rimasto controvoglia, e me ne andrei controvoglia. Del resto oggi più di ieri tutta l’Italia è impiccinita in un provincialismo bieco, in una miseria emotiva senza limiti. E poi uno scrittore ha solo una patria, ed è quella dell’amore per Dostoevskij, per Kafka, per Baudelaire, per Cervantes, per i lirici greci, per i poeti cinesi dell’epoca T’ang, per Thomas Bernhard e tutti gli altri: sono queste le sue patrie. Io resto qui per motivi che sono irragionevoli, e sui quali non ho voglia di sviolinare a me stesso e agli altri “amore per la mia terra” o “attaccamento alle radici” o “resistenza per le nuove generazioni”: vivo come tutti in un posto al limite del civile, dove regna e regnerà la menzogna politica sulle nuove come sulle vecchie generazioni, in un luogo dove più che altrove nell’Occidente evoluto si può essere ammazzati, derubati, picchiati, umiliati, oppressi con ragionevole certezza. Perché mentire? E perché chiedersi se è meglio o peggio chi resta o chi va via? Si può solo dire, perché è oggettivo, che chi va via ha una vita più comoda di chi resta: nient’altro. In fatto di arte solo i risultati dicono se mostra più lucidità e ampiezza chi parla da “dentro” o chi parla da “fuori”. La patria napoletana o, se vuoi, meridionale? Ma che orrore. Quelli che da Napoli o dal Sud hanno creato, o provano oggi a creare, letteratura o arte o teatro o musica o pensiero, e che mi interessano, sono sempre stati e sono europei e internazionali: pur essendo idelebilmente legati a un’oscura e misteriosa “sensazione sud”, legati alle lave, alle rovine, alle stratificazioni, a quei resti di bellezza carnale che ancora, in certi giorni che “qui” arrivano come un dono sempre più raro, sono capaci di farmi sobbalzare e di farmi sentire stravivo. Il resto, l’amore o l’odio che io posso avere per “qui”, non è cosa di cui si possa parlare. Ora, e per chissà quanto altro tempo ancora, potremo essere vivi solo “altrove”.
Ringrazio ancora Giuseppe per il suo intervento. Un intervento amaro, dicevo… su cui riflettere.
@ Daniela Carmosino
Cara Daniela, appena puoi (se puoi) ti sarei grato se potessi raccontare (anche in breve) questa tua esperienza di presentazioni del tuo libro nel profondo Sud (tra Catania e Siracusa).
Lascerò questo post in primo piano per qualche giorno ancora:
1) perché trovo sia di grande interesse (almeno per me)
2) perché ho bisogno di tirare un po’ il fiato.
😉
Auguro a tutti voi una serena notte e un buon inizio settimana.
Ho apprezzato moltissimo il prezioso commento di Giuseppe Montesano, sia nella sua lucidissima analisi sia nell’aspetto realisticamente pessimistico. So bene di cosa parla: sono nato in Calabria, ho lì vissuto (tranne negli anni di studio nelle Marche) e lavorato fino all’età di trentasei anni, quando ho deciso, per eccesso di disgusto, di partire – lasciavo famiglia, amici, mare, ambiente linguistico, lavoro a tempo indeterminato -, muovendomi nei primi anni tra Veneto e Toscana. Adesso torno in Calabria generalmente tre o quattro volte all’anno.
L’analisi di Giuseppe Montesano è perfetta e appassionata: ne sento tutta la risonanza emotiva e razionale.
Tuttavia non sono del tutto d’accordo con una sfumatura: una sfumatura che rischia di prendere corpo, di consolidarsi non solo nel Sud, ma in tutta Italia. Gli individui nati e vissuti nel meridione d’Italia sanno bene cosa significa fatalismo. E lo sanno le diverse culture in tutto il mondo che hanno vissuto ripetuti e quasi infiniti soprusi, angherie, violenze fisiche e psicologiche piccole e grandi, estenuanti – una tortura ripetuta per anni, decenni, secoli. Fino a nemmeno vent’anni fa, quando in Calabria avveniva un omicidio di mafia, la comunità reagiva come un corpo profondamente ferito: la notizia si diffondeva in un attimo, e con la notizia si diffondeva lo scandalo, il turbamento, il silenzio luttuoso, lo choc – e tali emozioni perduravano anche per settimane. Adesso, la notizia si apprende talvolta anche il giorno dopo, o non si conosce affatto, e si fanno anche battute spiritose. Lo capisco: il corpo fisico, il corpo culturale e sociale, non potrebbe sopportare altrimenti tale ripetuta tortura, se non con l’assuefazione, con la reazione “fatalistica”, con la difesa ironica: quell’umorismo meridionale così conosciuto e apprezzato dovunque (ma attenzione: quanta amarezza in quell’umorismo: Eduardo, Troisi; la maschera di Totò è tragica – guardatela, per esempio, in “Che cosa sono le nuvole?” di Pasolini).
In Italia, dopo quasi vent’anni di berlusconismo, si sta diffondendo, successivamente allo sforzo d’una analisi lucida e realisticamente pessistica, d’una reazione salutare, una sorta di sensazione di paralisi. Gli psichiatri più avveduti dicono che alcuni stati di patologie catatoniche sono forme estreme di difesa individuale: il protagonista di “Gli esami non finiscono mai” di Eduardo decide di non parlare più, di irrigidirsi in una anacronistica figura goliardica e di farsi curare dal veterinario, e in un’altra commedia di Eduardo, “Le voci di dentro”, un personaggio minore che nemmeno appare mai in scena, isolatosi in un soppalco, anch’egli chiuso nel mutismo, comunica soltanto con i fuochi d’artificio.
Sì, sono completamente d’accordo, ripeto, con il profondo e realistico pessimismo di Montesano: nel Sud si stanno sbriciolando le ultime macerie, e anche nel resto d’Italia, in modi diversi, sta avvenendo ciò. Ma non lasciamoci paralizzare in una sorta di passività stuporosa: dobbiamo avere occhi limpidi per contemplare le ceneri del disastro e pazientemente saper ricostruire, ognuno per mezzo dei suoi talenti.
La presentazione siracusana è stata molto piacevole. Com’era prevedibile c’è stata una prima parte in cui Daniela ha parlato del libro, e una seconda in cui il pubblico si è fatto più attivo. In generale direi che il dibattito finale si è incartato su due posizioni: 1) Chi in Sicilia, al Sud, scrive libri “non impegnati” sbaglia, perché spreca energie che potrebbe veicolare in altri, non ben specificati modi — questa critica ovviamente era rivolta soprattutto a chi vende un sacco di libri; 2) Non è vero: anche trattando temi leggeri si possono cambiare le cose, e lo scrittore non dovrebbe essere influenzato dalla responsabilità di trattare determinati temi.
complimenti per la discussione che accoglie diversi punti di vista, vari approcci e differenti visioni delle cose.
per quanto riguarda il sud, sono d’accordo con chi lo elegge a metafora del mondo. e sono d’accordo con chi sostiene che c’è qualcosa che non va. rubando il titolo di Pascale verrebbe da dire “Qui dobbiamo fare qualcosa. Sì, ma cosa?”
Agli scrittori e intellettuali intervenuti su questo blog.
NON SCORAGGIATEVI! Vi ricordo che di tempi bui ce ne sono stati tanti, e non sono in Italia o nel Sud Italia. Alla fine, in un modo o nell’altro se ne viene fuori.
E poi, una volta toccato il fondo non si può che risalire.
errata corrige.
(e non sono in Italia o nel Sud Italia)
leggasi: e non solo in Italia o nel Sud Italia.
@ Gentilissimo scrittore Giuseppe Montesano, il suo analitico, lucido intervento è splendido. Ognuno ha i suoi autori di riferimento che ha amato e seguito con passione.
Condivido il pensiero positivo di @ Subhaga Gaetano Failla,
oggi ci siamo così abituati a nefandezze di ogni genere e in ogni ora della giornata, da star seduti, inerti, sulle abitudini negative, senza aver la voglia di reagire perché tutto sembra inutile.
Ognuno di noi, può attivarsi col suo minimo talento.
Per ricostruire un palazzo sono necessari anche i muratori modesti , ma esperti e non solo architetti eccelsi. Cosa faremmo senza la bassa manovalanza, alla quale mi onoro, di appartenere?
Quello che conta, è l’onestà intelletuale e seminare a fondo perduto; ovunque, anche in Letteratura, quei valori inalienabili che i nostri genitori ci hanno inculcato. Costi quello che costi:- pure la dersione!
Molte parole finiranno affogate fra rovi e spini, ma dobbbiamo tentare. Sperando solo che qualche frase, possa incoraggiare e far riflettere.
Per natura, sono ottimista e mi impongo di esserlo, mi scuso se vi
sembrerò un’ illusa, ma in ciascun animo, esiste un tesoro nascosto per
rendere lieti e migliori gli altri.
” Volere è potere”, anche Vittorio Alfieri la pensava così, quando componeva ” L’Oreste”, nella villa settecentesca dei nobili Griccioli a Montechiaro (Siena).
@Caro Massimo, ieri ho riletto tutti i nostri auguri del 30 dicembre 2007,
mi sono divertita molto. Sai cha ti dico? Eravamo più spiritosi e simpatici e riuscivamo a riderci addosso con gusto. Ricordi le nostre filastrocche augurali? Io sono sempre la stessa ironica svampita, che non prende la vita sul serio… ma i nuovi adepti di questo colto e complesso pensatoio, cosa penseranno di me? Super Massi, spiegaglielo tu!
Mi scuso e saluto tutti
Tessy
la presentazione di siracusa credo sia stata molto meno “impegnativa” di quella di catania.. lo immagino leggendo questi commenti… sicuramente il pubblico presente era molto interessato ma era un pubblico di “comuni” lettori.. e lo dico in senso positivo.. perchè alla fine, cosa che è venuta fuori anche durante l’incontro, sono i lettori che decidono il mercato e “chiedono” qualcosa o si aspettano qualcosa da chi scrive… allora questi incontri dovrebbero servire a rendere anche più coscienti i lettori, forse, piuttosto che discutere sulla validità o l’importanza della tradizione, ma, anche riferendomi a quello che è stato detto qui a siracusa da daniela, dare gli strumenti per capire, scegliere.. perchè mancano gli strumenti… e a volte penso che la letteratura , la narrativa siano lontane dal lettore per cui alla fine si legge ciò che è più semplice…. non so se sono stata capace di esprimere in modo chiaro la mia idea..
Due parole in più, tra le tantissime che già sono state dette su “Gomorra” e sul suo autore Saviano.
“Gomorra” è un’opera letteraria di narrativa, per quanto essa sia intessuta di dati sociologici precisi sul fenomeno camorristico e sulla criminalità organizzata, nazionale e internazionale, che ha referenti politici ben individuabili (non certamente solo del Sud, come in molte tragicomiche pseudoanalisi odierne, ulteriore sintomo del disastro italiano).
A Saviano la camorra ha tolto la libertà, costringendolo nell’angoscia d’una minaccia di assassinio. Ed inoltre, ed è questa una mia personalissima impressione, mi sembra che Saviano sia stato anche costretto quasi, per i riflessi tragici della sua situazione soggettiva e oggettiva, a scrivere esclusivamente brani di saggistica giornalistica. L’ultima sua recente apparizione televisiva, organizzata da Fabio Fazio, mi ha ferito: l’abbondanza di dettagli raccapriccianti delle sue denunce limpidissime, d’una onestà intellettuale del tutto inconsueta e rara per l’Italia ipnotizzata, mi ha fatto sentire tutta la sofferenza di questo scrittore.
In una intervista di qualche mese fa Saviano, alla domanda relativa al libro da lui preferito, un testo considerato per la sua persona fondamentale, egli risponde:
“Il vagabondo delle stelle” di Jack London.
Ho amato questo romanzo molti anni fa, nella prima edizione italiana del 1928: narra d’un detenuto americano che, come via di fuga, scopre un espediente estremo. Un libro bellissimo. Un inno alla libertà. Quella libertà di cui Saviano è stato privato.
Nel 2008 Giuseppe Genna ha scritto un articolo molto importante, dal titolo “Desavianizzare Saviano”, qui
http://www.giugenna.com/interventi/desavianizzazione_di_saviano.html
Un saluto affettuoso a Tessy,
Gaetano
i ferri del mestiere.
credo che qualcuno l’abbia già detto. non si può scrivere senza leggere. e nella lettura non si possono trascurare i classici. e se non si trascurano i classici, non si può non tenere conto della tradizione. perché diventa parte di te scrittore. l’hai digerita.
ora, c’è un mio amico che scrive un romanzo ogni sei mesi e si lamenta che non riesce a trovare uno straccio di editore disposto a pubblicarlo. io gli dico che ha ragione, ma la verità è che le cose che scrive sono vere e proprie porcherie. il mio amico non legge, o legge poco. una volta gli ho chiesto, ma prima di scrivere non dovresti immergerti nella lettura?
mi ha detto di no. ha paura che leggendo le cose degli altri la sua scrittura possa esserne influenzata.
signori editori, come fate a non pubblicare questo genio del mio amico?
passatevi la mano sulla coscienza, su.
Già. Però mica tutti gli scrittori hanno letto Dostojevskij, Tolstoij, Stendhal, Balzac, Cervantes, Flaubert, etc. O no?
Io credo che il Sud ( a parte Saviano e per altri versi Erri De Luca) sia stato descritto magnificamente da 3 autori, De Roberto, che credo abbia fatto l’analisi più profonda e puntuale sulle origini della Mafia e del malaffare in Sicilia; il secondo Tomasi di Lampedusa che da intellettuale colto e raffinato seziona spietatamente lo spirito del Sud, il tema “tutto cambi perchè nulla cambi” credo che sia ancora più che attuale. Il terzo, Carlo Levi, uomo del nord che viene catapultato nel Sud ed il cui libro Cristo si è fermato ad Eboli è il rovescio della medaglia e l’ideale proseguimento dei due autori precedenti, perchè in questo romanzo si parla della vita dei “cafoni” che nonostante tutte le speranze deluse continuano a lottare per amore della loro terra, sperando di farla comunque migliore.
Purtroppo penso che il Sud sia ancora fermo ad Eboli nonostante Saviano.
Eccomi massimo, anch’io ho dovuto tirare un po’ il fiato come te, magari anche solo occupandomi di altri lavori…non è questa la sede per i ringraziamenti che dovrebbero essere individuali e meriterebbero più ampio spazio. Rimando perciò a facebook e qui ringrazio brevemente gli organizzatori (instancabili e tenaci) e tutti quelli intervenuti alle due presentazioni siciliane e sul post (mi concedo però un abbraccio ad Antonella Cilento, a proposito di ‘instancabili e tenaci’).
Viaggiare per presentare un libro è scendere dall’aereo delle panoramiche e conoscere direttamente il territorio, parlare con la gente, di letteratura e non, o magari del ‘non’ proprio a partire dalla letteratura. L’equilibrio tra le due non si raggiunge quasi mai: a Catania abbiamo tenuto la rotta puntando, con piccoli scarti, dritti sul fenomeno letterario, ritentando un bilancio sulla tanto decantata (e in più di un’accezione…) rinascita del Sud: a partire ancora dal valore della tradizione –tema che non pensavo appassionasse tanto- intesa come conoscenza, apprendistato, formazione assolutamente libera e personale, casuale o progettata per finire a parlare della pratica della scrittura, anche intesa in senso ‘artigianale’ che richiede dunque strumenti e competenza .-concordo con l’ironico ferlazza- orientata spesso dall’editoria. Altro tema che ha acceso la discussione è stato, come pure in questa sede, la possibilità e/o il dovere del narratore di ‘denunciare’ la realtà: e mi è sembrato che sulla seconda, sul ‘dovere’ tutti avanzassero, per fortuna, forti dubbi.
