Ho ricevuto poche ore fa una mail dal collega scrittore Adriano Petta (nella foto in basso), autore – tra l’altro – di questo articolo. Facendo affidamento alla sensibilità di tutti riporto il testo della mail di Adriano aggiungendo, di seguito, il contenuto del file word allegato.
Massimo Maugeri
Massimo carissimo,
sono tornato da poco da Barcellona dove ho partecipato alla Giornata Mondiale del Libro sia come cittadino che come autore: oltre un milione di persone per il centro storico della città, si sono venduti – solo a Barcellona – oltre un milione di libri e circa due milioni di rose. Non posso descrivere a parole l’arcobaleno di emozioni provate. Mai visto niente di simile per i libri… credimi.
Ma appena tornato, giovedì scorso il destino spietato si è portato via il mio coautore Antonino Colavito, 60 anni, per un infarto, di notte, come un fulmine a ciel sereno, senza che mai ci fosse stata una benché minima avvisaglia: con lui avevamo scritto e pubblicato il romanzo storico "Ipazia, scienziata alessandrina". Era un uomo speciale, la cui perdita impoverisce non solo chi aveva la fortuna di ricevere la sua amicizia, ma la società intera.
Alla mia mailing list ho inviato un allegato ("Vita spezzata"), e molti mi hanno risposto, e si è scatenato un dibattito serrato, sul problema più importante della vita: questa maledetta spietata ingiusta morte. Naturalmente i non razionalisti, i sognatori che si rifugiano nelle varie religioni, tentano di dare una giustificazione a questa sporca faccenda della morte… ma io credo che non esista alcuna spiegazione o giustificazione. Siamo venuti al mondo come delle foglie di un albero, e appena soffia un alito di vento ce ne andiamo. Stop. Niente altro. Unica differenza: forse le foglie non si rendono conto di questo… mentre noi esseri umani abbiamo sviluppato una coscienza così forte e sensibile che lo sappiamo, ce ne rendiamo conto.
Ti mando questo messaggio e l’allegato nel caso tu lo dovessi considerare adatto a "Letteratitudine": io mi sono proposto di fare di tutto per far conoscere il pensiero del mio amico scomparso, ma non perché era mio amico… ma perché era un grande scrittore e originale pensatore.
Ti abbraccio.
Adriano
Amici carissimi,
tocca a me questa triste parte di messaggero.
La vita del nostro amico Antonino Colavito è stata spezzata l’altro ieri notte da un infarto.
Perdonatemi per non essere riuscito ad avvertire tutti voi per il funerale che si è svolto ieri qui a Roma, al tempietto Egizio del Verano: il saluto tributato al corpo del nostro amico imprigionato nella bara della morte è stato così forte… che una nostra amica quasi ci scongiurava di tenere un po’ a freno il nostro dolore, così forse lui poteva andarsene in pace in quell’altra dimensione che lo aspettava. Ma non ci siamo riusciti, perché Tonino, il nostro Tonino… non era un uomo qualunque, era una creatura speciale, e noi tutti da oggi siamo più poveri perché abbiamo perso una voce pulita, profonda, dolce, educata, disponibile, proiettata verso confini che noi non riuscivamo nemmeno ad immaginare, innamorata del sole.
Io farò di tutto perché i suoi pensieri giungano a quanta più gente possibile: tutte le mie forze serviranno per promuovere il nostro «Ipazia, scienziata alessandrina» e il suo romanzo incompiuto. Tonino diceva che “vivere con sofferenza e morire non è buono o cattivo, giusto o sbagliato o inevitabile, come ripetono in modo incessante sovrani e sacerdoti, è soltanto semplicemente inutile. È andare contro la creazione di nuova materia, di nuovi spazi, è ostacolare l’aumento del numero incalcolabile delle stelle e delle galassie della volta celeste”.
Il mio saluto di ieri è stato quello di leggere l’ultimo suo “sogno” del nostro “Ipazia” («ma io sono in cammino»), sogno tristemente profetico, riflessioni provate da Tonino un giorno al funerale di un’altra vita spezzata.
Ve lo ripropongo per porgergli un ultimo saluto, così lo lasciamo libero affinché lui possa finalmente incamminarsi lungo la sua via del sole.
