“È da qui che intendo iniziare la mia storia. A proposito, mi chiamo Kita Narea, ed è l’estate del 2006. Fa talmente caldo che mi suda l’interno delle ginocchia ripiegate sui morbidi piedistalli di una di quelle strane e costose sedie ergonomiche importate dalla Svezia. Sono davanti al computer a raccontare i fatti miei più intimi a un tizio mai visto”.
Inizia così il romanzo desordio di Mavie Parisi intitolato “E sono creta che muta” (edito da Perrone Lab).
La protagonista si chiama Kita. Tre figli e un matrimonio alle spalle, forse con qualche rimpianto. Il mare, presto la mattina. Le sue tele e i suoi colori, lasciati lì, a riposare, forse per troppo tempo. E il bisogno di un incontro, di gesti e di parole. Per ritrovarsi, per ricominciare.
Il tema del libro è duplice e di grande attualità: da una parte quello dell’abbandono, dall’altra quello delle relazioni sentimentali nate via chat.
Vi invito a discutere di questo romanzo e dei temi a esso legato.
Come al solito pongo alcune domande con l’intento di favorire la discussione.
Nelle relazioni sentimentali l’abbandono, in qualunque forma si concretizzi, è sempre un trauma.
Esiste un antidoto o, comunque, una “strategia” per neutralizzarlo (o per lenire le conseguenti sofferenze)?
Il trauma si abbatte solamente sul soggetto che subisce l’abbandono, o non è forse la separazione un evento doloroso anche per chi ne è parte attiva?
È possibile dopo una relazione sentimentale di una certa importanza, che si spezza nel dolore e nell’indifferenza, ricostruire un rapporto sebbene su basi diverse?
Le relazioni nate in chat che possibilità hanno di dare esiti positivi? Sono una “opportunità” o un “ripiego”? E fino a che punto si riesce a essere davvero se stessi interagendo attraverso uno schermo e una tastiera? Quali i pro, e quali i contro?
Di seguito, la recensione di Maria Rita Pennisi.
Massimo Maugeri
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Lei e gli uomini troppo deboli per legami forti
di Maria Rita Pennisi
«E sono creta che muta». Evocativo il titolo di questo primo romanzo di Mavie Parisi pubblicato da Giulio Perrone editore S.r.l., Roma. Questa E iniziale sembra collegarsi a un pensiero sottile, che è già maturo nella mente dell’autrice. La creta che muta, invece, ci rimanda alla duttilità del materiale, alle sue molteplici e mutevoli forme. Ci fa pensare alla voglia di cambiamento, che spesso è presente in ognuno di noi. La protagonista del romanzo, Kita Narea viene lasciata dal marito e sente nel profondo l’abbandono. Questo senso d’abbandono si stende a macchia d’olio su di lei e sulla casa. Di questo luogo, che un tempo ha rappresentato il centro dell’armonia, solo il giardino nascosto “sul retro di quell’appartamento qualunque” è il suo rifugio, il suo angolo di paradiso, come il mare che è l’elemento rasserenante con cui Kita si fonde. Per lei la rottura degli equilibri è forte come l’infrangersi degli specchi, quegli specchi che non le restituiscono più un’immagine in cui si riconosce. Inizia la ricerca di possibili partner in Chat, altra grande protagonista del romanzo. La Chat fa sentire Kita protetta e lì può abbandonarsi alle sue fantasie, ma tutto cambia quando gli interlocutori si materializzano e prendono forma di uomini troppo deboli, per creare legami forti. L’autrice però non si erge a giudice, anzi è indulgente e lascia che i suoi personaggi vivano liberamente il loro modo di essere. Un romanzo dalla struttura originale in cui si alternano delle narrazioni in prima persona e delle altre in terza persona in cui un narratore esterno interviene, quasi per alleggerire la tensione narrativa, raccontando sia di Kita che di altri personaggi. Il ritmo del romanzo è agile, la trama è avvolgente. Il linguaggio è asciutto, quasi essenziale. I periodi brevi e incisivi. Ogni parola si carica di significato profondo. Ottimi i dialoghi, quasi teatrali. Profonde le riflessioni, sofferti i monologhi interiori. E’ un romanzo particolare in cui tutti sono compartecipi del dolore. Non ci sono buoni e cattivi, vincitori e vinti. Il dolore è sottile e capillare. Però Kita sa che, anche se non si può guarire del tutto dal dolore, si può certo rialzare la testa e riprovare a risalire la china guardando la vita in modo diverso.