Il tutto accogliendo naturalmente diverse opinioni e diverse modalità di esprimerle… E’ vero, certo, che il pubblico di Catania raccoglieva un gran numero di scrittori nonché, al tavolo dei ‘presentatori’, un’editrice (ed. mesogea) libraia (libreria tertulia) di quelle che conoscono davvero il mestiere: questo può aver determinato una maggiore attenzione al ‘letterario’ e al ‘prodotto’ libro considerato in tutti gli step della filiera. Ma questo non vuol dire che un pubblico meno ‘addetto ai lavori’ come quello siracusano proponesse –come supponeva luisa qualche ora fa- temi e domande meno impegnati e impegnativi. Ve l’assicuro, sono uscita esausta da quasi tre ore di discussione. La gente sembrava stufa di letteratura cosiddetta d’evasione o della rappresentazione del Sud che dà ad esempio l’Agnello Hornby –ho capito, ma perché poi le cifre delle vendite smentiscono clamorosamente?- e chiedeva agli scrittori di raccontare ‘con competenza’ come direbbe il nostro Pascale, la realtà del Sud, non solo quella della corruzione e della criminalità ma anche della difficile quotidianità di un soggetto che, magari sullo sfondo della corruzione e della criminalità, prova a costruire, a costruirsi una realtà ‘normale’.
Tento un bilancio: i siciliani mi sono parsi vivacissimi e pronti a rispondere alle sollecitazioni. Se si arriva a litigare su questioni letterarie vuol dire che a dispetto di un comprensibilissimo pessimismo –grazie a Giuseppe Montesano per essere intervenuto- la letteratura è ancora percepita come qualcosa che può incidere sulla realtà o che almeno non è lontana da questa. O meglio, sulle coscienze, intese una ad una, lettore dopo lettore. Magari pochi ma in possesso degli strumenti adatti a comprendere l’ironia, il tentativo di demistificazione e persino la denuncia sotto forma letteraria di tanti narratori (e rispondo in parte alla sana lamentela di livio romano).
Cari amici, eccomi di nuovo qui…
Contasto che l’intervento di Giuseppe Montesano (che ancora ringrazio per la disponibilità e l’amicizia) non è passato inosservato.
E ringrazio Subhaga Gaetano Failla e Tessy per i loro (rispettosi) “controinterventi”.
Ringrazio ancora Stefano Amato e Luisa: che bello il rimbalzo di voci e impressioni tra la presentazione catanese e quella siracusana.
Grazie!
Ringraziamenti anche a Sandro, Alessandra, Antonello Ferlazza, Luca Nencioni e Marco.
@ Daniela Carmosino
Cara Daniela, grazie per essere tornata qui. È stato bello poterti conoscere di persona. E sono lieto che, anche dal tuo punto di vista, questi incontri siciliani (così come il dibattito on line) siano stati fruttuosi.
–
Nel precedente commento parlavo della mia necessità di “tirare il fiato” (per la verità determinata anche dall’esigenza di portare avanti alcuni miei progetti narrativi… una giornata, ahimé, per quanto tenti di allungarla, è sempre fatta di 24 ore).
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In ogni caso, la discussione continua…
Nei precedenti commenti avevo chiesto a Claudio Morandini: “m’interesserebbe anche sapere com’è, per te, scrivere ad Aosta”.
Claudio mi ha inviato una mail che comincia così:
Caro Massimo, mi chiedi com’è vivere – e scrivere – quassù. Proverò a rispondere (Ti scrivo qui perché non so se questo intervento possa rientrare nel dibattito su letteratura e sud. Valuta tu se è il caso).
…
Caro Claudio, intanto ti ringrazio moltissimo per il garbo e la delicatezza che mostri (non hai idea di quanto li apprezzi).
E poi ritengo che il testo che mi hai inviato sia di estremo interesse, anche nell’ambito di questa discussione (poiché contiene una sorta di approccio comparativo).
Lo pubblico nel commento che segue…
In apparenza, la Valle d’Aosta è una terra di confine, che ama guardare a ciò che accade oltralpe e operare una sintesi culturale tra Italia e Europa. Purtroppo questo è vero in minima parte. Da qualche decennio ho l’impressione che prevalga una tendenza opposta, all’arroccamento su una posizione – come dicevo – autoreferenziale. Si esalta una originalità locale, si costruiscono miti culturali che poi si alimentano ostinatamente. Si guarda a un passato idealizzato, con nostalgia si ripropone l’esaltazione di valori pastorali, e si finisce per delineare un mondo bucolico, irrealistico, una piccola Vandea in posa in un dagherrotipo. Sento, nella posizione ufficiale, crescere la diffidenza per tutto ciò che non corrisponde a questo disegno revisionistico. Per fare un esempio, uno dei miti più ossessivi è da tempo – non ridere, ti prego – la mucca. La mucca è ovunque, una presenza totemica, da civiltà minoica. La città è attraversata periodicamente dalle mandrie che tornano dagli alpeggi – e non perché debbano davvero passare per il centro, ma perché si vuole attraverso questo evento marchiare un territorio sostanzialmente estraneo ai valori pastorali come la città o il fondo valle. L’arte e il teatro di ricerca ricevono foraggio economico dall’amministrazione a patto che, in un modo o nell’altro, compaiano mucche, o almeno qualche altro emblema di specificità locale. Un discorso analogo andrebbe fatto sulla difesa ad oltranza del dialetto – sull’accanimento terapeutico con cui lo si preserva dal declino – o sul francese come lingua pari all’italiano.
Nella discussione sulla letteratura del sud Italia molti interventi vertevano sul rapporto sulla tradizione, cioè sui grandi, talvolta ingombranti modelli letterari, con cui avere un continuo dialogo, una costante resa dei conti. Ecco, quassù modelli così, con cui confrontarsi, su cui formarsi magari per buttarli all’aria, non ci sono. La cultura valdostana del passato è costituita per lo più da figure di eruditi di provincia, curati spulciatori di archivi parrocchiali, cronisti, verseggiatori, compilatori: e ancora oggi una discreta produzione locale è in mano a compilatori di compilatori, a cronisti di cronache altrui, a eruditi di secondo o terzo grado. Nessun modello insomma con cui avere un vero dialogo: per fortuna altre terre di confine, come il Piemonte, ci regalano figure irrequiete sulle cui pagine formarsi una voce. Pavese, certo, e Fenoglio, e la Romano, ma prima ancora altri, Alfieri perfino, addirittura Faldella.
Uno si guarda attorno, insomma, e tesse per conto suo relazioni con autori geograficamente lontani, scopre affinità in pianura, o sull’Appennino, o in mezzo al Mediterraneo. Che so, Landolfi è un maestro di isolamento, ma anche, come dire, di dissipazione di sé sulla pagina, nel senso che aveva individuato Manganelli. Un altro splendido isolato è Mari. Isolamento e inquietudine, insoddisfazione e sguardo lungo – ecco quello che ho trovato via da qui. Ma non voglio attaccare con l’elenco dei maestri inconsapevoli, o non finisco più.
C’è anche chi preferisce non allungare troppo lo sguardo, si lascia coccolare dentro confini troppo stretti ma comunque rassicuranti, e dà il suo contributo alla costruzione di questa Arcadia un po’ operettistica. Sarà portato in palmo di mano, ma, a non misurarsi con il mondo al di fuori, non saprà mai davvero quanto vale.
Un abbraccio
Claudio Morandini
Ancora grazie a Claudio… ma non finisce qui.
Ho appena ricevuto un contributo da parte di Francesco Dezio. Pubblico anche questo nel commento che segue…
Mi scuserai, Massimo, ma non riesco a metterla sul teorico su alcune domande che hai posto, per cui le salto a piè pari (tipo la domanda sullo spazio per il mito e la metafora in letteratura – non so proprio di cosa stiamo parlando, francamente) si tratta di problematiche che attengono alla critica letteraria. Ora, non vivo di scrittura, non me ne occupo, non ci teorizzo sopra, non sono un fanatico dell’invenzione pura (non mi piace raccontarmi palle, quando racconto rendo protagonisti persone che fanno parte del mio “entourage”).
Come dovrebbe porsi “un autore nei confronti della tradizione letteraria”?, se facciamo riferimento a quella meridionalistica, l’ho tenuta in pochissimo conto (pirandello, verga, levi, ecc. sono letture giovanili, legate al periodo scolastico; quanto di ciò che ho letto si è sedimentato nelle cose che ho scritto? – non molto, credo – i miei autori di riferimento sono per lo più stranieri… e se italiani, quando classici, nello specifico non meridionali). Sull’impatto e l’efficacia che possono avere le narrazioni, siamo sempre lì, dipende da cosa si vuol fare: vogliamo una letteratura fortemente ancorata alla realtà, bene, bisogna affondarci le mani, starci dentro per comprenderla appieno e viversela fino in fondo – mi sembra di scrivere una banalità, ma è così che la vedo.
Quando bisogna scriverne? Intanto questi eventi si “registrano” e si catalogano, poi si vedrà (almeno, per me funziona così); a quel punto (se si è accumulato abbastanza materiale esperienziale, scriverlo da dentro o da fuori il luogo fisico in cui si vive, può non essere importante) si fa un tentativo di narrazione. Certo, se ci si tira fuori dalla propria terra e se l’obiettivo che ci prefiggiamo è quello di rifarci a una letteratura che prenda il più possibile dal vero e riduca al minimo il tasso di invenzione, con le distanze c’è il rischio che questo percorso di recupero e riorganizzazione dei fatti venga mitizzato – rifacendosi più che altro al passato – o che non vi sia la possibilità di registrare con la stessa puntuale efficacia (e autenticità il più possibile) l’attualità, ma magari è pure vero il contrario, magari la distanza può aiutare a percepire meglio la propria terra o il proprio passato (sempre se si vuol rimanere ancorati alla dimensione dell’io). Per affermare una cosa del genere dovrei sperimentare la dimensione della lontananza e almeno fino ad ora sono rimasto (ed è un rapporto in cui l’odio prevale sull’amore) in questa terra, e anche qui mi sembra di dire una banalità.
Bene. Ringrazio moltissimo anche Francesco per il suo contributo alla discussione.
Credo che per stasera ci sia parecchia “carne al fuoco”, per cui non mi rimane che augurarvi – come sempre – una serena notte.
Un caro saluto a Daniela Carmosino che ho avuto il piacere di conoscere a Siracusa e a tutti gli amici intervenuti…
Al Biblios cafè la discussione è stata un po’ più salottiera nel senso buono, una vera e propria conversazione. Lo scrittore del sud, chi è? Ormai uno stereotipo, un’etichetta di comodo? Ma poi è vero che lo scrittore “sudico” deve per forza sobbarcarsi più responsabilità rispetto ad uno nordico? Non può fare sano intrattenimento?
La questione politica però è stata toccata, specie riguardo al tema dell’impegno.
Morandini è interessantissimo: ci ha regalato una finestra su un mondo lontanissimo. Io della Valle d’Aosta so meno che – per dire – dell’Inghilterra di Jane Austen.
La globalizzazione porta con sé il suo opposto: il localismo, specie quello deteriore, non aperto al confronto, arroccato sulla tradizione falsamente intesa.
Tanto sono intrecciati i due fenomeni che è stata coniata la parola GLOCAL (da global+local).
Io credo che bisogni sapere da dove veniamo per sapere dove andare. Ma l’esempio della moglie di Lot trasformata in statua di sale perché voltatasi indietro a vedere la rovina della sua città (simbolo del passato e di tutto quello che dovremmo lasciarci alle spalle) dovrebbe farci pensare ad una tradizione non paralizzante ma vitale.
Uno scrittore è un albero che deve avere delle radici solide, ben piantate nell’humus (gli scrittori precedenti, l’ambiente) ma anche dei rami protesi verso il nuovo. Altrimenti farà la fine del fico sterile.
Stasera sono biblica, ma come ci ricordava la Carmosino, dopo la Bibbia e Omero ed Eschilo cosa potremmo scrivere di nuovo? Cambia la prospettiva, l’angolazione, lo sguardo.
E chi scrive DEVE leggere, è l’unico imperativo. Come il neonato impara a parlare ascoltando, con l’umiltà dovuta alla sua – temporanea – impotenza, così i gran geni dei nostri amici devono leggere se hanno la pretesa di scrivere. Predico per prima a me stessa, poi ai miei alunni.
Ho letto gli interventi di Stefano Amato – volevo chiedergli se si ricorda di un certo Premio Free Zone… – e Luisa Fiandaca.
Luisa come libraia si poneva il problema del mercato, delle domande del lettore non specialista.
Amato ha ricordato uno dei temi toccati a Siracusa: la possibilità di fare denuncia anche parlando d’amore o con un libro leggero. Io facevo l’esempio dell’amico scrittore e sceneggiatore Francesco Costa, che nei suoi libri parla sempre della sua Napoli – anche se vive a Roma – e riesce a parlare dei suoi problemi in toni apparentemente svagati e umoristici ma sempre efficaci.
Antonella Cilento lo fa, pur alla sua maniera, stessa cosa dicasi per altri validissimi autori.
Ogni scrittore ha una sua propria finestra sulla realtà e non è detto che i vetri siano trasparenti o smerigliati tutti allo stesso modo.
ci ho messo un paio di giorni per leggere tutti i commenti, ma (wow) ne è valsa la pena. complimenti a tutti.
Segnaliamo un resoconto della presentazione del saggio di Daniela Carmosino sul webmagazine degli studenti dell’Università di Catania. Buona lettura:
Chi scrive, chi non legge, chi fa lo show
di Luisa Santangelo | 28/11/2009 |
Animata presentazione, alla libreria Tertulia, del saggio-reportage di Daniela Carmosino sugli scrittori meridionali. Il dibattito su “Uccidiamo la luna a Marechiaro” è stato un’occasione per discutere sul ruolo della tradizione letteraria rispetto agli scrittori emergenti
http://www.step1.it/index.php?sez=articolo&id=5896
Da quello che emerge da questo dibattito mi pare che l’interesse per la letteratura, per la scrittura, per il ruolo dello scrittore e dell’intellettuale è più vivo che mai. L’impressione è che c’è tutto un sottobosco in fermento. Questo lascia ben sperare, secondo me.
La grande speranza è che questo fermento possa essere il motore per ripartire dal fondo, per contribuire a risollevare questo Paese ucciso dalla cattiva politica (che opera a destra, a sinistra, a centro) basandosi sui valori della cultura che nonostante tutto sopravvivono e hanno ragion d’essere. Grazie a tutti.
Ciao Massimo, ma che sorpresa trovare in questa stanza un argomento così intenso. Spero non sia spento perché, buona ultima, raccolgo l’invito, dopo aver cercato di seguirne tutti passaggi leggendo gli interventi. Impossibile.