Adriano
********************************************************************************
ULTIMO SOGNO
«ma io sono in cammino»
È giorno. Lentamente mi avvicino alla moderna facciata dell’anonima chiesa aggettante su una stradina, stretto passaggio che scorre a senso unico tra due file di palazzine che sembrano sparpagliate da una mano irriverente. Il cielo, opprimente con le sue basse e umide nubi, copre la pretenziosa scenografia di una moderna periferia romana. È agosto, un dì in piena estate che rimembra un autunno un po’ afoso, in un anno in cui le stagioni si susseguono in modo casuale, con siccità e maltempo che reciprocamente scambiano i ruoli, in un gioco pazzo e irrispettoso delle altrui umane ragioni. L’auto con il lungo cofano manovra faticosamente per potersi liberare del carico ingombrante, la pesante cassa di legno che nasconde il corpo di una giovane donna, uccisa da una malattia rapida e indifferente. Emozioni, storie, sorrisi, sguardi sornioni da gatto ronfante e con gli artigli a portata di mano, intelligenza, progetti, bimbi da accompagnare nel loro cammino, ecco tutto ciò ch’è stato spento dalla morte, evento indubitabile di tutte le vite.
Ma ecco, nel momento stesso che il carro funebre si ferma dinanzi alla porta della chiesa, grosse gocce bagnano la terra asciutta ormai da molti giorni, e l’autista che è sceso per aprire il portello posteriore, e i parenti e gli amici in attesa, e la mia giacca scura e il mio viso imbronciato, calde e pesanti gocce che come lacrime bagnano di un dolce saluto l’appuntamento della giovane donna con coloro che son venuti a incontrarla: il cielo e le nubi piangono per lei, amata mia, essi dicono, sei tra noi e con noi, corpo e pensieri e passioni e idee e amore… E le gocce di pioggia smettono di cadere quando la bara viene trasportata dall’auto nell’interno della chiesa, e non bagnano di lacrime un corpo già consunto da troppe lacrime. E durante la funzione, e dopo gli ultimi saluti, e ancora con il carro funebre che riprende la sua marcia verso l’ultimo riposo, e io, povero spettatore, sono sicuro che gli occhi del cielo hanno asciugato le proprie lacrime, per permettere ad una giovane donna di non soffrire più e di addormentarsi finalmente per sognare il suo destino.
È notte. Dolce come seno di donna, amara per un bacio perduto. E il cuore, ucciso da un sospiro d’amore, e la nostalgia di un mondo che non è più, e la solitudine nell’immensità dello spazio, e la luna bianca di luce che narra a colui che la mira una storia di tanto tempo prima… Vagando nel buio, io chiedo alle tenebre, dov’è il mio amore perduto? Forse è negli occhi e tra i bruni capelli di una donna un giorno incontrata, di passione piena e di sogni, che chiamava, voleva e bruciava. Io le parlai in una vita trascorsa, le dissi, dove vai, fermati e parlami del cielo e delle stelle, il mondo è un’immagine di quello che siamo, e se tu lo vorrai la tua strada sarà la mia strada.
Tu andasti invece a morire in un giorno di primavera, a seguire il corso di una vita impetuosa. La violenza senza speranza degli uomini fu l’ultima visione dei tuoi occhi, adusi ad osservare le stelle e le lontane galassie, le grida roche e inumane di esseri che non sono mai stati vivi furono l’estremo suono che percosse le tue orecchie, avvezze ad ascoltare e misurare nuove e complesse combinazioni musicali. E tu divenisti vento e sabbia e acqua, seme di coscienza sparso sulla terra. E io rimasi e attesi, per anni, per secoli, avvinto al muro della mia solitudine, corroso dal sole e dal gelo, mentre la grande menzogna della morte si impadroniva implacabile, ormai senza più remore, del mondo intero.
È l’alba. E il grande tempio che vedo sfumare nel lento tralucere dell’aurora ha sembianza intensa e drammatica ai miei occhi, al mio corpo stanco, alle lacere vesti, alla mano ferma che stringe una corta spada rossa del sangue nemico, in quanto le sue innumerevoli pietre ricordano, devono ricordare l’efferata uccisione del mio amore. Io, compagno nella ricerca e vano guerriero, ho assistito impotente alla morte della mia maestra, di Ipazia, della mia donna, di una scienziata protesa verso lontani e palpitanti confini, io sono parte di un piccolo pubblico che esce dal teatro perché la commedia è finita e non verrà più replicata.