La Sicilia del 20/01/2009
Per prima cosa voglio fare tanti in bocca al lupo a Mavie Parisi (storica frequentatrice di Letteratitudine) per questo suo romanzo d’esordio.
Questa è la sua minibiografia:
–
Mavie Parisi è nata a Enna, ma considera Catania come sua città vivendoci ormai da più di trent’anni insieme a due figli e a un bulldog di nome Saretto.
Laureata in Scienze, ha trascorso un periodo della sua vita negli Stati Uniti come ricercatrice presso l’NIH.
Oggi insegna matematica e scienze in una scuola media. Coltiva da sempre la passione per la letteratura. Ha scritto e pubblicato numerosi racconti. “E sono creta che muta” è il suo romanzo d’esordio.
Riprendo l’incipit del romanzo, che ci fa immergere subito nella storia:
“È da qui che intendo iniziare la mia storia. A proposito, mi chiamo Kita Narea, ed è l’estate del 2006. Fa talmente caldo che mi suda l’interno delle ginocchia ripiegate sui morbidi piedistalli di una di quelle strane e costose sedie ergonomiche importate dalla Svezia. Sono davanti al computer a raccontare i fatti miei più intimi a un tizio mai visto”.
La protagonista del libro si chiama, dunque, Kita: “Tre figli e un matrimonio alle spalle, forse con qualche rimpianto. Il mare, presto la mattina. Le sue tele e i suoi colori, lasciati lì, a riposare, forse per troppo tempo. E il bisogno di un incontro, di gesti e di parole. Per ritrovarsi, per ricominciare”.
Come ho scritto sul post, il tema del libro è duplice e di grande attualità: da una parte quello dell’abbandono, dall’altra quello delle relazioni sentimentali nate via chat.
Sempre sul post, avete letto (o leggerete) la recensione del libro firmata da Maria Rita Pennisi e pubblicata su “La Sicilia” del 20/01/2009.
Maria Rita mi darà una mano a moderare e animare la discussione.
E ora, le mie solite domande poste con l’intento di favorire la discussione…
Nelle relazioni sentimentali l’abbandono, in qualunque forma si concretizzi, è sempre un trauma.
Esiste un antidoto o, comunque, una “strategia” per neutralizzarlo (o per lenire le conseguenti sofferenze)?
Le relazioni nate in chat che possibilità hanno di dare esiti positivi?
Sono una “opportunità” o un “ripiego”?
E fino a che punto si riesce a essere davvero se stessi interagendo attraverso uno schermo e una tastiera?
Quali i pro, e quali i contro?
Mi pare che i temi proposti abbraccino problematiche e situazioni di sempre (l’abbandono) e dei “nostri tempi” (le chat line e – aggiungerei – i social network come “occasioni d’incontro per relazioni sentimentali”).
Invito Mavie a partecipare alla discussione (insieme a tutti voi) e Maria Rita da aiutarmi ad animarla…
Ti ringrazio Massimo per darmi l’opportunità di discutere insieme agli amici di letteratitudine su temi che mi sono cari.
Tanto da avere sentito la necessità di costruire una storia che li contenesse.
Mi permetto di accostare alle problematiche sollevate da Massimo degli altri quesiti.
Il trauma si abbatte solamente sul soggetto che subisce l’abbandono o non è forse la separazione un evento doloroso anche per chi ne è parte attiva?
E ancora, è possibile che dopo una relazione sentimentale di una certa importanza che si spezza nel dolore e nell’indifferenza ricostruire un rapporto sebbene su basi diverse? – E per rapporto diverso non si intende semplicemente il cosiddetto rapporto civile
Ringrazio in anticipo tutti quelli che vorranno intervenire, sarà per me un piacere dialogare.
Nelle relazioni sentimentali l’abbandono, in qualunque forma si concretizzi, è sempre un trauma.