Sono perplessa di fronte all’autore che nutra speranze di rendere intellegibile il proprio pensiero attraverso la letteratura, prescindendo dal conoscerne i pilastri. Sarebbe come voler illustrare la storia dell’Arte senza conoscere, appunto, la storia, gli stili, ecc. Si può fare naturalmente, dando luogo (mi si perdoni la genericità) a fenomeni “naif” spesso, questo è vero, di qualità superiore a tale condizione. Mi capitano continuamente libri di ogni genere, e li leggo quasi tutti, articoli di giornale ed altro provenienti da autori non appartenenti al “logos degli scrittori”, però capacissimi di rendere in modo convincente le proprie idee. Tuttavia, penso che pur avendo l’idea originale, difficilmente si troverà la forma letteraria più congrua per essa se manca la dimestichezza intellettuale con il solco dei maestri. Che bisogna conoscere, per poterlo poi abbandonare e tracciarne uno nostro. A pensarci bene, forse quelle correnti di “regionalismo letterario” a proposito delle quali interroghi, nascono proprio dalle fatiche di miriadi di osservatori, cronisti ed interpreti dei costumi e degli usi locali, e senza di loro risulterebbe arduo conoscere le varie realtà componenti la storia di un paese. In un commento precedente (mi scuso per non ricordare il nome dell’autore) qualcuno ha citato grandi autorità in questo campo: De Roberto, Tomasi di Lampedusa, Levi (io concordo pienamente con questa classifica, mettendo l’autore del “Gattopardo” al primo posto ma ce ne sono altri, meno incisivi di questi) però mi sono spesso chiesta se la forza evocativa dei loro scritti non sia troppo sostenuta dall’apporto audiovisivo dei bei film da questi ricavati. Tomasi di Lampedusa e Levi li avevo già letti prima di “vederli” sullo schermo, ma non ricordo se la mia immaginazione aveva penetrato il loro mondo diversamente da come, in seguito, lo hanno rappresentato i registi. Non so se il Gattopardo e il dottor Levi che vivono in me sono quelli dei loro autori, oppure quelli dei loro registi. La considerazione che ne scaturisce è, posto che il cinema fagocita soggetti non per solidarietà sociale ma per opportunismo, arrivando a confondere, con la grandezza e lo splendore dei propri mezzi, la memoria ed il giudizio di appassionati lettori, è ancora legittimo parlare di un ruolo della letteratura che esercita il proprio peso nella formazione delle coscienze? O, piuttosto, nello scrivere qualcosa, la domanda da farsi è quali e quanti mezzi concorrenti spingeranno l’idea letteraria attraverso altre logiche, prima che arrivi al suo naturale destinatario, il lettore. Ed ancora: è legittimo o sacrilego il mio dubbio che Saviane abbia ceduto alla seduzione di una facile notorietà, trascurando ingenuamente i pericoli mortali del giocare con certi argomenti? Mi piacerebbe qualche risposta dai “letteratitudiniani”, per schiarire i miei dubbi.
Ciao a tutti
Maril
Maril, non credo che Saviano potesse nemmeno immaginare mentre scriveva Gomorra, con coraggio, di finire in questo vortice. L’ha detto lui stesso.
La letteratura esercita ancora peso nella formazione delle coscienze?
Ripeto ciò che ho scritto nel precedente post: ‘Da quello che emerge da questo dibattito mi pare che l’interesse per la letteratura, per la scrittura, per il ruolo dello scrittore e dell’intellettuale è più vivo che mai. L’impressione è che c’è tutto un sottobosco in fermento. Questo lascia ben sperare, secondo me.
La grande speranza è che questo fermento possa essere il motore per ripartire dal fondo, per contribuire a risollevare questo Paese ucciso dalla cattiva politica (che opera a destra, a sinistra, a centro) basandosi sui valori della cultura che nonostante tutto sopravvivono e hanno ragion d’essere.’
Non so se sto portando la discussione fuori argomento. Eventualmente mi scuso già da adesso con il padrone di casa.
rieccomi. un blackout di internet mi aveva impedito di terminare il ragionamento, riverso la seconda ed ultima parte di quello che avevo scritto ieri ,
Il bilancio però non è del tutto letterario. O meglio, parte dal ‘non’ per arrivare al letterario. Mi spiego. Mi son fatta questa idea e vedo se riesco ad esprimerla chiaramente. Anche perché come critico e come editor se non ci riesco è meglio che cambi mestiere… Il Sud non è un’entità compatta: non solo ci sono profonde differenze tra le regioni, ma anche spostandosi da Catania a Siracusa, clima vegetazione facce ed accenti sono diversi. E lo stesso vale per Foggia e Bari. Anche i problemi a certi livelli sono diversi: pensiamo che la Sicilia è una regione a statuto autonomo e che gli assessori, ad esempio, hanno il potere di ministri. La giornalista che mi ha ospitato a Catania, parlando di Palermo, ha commesso un bel lapsus dicendo ‘la capitale’…
Però. Però mi sembra comune il problema Sud rispetto al resto d’Italia, la costruzione dell’identità del Sud rispetto al resto d’Italia. La percezione che il Sud ha del resto d’Italia e quella che il resto d’Italia, ma soprattutto quella che i politici a livello nazionale hanno del Sud, la prospettiva che adottano per risolverne i problemi, la loro antipatia nei confronti della fiscalizzazione delle imprese, ad esempio, in Sicilia, che priverebbe le casse di stato di una fetta di proventi (mi sto addentrando però in un campo che non è il mio). Forse allora i Sud sono tanti, ma il problema sud è uno o almeno come tale è percepito e affrontato. E’ un problema politico ma anche un problema di ri-costruzione dell’identità, e non sempre rispetto al Nord, Nord-Italia o Nord-Europa che sia. Basta, sia detto con tono pacato, con il Sud metafora dell’emarginazione, dell’approssimazione imperfetta a un modello esogeno. Se metafora deve essere lo sia dell’esistenza, tout court, o di quella di un soggetto che si trova spaesato in un mondo che cambia (ma perché, quand’è che ha smesso di cambiare?) un mondo –quello della globalizzazione- che può creare problemi, seppur diversi, a Bari come a Edimburgo.
Cosa c’entra questo con la letteratura? C’entra, perché vado sempre più imparando che il problema del Sud non si risolve tanto con le riforme e le iniziative (la banca del sud? Il partito del sud?) a livello politico, quanto con una ‘riforma’ della mentalità, delle coscienze, forse ormai solo a partire dalle più giovani generazioni. Anche a livello politico in questo mio tour sudista ho sentito spesso parlare di ‘progetto culturale’. E a livello politico mi sembra fumoso, demagogico e poco produttivo. Però voglio continuare a credere che uno scrittore, uno scrittore del Sud nella fattispecie, possa ancora sollecitare dubbi, sorprendere con nuove chiavi di lettura, persino azzardare qualche soluzione. Possa scompigliare l’immagine di una realtà ben confezionata e ‘orientata’ dai media. Agendo magari solo su cinque, sei lettori. Beh, sarebbe già qualcosa se questi cinque o sei lettori passassero ad altri il testimone del mutamento di mentalità incarnandolo in pensiero e comportamento. Non si sono diffusi deleteri stereotipi del sud anche attraverso la letteratura, e questo è confermato da tanti scrittori? Allora perché attraverso lo stesso mezzo non può diffondersi anche una mentalità sana? Conosco persone che sono andate a lavorare al sud, armati di buone intenzioni per risanare, cambiare, far progredire. Stanno gettando la spugna. Non si scontrano con la mafia o con la camorra ma con la mentalità camorristica o mafiosa penetrata a tutti i livelli, nella quotidianità più spicciola. Uno, dieci romanzi che raccontino non tanto un sud diverso, ma un modo diverso di interpretare il sud, voglio continuare a sperare che possano gettare il famoso sasso nello stagno. Questo, sì, sarebbe un progetto culturale, fermo restando che lo scrittore non ‘deve’ però faresene carico.
Ma lo scrittore ha bisogno di lettori in grado di capirlo: la scuola che impone sterilmente i calssici, le università che si fermano agli autori degli anni Settanta, non formano lettori smaliziati, se mi passate il termine, non danno loro gli strumenti per ‘leggere la realtà letta dagli scrittori’. Anche questo è progetto culturale.
Per chiudere: non so che fine abbia fatto il mio progetto d’esser chiara, spero di non averlo tradìto.E di aver, invece, tràdito qualcosa. Un abbraccio a tutti.
ciao a tutti,
avevo già letto il saggio di daniela carmosino, questa estate quand’era uscito, ed adesso ho letto tutti i commenti, è rimango sempre molto colpito dal modo in cui la letteratura, la nuova letteratura italiana, stia raccontando le trasformazioni e le contraddizioni del sud italia, dei tanti sud dell’italia, molto meglio e molto più in profondità, di quanto facciano gli altri media.
ed è proprio lì, quando si accede a quella profondità, che si riesce ad intravedere le pieghe del passato, l’evidenza del presente, l’orizzonte dei futuri possibili: la storia e le utopie che incontriamo quotidianamente – “il progetto culturale” di cui parla la carmosino.
per questo suggerisco qui la lettura di libri, di recente pubblicazione, che secondo me nel tempo diventeranno i canoni letterari da avvicinare e/o sfidare:
– il tempo materiale, di giorgio vasta
(http://www.minimumfax.com/libro.asp?libroID=427)
– foto di classe, di mario desiati
(http://www.laterza.it/schedalibro.asp?isbn=9788842088844)
– riportando tutto a casa, di nicola lagioia
(http://www.einaudi.it/speciali/Nicola-Lagioia-Riportando-tutto-a-casa).
nel mio piccolo, uscendo fuori dai canoni, non paragonandomi per nulla ai libri sopra elencati, vi lascio il link di un racconto che ho pubblicato su “nazione indiana” – racconto che ha come sfondo e come personaggio principale una parte della calabria, la locride:
http://www.nazioneindiana.com/2009/09/24/toccare-il-fondo/
a presto
giuseppe zucco
Cara Daniela.
Il Sud. Il sud esiste perché ogni classe politica che detiene il potere ha bisogno di un Sud affamato per mantenere i consensi. Potrebbe sembrare un paradosso ma non lo è. L’ultimo rapporto dello Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, parla chiaro: ogni anno dal Sud vanno via circa centomila giovani lavoratori. E’ una continua emorragia che lo svuota delle sue intelligenze migliori. Il desiderio di affermarsi, di avere un posto di lavoro qualificato, di essere liberi da condizionamenti, dai sistemi clientelari da parte di governanti che ne hanno imprigionato lo sviluppo. Da noi, in Sicilia, non c’è spazio per i sogni, tutto sembra imbrigliato, tutto sembra dover passare attraverso la gestione clientelare della mala politica e del malaffare. E allora, come diceva l’anziano Alfredo al giovane Totò in “Nuovo Cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore: Vattinni (vattene), se vuoi ottenere successo nella vita devi emigrare, scordarti questa terra infame. Abbiamo il mare, il sole, la buona cucina ma manca tutto il resto. C’è ancora una questione meridionale da risolvere. Nel sud è sempre emergenza rossa: la mancanza di lavoro, di infrastrutture, la criminalità organizzata; l’Etna che erutta, la peste suina e bovina, il fuoco di Sant’Antonio, il torcicollo dei politici che li fa andare sempre nella direzione sbagliata. Insomma, non si riesce a programmare un piano di sviluppo economico serio e lungimirante. I fondi Ue: un fiume di miliardi dilapidato in corsi di formazione inutili, casolari ristrutturati per attivare improbabili agriturismi e opere incompiute. Ai giovani non possiamo chiedere di restare se la politica non crea le condizioni di crescita. In quanto alla mentalità mafiosa, mi pare che hai potuto verificarlo anche tu, alla libreria Tertulia di Catania, quanto basti poco a una persona per rendersi spocchiosa e tracotante.
Caro Massimo,
anch’io come Antonella Cilento rispondo alla tua sollecitazione a intervenire con sintetiche -e a volte cumulative- risposte alle tue domande
Che rapporto dovrebbe avere un autore nei confronti della tradizione letteraria?
La tradizione letteraria (e quella meridionale, in particolare) deve essere vista più come un fardello di cui liberarsi o come punto di riferimento da cui ripartire? E perché?
R.
Nè fardello, nè punto di partenza. Ma ineludibile fondale di scrittura su cui ogni autore- diversamente, necessariamente- reinterpreta e riscrive il proprio tempo, la propria storia. Che si può rinnegare, ma non ignorare. Che si cerca vanamente di demolire.
Non c’è niente da fare, sta sempre lì: dentro la nostra immaginazione narrativa; a volte -con la sua inarrivabile congiunzione di bellezza e utopia- per farci dispetto, per farci incazzare.
È corretto parlare di “regionalismo letterario”? Se sì, quali dovrebbero essere gli elementi distintivi? (Per esempio: più “il luogo” o “il linguaggio”)? E i “canoni caratterizzanti”? Fino a che punto la letteratura è circoscrivibile entro ambiti regionali?
R.
Senza regionalismo letterario non c’è scrittura, nè universalità di scrittura. Proprio la specificità di luogo e tempo si fa esemplarità
storico-esistenziale, e inconfondibile connotazione di linguaggio negli scrittori del passato e in quelli contemporanei:nella poesia di Lucio Piccolo, e in quella di Jolanda Insana, nei romanzi di Sciascia o in quelli di Giosuè Calaciura, ad esempio.
E potrei citarli tutti, gli scrittori siciliani -da Sciascia, a Bonaviri, a Consolo, ad Addamo; da Alajmo, alla La Spina, alla Grasso- ognuno con la sua irriducibile, e singolare cifra linguistica, che nulla però a a che fare con il folfkore letterario e/o con l’omologazione espressiva di molta -presunta e di successo- narrativa contemporanea.
E ciò vale per la produzione letteraria siciliana, ma anche per quella napoletana e per quella sarda. Di straordinaria forza espressiva, e civile.
Chi ha maggiori possibilità di narrare di un luogo (nella fattispecie del Sud d’Italia) con efficacia maggiore: lo scrittore che ci vive e ha la possibilità di osservarlo dal di dentro, o quello che – essendosene allontanato, quantomeno fisicamente – riesce a guardarlo con più distacco?
R.
Irrilevante il luogo dove lo scrittore vive. E la lettura del tempo -e la capacità di tradurla in appassionante, lucida, scrittura- che conta.
Qual è il ruolo della narrativa italiana (e meridionale), oggi? Può contribuire, in qualche modo, a incidere sulle coscienze, a “rimisurare l’immaginario” (spesso deviato dai media), oppure – come sostiene Antonio Pascale (vedi video in basso) – bisogna puntare più sul ruolo dell’intellettuale (inteso come “amministratore del sistema”) che sul ruolo della narrativa?
R.
Rispondo con una frase di Rafael Alberti (se non ricordo male).
“Anche parlando della neve si può fare la rivoluzione” -e quindi incidere sulle coscienze, contribuire a sottrarle alla dittatura dei mass media e del mercato- il problema è come se ne parla.
Lo scrittore non può sottrarsi a tutto questo: al dovere della scrittura. Di una scrittura che rinnovi -anche espressivamente – il mondo
Nella letteratura di oggi (meridionale e non) c’è – e/o ci deve essere – ancora spazio per il mito? E per la metafora?
R.