Il sole precipita bruscamente verso l’alto, ed io, Shalim, figlio di Isidoro fabbricante di papiri, uno tra gli ultimi della Scuola alessandrina, lascio cadere il pugnale, e mentre la porta della vita si chiude alle
mie spalle, lentamente scendo verso la valle dove dimorano gli uomini alla ricerca della mia verità.
Adesso corro terre e oceani, la tagliente luce del sole non navera la tenebra che avvolge la mia mente come nero sudario, il tempo è una strada infinita, che porta lontano, ad un mondo impossibile. Dove sei, mio sogno perduto, forse un giorno tra infiniti altri sentirai uno stanco passo sulla polvere arida di un sentiero nascosto. Chiama, che il nome mio risuoni una volta nel silenzio che tutto invade, o voce mia, afferra il suono e rimanda l’eco a lei, al suo corpo mio da sempre, allo sguardo velato da lunghi capelli, allo spolverìo d’oro che ammanta le bianche e sensuali membra, di atomi, materia, forza, fuoco, freddo, vulcanica voluttà da sterminati universi.
Fermati allora, e parlami del cielo e delle stelle, fa che la polvere si levi verso l’alto, che il mio cuore riprenda a pulsare, che il mio corpo diventi luce.
L’attesa è infinita, ma io sono in cammino.
****************************************************************************
Caro Adriano,
come ti ho già scritto per mail farò quanto mi è possibile per promuovere “il sogno” di Antonino e il vostro libro.
Comprendo il tuo stato d’animo e, credimi, percepisco bene il tuo dolore e il tuo scoramento.
Io sono credente, ma non scriverò nulla sul senso della vita e della morte.
Scrivo soltanto che il pensiero del tuo amico Antonino risiede nelle sue parole, e dalle sue parole arriva a noi. Che siamo qui. Ora.
Questa è una delle magie della scrittura (e della letteratura), capace di avvicinarci al di là delle barriere imposte dal tempo e dallo spazio. E oltre il limite della morte.
Invito tutti gli amici e i frequentatori di Letteratitudine a leggere con attenzione il post e a lasciare – se possibile – un commento sul “pensiero” di Antonino (anche un semplice saluto).
Ho dimenticato di scrivere che ho letto “Ma io sono in cammino” di Antonino Colavito… e l’ho trovato semplicemente molto (ma molto) bello.
Caro Massimo,
a te, ad Adriano Petta e a tutti coloro che abbiano avuto la fortuna di conoscere un autore che intuisco essere molto valido come Antonino Colavito, giungano i seguenti miei miseri e mortali versi. Non so fare altro che questo: erigere un vibratile tempio al tenue soffio umano per includerlo nell’imperituro uragano della Morte. Questa poesia vuol ostinatamente dare un nome ad un anonimo uccello che trovai morto lungo il Tevere con i miei alunni durante un’escursione.
FOLAGA IN RIVA AL FIUME
Potesse questa
Lingua senza linfa
restituirti nell’anima
mia il Nome Proprio
d’Essere Vivente che
certamente avesti
prima di ingannare quei
bimbi con la tua fissità.
Febbraio eleva necrologio
al tuo fatal ritardo
di piume secche tiberino
il letto riscaldando.
Ma chi oserebbe
dirti morta? Una
classe in gita no.
L’hai visto, amica.
Sergio
La morte, purtroppo, è un evento che colpisce tutti. Everyman, come il titolo dell’ultimo libro di Roth. Direttamente o indirettamente. Quando arriva inattesa sicuramente è una mazzata tremenda per chi rimane. Ma se potessi scegliere le modalità della mia dipartita non avrei esitazione alcuna a scegliere l’opzione “morte nel sonno”.
Un saluto allo scrittore Antonino Colavito che conosco oggi grazie a questo blog.
Non conoscevo il sig. Colavito ne come persona ne come autore.
Porgo però le più vive condoglianze a tutti i suoi cari e conoscenti.