Ecco, io non l’avevo capito, non avevo capito il senso di questa frase, anche rileggendola diverse volte. Perché? Ma perché per me “l’abbandono” vuol dire “abbandonarsi” nelle braccia dell’altro. “In qualunque forma si concretizzi” mi faceva pensare ai momenti di abbandono nelle braccia del mio amore. “È sempre un trauma” e là proprio non capivo. Perché abbandonarsi sarebbe un trauma? Non ha senso, o forse si’. Se ci si abbandona all’amore allora si rinuncia a una parte di se stessi che cerca la libertà. Per questo poi parla di “antitodo”. Quale sarebbe l’antitodo all’amore, all’abbandono di se stessi nelle braccia dell’altro? Il solo antitodo è scappare, fuggire lontano, tradire il compagno. È per questo che tanti lo fanno? Per paura? Per paura dell’amore!
Benedetta, credo che per “abbandono” si intenda l’essere lasciati dal partner.
Faccio tanti auguri a Mavie Parisi per il libro. Gli argomenti sono interessanti e di certo tornerò ad intervenire. Ora devo scappare. Ciao a tutti. Ciao Massimo.
Un buongiorno a Benedetta e a Valeria e un grazie per gli auguri.
In effetti il termine abbandono in questo caso non è inteso come un lasciarsi prendere dall’amore annullandosi in esso. Ha proprio ragione Valeria, non è un abbandonarsi è un essere abbandonati.
E’ il tuo compagno di una vita (perchè nel romanzo così è, anche se non è solo dal compagno che ci si può sentire abbandonati) che ti volta le spalle e va.
Vi aspetto ancora per approfondire
Mi sono accorta di non avere ringraziato Mariarita Pennisi.
Mia cara amica. Ci sentiamo così tante volte al telefono che stavo dimenticando dei doverosi ringraziamenti pubblici.
Il suo articolo mi è particolarmente piaciuto perchè descrive perfettamente le atmosfere che ho voluto ricreare nel romanzo.
Una frase per tutte: “uomini troppo deboli per legami forti”. In effetti leggendo tra le righe del libro emerge un universo maschile che, pur non essendo mai messo palesemente sotto accusa dalla protagonista che non si erge mai a giudice, appare a volte spaventato dalla profondità dei legami sentimentali.
Poco desideroso di spendersi in essi.
Ma, per evitare generalizzazioni e per onorare il principio che non esiste mai un’unica verità, nel romanzo viene data voce anche a quell’universo maschile.
salve a tutti,
è la prima volta che intervengo poichè è solo da poco che sono venuta a conoscenza di questo sito, e ne sono rimasta affascinata.
Ho deciso di partecipare alla discussione, nonostante non abbia ancora letto il libro (ma sono in procinto di farlo!), perchè il tema proposto mi interessa molto.
Ho da poco abbandonato il periodo dell’adolescenza, noto come “massimo momento di crisi esistenziale”,con i suoi drammi(che per ogni età hanno il loro peso),abbandoni, alienazioni…e, al giorno d’oggi, inetrnet rappresenta un rifugio da tutti questi “mali”.
E’ una vera e propria realtà parallela, dove apparire non è importante quanto esprimere veramente ciò che hai dentro.
L’adolescente abbandona il corpo che non accetta, la casalinga lascia i panni da lavare e il pavimento da spazzare, io, diciannovenne di provincia, metto le mie opinioni in campo facendo sentire le mie ragioni a persone che, forse si o forse no, le troveranno interessanti.
Bene, internet è questo: da’ spazio a tutti e offre una possbilità di riscatto.
La psicologia ci insegna che i nostri comportamenti sono sempre in qualche modo condizionati dai vincoli sociali, da regole di comportamento e di buona educazione, dai pregiudizi…Internet scioglie questi vincoli e ci permette di esprimere noi stessi, avvicinare chi è lontano, unire popoli e culture.
Notizie e informazioni in tempo reale, ma al contrario della televisione, l’interattività ci permette di dire la nostra.
Chat e social network ci mettono in contatto con altra gente, continuano quei rapporti sociali (necessari) che in acuni casi si interrompono.
Nel romanzo la protagonista “sedotta e abandonata” mantiene un rapporto con la realtà esterna grazie alle chat: le conseguenze di un’eventuale chiusura dovuta al dolore da lei provato avrebbe senz altro portato a casi di depressione o alcolismo o altro ancora, perchè in alcuni casi, sfogarsi sapendo che dall’altra parte c’è qulcuno che ti ascolta, qualcuno che, magari, condivide le tua stesse ansie e paure dovute alle stesse esperienze, è terapeutico come andare dallo psicanalista.