Si, se mito e metafora sono imbrattate, lacerate sfigurate, attraversate, dal dolore del mondo, dagli incubi della contemporaneità.
Non c’è oggi legittimità d’esistenza -nè nella scrittura, nè nella storia-per l’armonico, il nostalgico, l’intatto.
Che può farsi utopia, mai materializzarsi in presenza
E ancora… che rapporto c’è tra la letteratura di oggi (meridionale e non) e i nuovi e vecchi media?
R.
Il tuo blog, caro Massimo, è esemplare di un nuovo rapporto tra letteratura e media: di un’intensa interattività tra scrittori e lettori.
Complimenti per la tua paziente quotidiana presenza di scrittura, e un carissimo saluto a te e a tutti gli intervenuti, e in particolare alla bravissima Antonella Cilento e a Maria Luisa Riccioli,
Maria Attanasio
c’è tanto di buono che parla di Sud ma non riesce ad arrivare alla luce del sole
e allora bisogna leggerselo sui blog su piccoli foglietti carte strappate dal tempo
non sempre ciò che brilla viene pubblicato
ma forse è proprio per questo cheè più vero profondo sincero
ha la sua natura e aspetta per germogliare
almeno spero
complimenti per questo post che almeno ha dato qualche spazio per iniziare a parlarne
un caro saluto
c.
@montesano e dezio
(perdonatemi se torno un po’ indietro)
Meno male che qualcuno rimane, ogni tanto. Bisogna rimanere, altrimenti che ne sarà della nostra, delle nostre terre? Non si può parlare del fango sporcandosi solo la punta delle scarpe. Bisogna stare immersi fino al collo, in quel fango. In questo sta la differenza, a mio parere, e non si tratta che chi rimane è più o meno lucido nelle analisi. Sta nella semplice “presenza”, convivenza, coabitazione, che vale più di mille testimonianze.
Sta nel fatto che se ce ne andiamo tutti il sud diventa una specie di parco giochi turistico, nella migliore delle ipotesi; un terreno di conquista nella peggiore. Un immenso, unico ghetto, e mi sembra che stiamo andando in quella direzione, purtroppo. E della cultura rimarrebbe solo il mito, la tradizione, i luoghi comuni, e io mi rifiuto di accettare che la nostra cultura possa essere ridotta a questo.
E allora mi chiedo che senso ha? Che senso ha parlare del sud, parlare di “questione meridionale” (perché mi sembra che siamo ancora fermi a quello), della realtà meridionale, problemi, denunce, se non si sta dentro? Il sud non ha bisogno di denunce, mi sembra che ce ne siano fin troppe eppure non si muove niente. Ha bisogno di chi sta in trincea. La trincea è questa, è il fango, non è la denuncia, non sono i programmi culturali, le discussioni sulle cause o sulle soluzioni.
Formare le coscienze, si è detto. E cosa forma le coscienze? un libro? Il libro arriva solo là dove ci sono coscienze già formate a recepirlo. E’ questo il problema: è l’impenetrabilità, l’impermeabilità di certi ambienti, di certe teste, di certi cervelli. Che funzione sociale può avere un libro di denuncia che viene recepito solo da una classe intellettuale? E gli altri, quelli che sono davvero il campo di battaglia in cui si gioca questa guerra, che non saranno mai raggiunti da discussioni raggomitolate su se stesse?
Non dico che siano inutili le discussioni: parliamo, però diciamoci le cose come stanno, non nascondiamoci dietro giustificazioni consolatorie.
Non credo alla letteratura come crociata, come missione, né esistenziale, né sociale. Credo però nella funzione “culturale” della letteratura. Lo scrittore deve fare lo scrittore, come l’insegnante l’insegnante e il fruttivendolo il fruttivendolo. L’importante, come ho avuto già modo di sottolineare, è l’onestà intellettuale. Posta questa come condizione imprescindibile, mi chiedo ancora: forma le coscienze di più uno scrittore che fa denuncia, che se ne va altrove (per esigenze di lavoro, certo, nessuno gli nega questo diritto), e che magari vince il premio strega, o uno scrittore che scrive favole e le va a leggere nelle scuole del suo paese? È una domanda, non so nemmeno io quale sia la risposta giusta.
Però credo che la letteratura debba fare prima di tutto “cultura”.
@salvo
ci siamo “sovrapposti”… 🙂
condivido in pieno: il sud esiste perchè c’è un bisogno fisiologico di terre da colonizzare.
@daniela
scusa, ma dire che prima della politica viene la formazione delle coscienze è un modo per dire: cavoli vostri, siete voi che non siete capaci, detto sempre con toni pacati, ovvio. Che probabilmente è vero, però se allora è vero è inutile che ne parliamo.
e poi, se i progetti politici sono fumosi, figuriamoci come possono esserlo quelli letterari.
scusa ancora, ma l’argomento è tale….. 🙂
@Giorgia. Se ne stanno andando tutti. Io sono rimasto perchè mi trovo agli arresti domicilari. Trent’anni mi hanno dato per vilipendio alla letteratura.
PS. E’ sempre un piacere sovrappormi a te.
@salvo
a te ti dovrebbero deportare in siberia…
Cari amici, vedo con piacere che questa discussione è ben lungi dal terminare. Grazie a tutti per i nuovi commenti…
Prima di proseguire, una piccola segnalazione di servizio fuori argomento (off topic, come si dice). C’è qualcosa che non sta funzionando adeguatamente nel sistema antispam di kataweb. Commenti normali (alcuni dei quali ho recuperato e inserito nell’ambito della discussione) sono finiti nell’antispam… altri (tra i quali uno mio) sono spariti nel nulla. Invece alcuni commenti/spam (quelli che vengono mandati in automatico dai programmi) sono riusciti a superare la barriera e a essere pubblicati (ovviamente li ho cancellati). Abbiate pazienza. Se vedete commenti con nomi strani (geroglifici), o qualcosa del genere non cliccate sui link… provvederò quanto prima a cancellarli.
Scusate la segnalazione, ma era necessaria.
Ciò premesso… ringrazio, per i commenti pervenuti: Maria Lucia (anch’io ho trovato interessante il commento di Claudio Morandini), Lorella, Step 1 (grazie per l’articolo), Vincenzo, Maril (grazie per l’intervento e le domande, cara Maril… il mio pensiero è vicino a quello di Vincenzo)…
@ Daniela Carmosino
Le tue conclusioni sono interessanti e – come vedi – fanno ulteriormente discutere… 🙂
Però una cosa ci tengo a sottolinearla: nostante le differenze di vedute (e i toni accesi) la discussione si è sviluppata nell’ambito di confronto sano e rispettoso. Di questo devo, ancora una volta, ringraziarvi tutti…
E comunque, Daniela, magari anche da questi scambi avrai modo di trovare spunti per impostare nuovi lavori.
Un saluto e un ringraziamento anche a Giuseppe Zucco, Salvo Zappulla, Giorgia Lepore…
@ Maria Attanasio
Cara Maria, grazie di cuore per aver trovato il tempo di rispondere alle mie domande.
Questo blog senza il contributo di chi interviene (rispettandone lo spirito) non avrebbe ragion d’essere…
E grazie anche a Carmine Vitale…
Perdonate la frettolosità e la laconicità dei miei commenti. Domani, se posso, cercherò di essere più analitico, riprendendo alcuni dei vostri interventi.
Scusate, passo un attimo da queste parti:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/09/28/letteratitudine-chiama-scuola/
Per oggi, chiudo qui.
A tutti voi, una serena notte.
un complimento e una provocazione.
il complimento.
grazie davvero, massimo, per quello che fai con il blog e per questo post in particolare. leggendo i vari post dei partecipanti ho ricevuto diversi stimoli che mi hanno portato e mi stando portando a riflettere. l’avvicendarsi dei punti di vista nell’ambito di un sano confronto, uso le tue parole, è di certo utile e produttivo.
la provocazione.
credo che leggere un post così sia più utile e interessante della lettura di tanta inutile robaccia che viene pubblicata in cartaceo anche da editori importanti.
questo è il mio parere da lettrice. non me ne vogliano i signori editori.
però è anche vero che vengono pubblicati tanti bellissimi libri ed io sono un’acquirente accanita. quando i librai mi vedono arrivare si sfregano le mani.
(mi sono salvata per il rotto della cuffia)
🙂
Buongiorno a tutti, sono quello Mavie Parisi identificava con il gestore di Tertulia, in realtà ero uno dei curatori dell’incontro catanese e dei partecipanti all’animato dibattito. Sono ritornato sul blog solo stamattina e vedo che ci sono tanti contributi interessanti e tanti amici che saluto. Cerco quindi di riportare anche qui i temi dei miei interventi di venerdì sera. Devo dire subito che ho provato disagio per la conduzione che Massimo ha dato alla serata. Ovvero: Katia Pastura (ottima libraia ed editrice) ha avviato l’incontro parlando di alcune esperienze degli anni 90′ alle quali fa riferimento il libro di Daniela Carmosino -Sud Creativo, il convegno a Galassia Gutemberg etc – e ha poi riportato il discorso “in loco” leggendo qualche pagina di Emiliano Monreale sulla Catania del ’99, una Catania attiva e creativa in stridente contrasto con la città disastrata di oggi. Davanti a questa forte sollecitazione mi sarei aspettato una risposta a tema e a tono su come la scrittura a Catania riesca o meno oggi, sia riuscita o meno negli anni 90′, a raccontare la nostra esperienza in città. Invece come se nulla fosse Massimo ha portato il discorso sui temi in discussione in questo blog. Sul rapporto con la tradizione, sul regionalismo etc etc e lo ha fatto in tono accademico e invitando alcuni dei presenti aduna serie di interventi chiaramente preordinati, come in un copione già scritto. Questa conduzione del dibattito mi è sembrata l’ennesima, sorda, censura a un “discorso sulle cose” ora più che mai necessario e utile in una città che ha oggi pochissimi spazi di dibattito e di riflessione pubblica su se stessa e quindi di democrazia.
Quanto ai temi della serata, credo profondamente nella possibilità che ha la scrittura di farsi strumento conoscitivo, testimone e interprete. Ma in senso profondo, non certo di mera denuncia sociale (se poi ci sono pure reportage ben fatti ben vengano). Ed è nella ricerca necessaria e umanissima di questo senso profondo che nasce il rapporto con la grande tradizione letteraria. Una tradizione che ci viene tramandata da Omero a oggi e che ci può mettere in rapporto vivo e quasi “telepatico” con il pensiero degli autori del passato. Peter Brook diceva che Shakespeare è come un pezzo di carbone: è sempre utile. Ma perché serva davvero bisogna che qualcuno si sporchi le mani e provi ad accender un fuoco. Capisco e condivido il discorso di Maria Attanasio sullo sfondo comune, ma poi ognuno scavando trova il suo carbone. Per me ad esempio, che scrivo poesie in siciliano, è stato fondamentale conoscere Franco Scaldati, ma altrettanto posso dire per la lettura di Beckett. E perché non dovrei “usare” Beckett per leggere la Sicilia di oggi? Alla fine conta solo quello che scriviamo. La grande tradizione letteraria è piena di esempi straordinari e diversissimi tra loro, usiamoli al meglio e non facciamo discussioni da salotto sull’utilità della metafora. Passo e per ora chiudo. Scusate se mi sono dilungato, mi riservo di dare una risposta anche a Montesano sulla questione degli operatori culturali. Biagio Guerrera
Buongiorno a tutti,
mi inserisco nel dibattito in ritardo e senza essere stata interpellata, ma mi si perdoni: non ho potuto resistere.
Ho faticato assai nel ricucire il senso di tutti gli interventi e a star dentro al fiume in piena, ma davvero non so resistere a certe tentazioni.
La discussione mi fa gola, m’impensierisce, mi frastorna.
Mi riservo quindi di leggere il saggio dalla Carmosino, ovviamente, ma per intanto mi piacerebbe che il tutto si spostasse un tantinello più verso le motivazioni. Intendo cioè: non solo tradizione sì o tradizione no, rottura o organicità, fine sociale o progetto organizzativo individuale, relazioni o silenzio. Che pure son questioni grosse, lo so.
Ma anche verso un’ analisi comparata e attualizzata. l’hic et nunc. cosa raccontano oggi gli scrittori del sud, ci sono punti di contatto? da dove nasce questa esigenza narrativa? io, per dirne una, come diavolo ho cominciato a scrivere? Nell’intervista a Filippo La porta su Fahreneit si discuteva anche di scrittura del sud come letteratura del fallimento. Nel mio piccolissimo ho tentato di riflettere sul punto. siamo i nuovi perdenti? forse sì. E che tipo di perdenti siamo? forse di quelli che hanno fatto della sconfitta un valore. Anche letterario. che ne dite?
un saluto
elisabetta
@ Biagio Guerrera. Io ero presente alla presentazione del libro della Carmosino, da Tertulia. E mi sorprende invece che proprio tu ti sia trovato a disagio. Tu che ti qualifichi come uno dei curatori dell’incontro e quindi, in qualche modo, facevi da padrone di casa. Ti assicuro che il disagio lo abbiamo provato tutte le persone presenti, per la scena sgradevole cui abbiamo dovuto assistere. Mentre tu te la ridevi sornione, compiaciuto di quanto stava avvenendo. I toni di Massimo saranno stati anche accademici, come dici tu, ma sempre all’insegna del sano dibattito e soprattutto della buona educazione. Mentre quel tuo amico, che tanto pomposamente hai presentato, ha esordito dicendo che l’unica scrittrice in sala era la ragazza del bar, offendendola, in quanto additata ad esempio, come fosse l’ultima ruota del carro. Ha proseguito tenendo gli occhi bassi e sputacchiando sul microfono. Ho pensato fosse dovuto alla timidezza, salvo poi sentirgli confessare candidamente e pubblicamente che lo faceva per guardare le coscie alle signore che gli stavano di fronte. Cosa c’entra tutto questo con una serata organizzata per parlare di letteratura? Puà capitare, può capitare di tutto in un contesto ampio: che si intrufoli gente che voglia fare provocazione, o semplicemente annebbiata dai fumi dell’alcol, o ancora che abbia turbe di natura sessuale. A me sta bene la polemica, anche accesa se necessario ma che si scada nella volgarità gratuita e si manchi di rispetto alle persone mi fa girare le scatole. A casa mia non avrei permesso a nessuno di mancare di rispetto ai miei ospiti.
Le domande di Elisabetta Liguori mi sembrano molto interessanti. Spero che il padrone di casa le rilanci.
Mi piacciono in particolare queste due. cosa raccontano oggi gli scrittori del sud, ci sono punti di contatto? da dove nasce questa esigenza narrativa?
Sulla prima, la mia sensazione è che forse non ci sono molti punti di contatto se non un’appartenenza al territorio.
Cari tutti, provo a rispondere in breve alle domande che gentilmente Massimo mi ha proposto.