Acquistero il prima possibile il suo libro anche perchè da quel poco che ho pututo leggere mi è sembrato un ottimo scrittore.
Caro Adriano ho letto la tua rabbia e il tuo dolore per la morte di un AMICO, di un “fratello”, di una persona speciale. Siamo foglie consapevoli, sognatrici o razionaliste ma tutte bisognose di linfa. E il bisogno di andare oltre quel Momento, è comune e si traduce in preghiera, in poesia, in visioni. Sono le voci dell’anima orfana. Ma tutto non finisce con la morte e infatti, tu hai postato un testo presentando Antonino Colavito anche a chi non lo conosceva. I giorni dell’abbandono sono i più oscuri, quelli rabbiosi verso una morte che ci sembra giusta solo per chi ha già vissuto a lungo, soffre ed è senza speranza. Ma la vita, per noi, è pensiero e chi ha dato molto, come Colavito, ha vissuto a lungo, ha vissuto più vite ed è mancato senza conoscere il dolore o l’umiliazione di una malattia debilitante. Ti abbraccio, Miriam
Non conoscevo Antonino Colavito, ma ho letto il suo pezzo e ho percepito il valore dello scrittore.
Unisco il mio “saluto” a quello degli altri e di certo leggerò il libro su Ipazia.
Carissimo Massimo,
in un frangente come questo non posso che partire dal fatto che io sono ateo, agnostico e razionalista. E tutto quello che penso e dico sgorga da questa mia essenza. Il pensiero. Il pensiero di Antonino, come giustamente dici tu, “risiede nelle sue parole e dalle sue parole arriva a noi”, a noi vivi, ora, adesso. La magia consolatoria della scrittura e della letteratura, che sembra volare oltre la morte.
“Siamo foglie consapevoli, sognatrici o razionaliste ma tutte bisognose di linfa. E il bisogno di andare oltre quel Momento, è comune e si traduce in preghiera, in poesia, in visioni.” Così dici tu, Miriam. Per me, invece, questo bisogno si sta traducendo in rabbia impotente, rabbia semplice e pura.
Il mio dolore inevitabilmente si addolcirà. La mia razionalità non mi permette di prendermela con nessuno sporco destino, perché il destino altro non è se non il puro caso matematico, a cui non gliene frega niente di far crepare uno squallido individuo oppure una creatura eccezionale, di far campare cent’anni puzzolenti larve di uomini o di spezzare la vita di giovani creature che possono contribuire al cammino della società civile, al progresso del genere umano. La mia rabbia è solo frutto dell’impotenza: io posso fare tutto, tutto, ma non posso far tornare in vita il mio amico. La realtà è che noi uomini ci siamo montati un po’ la testa, mettendoci al centro dell’universo… mentre in realtà non siamo altro che foglioline di un albero, che alla prima folata voliamo via. Unica differenza è che le foglioline probabilmente non sanno che devono morire, mentre noi abbiamo acquisito questa coscienza. Niente altro. Ed è meglio così.… perché è meglio metterla così. Perché se dovessimo metterci a credere che dietro tutto questo c’è un disegno… allora questo progettista altri non sarebbe che il più orribile dei mostri.
Se Antonino potesse leggere questi miei disordinati pensieri, se ne dispiacerebbe: tanti anni a parlare di queste cose, tanti anni a cercare d’inculcare in me qualche briciola di speranza facendomi balenare la possibilità dell’esistenza di altri piani dimensionali, di un mondo altro, che nulla ha a che vedere con le fiabe religiose… ma che forse – se noi, durante questa vita, come specie miglioriamo, tutti assieme – possiamo sognare una trasformazione… Ed io lo ascoltavo con il cuore, ma non con la mia povera mente.
La sua mente, i suoi pensieri profondi, la sua gioia di vivere… la sua vita spezzata in questo modo così banale (un infarto oppure delle apnee notturne), strappano la maschera a questa spietata faccenda della vita… e sotto quella maschera non c’è niente, assolutamente niente, né creatori né mostri: la vita è sempre stata così, la vita è solo questo pullulare di miliardi di miliardi di creature che nascono e che muoiono e che imputridiscono e dallo stesso fango rinascono altri miliardi di creature e così per sempre. Senza un perché. Così. Purtroppo la piccola disgraziata creatura umana ha sviluppato una coscienza che l’ha portata a porsi domande sulla vita, sulla sua vita: una devianza del caso che ci procura solo dolore. Ma poi un’arteria si occlude e spezza una vita e spegne ogni domanda.