Ora, non dico che il mondo dell interattività abbia solo lati postivi e che ci si possa accontentare di vivere rapporti metafisici con lagente abbandonando i contatti umani, i baci e gli abbracci delle persone a noi care, ma credo che in momenti in cui tutto il monfo, quello reale, non c’è o siamo noi che desideriamo che sparisce, ne abbiamo a disposizione un’altro su misura, con tutti i pr e i contro ovviamente,ma infondo cos’è se non il riflesso di un mondo di per sè imperfetto?
Per concludere vorrei dare un consiglio a tutti coloro che soffrono per la fine di un amore: l’odio,il rancore, la rabbia che provate nei confronti della persona ce più amavate al mondo e che vi ha traditi deve trasformarsi in rassegnazione perchè nel momento in cui questi sentimenti vi surclasseranno l’avrete data vinta a coloro i quali vi hanno ferito.
Tanti auguri per il libro a Mavie Parisi e tutti i miei complimenti a Massimo Maugeri per il sito.
Distinti saluti a tutti.
mi scuso per gli errori di distrazione e di battitura…nn sono molto brava con la tastiera =)
innanzitutto un abbraccio, ricco di. a mavie, al suo dolore.
lutti da metabolizzare, questa è parte della frase che la psichiatra continua a ripetermi. l’abbandono matrimoniale, è uno dei lutti, mi dice, ché c’è la morte di tante cose, nella casa che è la nostra esistenza a due. metabolizzare è un vocabolo semplice da dire, ma tosto da digerire. ogni persona, ha una sua personalità, uno stato associativo di sentimenti relativi all’educazione ricevuta, ai valori morali, alla malleabilità che si ha con se stessi. insomma, a una miriade di aspetti, e nell’atto dell’accettazione, tutto diviene talmente soggettivo, che gli stessi medicinali, anche solo quelli per far riposare la mente, hanno effetti diversi da individuo a individuo. non credo ci siano antidoti né strategie valide, o curative, perché l’unica cura siamo noi stessi, infatti c’è solo il prendere atto che una sconfitta, ché l’abbandono coniugale comporta al cuore e al cervello la convinzione che è tale, non è la fine della propria vita. strategie ed antidoti, perché si usano certo, sono solo fasi momentanee, io li chiamo “tappi”, che al momento placano, ma non “curano”, e prima o poi tutto il dolore ritorna a galla ed esplode in modo letale ulteriormente sulla psiche.
naturalmente parlo, guardando il mio punto di vista, i miei lutti che ancora non riesco a metabolizzare, anche perché trent’anni trascorsi assieme non sono un soffio. mi reputo, cmq, una persona fortunata, perché dopo vari codici, che oscillano dal rosso al giallo, sono ancora qui.
mi fermo, ma tornerò, per condividere le altre domande, le quali sono un tragitto che ho percorso anche io, e dal quale ho generato, parte delle riflessioni di cui sopra.
grazie, massimo, e un caro saluto a voi tutti.
simonetta
@Ida. Ti ringrazio per gli auguri.
In effetti il tema della chat è molto presente nel romanzo e tu che hai diciannove anni, sei nata insieme al computer. Non ricordi il mondo in cui questo mezzo non esisteva ancora.
Io lo ricordo, e se è per questo ricordo anche il periodo in cui il telefono non era ancora in tutte le case.
La chat e i social network sono un mezzo di comunicazione, e in qualità di strumenti no hanno connotazioni positive o negative.
Siamo noi che li usiamo, siamo anche noi quindi che a volte ci facciamo usare da loro.
In effetti nel romanzo il mondo della chat è un’espansione del mondo interiore della protagonista.
Devo fare un paio di correzioni al tuo intervento. Due cose che non puoi sapere perchè non hai ancora letto il romanzo.
Kita, la protagonista, non è sedotta e abbandonata. Kita ha una marito che le è sinceramente affezionato ma che arrivato a un certo punto della sua vita comincia a sentire dentro un vuoto incolmabile che cerca di riempire allontanandosi da quella che un tempo era stata la sua esistenza.
Inoltre, purtroppo, Kita, nonostante i rapporti virtuali cerca rifugio anche in una realtà pericolosa. La chat non l’allontana dall’alcool.
Un alcolismo per così dire “casalingo” ma non per questo meno infido.