1. Un rapporto intimo. Credo che ogni autore, di narrativa, cinematografica, o di qualsiasi altra tipo di attività creativa, debba la propria voce a chi è venuto prima. Non credo si possa sfuggire, quando si scrive, alle risonanze che hanno dentro di noi le parole di chi abbiamo letto. Come i bambini abbiamo bisogno di apprendere per poter crescere. Ma concordo con Alajmo quando dice che i nani ad un certo punto debbano scalciare. Che i bambini ad un certo punto debbano appropriarsi della propria personalità. Altrimenti si finisce per soffocare o nascondere la propria voce in quella di un altro. E’ quasi un rapporto erotico: dare e lasciare. Se la presenza dell’altro è troppo ingombrante allora si rischia di annullarsi. Se è troppo fievole, si è sciatti e abbandonati a se stessi. Continuo a credere, però, che bisogna prima molto assorbire, per poter dare molto.
2.
Nessuna delle due. E’ letteratura, punto. E’ tradizione come qualunque altra. Certo, la storia della terra a cui si appartiene tocca in maniera particolare e poichè la si conosce meglio e si debba conoscerla meglio, ha una presenza più massiccia e asfissiante di un’altra. Ma credo che, proprio per questo, tutto dipenda da come la si guarda e lo sguardo, per chi scrive, deve essere aperto. Spaziare, respirare oltre. Porsi nei confronti della tradizione (quella meridionale o qualunque altra) già con l’ottica che si tratti di un’ottica particolare, è un fallimento. Si rischia di cadere in un provincialismo inutile che mi pare sia una tendenza pericolosa che riguarda tutta la nostra Nazione. Come dice Flannery O’Connor, il racconto della propria terra deve divenatare il racconto delle terre di tutti. Altrimenti a cosa serve scrivere?
3.
Vogliono farci credere che sia corretto, ma non lo è. Lo è nel momento in cui si risporta un particolarismo che, attraverso la storia narrata, diventa universale. Anche quando si usa un certo tipo di linguaggio o di storia in maniera consapevolmente circoscritta alla propria regione, quel linguaggio e quella storia non deve rimanere, come accade spesso, solo un vezzo autoreferenziali e compiaciuto. Deve servire al racconto per raccontare i vari livelli di significato che una storia vuole comunicare. Questi ‘elementi distintivi’ non devono essere un fine, ma un mezzo.
4.
Un narratore bravo racconta ovunque. Ma la bravura, oltre al mestiere di scrivere, dipende, e insisto, dal tipo di sguardo che ha. Se è uno sguardo allenato all’apertura, se è ricco di esperienza, se accoglie e assorbe il mondo in un certo modo, puo’ riportare il mondo anche da una casetta piccolina in canadà. Ma se lo sguardo è piccolo sarà piccolo anche il racconto, pure se si trova a New York. I discorsi sui regionalismi rischiano di accorciare lo sguardo, secondo me.
5.
Concordo in pieno, anzi di più, con Antonio Pascale. Se la narrativa si pone l’obiettivo di cambiare il mondo, ha già fallito. Perchè si pone un altro fine rispetto a quello che è chiamato a fare. E cioè scrivere bene. Scrivere bene evitando,come dice Montesano, i divismi e, aggiungerei io, il compiacimento del proprio fare. Il narratore, se scrive bene, fornirà degli strumenti, delle scappatoie, delle luminescenze, dei punti di vista alternativi che possano allargare la vista di chi legge. Semmai il narratore è tenuto a seminare, a coltivare sguardi, pareri. Il lavoro dell’intellettuale è un’altra cosa. E un’altra cosa ancora quello dello scrittore-intellettuale.
Un caro saluto a tutti e grazie a Massimo, che è un perfetto padrone di casa.
Rispondo a Maril e spero anche a qualche altro letteratitudiniano, sono io che ho citato De Roberto, Tomasi di Lampedusa e Levi, la mia non era una classifica di merito, ma solo temporale, anche se personalmente preferisco Levi. De Roberto è solo un amore letterario, non ho visto il film di Faenza, ma ribadisco che è il romanzo più rigoroso e storicamente più plausibile sull’argomento mafia, tanto da farne un romanzo extraterritoriale, cioè fuori dalla narrativa prettamente siciliana e verista a differenza degli scritti di Verga, che peraltro non digerisco, ma che hanno avuto più successo editoriale perchè secondo me più provinciali ed easy listening rispetto ai Vicerè che richiedono una partecipazione e dei ragionamenti più complessi per apprezzarlo. Per quanto riguarda Il Gattopardo ho prima visto il film, da ragazzo eppoi letto il libro in età adulta. Comparando le due cose ritengo che lo spirito del libro e quello del film pur siano completamente diversi, perchè estrememente diversi sono Visconti e Tomasi di Lampedusa, il primo intellettuale del nord colto e raffinato cultore della bellezza trasgressiva e dei tormenti dell’anima in riferimento alla bellezza stessa percorso nel quale il Gattopardo rappresenta il primo passo ( per età non ho visto Senso) e Ludwig il tremine imposta il suo ragionamento come se Il Gattopardo fosse un romanzo di Cappa e Spada un Excalibur ante litterma, dove il bellissimo Delon circuisce la bellissima (meravigliosa) Claudia Cardinale, sotto lo sguardo distaccato del maestoso Principe di Salina- Lancaster che purchè tutto rimanga immobile nel suo mondo lascia fare. Una domanda mi sorge spontanea il film di Visconti sarebbe stato ugualmente bellissimo se al posto dei tre personaggi suddetti ci fossero stati altri più ordinari? Il romanzo di Tomasi invece è più partecipato e più decadente, slegato dal suo autore, che pure ne è il nocciolo per storia personale e vede la cosa dal lato del disfacimento di una cultura di retroguardia e priva di ogni spirito costruttivo di cui il Sud è tuttora figlio e della quale la Spagna per liberarsene ha dovuto subire 40 anni di Francisco Franco. Di Levi ho letto solo il libro e per giunta in preparazione all’esame di maturità, la prima volta, quindi la mia impressione è solo letteraria e devo dire che la crudezza del libro è tuttora attuale e potrebbe ancora svegliare le coscienze dei meridonali se solo fosse fatto conoscere a scuola. Il solito raffronto di Verga e De Roberto penso si possa proporre per Sciascia e Saviano, il primo sollecita a riflettere, il secondo colpisce allo stomaco, come Carlo Levi il più grande meridionalista di tutti.
Saluti e scusate il peana.
In fatto di dualismi di scrittori del meridione sia per temi che per appartenenza al territorio ne propongo altri:
Levi- Silone, Pirandello- Brancati; Alvaro- Rea, Vittorini-Bufalino
@ Salvo Zappulla
se guardi la locandina allegata anche in questo blog vedrai che ci sono diverse sigle coinvolte nell’organizzazione, inclusa letteratitudine. Come ho detto brevemente da “padrone di casa” quando ho salutato e presentato i relatori prima di cedere il microfono, l’ideatore e il regista di questo incontro che tertulia ha volentieri ospitato e contribuito a promuovere (in questo sono tra i curatori) è stato Mario Forgione. Non ho condotto il dibattito, ho solo partecipato. Ottavio Cappellani non l’ho presentato, né pomposamente né in altro modo. Ha chiesto la parola e si è presentato da solo. Lui è fatto così, è un provocatore… a volte lo condivido altre no. Questa volta il disagio con lui era comune. Poi i suoi modi non sono i miei ma non mi scandalizzerei più di tanto… era un dibattito pubblico tra adulti e ognuno è responsabile di quello che dice e può formarsi autonomamente i propri giudizi. Quanto a Massimo, oggi mi ha telefonato. Evidentemente la pensiamo diversamente su molte cose e non ci siamo intesi su altre. Niente di tragico né di personale. Su questo tema la chiudo qui. Sempre disponibile invece a discutere nel merito dei temi che ho proposto.
Errata corrige: A proposito di Tomasi di lampedusa e Visconti; il T.d.L. era un nobile coltissimo e crepuscolare, come il romanzo, ma spietato censore di quello spirito molto “ennuì” che pervadeva la classe dirigente meridionale. Parafrasando Califano il Titolo avrebbe potuto essere “Il Gattopardo ovvero Tutto il resto è noia.”
Io ero da Tertulia solo per comprare un libro. Ma mi sono fermato ad ascoltare. Ho tempo libero. Più di ottant’anni e una buona pensione alle spalle. E poi sono solo. Avevo quindi un bel pomeriggio davanti.
Ho molto gradito l’introduzione della signora Pastura. E ho anche gradito l’approccio del signor Maugeri. Sono un vecchio sognatore, con molti anni trascorsi tra i ragazzi. A scuola. Credo nel passato anche con un velo, a volte, di malinconia. Questo però non mi impedisce di cogliere gli elementi di novità. Ripeto. Per anni ho vissuto con i miei ragazzi. Conosco le nuove generazioni. Per esempio l’approccio del signor Maugeri è attualissimo, non accademico. Ha usato uno strumento duttile, giovanissimo, rischioso come il blog. Lo ha riproposto con garbo all’interno di una presentazioe ufficiale, rompendo già per questo con l’impostazione dottrinaria. Gli interventi, poi, non erano in contrasto con la visione della letteratura né come aggancio a ossessioni (come mi pare sia stato detto da uno psicologo) o a lutti, né a ulteriori percorsi personali (come leggo qui su nell’interessante commento del sig. Guerrera).
Credo in sintesi, da vecchio signore in pensione, che ha per fortuna, e nonostante gli acciacchi, il tempo di concedersi un pomeriggio per soffermarsi in libreria, che l’occasione era di scambio. E che il libro della signora Carmosino, che ho poi acquistato e letto con piacere, si prestava proprio a questo: a un confronto. Quindi ogni opinione andava accolta o contrastata con buona educazione. Niente di più.
Invece, e lo dico sempre da nostalgico delle buone maniere, l’aggressione a cui ho assistito era senza motivo.Il signore in questione poteva esprimere la sua opinione come tutti, ma senza offendere e senza creare disagio.
Tra le fila del pubblico nessuno è rimasto entusiasta del suo contegno. Dissentire, dialogare, cambiare parere o non cambiarlo. Certo.
Così come presentare libri, bene, male, con approccio accademico o meno. Certo.
Ma tutto, e sempre, con dignità e profondo rispetto per l’altro.
Ripeto: scusate lo sfogo di un vecchissimo nostalgico forse troppo avanti negli anni.
Guardare il mondo. Da una casetta, da una montagna, dal dentro o dal fuori? L’importante è guardare. Ma guardare come? Da quale punto di vista? Quale prospettiva? E il Sud? Quale Sud? Ogni luogo è sempre un po’ più a sud di un altro. Guardare il Sud dal Sud? Dal Nord? E con quali occhi? Con quale pensiero? Mente vergine? Travolta dagli eventi? Impelagata nel caos, nel flusso magamatico di situazioni spesso impossibili da riportare sulla carta?
Da Tertulia mi sono ritrovata a raccontare la mia esperienza di scrittrice del Sud che da quindici anni vive a Roma. Ho affermato che, abitando altrove ma tornando a casa ogni due/tre mesi, mi capita di percepire come macroscopiche certe situazioni che, per chi vive laggiù, sono assolutamente normali. Una “normalità” prodotta dall’abitudine, da quell’essere calati in un ambiente che giorno per giorno li plasma e un po’ li narcotizza. Portavo l’esempio più che banale della “puzza di industrie” (sono originaria di Melilli, che insieme a Priolo e ad Augusta ospita uno dei più grossi poli petrolchimici d’Europa): una puzza alla quale ci si è assuefatti, non la si avverte quasi più, un fetore che porta con sé microparticelle mortali, per cui a Priolo, Augusta e Melilli c’è un’altissima mortalità per cancro (soprattutto alle vie respiratorie), un’altissima percentuale di aborti, di bambini nati con gravi malformazioni. Tutto questo è frutto di quel benessere che il progresso ha portato nel mio paese negli anni Cinquanta.
Che c’entra questo con gli scrittori del Sud? Che c’entra col Sud? C’entra perché è in quella porzione di Sud che esiste quella particolare realtà. Che vuol dire che si può scrivere ovunque parlando di qualunque cosa? Chi lo sa che significa svegliarsi con gli occhi che bruciano e accorgersi che il cielo è stranamente giallo? O troppo scuro? Troppa densa l’aria? Scusate, ma di che cosa vogliamo parlare? Nel saggio della Carmosino c’è un invito a riconoscere la tradizione, il rifarsi – come bravi artigiani – a un sapere che viene trasmesso da altri, e nello stesso tempo una sollecitazione a liberarsi dagli stereotipi e a tentare nuovi temi, nuovi linguaggi. Vogliamo parlare di violazioni ambientali? Di termovalorizzatori? Rigassificatori? Resteremmo nell’ambito del particolare, dell’ombelico di chi si racconta in mezzo alla puzza di industrie? Vogliamo parlare di mafia che gestisce i rifiuti tossici (ma quanto redditizi!)? Ma no, mafia è argomento vecchio, fuori moda, rischiamo di fare la figura del Sud piagnone che si rigira nella stessa brodetta. Vogliamo parlare di piaghe sociali? Di immigrazione? Di un Sud frontiera di sbarchi per altre vite? E da quale prospettiva? Quando ho affermato che guardando dall’esterno la mia Melilli, (la “mia” Siracusa, o Augusta, o Priolo) mi sembra di cogliere un frammento più ampio di realtà, non volevo assolutamente affermare che godo della migliore – e unica – prospettiva possibile per raccontare con cognizione di causa. Ma quando mai! So bene, Mavie, che vuol dire essere dentro la realtà e raccontarla a caldo, assecondando il flusso dell’emozione. Ho solo fatto una constatazione: da fuori ho un’immagine più chiara, più lucida, meno emotivamente coinvolta di quello che c’è lì. Che non vuol dire freddezza, no, perché i “problemi” di quella terra sono i problemi della MIA terra, mi riguardano, mi indignano profondamente… Bene. Ma stiamo sempre a parlare di problemi. Eccoli ‘sti sudisti che si lamentano di tutto. Quando la smetteranno? E allora? Che raccontiamo? Del cimitero dei cani a villa Piccolo? Di Tomasi di Lampedusa che scriveva il Gattopardo al caffè Mazzara di Palermo e intanto mangiava spongati (gelati) di cui era ghiotto? Di Ciccina Circé che traghetta di notte ?Ndrja Cambrìa e per tenere lontani i cadaveri degli affogati chiama a raccolta le fere (i delfini) col din din dei campanelli legati alle sue trecce? Ma no, così facciamo letteratura, ci caliamo nella più trita tradizione. Allora raccontiamo delle tedesche che scendono in estate per abbronzarsi e amoreggiare sulla spiaggia di Eloro, là dove sbarcarono quei ragazzi, i primi greci, che vennero a colonizzare la Sicilia, e avevano dalla loro solo un pugno di coraggio e un entusiasmo pari solo alla sconsideratezza? Parliamo di Taormina? Di Zora sbarcata a Lampedusa che adesso racconta a mia sorella (che vive a Melilli) la storia di suo padre che sposò una moglie bambina (undici anni) perché, vedendola, disse alla madre: “La voglio!” e la bambina scappò via perché non voleva dormire nello stesso letto dell’uomo che la tormentava?
Storie e storie, un’infinità di storie. Che appartengono al Sud come al Nord, ma che hanno una precisa valenza a seconda di chi le racconta, dell’anima di chi le racconta, che è anche, un po’, l’anima della terra alla quale appartiene, e che è la sua, è quella, sia che egli vi abiti, sia che la guardi da lontano e, come spesso accade in questi casi, con cuore innamorato (e scusate la retorica).