Perdona queste mie amare sincere riflessioni… ma il dolore sta ricedendo il passo all’unica parte del nostro corpo che si è evoluta in questi tre milioni di anni: il cervello, la mente, la razionalità.
La via del sole, essere “portatori di chiavi del sapere”, è un sogno che serve solo a noi vivi…
Un abbraccio.
Adriano
Una poesia come tributo allo scrittore scomparso.
LA SOLA COSA CERTA
La sola cosa certa
nella vita?
Il dissolversi eterno nella morte!
Tra l’una e l’altro,
anello che congiunge,
indissolubile,
l’afflato sublime
dell’amore.
Maria Luisa Papini Pedroni
Carissimo Adriano,
ti capisco benissimo. E comprendo la tua rabbia, generata dalla sensazione di impotenza di fronte alla morte.
È vero. La morte non guarda in faccia nessuno. Non distingue tra buoni e cattivi, tra vecchi e giovani. Eppure non possiamo far altro che accettare questo nostro limite, pensando che (e questo vale per sia per i credenti che per gli atei), al di là del dolore ineludibile per la scomparsa di un nostro caro, proprio questo nostro limite, in fondo, ci accomuna tutti.
Tu scrivi che: “(…) Unica differenza è che le foglioline probabilmente non sanno che devono morire, mentre noi abbiamo acquisito questa coscienza.”
E hai ragione.
Però, proprio perché siamo dotati di consapevolezza e siamo in grado di acquisire coscienza abbiamo la possibilità – e forse il dovere – di trovare in esse motivi consolatori.
Io, per esempio, non vorrei vivere per sempre. Non in un mondo dalle risorse limitate come questo nostro povero pianeta Terra (saccheggiato e dilaniato da noi stessi). Se i viventi di oggi (noi compresi) dovessero all’improvviso essere immortali non ci sarebbe più spazio per i figli dei nostri figli; e per i figli dei figli dei nostri figli. Ci hai mai pensato?
Per me questo pensiero ha un effetto consolatorio.
Ti riporto uno stralcio di articolo, riportato giorni fa come commento a un mio post. È firmato da David Grossman e riguarda anche il “ruolo” della scrittura in rapporto alla scomparsa del figlio in guerra.
Un abbraccio a te, Adriano.
Massimo
Da “Repubblica” dell’8 maggio 2007 – pag. 51
Articolo di David Grossman: “Scrivere tra mille tragedie”
” (…) Io scrivo. La sciagura che mi è capitata, la morte di mio figlio Uri durante la seconda guerra del Libano, permea ogni momento della mia vita. (…)
Io scrivo. E mi rendo conto di come un uso appropriato e preciso delle parole sia talvolta una sorta di medicina che cura una malattia. (…)
E scrivo anche di ciò che non potrà più essere, per cui non c’è consolazione. E anche allora, in un modo che ancora non so spiegare, le circostanze della mia vita non mi si chiudono addosso, non mi paralizzano. Più volte al giorno, seduto alla mia scrivania, tocco con mano il dolore, la perdita, come chi tocca un filo della corrente a mani nude. E non muoio.”
La tragica storia di una donna
cancellata dai libri di storia
di Francesca Serra
(recensione pubblicata sulla rivista «Leggere:tutti» il giorno 8 marzo 2006)
Ci sono donne che esplorano il fondo del mare per portare il mare dentro.
Donne che scrutano i cieli per tenere i cieli dentro.
E che del mare del cielo hanno fatto il principio e la fine del loro pensiero e del loro sentire.
Nelle pause del lavoro passeggio per i viali di Saxa Rubra (RAI) e mi chiedo dove siano le donne di cielo, di mare e di terra.
Mi chiedo cosa accadrebbe se una di loro proprio in questo momento si sedesse dietro alla scrivania del telegiornale per annunciare la fine di un mondo e l’inizio di un altro.
Il potere non si addice alle donne, la conoscenza sì.
La competizione non si addice alle donne, la volontà sì.