@simonetta
Voglio, in questo sabato invernale, dedicarti la frase che chiude i miei rinraziamenti nel romanzo.
“Infine, ringrazio mia madre, a cui il libro è dedicato, per avermi insegnato a essere forte e tenace, per avermi fatto capire che qualunque esperienza, per quanto dolorosa, deve sfociare in qualcosa di positivo (uno sforzo creativo ad esempio) e non essere perduta tra le pieghe di comportamenti annichilenti.”
Carissimi amici, sono felice che oggi si parli del romanzo di Mavie Parisi, che ho seguito nel tempo e che ho visto nascere e formarsi pian piano. Un libro splendido, una moderna storia di formazione nella quale il personaggio prende consapevolezza delle forme, delle ombre, dei mali del vivere partendo da un abbandono iniziale, e allacciando la propria vita a esperienze che lo spingono sempre più in basso, come risucchiato da un gorgo buio. Kita è una donna moderna, consapevole, ma deve apprendere sulla propria pelle molti aspetti della realtà e degli uomini. Uomini piccoli, meschini, o non sufficientemente capaci di offrirle quel che lei cerca: la pienezza dell’Uno, quell’Uno originale di cui parla Platone, e che costituisce l’idea stessa dell’amore. Uomini-cometa che le passano accanto senza aiutarla davvero ad attraversare il guado. Eppure, la nostra protagonista è più forte di loro, e ha esperienza, memoria del dolore. La scrittura in questo romanzo ha una caratteristica fondamentale: quella di rendere epico il malessere quotidiano: un minimalismo di fatti e di piccoli tradimenti giornalieri che tuttavia lo stile profondo, sottile, profondamente psicologico dell’autrice amplifica ed elegge a vere e proprie epopee dell’interiore. Un libro che si legge tutto d’un fiato, dal quale è impossibile staccarsi, e che racconta un dolore che è di tutti. In cui tutti ci riconosciamo. Il dolore dell’essere contemporaneo. Mi auguro che “E sono creta che muta” possa avere tutto il successo che merita, e lo auguro all’autrice, fedelmente ancorata alla sua penna come una vedetta sul faro tempestoso del quotidiano. Grazie, cara Mavie, di avere scritto un libro così bello perché tanto utile e tanto necessario. Un libro che ci aiuta a capire chi siamo. Qualcuno ha parlato di una Madame Bovary postmoderna, altri hanno fatto riferimento ad alcune eroine classiche di tanta letteratura. A me basta l’ampiezza dello sguardo, la precisione emotiva e la forza con cui queste immagini s’iscrivono sotto la pelle. Sono questi i pregi di una scrittura che lascia il segno. E che spinge il lettore a riaprire daccapo il libro, subito dopo averlo terminato. Un saluto pure a Massimo e a tutti
Un buongiorno a tutti gli amici del blog, in particolare a Massimo (che riesce sempre a stimolare confronti appassionanti in tema di letteratura) e a Mavie Parisi, amica dei laboratori di scrittura tenuti dal caro Luigi La Rosa, alla quale vanno i miei più sentiti auguri per il suo romanzo.
Entro subito in argomento. Il tema dell’abbandono è frequente in letteratura, ma non per questo abusato. Ciò perché si presta per sviluppi assolutamente originali che certamente, in un modo o in un altro, hanno qualcosa in comune col vissuto di ognuno di noi. La fine di un amore, la solitudine, la lettura di quel “sé” che deve fare i conti con i nuovi spazi entro i quali si muovono amarezza, sconforto, paura, disillusione e, malgrado tutto, voglia di ricominciare.
Come diceva Barthes “l’innamorato si smarrisce nella dipendenza”, fino a essere umiliato da questo smarrimento, tuttavia fa di tutto, suo malgrado, affinché lo spazio della dipendenza venga preservato. Insomma, ognuno elabora una topografia dei sentimenti amorosi, giusti o sbagliati che siano, al fine di dare al rapporto un corpo che respiri, gioisca, soffra, muoia perfino, rischiando di perdere di vista (ritorno a Barthes) la logica, la lucida capacità di riflessione.
Detto ciò, e nei termini suddetti, è chiaro che chiunque comprende il sentimento di infelicità scaturito dall’abbandono, perché tutti, in un modo o in altro, abbiamo vissuto “lo smarrimento nella dipendenza”.