@biagio
ben ritrovato, biagio e grazie ancora per la tua generosa ospitalità e per le chiacchierate ‘fuori onda’ in cui mi hai illuminato sul rapporto tra politica e cultura a catania. Discorsi concreti, ‘di cose’ e non ‘di parole’ per recuperare interamente la citazione che tu stesso proponi. ora capisco il disagio che trapelava dal tuo intervento a tertulia che io stessa avevo frainteso, ricordi? anche a me intressa capire cos’è cambiato rispetto agli anni novanta, cosa e come la letteratura prova a raccontare ‘oggi’. A tertulia avevo anche tentato un abbozzo di panorama strettamente contemporaneo e i discorsi sulle pressioni e le scelte editoriali erano ‘concreti’, no? se però a un certo punto il discorso ha preso una rotta diversa credo sia profondamente ingiusto imputarlo a massimo. per una considerazione molto semplice, il cui valore va al di là dell’occasione su cui ora ci stiamo confrontando: noi eravamo lì, c’eravamo, anche tu c’eri. se non ci stava bene, bastava dichiararlo, con la stessa chiarezza, però, con cui l’hai espresso ora, in questa sede. la medesime obiezioni che sollevi ora così esplicitamente alla ‘conduzione’ di massimo (perchè, poi, io non mi sono sentita condotta, né, credo, caterina pastura, tutti eravamo conduttori di un discorso a più voci, e potevamo provare ad orientarlo), la medesima obiezioni, dicevo, avresti dovuto sollevarle in quella sede, rivolgendoti magari direttamente a lui. anch’io sono insofferente alle chiacchiere da salotto e concordo con la tua impazienza di affrontare temi ‘concreti’, a cui però, concedimelo, si può arrivare anche attraverso un discorso sulla metafora.
anch’io sono insofferente alle chiacchiere da salotto e concordo con la tua impazienza di affrontare temi ‘concreti’, a cui però, concedimelo, si può arrivare anche attraverso un discorso sulla metafora. Quando un tema comincia a scaldare gli animi -come è stato quello proposto da massimo, la tradizione- vuol dire che interessa la maggior parte dei presenti. Nessuno ha condotto il discorso sulla tradizione nella presentazione siracusana, eppure siamo andati avanti un’ora a discuterne e a discutere di temi nati all’interno della questione della tradizione. Ancora: alla presentazione del mio libro a roma, con diego de silva e antonio pascale, ecco che ritorna fuori il problema della tradizione, la gente si agita e lo stesso antonio dichiara il suo interesse per un argomento che meritrebbe più spazio. insomma, capisco e concordo con la tua urgenza di parlare di cose concrete e attuali, anche se mi ricorda troppo la necessità, rivendicata da molti, che la latteratura tratti di temi attuali, denunci insomma, prospettiva da cui tu per fortuna ti dichiari lontano. ma il metodo non è simile? tu obietti: questa conduzione del dibattito mi è sembrata l’ennesima, sorda, censura a un “discorso sulle cose” ora più che mai necessario e utile in una città che ha oggi pochissimi spazi di dibattito e di riflessione pubblica su se stessa e quindi di democrazia”. chiedere che il dibattito sulla narrativa del Sud e sul fare narrativa al Sud si traducesse in un momento di riflessione pubblica su catania non coincide con una prospettiva ‘anche’ questa potenziamente asfittica? e poi, chi ti dice che la discussione non avrebbe preso a anche in questo caso un andamento salottiero? Non esistono argomenti da salotto e argomenti ‘militanti’. ancora una volta decisivo è il modo con cui li si affronta. e in un incontro pubblico ognuno interviene secondo il proprio stile. e questo indipendentemente dalla conduzione…
un abbraccio, biagio. continuiamo a confontarci.
mi permetto di suggerire un bellissimo libro edito da Azimut, sullo stesso tema: “Napoli per le strade”
link: http://www.azimutlibri.com/dettagli/dettaglio_general.php?id=266#
un saluto a massimo e a tutti i letteratitudiani!
@Bravo Emilio. Ogni tanto c’è anche qualcuno che trova il coraggio di dire le cose che pensa. E le dice in maniera diretta, senza troppi sofismi.
Mi viene in mente Sciascia, quando affermava che nella vita ci sono uomini, uminicchi e quaquaraquà. Naturalmente, penso valesse anche per le donne.
@danielacarmosino
cara Daniela, ben ritrovata. Questo fervore mi ricorda i tempi del blog di sudcreativo (c’ero anch’io). Un mio post di oggi si è perso nei meandri del web, poco male, rispondo a te. Niente di personale con Massimo, solo abbiamo punti di vista assai diversi su molte cose e non ci siamo intesi su altre. Oggi ci siamo in buona sostanza chiariti, il resto verrà se verrà vis a vis davanti a un bicchiere di vino.
Quanto allo sfogo sul mio disagio è stato appunto uno sfogo, forse utile, almeno per me, se servirà a stimolare una discussione sulle questioni che pongo, del tutto inutile se indurrà a restare sul personale o ad innescare altre polemiche. Resto in ascolto
Gentile sig. Maugeri,
se permette la parola la prendiamo noi. I giovani. I più interessati, credo, alle “cose”, come dice il sig. Guerrera, di oggi. Parlo a nome dei miei colleghi. Siamo un gruppo (affiatato) di studenti di lettere moderne a Catania. Siamo arrivati da Tertulia attraverso questo blog che seguiamo da qualche mese.
Stupisce noi per primi che un’affermazione tanto logica come quella di guardare alla tradizione, alla metafora, al mito sia così assurdamente fraintesa.
Nessuno di noi, pur avendo 20 anni e molti sogni letterari “futuristi” e dirompenti nel cassetto, ha mai pensato di prescindere dal passato. Nè siciliano, nè italiano, nè straniero.
I giganti che ci stanno alle spalle sono amici. Pensiamo che abbiano vissuto e pianto come noi. E perciò li leggiamo.
Per imparare a vivere, ancor prima che a scrivere.
Ma è veramente triste vedere che chi dovrebbe dare l’esempio nell’arte a noi giovani leve non sappia dialogare. Eppure il sig. Maugeri aveva aperto spunti interessanti, domande che noi ci poniamo tutti i giorni (proprio perchè la tradizione vorremmo “romperla”, ma conoscendola). Non condividiamo l’opinione del sig. Guerrera.
L’approccio meno accademico, meno rigido, meno convenzionale è stato proprio quello del sig. Maugeri, con le sue buone maniere e con l’apertura agli altri. Con uno strumento a noi vicinissimo, quello della rete.
Abbiamo trovato deplorevole, invece, l’intervento di quel signore alto e robusto che ha decisamente rovinato il confronto, senza alcuna motivazione critica che non fosse la brutalità dell’aggressione e la volgarità.
Un esempio da non seguire. Un esempio, soprattutto, di cui noi giovani non abbiamo bisogno.
Volete parlare di Catania? Delle cose? Bene, signor Guarnera, perchè non cominciate a darci voi la speranza?
Basterebbe cominciare con poco. Per esempio saper dire la verità senza i paraventi dello schermo (come lei ha fatto qui e come non ha saputo fare in quella occasione).
O basterebbe avere il coraggio di affrontare il dialogo.
A noi è dispiaciuto che quel signore (di cui non ricordiamo il nome, perchè lo ha bisbigliato) oltre che aggressivo e volgare, sia anche stato pauroso, perchè ha girato i tacchi e non ha neanche avuto il coraggio di affrontare una discussione appassionata.
Ecco.
Comincia da qui la narrativa del sud, se permette. “Il discorso sulle cose”.
Dal vostro esempio.
——
Danila Micalizzi (Catania), Serena Lazzari (Scicli), Antonio Di Rosa (Adrano), Luigi Spampinato (Nicosia), Dora Mazzarino (Paternò).
Terzo anno di lettere moderne.
Edizione straordinaria!!! Pare sia intervenuto d’urgenza il Santo Padre: Massimo Maugeri affiancherà Sant’Agata quale santo patrono della città di Catania, gli sono stati riconosciuti con decorrenza immediata gli enormi sacrifici che fa per mantenere in vita questo blog, la signorilità, e l’umilta propria dei grandi uomini della Storia. Sfilerà nudo (completamente nudo) per le vie della città accanto all’altra martire, per la delizia dei suoi cittadini.
Danila, Serena, Antonio, Luigi, Dora: grazie delle vostre parole.
Spesso si dice che voi ragazzi siete demotivati, poco interessati ai classici e desiderosi solo di “spaccare”, privi di radici…
Grazie del vostro esempio. Continuate così, magari intervenite trasfondendo un po’ di sangue fresco – …tranquilli, non sono una vampira di Twilight e neanche della nostra Simonetta Simonoir – nei nostri dibattiti. Abbiamo bisogno delle vostre idee, del vostro entusiamo, del vostro occhio moderno sulla realtà.
P.S. Sono una prof… se vi va intervenite nello spazio che Massimo ha riservato qui alla scuola (Letteratitudine chiama scuola, rubrica che ho l’onore di moderare insieme a Maria Rita Pennisi).
Chi offende gli altri offende per primo se stesso e la capacità di lasciarsi stupire dal pensiero altrui.
Ma grazie a Dio non è il vostro caso.
Un caro saluto a Massimiliano Felli e a tutto lo staff di Azimut… molti miei carissimi amici hanno pubblicato nelle antologie curate da questa casa editrice.
Professor Emilio… regali a noi il suo garbo. In questo salotto sarà sempre apprezzato. Anche per lei vale il mio invito-messaggio di autopromozione…
🙂
Per quanto riguarda il “discorso sulle cose”.
Ma vi sembra davvero che un saggio o un romanzo attualissimi, di denuncia, militanti et coetera valgano più di una fiaba o di un mito?
Le fiabe e i miti non parlano di elettricità, non ospitano treni jet astronavi, Cappuccetto Rosso ed Edipo non chattano ma. Ma.
Parlano alla mente e allo spirito, alla nostra essenza profonda. De te fabula narratur.
La cosa essenziale è poetare narrare studiare con onestà, qualsiasi cosa si scriva.
Tea, bravissima.
Il tuo trasporto verso la Sicilia è sincero e autentico, lo so.
Chi ha letto “In una lingua che non so più dire” non può negarlo.
Dai voce ad altre storie, a nuovi personaggi che cercano proprio te.
🙂
Oggi mi veniva in mente Chopin. E per associazione un poeta polacco suo contemporaneo, che parlava della Polonia ottocentesca come di “Cristo delle nazioni”.
Forse il Sud è così carico di problemi e storie che uno scrittore del Sud porta una croce – di tradizioni e nodi irrisolti – più pesante.
@maria lucia
concordo, condivido e sottoscrivo 🙂
@terzo anno
ragazzi… fantastici. diretti e chiari, soprattutto. sembra che oltre i trent’anni si perda il dono della chiarezza, sarà perchè il cervello comincia a dare i primi segni di cedimento?
@biagio guerrera
dici: “se servirà a stimolare una discussione sulle questioni che pongo”
scusa ma io non ho capito quali sono.
sarà perchè forse non sono di catania? 😉
forse sarà perchè non sono di catania?
meglio. anche io ho passato i trenta.
Elisabetta Liguori: fallimento? Forse. Anche il seme sepolto sotto terra sembra fallito e sconfitto. Ma poi dà vita a un nuovo essere, dà cibo e gioia.
Fallimento di cosa e di chi? Della missione di cambiare il mondo?
La tua prospettiva è un tentativo di definizione, comunque interessante.
Maria carissima,
🙂
ricambio con piacere i saluti… ti aspettiamo a Siracusa a braccia aperte… magari per riparlare di poesia. O dei tuoi libri, così siciliani, così legati alla storia e al passato ma nello stesso tempo voce tua, personale.
Era Cechov a dire che basta raccontare bene del proprio villaggio e si diventerà universali?
Eccomi qui. Scusate il ritardo…
Pur essendo a conoscenza della piega presa dal dibattito, le mie figlie – stasera – hanno deciso che era giunta l’ora di imbastire l’albero di Natale.
A volte la tradizione ti condiziona la vita… eppure le mie figlie sono molto giovani 🙂
–
Procedo in ordine sparso…
Off topic: beate te Massimo che alle 22.43 sei così fresco da dichiarare “procedo in ordine sparso”! A me le figlie succhiano il midollo per tutto il giorno e a quest’ora, dopo aver letto quel che s’è detto oggi, me ne vado solo a dormi’.
errata corrige: beato
E infatti era proprio quello che intendevo, Maria Lucia. Che intendeva La Porta, che qui cito per adesione. Il fallimento del sud è fonte di energia, di immaginazione scansonata, mitica o tragica. è come un grande falò: la combustione, e poi la cenere, è lieve, dinamica, fertile.
Andarsene o non andarsene conta poco: la cenere ti resta adosso.
addosso, direi..
In riferimento al primo intervento di Biagio Guerrera (sono riuscito a recuperare anche l’altro, Biagio… quello perduto: lo trovi sopra).
–
Come ha detto Biagio, venuto a conoscenza del suo intervento, mi sono premurato a chiamargli per tentare di capirne meglio il senso. Ci siamo spiegati. Poi, come ha detto lui stesso, ognuno di noi ha le sue idee, il proprio modo di approcciarsi agli altri, il proprio stile. Ci mancherebbe.
Tuttavia – anche di questo ne ho parlato con Biagio – ci tengo a precisare alcuni punti che spiegano una sorta di fraintendimento originario:
1. Uno degli organizzatori dell’evento ha chiesto la mia disponibilità a introdurre Daniela Carmosino e il suo libro: io ho accettato con entusiasmo e sono felice di averlo fatto e di aver avuto la possibilità di conoscere Daniela (che, tra le altre cose, è una persona splendida).
2. Mi sono messo a disposizione con tutti gli strumenti che erano in mio possesso, compreso questo blog, organizzando un dibattito on line sul libro e sugli argomenti trattati… anche a supporto della presentazione in libreria: credo sia andata bene (di certo non solo grazie a Letteratitudine, ma anche e soprattutto agli sforzi di tutti gli organizzatori; in libreria c’era parecchia gente in piedi… Biagio mi parlava di un centinaio di persone). E l’ho fatto solo per mettermi a disposizione per come mi era stato chiesto di fare.
3. Mi è stato chiesto di invitare scrittori per coinvolgerli nella discussione: cosa che ho fatto (erano presenti anche scrittori provenienti da fuori… vedi Tea Ranno… che hanno raccolto il mio invito)
4. Mi è stato chiesto di moderare la discussione, ovvero di stimolare la discussione in libreria come faccio qui sul blog, portando anche i risultati della discussione on line: cosa che ho tentato di fare
5. Poco prima della presentazione, seduto a un tavolino con Daniela Carmosino e Katia Pastura (entrambe lo possono confermare) ho concordato le modalità dei miei interventi: e cioè, che avrei letto le domande poste sul blog e alcuni dei commenti pervenuti (per es. quello di Roberto Alajmo, Gaetano Cappelli, ecc.): cosa che ho fatto.
6. Chiunque nell’ambito della discussione ha, comunque, avuto modo di intervenire e dire la sua e a suo modo (e mi pare che si è visto!)