Piccoli uomini di potere che istigano a false spinte competitive distruggono la vita animica di tante donne naturalmente dotate di Buona Volontà.
Qualche anno fa una giornalista del TG2 al ritorno da un viaggio in India raccontò di un certo guru allora sconosciuto, che trasformava la polvere in oro, guariva i malati, e viaggiava nel tempo. L’allora direttore di rete, spaccò il tavolo di cristallo del suo studio in mille pezzi, perché la conoscenza dello Spirito non era “in tono” con l’informazione di una tv laica.
Questo accadeva pochi anni fa, ma la storia è sempre la stessa.
Il giorno 8 dell’anno 415 dopo la nascita di Cristo, alcuni uomini rapirono una donna, la lapidarono, ne fecero il corpo a pezzi e la cancellarono dai libri di storia.
Quella donna si chiamava Ipazia, che come scrive Isidoro di Damascio: “Nacque ad Alessandria dove fu allevata e istruita. Poiché aveva più intelligenza del padre, non fu soddisfatta dalla sua conoscenza delle scienze matematiche e volle dedicarsi allo studio della filosofia”.
Ipazia dunque, filosofa, matematica, astronoma, antesignana della fisica sperimentale. Studiò e realizzò l’astrolabio, l’idroscopio e l’aerometro.
Ipazia scelse la via della conoscenza e della comunicazione. Visse la piazza della Polis come luogo sacro dove diffondere la Sapienza platonica ed ellenica.
Investigò sui misteri che circondano l’universo veicolando la propria energia femminile nelle diverse direzioni percorribili.
Di Ipazia si dice che fosse bellissima, e che il suo allievo prediletto s’innamorò a tal punto di lei da restarle accanto in maniera casta fino alla fine della sua vita.
Nel bel romanzo-saggio di Adriano Petta e Antonino Colavito “Ipazia Scienziata Alesssandrina” (Lampi di Stampa Edizioni http://www.lampidistampa.it) entriamo nella vita di questa donna attraverso il racconto di Shalim il suo protetto. Ma entriamo anche nei sogni di Ipazia, nel mondo onirico della filosofia neo-platonica, con un linguaggio che sposa la parola della Logica con l’immagine dello Spirito.
La cronaca narrata da Giovanni Vescovo Cristiano di Nikiu ci descrive Ipazia come un pagana, che usava stratagemmi satanici per ingannare gli uomini.
Dunque il vescovo Cirillo pensò bene di sbarazzarsi di questa donna avendone intuito il pericolo che la sua forza avrebbe provocato.
A pagina 272 del libro di Petta e Colavito viene narrato il martirio di Ipazia.
Pietro il diacono-guardia del corpo di Cirillo ha il compito ultimo di porre fine alla vita della donna e mentre la uccide lo sentiamo gridare:
“Tu non puoi essere uccisa come qualunque nemico! Tu devi essere smembrata! Così faremo a pezzi anche il tuo pensiero, i tuoi progetti, i ricordi di quel cielo che hai violato…Tu sarai smembrata perché, oltre a tutto quello che hai detto e che hai fatto… oltre tutto questo… oltre tutto questo tu sei donna…! Donna..! Donna..!”
Nel contempo, con una conchiglia spezzata le squarcia tutto il basso ventre.
Immagino Ipazia come un grande albero le cui radici affondano nella terra antica e i rami toccano il cielo profondo. Dalle foglie di quell’albero discendono le nostre nonne e dai fiori germogliano le nostre figlie.
“Questa nostra piccola unica irripetibile vita è una gabbia: l’unica strada che abbiamo è rompere con queste prigioni, crescere, apprendere, amare, andare oltre i limiti, abbracciare la totalità”. Lo dice Ipazia a Shalim, lo dice Ipazia al suo narratore, lo sta dicendo a noi come quando le parole diventano foglie sparse nel tempo.
Ma qui, davanti e dentro alla televisione c’è poco, pochissimo tempo, e tra un quiz e l’altro, una ragazzina sgambetta senza sapere che Ipazia è morta tanto tanto tempo tempo fa, anche per lei.