La letteratura da secoli trova in tali argomenti pane per i suoi denti e sappiamo che spesso il suicidio è stata la soluzione per una pace definitiva (da Werther a Madame Bovary). Ma, come accade all’ Ivan Il’ic di Tolstoj, in cui il sopraggiungere della morte annulla la paura della morte e addirittura la morte stessa, in letteratura la morte non annulla l’essere innamorato, ma gli conferisce un’istanza. In un certo senso la ricerca di una soluzione estrema da all’innamorato la consapevolezza di essere in trappola, di muoversi in un territorio che non ha vie d’uscita.
Forse non esiste un modo per neutralizzare il sentimento dell’abbandono; la cosa migliore da fare è prenderne atto e attraversarlo, con profonda gratitudine perché si tratta di un’insostituibile esperienza di crescita. In molte tecniche di rilassamento (mi permetto di sconfinare u po’) quando ci si concentra su un dolore fisico, si viene invitati a “ringraziare” prima di ogni cosa quella parte del corpo che duole perché è stata al nostro servizio per quanti sono gli anni della nostra vita (mentre in genere ci si dispera prendendosela proprio con la parte dolorante).
Quindi tutto ciò che soddisfi il nostro desiderio di relazione e di rinascita (internet compreso) funzionano fino a che non ne ingigantiamo le potenzialità, affidandoci alle aspettative.
L’amore che vive di aspettative tradisce se stesso.
Un caro saluto a tutti.
Ciao, Mavie!
Il tema dell’abbandono è solo apparentemente “facile”. Quello che voglio dire è che si tratta di un tema, dal punto di vista della scrittura, insidioso, che si presta a scivolare nel lacrimevole.
Quello che mi piace, nel modo in cui è disegnata la protagonista del tuo libro, è che non ne hai fatto una figura patetica. Kita ha dentro di sé la forza per venire fuori dai suoi abissi, e per crescere – come dice Alessandro – attraversando quel territorio desolato che è (in qualunque sua forma) l’abbandono.
Una risposta-lampo alla domanda che facevi qualche post prima:
“Il trauma si abbatte solamente sul soggetto che subisce l’abbandono o non è forse la separazione un evento doloroso anche per chi ne è parte attiva?”
Senza stabilire impossibili “graduatorie del dolore” fra chi abbandona e chi è abbandonato, mi sento di dire che anche andar via da un rapporto è sconvolgente, e lascia comunque strmati, smarriti e bisognosi di ritrovarsi.
Tanti auguri per il tuo libro.
Con affetto.
Un carissimo saluto e un grazie agli amici Luigi e Alessandro.
Luigi ha visto davvero nascere il romanzo. Se esso è la mia creatura e io la partoriente diciamo che Luigi è stato l’ostetrico.
Ha ragione nel definire la mia Kita un’eroina contemporanea, anzi preferisco chiamarla eroe donna.
Sommersa da oneri e responsabilità di ogni tipo, con tre figli da accudire (e, come ogni madre sa, accudire è un verbo che travalica di molto i doveri del cibarli e fornire loro un ricovero), Kita deve combattere con se stessa, con i propri fantasmi, con il senso di colpa per non aver capito in tempo i segnali di disfacimento del suo mondo.
Non sono d’accordo quando Luigi dice che gli uomini del romanzo sono piccoli e meschini. Semmai sono egoisti e abituati a esserlo da un certo tipo di cultura dominante che li accudisce e li guida verso il culto di se stessi.
Mi fa piacere che citi quell’Uno Platoniano a cui tutti aspiriamo. Uomini e donne. Eppure, forse è proprio l’amore imperfetto che ci rende liberi di amare ciò che è diverso da noi e non necessariamente complementare.
Di Alessandro condivido profondamente l’idea che il dolore non si combatte, non si contrasta. Il dolore si attraversa. Solo l’attraversamento del dolore, quella discesa verticale dentro ciò che ci fa male ci affranca da quello che invece è il pericolo più grosso: l’annientamento del se.
Grazie cara Lia, mi trovi perfettamente d’accordo.
L’abbandono è devastante per chi lo compie e per chi lo subisce.
E’ stato studiato, attraverso una di quelle, per me incomprensibili, indagini scientifiche americane, che il rischio di infarto aumenta di molto nelle persone che escono da un rapporto molto lungo. Senza alcuna differenza tra chi è parte attiva e chi no.