–
Ciò premesso… se avessi saputo (ma non lo sapevo: nessuno me l’ha detto) che il taglio che si intendeva dare alla discussione doveva essere incentrato sulla città di Catania:
a) avrei impostato (o proposto di impostare) le cose in maniera diversa
b) non avrei invitato a partecipare scrittori di altre città
c) non avrei messo di mezzo il dibattito su Letteratitudine, visto che è incentrato sul tema generale de “il sud della nuova narrativa italiana” (come del resto il libro di Daniela Carmosino)
–
In ogni caso, Biagio, mi dispiace che tu ti sia sentito a disagio. Io mi sforzo sempre di mettere a proprio agio chi mi sta accanto e di fronte.
Ma, come scritto in premessa, abbiamo avuto modo di sentirci e di chiarire.
Accetto di buon grado l’invito a bere un bicchiere di vino.
(Per me la “questione libreria” si chiude qui).
P.s. Ho chiesto a Caterina Pastura, compatibilmente ai suoi impegni, di mettere per iscritto il suo bellissimo intervento introduttivo: mi piacerebbe pubblicarlo qui.
–
Massimo Maugeri, l’accademico.
🙂
A chi mi prende affettuosamente in giro propongo questo nuovo nomignolo:l’accademico.
Potrebbe affiancarsi o addirittura scalzare quello di uomo con la camicia celeste.
😉
Ehilà, Livio… bentornato!
Ti auguro buonanotte! Ti capisco: le figlie sono impegnative. E infatti l’orario in cui riesco a intervenire è questo. L’orario in cui mi faccio succhiare il midollo da Letteratitudine :-))
solo un saluto e una felice notte all’accademico più gentile e autenticamente generoso nel “condurre” per mano i suoi ospiti nel salotto virtuale “più realisticamente letterario e meno virtuale” d’Italia.
🙂
@ Elisabetta Liguori
Elisabetta, cara: benvenuta a Letteratitudine!
(Ho avuto il piacere di conoscere di Elisabetta Liguori nell’ambito dell’evento Oronzo Macondo)
–
Hai fatto benissimo a intervenire, Elisabetta. Grazie mille.
In un precedente commento avevo invitato a intervenire tutti gli scrittori presenti nell’antologia curata da Filippo La Porta e pubblicata da Manni: “È finita la controra. La nuova narrativa in Puglia”.
Tra questi ci sei tu (anzi… invita a partecipare anche gli altri, se riesci a contattarli).
Concordo con te, Elisabetta…
Noi da migliaia di anni, in Sicilia, conviviamo con le ceneri dell’Etna, con le ceneri delle civiltà che si sono susseguite nella nostra isola. Ne siamo impastati, nel DNA. Aggiungiamoci le polveri sottili delle belle industrie di cui parlava la cara Tea (tra l’altro autrice di CENERE in cui parla di altri roghi non meno dolorosi), le ceneri di tanti sogni…
Ma io credo che il Sud sia una bellissima fenice. Se non ci crediamo noi, chi altro lo farà? Non è già un miracolo che qui si discuta, si comunichi fino a tarda notte evitando gli imbonimenti del tubo catodico e il vuoto pneumatico che a volte ci soffoca?
Grazie della tua suggestione.
@ Francesca Giulia
Wow! Buonanotte a te, cara :-))
Un saluto e un ringraziamento anche a Maria Lucia (con cui mi sono incrociato). Grazie, Mari…
Accademia della Camicia Celeste.
Direttore-Preside-Rettore (non Donatella), Massimo Maugeri.
🙂
[Procedo con l’ordine sparso… anche se mi fa male il midollo:-)) ]
–
@ Emilio
Gentilissimo professore, non vorrei sbagliarmi ma immagino che lei sia quel signore che mi ha fermato all’uscita dalla libreria e con cui ho parlato un paio di minuti. Se è lei, mi scriva pure in privato (le ho lasciato la mia mail, e io non ho modo di rintracciarla).
La ringrazio per il suo commento.
La verità, caro professore, è che – soprattutto di questi tempi – la buona educazione, il garbo, le buone maniere sono considerate dis-valori… o “indicatori di debolezza”.
Se credi nelle buone maniere, ti danno del “buonista”; se ti mostri garbato, ti danno dell’ipocrita… e via dicendo.
Purtroppo, chi per natura (o per scelta) è pacato, moderato, garbato… di fronte a chi esercita violenza verbale è, spesso, sconfitto… schiacciato. Un perdente.
Ma io sono convinto che c’è la possibilità di reagire a questa situazione.
Ed è quello che anch’io – nel mio piccolo – mi sforzo di fare qui a Letteratitudine… cercando di offrire lo spazio per un confronto rispettoso (anche in un contesto di contrapposizioni forti). Non sempre è facile. In questi tre anni e oltre di “attività on line” mi sono accorto che i tentativi di stumentalizzazione, le trappole, insidie di vario tipo… sono sempre dietro l’angolo.
Ma non importa.
Io credo nella buona educazione, nel garbo, nel rispetto dell’altro, nel confronto che non sconfina nell’offesa. E continuerò a crederci. E insieme a me ci credono tanti altri.
Anche questo è impegno civile.
Continui a crederci anche lei, professore. E continui a intervenire (se le va e se ha il tempo di farlo).
Ne vale la pena.
Nonostante tutto ne vale la pena.
@ Salvo Zappulla
Grazie per i tuoi interventi, Salvo. Ma se io dovrò fare il Patrono, a te toccherà fare Gesù Bambino nel presepe vivente più vicino a casa tua. 🙂
Agli studenti del terzo anno di lettere moderne.
Cari ragazzi, grazie per il vostro appassionato e sentito intervento. Continuate a intervenire, se vi va (anche singolarmente). Ma mi raccomando: studiate con buona lena. Non è che per seguire Letteratitudine accantonate i libri, vero? 🙂
Massimiliano Felli ha molto opportunamente proposto il volume “Napoli per le strade” (Azimut): http://www.azimutlibri.com/dettagli/dettaglio_general.php?id=266#
Alcuni degli autori presenti nella raccolta sono già intervenuti: per esempio, Maurizio de Giovanni e Rossella Milone. Prova a invitare gli altri a partecipare, se ti va.
Caro Massi,
buona notte a te e a tutti gli amici di letteratitudine.
Un bacio a Tea e un affettuosissimo saluto a Daniela Carmosino.
Bellissimo immaginare le manine delle tue bimbe sull’albero di Natale.
Allo stesso tocco delicato affido questa serata (è già domani) e i sogni del sud.
Sarebbe bellissimo se somigliassero più possibile a mani di bambino su una corteccia antichissima.
Ehilà, Simo… ma allora non sono l’unico nottambulo! :-))
Grazie… e buonanotte a te.
Riprendo, in ordine sparso, per ringraziare gli altri intervenuti (che non ho citato prima): Giorgia Lepore, Luca Nencioni, Vincenzo, Letizia…
@ Tea Ranno
Cara Tea, grazie per essere intervenuta con questo commento bello e corposo. A scanso di equivoci sottolineo questo tuo passaggio: “Quando ho affermato che guardando dall’esterno la mia Melilli, (la “mia” Siracusa, o Augusta, o Priolo) mi sembra di cogliere un frammento più ampio di realtà, non volevo assolutamente affermare che godo della migliore – e unica – prospettiva possibile per raccontare con cognizione di causa. Ma quando mai!”
@ Rossella Milone
Cara Rossella, grazie anche a te per aver accolto il mio invito a partecipare alla discussione. E grazie per le risposte che hai dato alle domande poste.
@ Daniela Carmosino
Carissima Daniela, grazie per questi tuoi nuovi interventi. Al di là delle polemiche (che pur ci stanno) credo che questo dibattito si stia sviluppando in maniera cospicua e interessante. Ormai ha raggiunto le dimensioni di un piccolo libro (prova a copincollare post e commenti in un file di word!).
Come mi disse tempo fa Simona – intervenuta qui sopra – Letteratitudine è un libro che si parla e si scrive da solo.
Proprio vero!
@ Livio Romano
Caro Livio, h. 1:17. Tu ronfi beato e io sono ancora qui, con quel poco di midollo che ormai mi rimane 🙂
E prima di andare a nanna ho ancora un bel po’ di roba da sbrigare…
Mi fermo qui.
Auguro una serena notte a tutti.
anch’io in ordine sparso, anzi, scarso.
@ Danila, Serena, Antonio, Luigi, Dora,
Terzo anno di lettere moderne.
Ho il sospetto che siate voi il più bell’esempio e il più sano e produttivo ‘progetto culturale’. Le idee ce le avete chiare, lottate per realizzarle e realizzarvi, se volete e potete, al sud. C’è bisogno di voi.
@ tea ranno,
ho apprezzato ancora una volta la lucidità innamorata con cui parli del sud. importante guardare, hai ragione, e guardare per vedere, per scoprire,per capire. l’assuefazione a certe condizioni aberranti o soltanto disagevoli è ancora peggio della fine di ogni speranza di risanarle. Le brutture vengono guardate senza esser viste. la letteratura può renderle macroscopiche, grottesche, iperboliche e, come in una caricatura si nota meglio il difetto che sfuggirebbe nel ritratto realistico, così nel grottesco si riesce a far vedere non tanto i ‘mali del sud’ ma le logiche di comportamento cui si è abituati, quelle che consideriamo ‘normali’ e che solo portate alle loro estreme conseguenze rivelano quanto siano ‘difettose’.
Ci stai a dire che la letteratura può (non deve) essere anche (no solo) un guardare per far vedere?
@ simona lo jacono,
spero ci siano altre occasioni per rivederci, magari a siracusa, da biblos con la tenace luisa. grazie per aver ricordato il concetto di responsabilità della parola, sintetizzando in un termine ‘civile’ che però non prescrive tanti discorsi sul ruolo dell’intellettuale, dello scrittore-intellettuale ma anche sulla necessaria ‘competenza’ della pratica della scrittura.
@ rossella milone
(ciao) che ho avuto il piacere di avere ospite in un ciclo di incontri organizzati a campobasso. Concordo e sottoscrivo le tue parole che vale la pena di ricordare: “Scrivere bene evitando, come dice Montesano, i divismi e, aggiungerei io, il compiacimento del proprio fare. Il narratore, se scrive bene, fornirà degli strumenti, delle scappatoie, delle luminescenze, dei punti di vista alternativi che possano allargare la vista di chi legge. Semmai il narratore è tenuto a seminare, a coltivare sguardi, pareri. Il lavoro dell’intellettuale è un’altra cosa. E un’altra cosa ancora quello dello scrittore-intellettuale.” mi sarebbe piaciuto fossi stata presente a Catania, dove ho ‘osato’ definire (da editor più che da critico) la pratica della scrittura una ‘pratica artigianale’, con tutto quel che ne consegue in esercizio, formazione etc. A presto.
per ora mi fermo, ma con un sospetto
@ elisabetta liguori
continua a non convincermi fino in fondo l’idea di letteratura del sud come metafora della marginalità (la porta qui citato da claudio morandini) del fallimento (la porta qui citato da elisabett liguori) pure intendendo una rinascita -l’araba fenice, suggerisce e chiarisce meglio maria luisa- che parte dal fallimento e del fallimento si porta addosso ancora un po’ di cenere. magari ne riparleremo, qui e alla fiera romana di piùlibripiùliberi…
Intervengo da buon ultimo! L’aver seguito diligentemente (credo) il dibattito mi ha fatto nascere la voglia di proporre brevemente qualche riflessione. La prima deriva da un’osservazione di fondo: pur occupandomi di letteratura per motivi professionali (e, ancora, per passione) non avrei immaginato di poter assistere ad un dibattito come quello nato attorno al libro di Daniela Carmosino, anche se è un libro di alta qualità! La sfiducia era verso la capacità della letteratura di attrarre ancora e stimolare discussioni, pensieri, interessi, amori, insomma di stimolare reazioni in un paese che sembra spesso irrimediabilmente addormentato dinanzi alla paccottiglia di basso mercato e massmediatica. Il fatto che un numero così alto di persone intervengano a discutere di temi che certo vanno al di là della letteratura ma che la letteratura, il romanzo evoca, suggerisce, mi sembra un elemento più che consolante, direi entusiasmante, se non temessi, appunto, i facili entusiasmi, oggi più che mai. Ma è certo che fin che si discute -e si legge, e si pensa- riusciremo a mantenere un briciolo di coscienza dei tempi e della storia.
L’altra riflessione è più in merito a quello che si è detto: tante cose, importanti e interessanti. Il libro di Dianela Carmosino, oltre ad altre qualità (capacità di analisi, competenza, rigore) ha il merito di aver colto lo spirito dei tempi, anche per quanto riguarda esplicitamente il sud. Proviamo a pensare a tutto ciò che nel libro è raccontato e descritto, i testi, i personaggi, i linguaggi in campo, come qualcosa che non riguarda solo il sud d’Italia (anche se da lì nasce) ma riguarda il sud del mondo, le modalità e le specificità che questa nozione -dalle riflessioni più complesse ed attuali che su questo tema ci sono state offerte- presenta, in una fase storica in cui le vicende della civiltà occidentale sembrano sempre più arroccarsi in attesa di ciò che dal Sud può venire. Non tanto il “pensiero meridiano” di Cassano, quando una parte di mondo che, a contatto con i vari modelli dello sviluppo del Nord, produce “differenza”: da non intendersi come marginalità e sconfitta, ma come alternativa, variazione, pluralità, disomogeneità. Ecco, credo che i modelli letterari di cui ci ha parlato Daniela Carmosino -pur diversi tra loro ed irriducibili ad ogni pretesa unitarietà- finiscano per parlarci comunque in un modo diverso del mondo e della vita, ed anche della tradizione. Forse non è un caso che i testimoni più alti di un mondo in trasformazione siano da ricercare tra scrittori del Sud, da Verga a Pirandello, da Alvaro a Consolo, autentici inventori di nuovi linguaggi narrativi. La tradizione credo, non ci dice di seguire necessariamente quei modelli, ma di continuare a rispondere alle domande che quei modelli si ponevano e a cui rispondevano. E’ l’uso migliore che possiamo fare della tradizione e forse della nozione di Sud. Grazie comunque a tutti per l’occasione di discussione e a Daniela per il suo lavoro. Giorgio
Bellissimo questo dibattito, identificabile con un progetto culturale. In questo contesto vorrei segnalare un altro progetto molto simile se si utilizza questa chiave di lettura, il romanzo che ho di recente pubblicato dal titolo “La zia di Lampedusa”, edito da Morrone. Anche attorno a questo evento si è sviluppato un ampio dibattito, in altri siti, che mi ha piacevolmente sorpreso per la partecipazione appassionata che lo sta accompagnando. Elvira S.
Ciao Elvira… sono una collega del Quintiliano.
Tutto bene con il tuo libro?