Adriano Petta & Antonino Colavito, Ipazia,scienziata alessandrina
Milano, Lampi di stampa, 2005, pp.288, euro 15
(prefazione di Margherita Hack)
Carissimo Massimo,
due riflessioni sono scaturite in me dal tuo commento. Se per caso un giorno la scienza scoprisse un metodo, una medicina che fermasse la morte… dove troveremmo le risorse per dare da mangiare a tutte le creature del mondo? Ma senza giungere a questi estremi fantascientifici, oggi la morte ha un valore diverso da continente a continente. Fra noi occidentali, la cui vita media è di 80-90 anni, quando muore una persona di 60 (come è il caso di Antonino Colavito) diciamo che è stata “spezzata” una vita, perché non è riuscita a compiere il suo arco “naturale”. “Naturale” per noi occidentali, ovviamente. Qualche anno fa vidi un servizio televisivo dall’Angola (il paese africano conquistato, corrotto e abbandonato dai potenti dell’occidente, compreso l’Unione Sovietica, ricco di diamanti e pietre preziose) in cui la gente moriva di fame. Il giornalista intervistò un uomo di 27 anni, che stava morendo di fame (nel vero senso della parola: infatti tre giorni dopo l’intervista, il ventisettenne angolano venne spazzato via). Lo scheletro non poteva più essere salvato. Il giornalista gli chiese: “Ma voi africani avete qualche speranza nella vostra vita?”. Con un filo di voce, lo scheletro rispose: “Dal momento che nasciamo, noi africani abbiamo una sola speranza: morire quanto prima possibile, per non soffrire.”
Ecco che lo stesso evento – la morte – visto in due continenti diversi, racchiude un valore ben diverso.
Davanti ad una vita “spezzata” o “spazzata via”, caro Massimo, credo che sia giusto e importante spendere qualche parola come abbiamo fatto noi in questi giorni qui, sul tuo blog: anche la morte deve servire la vita. E intingere le nostre penne nei calamai colmi di dolore, può offrire un contributo a noi stessi e a chi ci legge per cercare di capire il senso della vita. Ed è giusto che tu abbia riportato le parole di David Grossman, bellissimo questo scegliere le parole precise ed appropriate per raccontare la morte di una persona cara… perché può diventare “una sorta di medicina che cura una malattia”. E accade che la struggente poesia di Sergio Sozi, riesca nell’intento di accomunare le piume secche della sua folaga che non volerà mai più, ai voli che la penna di Antonino Colavito non farà più.
Un abbraccio pieno di gratitudine a tutta la gente del blog.
Adriano
Un robot automatizzato legge ad un padrone che non c‘è più…la sveglia automaticamente ti dà il buongiorno con un suono leggero, lo scaldabagno in automatico si riaccende e si spegne,la polvere copre con un velo sottile le cose, le piante senz’acqua agonizzano e muoiono, la segreteria dice che i proprietari della casa sono momentaneamente assenti…in due sole settimane le scalette sulla terrazza scompaiono sotto una leggera e bellissima vegetazione di erbette e minuscoli fiori, i gerani esplodono con rossa magnificenza da fuochi d’artificio senza che nessuno li abbia innaffiati, l’edera si infila negli stipiti della porta finestra,e poco ci mancherebbe per trasformare una terrazza giardino in una giungla. Ci vorrebbe un robot a raccontare…che triste sarebbe se fosse un umano che ridotto a un robot si aggirasse in una casa desolata, raccontando favole che nessuno ascolta più.
Sono passati quattro anni tra pochi giorni da quando scrissi queste parole. Lui è partito, e non è tornato più. Tutti dicevano che me ne sarei fatta una ragione, ma non c’è ragione possibile. Perché nessuno dice che “noi” moriamo con chi amiamo, e di noi non resta che una parte mutilata? Certo perdere un amico è terribile, ma perdere la persona amata è indicibile. Non resta che la memoria, ma io vorrei perderla, e uccidere quella parte di me che sono stata. Come si fa a vivere sul limitare della notte e del giorno, fingendo la normalità?
mi scuso, l’indirizzo esatto è questo. Da non pubblicare, naturalmente.
Cara L.,
grazie per il tuo intervento.
Scrivi una cosa molto forte: “Certo perdere un amico è terribile, ma perdere la persona amata è indicibile”.
Un forte abbraccio… e grande rispetto per il tuo dolore.