E’ stato anche calcolato (misteri della scienza) che questo rischio non diminuisce neppure se i malcapitati si imbarcano in un’altra relazione stabile.
Non so che attendibilità abbiano questi tipi di studi nè in base a quali criteri vengano fatti.
Ma non ho bisogno della scienza per affermare che l’abbandoco colpisce anche l’abbandonante.
Ti ringrazio anche cara Lia di aver sottolineato la forza di Kita. Era infatti mia intenzione costruire un personaggio che non ispirasse compatimento.
Un augurio anche a te per la raccolta di racconti che sta per uscire. Ci vuoi dire il titolo?
Grazie per gli auguri, Mavie… si è sempre molto emozionati quando si sta per partorire! 🙂
La raccolta si intitola “Prima dell’alba e suito dopo”. Sono molto mattiniera, e lacuni miei personaggi lo sono pure.
Leggerò questo libro perché credo che sia di grande attualità, e perché tocca un argomento che sto analizzando da qualche anno.
Sto preparando anche io qualcosa che riguarda i rapporti nati in rete, e quindi mi interessa tantissimo conoscere altre voci e altri vissuti.
Spesso un amore nato al tempo del web è un amore destinato ad estinguersi in brevissimo tempo, ho potuto notare che questa accelerazione è costante in quasi tutti i legami virtuali.
La condizione di Kita è comune a molte donne, di tutte le età, spesso anche di donne apparentemente inserite in un rapporto coniugale.
Credo che sia una richiesta di conforto quella che spinge alla ricerca di un orecchio che ascolti e di un po’ di calore.
Comunque il fenomeno è solo agli inizi, non si riesce a immaginarne gli sviluppi futuri. Almeno credo.
Essere presenti e partecipi di questo nuovo modo di relazionarsi è essere attori-spettatori di un processo storico che sta cambiando radicalmente le abitudini del globo.
So di popolazioni poverissime, cui manca il cibo, ma non il pc.
Per loro è stato studiato perfino il modo di alimentare meccanicamente l’accumulatore di energia, a manovella, come si caricavano alcuni giocattoli del passato, ormai obsoleti.
Mi fa molto pensare.
Qualcuno scherzando chiedeva: ma dove stiamo andando?
Stiamo andando.
Complimenti vivissimi a Mavie Parisi, per aver affrontato un tema così complesso e così attuale.
un tema interessantissimo…non ho letto il libro ma lo comprerò..
a volte si cerca di star meglio in qualsiasi modo ….penso che dalle relazioni nate in rete possa comunque nascere qualcosa di buono …
@ Cristina e @ Gabbiano.
Grazie innanzitutto di essere intervenuti. Credo anch’io che questo dei rapporti nati in rete sia un tema attualissimo.
E per rapporti nati in rete non intendo soltanto i rapporti amorosi, ma anche amicizie e conoscenze di vario tipo.
Oramai moltissimi di noi tengono il pc sempre acceso sempre collegati su facebook o su qualunque altro tipo di social network.
Ci sentiamo onnipotenti, sempre in compagnia, le notizie si diffondono velocemente e con facilità.
La mia Kita è una donna del suo tempo sullo sfonro di un ambiente urbano e usa gli strumenti del suo tempo.
Ma così come per altre tematiche presente nel libro nè io come autrice nè quindi la protagonista si schierano nettamente a favore del bianco o del nero riuscendo a percepire e quindi apprezzare tutte le sfumature di colore.
La chat non è giusta e non è sbagliata. La chat è uno strumento del nostro tempo con i suoi lati positivi e le sue insidie.
Non credo che un rapporto nato virtualmente abbia una minore probabilità di riuscita una volta che compie il passaggio nel mondo reale.
Tutto dipende dal modo individuale di affrontare le cose.
Cara Mavie,
mi fa molto piacere vedere tutto questo entuasiasmo intorno al tuo libro. Un romanzo che merita l’attenzione della critica ma soprattutto dei lettori perchè diretto, chiaro e godibile da qualsiasi tipo di pubblico.
Sono molto felice quindi che abbia partecipato e vinto uno dei nostri premi letterari arricchendo la nostra squadra di autori PerroneLAB.
In bocca al lupo quindi anche se credo sia superfluo visti gli ottimi risultati che si sono già raccolti in poco più di un mese.
Grazie, Mavie, è proprio quel che penso anch’io.