@Daniela Carmosino:
Sì, la letteratura può essere anche un “guardare” per “far vedere”. Soprattutto quando non è autoreferenziale. Far vedere quello che sarebbe meglio occultare, far sentire quello che sarebbe meglio tacere, infilare la penna dentro piccole pozze all’apparenza limpide e pescare l’improbabile mostrando così solo una (qualcuna) delle molteplici facce della realtà. Perché lo sguardo di chi scrive – è una opinione assolutamente personale – è sempre falsato dalla soggettività; lo scrittore non è un cronista: guarda, ascolta, metabolizza, elabora e infine restituisce l’evento in una forma narrativa che, per quanto coerente e rispettosa dei fatti, è pur sempre il frutto di una rivisitazione “fantasiosa” di essi. Fantasiosa non (non solo) nel senso di restituzione fantastica, bizzarra, stravagante o imprevedibile dell’evento (ché anche questo è la letteratura), quanto, piuttosto, di una trasfigurazione dello stesso per il semplice fatto d’aver covato nell’intimo dello scrittore, là dove egli conserva tutto ciò che ha contribuito a formarne l’identità: i libri letti, le esperienze vissute, le disillusioni ma anche l’innocenza, quel voler credere che attraverso la condivisione della parola scritta qualcosa possa ancora cambiare. E cambiare in meglio.
@ Simona:
Coerente, puntuale e perfettamente argomentato il tuo intervento da Tertulia, Simona, frutto della tua lunga frequentazione con la letteratura, ma anche con il Diritto, che della letteratura è la controfaccia.
@Maria Lucia:
il mio trasporto verso la Sicilia è autentico perché non ho smesso mai di essere siciliana: mantengo l’accento, la costruzione delle frasi col verbo alla fine, cucino siciliano e quando devo coccolare una delle mie figlie non posso fare a meno di chiamarla çiatu miu. E non è campanilismo, no, solo un sentirsi parte di una terra, della sua essenza, della sua struttura. Che poi Roma mi abbia accolto con la generosità e il calore di cui i romani sono capaci è un’altra storia. Che fa parte dell’altra metà di me, quella che può raccontare, per esempio, piazza di Spagna con gli occhi (sempre gli occhi, lo sguardo) della straniero che si sia ancorato a un luogo d’eccezione e gode nel considerarlo un poco anche suo.
@Massimo:
ti sono grata, Massimo, per avermi dato l’opportunità di essere presente da Tertulia e poter parlare del Sud con l’esperienza di chi vive altrove, ma non per questo smette di appartenervi.
Ecco, è proprio sul concetto di appartenenza che ci si dovrebbe interrogare e sulla universalità del sentire che, questo sì, non conosce confini geografici.
Mia cara Tea, ancora grazie a te.
E continua a scrivere come sai…
Un saluto di benvenuto a Elvira S. (in bocca al lupo per il tuo libro).
@ Giorgio
Un caldo benvenuto anche a te! E grazie per il tuo intervento corposo e interessante.
Come hai scritto: “è certo che fin che si discute -e si legge, e si pensa- riusciremo a mantenere un briciolo di coscienza dei tempi e della storia”.
Perfettamente d’accordo!
@ Tea Ranno
mi ha emozionato quel “çiatu miu” rivolto a una delle tue figlie.
Un caro saluto a te e a Massimo (con il quale, vedo, mi sto incrociando nei commenti di questi minuti: ciao Massimo!).
E ancora un caro saluto a Daniela e a voi tutti.
–
[P.s. Molti di voi mi hanno scritto per notificarmi che alcuni commenti “postati” non compaiono. Lo so. Vi chiedo scusa. È capitato anche a me. Spero che il problema tecnico possa risolversi quanto prima.]
Ehi, Gaetano… credo che tu e Tea dobbiate incontrarvi… e leggervi 😉
Sul blog di Livio Romano mi sono lasciato andare e ho detto che il principale pregio di Daniela Carmosino è che legge cose che gli altri non vedono; qui se possibile vorrei applicare il procedimento inverso al suo libro – ossia trovarci una cosa che la Carmosino non ha scritto (esplicitamente).
Dalla sua disamina emerge un filone di nouvelle vague mediterranée che si fonda su tre cardini:
1) la verità degli eventi narrati;
2) l’opposizione indignata a ogni malessere meridionale – malavita, malasanità, etc.
3) la pretesa che questo genere di letteratura sia intrinsecamente superiore a quella che non tocca gli stessi argomenti o non si basa sulla verità o valore di testimonianza degli eventi narrati.
Il principale esponente di questa tendenza è ovviamente Saviano ma non sto pensando solo a lui. Io temo che questa predilezione per il trucido veridico sia nata come contraltare al consueto canone meridionale fatto di povera gente e buoni sentimenti, paesaggi incantevoli e luoghi comuni; ma che finirà per diventare un controcanone altrettanto banale.
Con una differenza: rispetto al canone originale, sarà scritto peggio. Infatti mi chiedo quanto sia casuale o quanto sia perfida la scelta della Carmosino di porre in chiusura del suo libro il capitolo in cui, per quanto sorridendo, rivela che la nouvelle vague mediterranée rifiuta il canone dei grandi autori meridionali soprattutto perché non lo conosce; e suggerisce forse che a molti nuovi autori meridionali (eccezione brillante, Antonella Cilento) mancano i ferri del mestiere – un po’ come al prete del film di Carlo Verdone che faceva tutta una serie di discorsi astrusi ma poi si dimenticava come si chiamava Gesù Cristo.
G.
Antonio Gurrado, interessante la tua provocazione.
Io mi sono fatto un’idea. Leggendo i commenti sopra, la Carmosino, secondo me, da studiosa e critica, invita gli autori a non rinunciare per nulla al mondo ad usare al meglio i ferri del mestiere (non dice che agli autori *mancano* i ferri del mestiere). Non è un caso se li considera “artigiani della parola”, in senso positivo. Io mi trovo d’accordo. E credo che alla fine si trovino d’accordo anche gli stessi autori indipendentemente dai percorsi che ciascuno decide di intraprendere, dalla scrittura reportage alla pura fiction. Chi scrive con serietà non può che essere d’accordo sul fatto che i ferri del mestiere sono essenziali per affinare il talento (se c’è). Mi pare dunque un invito, e uno stimolo, condivisibili. Così, almeno, ho inteso io. Ciao.
@ Antonio Gurrado
Grazie per aver lanciato questi nuovi spunti, Antonio.
E grazie a Vincenzo per la risposta, che mi pare piuttosto equilibrata e condivisibile.
@vincenzo; @ antonio g.
grazie vincenzo, hai inteso benissimo, antonio gurrado è scrittore colto e raffinato, uno con i ferri del mestiere (consiglio di leggerlo e visitare il suo sito, interessantissimo) nonché critico spietato. la sua interpretazione della mia (sic) si addice ad alcuni scrittori, per fortuna la minoranza, dunque accanto al nome di cilento, cui va la mia, mai abbastanza ribadita, ammirazione come scrittrice ma anche come operatrice culturale, accosterei molti altrii, ben presentii d’altronde nel mio studio. Porrei, piuttosto, quale oggetto della critica di Gurrado -hi! grazie per essere intervenuto dalla lontana oxford- una tendenza, direi addirittura un atteggiamento di certa giovane narrativa trasversale dal punto di vista geografico che trova riscontro in editori i quali, piuttosto che valutare un lavoro a partire soprattutto dalla scrittura, chiede prevenivamente: di cosa parla? così da sapere su cosa puntare in fase di lancio, di promozione. e poi mette tutto in mano a un editor -sul cui lavoro, massimo, ci sarebbe da aprire un nuovo post- che appiattisce tutto su quella lingua ‘tanto facile’ che tanto piace a tanti lettori….
buona nottata a tutti.
Uffi, alcuni dei miei commenti credo che siano saltati… ma comunque sono felice che il dibattito continui!
Cara Mari, mi dispiace. Come ho già scritto (vedi sopra) si sono persi anche un paio di miei commenti. Credo che il sistema antispam stia risentendo dell’enorme mole di spam pubblicitari automatici (quelli inviati, appunto, in automatico con l’ausilio di programmi) a cui deve far fronte (con il conseguente filtraggio). Ormai me ne arrivano centinaia e centinaia al giorno.
Cara Dani, riprendo il tuo prececente commento…
Ho la fortuna di conoscere molti editor in gamba (anche tu svogli l’attività di editor) operanti sia nella grossa, sia nella piccola editoria. Credo sia un periodo difficile anche per loro (anche per voi).
Giorni fa un editor che lavora da oltre trent’anni all’interno di un colosso editoriale si lamentava del fatto che le riunioni sono nettamente aumentate (mattina, pomeriggio, sera)… ma nella maggior parte dei casi l’oggetto è più che altro rivolto a fattori esterni (il mercato e le sue esigenze) che interni (i contenuti dei libri). E molti giovani editor si lamentano del fatto di dover lavorare a libri che non li convincono più di tanto.
Per fortuna, nonostante tutto, i libri di qualità (ma anche qui la valutazione è soggettiva) continuano a essere pubblicati.
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Tempo fa abbiamo affrontato l’argomento nell’ambito di questo post (proprio partendo da un intervento di Antonella Cilento).
Un post che ha fatto discutere abbastanza:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/12/09/mi-dispiace-non-sono-un-personaggio-di-antonella-cilento/
@massimo
come ho potuto pensare che non ci avessi pensato?! (mi riferisco al post sull’editor) lo recupero domani, oggi per me è l’ultimo giorno massacrante a piùlibripiùliberi.
a occhio mi sembrano un po’ i calo le raccolte di racconti sul sud e quelli che ci sono hanno un preciso taglio, o regionalistico o tematico. in crecita sono invece i saggi di taglio politico-economico, sempre sul sud. oggi vedrò meglio e poi magari ne parleremo. vado a tuffarmi nella bolgia!
Grazie per essere intervenuta ancora, Daniela.
Quella dei racconti è un’altra “questione”. Anche di questo abbiamo parlato, in passato. Dal punto di vista del mercato non rendono, lo sappiamo tutti… e ormai – salvo rare eccezioni – solo la piccola editoria si cimenta con la pubblicazione dei racconti.
Buongiorno a tutti, a proposito di contenuti concreti e di occasioni di discussione, ricordo a tutti che venerdì 18 da Tertulia a Catania alle 18.30 ci sarà NICOLA LA GIOIA con cui parleremo del suo recente romanzo Riportando tutto a casa. LA GIOIA sara poi a Biblos Cafè a Siracusa il 19 sempre alle 18.30.
Biagio Guerrera
ho incontrato nicola a piùlibripiùliberi. anche lui ha tirato in ballo il problema della tradizione, sostenendo che in quest’ambito che è particolarmente importante il distinguo tra regioni: la puglia non ha una tradizione letteraria ‘forte’ come hanno invece la campania o la sicilia e ciò non può non incidere sulla scrittura e sullo sguardo dei narratori pugliesi. anche per questo, forse, la puglia sembra essere passata -lo ribadiva alessandro leogrande- dall’antico (o genericamente dal passato) al post-moderno senza attraversare il moderno. lo si vede in letteratura ma si traduce anche in molti tratti e in molte strane commistioni di comportamenti e mentalità della società pugliese. che naturalmente la letteratura interpreta e ripropone….
Se riesco a sganciarmi da un impegno già preso verrò con piacere ad ascoltare e salutare Nicola Lagioia, venerdì sera. Nicola è un bravissimo autore che stimo tanto.
Mi fa piacere, cara Daniela, che l’abbia incontrato a “Più libri, più liberi”.
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@ Biagio e Luisa
Complimenti per il tandem Tertulia – Biblos Cafè (CT – SR). Bravi!
A due mesi e più di distanza torno a leggere i commenti su quest’argomento.Allora non volli scrivere, stasera, presa da un’improvvisa depressione, scrivo…per dire che tutto questo affaticarsi per scoprire i nuovi talenti letterari del Sud o del Nord non ha molto senso.Non erano solo i giovani scrittori quelli che prima facevano la Storia della Letteratura. Oggi purtroppo si parla solo dei giovani , e gli autori che hanno fatto la gavetta , dopo aver pubblicato negli anni ’60, ’70, ’80, si son visti espellere persino dai cataloghi(sic!) degli editori…Oggi se non hai una collocazione politica, se non scrivi di mafia o di camorra, se non parli del Terzo mondo o se non illustri scene di sesso piuttosto osées, non riesci più a pubblicare. Nè, se hai superato una certa età, a meno che tu non sia Camilleri o qualche altro che fa vendere all’editore pure la carta su cui hai preso appunti, nessuno ti pubblica a meno che tu non sponsorizzi la pubblicazione. E’ triste, ma di questo non parla nessuno: purtroppo oggi scrive chiunque, e se non lo pubblicano, paga qualcuno che lo pubblica, ma poi non viene distribuito e resta invenduto. Diciamo qualche verità, invece di disquisire tra pochi con molti post, scritti sempre dalle solite persone, (sempre le stesse) che farebbero meglio a scriversi delle mails private per dirsi quel che si dicono…-
K.C.-
Cara Kate, prima di andare a nanna ti scrivo nella speranza di tirarti un po’ su.
C’è del vero in quello che sostieni. Ma ti assicuro che conosco tantissimi autori, non giovanissimi, che continuano a pubblicare – restando nei cataloghi – anche se non vendono come Camilleri. Molto li ho ospitati anche qui a Letteratitudine.
–
Non so se ti può essere utile, ma sul fenomeno dell’editoria a pagamento ne abbiamo discusso qui:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/01/25/il-sud-delleditoria-editoria-a-pagamento/
–
E qui c’è un altro post che forse ti potrebbe interessare:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/12/09/mi-dispiace-non-sono-un-personaggio-di-antonella-cilento/
–
E forse pure questo:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/06/17/78-ragioni-per-cui-il-vostro-libro-non-sara%e2%80%99-mai-pubblicato-di-antonella-cilento/
–
In ogni caso, cara Kate… non scoraggiarti…
Ti abbraccio.
avevo conservato questo link sul pc, in attesa di trovare un momento libero per poter affrontare l’argomento ricco di spunti così interessanti, e accidenti quanto tempo è passato! leggendo i commenti qua e là ovviamente ho notato che insomma tutto o quasi è stato già detto, ma ci tenevo a dire la mia. proprio perchè la narrativa del sud è nelle mie corde, anche se non sono una vera scrittrice ma una blogger che scrive di piccole cose, di accadimenti quotidiani. tuttavia il meridionalismo che è in me, la città dove vivo, i libri che leggo come anche l’aria che respiro, parlano attraverso i miei post, non c’è niente da fare. non si tratta di essere ancorati a degli stereotipi canonici o ad un linguaggio cruento o alla dimensione cammorristica di certi racconti. purtroppo è la realtà di cui noi facciamo parte. una realtà che può e deve essere raccontata per smuovere le coscienze, dare stimoli nuovi, creare pensieri in movimento.
ultimamente ho riscoperto un vecchio autore del sud Michele Prisco, una raccolta di suoi racconti “Il cuore della vita” dove dipinge i luoghi che hanno fatto parte della sua esistenza. In uno di questi descrive la magia di Sorrento, ed io leggendolo mi sono ritrovata proiettata in una mitica dimensione della cittadina, dove il mare ed il profumo dei limoni giocano a nascondino tra le pagine, mentre poco più oltre lo scrittore rievoca la presenza di Matilde Serao, nei suoi eleganti completi estivi. Scrivo questo perchè da un piccolo racconto su Sorrento come quello del Prisco si diramano sensazioni, allegorie, si riallacciano esperienze di altri prosatori, si crea un terreno dove la tradizione non è un fardello ma un humus fertile dove far sbocciare nuove idee.
potrei continuare, ma mi fermo qui, anche perchè l’argomento è stato già eviscerato. i miei complimenti a Massimo Maugeri, e ad Antonella Cilento per la nitidezza dei suoi interventi.