Cari amici, buon sabato a tutti e grazie per i vostri interventi.
Consentitemi innanzitutto di salutare e ringraziare Mavie Parisi, la protagonista del post.
Come ho già scritto Mavie è una frequentatrice di antica data di Letteratitudine, ma è la prima volta che interviene nei panni di autrice.
@ Benedetta Pin
Grazie per il tuo commento e benvenuta a Letteratitudine! :-))
Un caro saluto a: Valeria, Luigi La Rosa, Alessandro Savona, Simonetta Bumbi (bentornata, Simonetta!).
@ Ida Giannattasio e Lia Messina
Cara Ida, cara Lia…
benvenute di cuore anche a voi! Grazie per i vostri commenti e… consideratevi caldamente invitate a intervenire ancora (sia qui, che negli altri post).
Un caro saluto anche alla cara Cristina Bove e a Gabbiano.
–
@ Gabbiano
È la prima volta che intervieni?
In tal caso, un caldo benvenuto anche a te!:-)
@ Giulio Perrone
Caro Giulio, un saluto e un ringraziamento anche a te per essere intervenuto.
@ Mavie
Cara Mavie, ti proponi queste altre due domande…
Il trauma si abbatte solamente sul soggetto che subisce l’abbandono o non è forse la separazione un evento doloroso anche per chi ne è parte attiva?
E ancora, è possibile che dopo una relazione sentimentale di una certa importanza che si spezza nel dolore e nell’indifferenza ricostruire un rapporto sebbene su basi diverse?
–
Mi sembrano ottime, dunque tra breve le inserirò nel post.
Un paio di domande (forse un po’ marginali) per Mavie…
la prima riguarda il nome che hai scelto per la protagonista del tuo libro.
Si chiama Kita… Kita Narea. Un nome particolare, che si fa ricordare…
Come ti è venuto in mente? È un nome reale, o di tua invenzione?
@ Giulio. Ti ringrazio di cuore. Come ho avuto modo di dirti in altre occasioni il tuo appoggio è gradito e prezioso.
Non sono una grande conoscitrice del mondo dell’editoria, ma da quel poco che ho visto ho potuto notare che il tuo modo di gestire le cose è attuale, dinamico e vincente.
Una vera manna per dei giovani autori (mi ci metto anch’io tra i giovani, almeno dal punto di vista letterario) esordienti.
@ Massimo. E’ un vero piacere essere ospitati su un blog come il tuo, così quotato e stimato da molti. Ancora grazie
L’altra domanda per Mavie riguarda la bella immagine in copertina…
La donna dell’immagine, se non sbaglio, sei tu… c’è il tuo viso trasfigurato, lì… (o sbaglio?).
Che effetto ti fa vederti (così trasfigurata, con questi colori tendenti al rosso) nell’immagine della copertina del tuo romanzo?
Sarà pure una domanda marginale ma sono contenta che me l’hai fatta.
Tempo fa incontrai una persona, una collega del mio ex marito, lei si presentò dicendo nome e cognome. Kita……….. il cognome non lo posso dire, ma l’insieme mi parve così musicale e evocativo che mi dissi “quando finalmente riuscirò a scrivere un romanzo (perchè fino ad allora mi ero fermata solo ai racconti) la protagonista si chiamerà Kita ……….” perchè del fatto che la protagonista del mio primo romanzo sarebbe stata una donna ne ero sicura.
Arrivò il giorno che la prima parola del libro vide la luce e io ripensai a quel nome (il cognome non è quello ma è assonante)
Nei precedenti commenti Mavie ha scritto: “La chat non è giusta e non è sbagliata. La chat è uno strumento del nostro tempo con i suoi lati positivi e le sue insidie”.
A proposito delle “insidie” della chat, mi è venuto in mente un mio vecchio racconto che molti di voi conosceranno già.
Si intitola “Muccapazza” e riguarda proprio il tema delle chat e delle relazioni in rete.
Pensate un po’… il racconto è del 2003 (sono dunque passati sette anni), ma rimane attuale.
Visto che è in tema, mi permetto di segnalarlo per chi non lo conoscesse e avesse voglia di dare un’occhiata.
Lo trovate su “Tellus Folio” o su “Arte Insieme“…
In effetti, cara Mavie, Kita – come dicevo – è un nome originale, musicale e che rimane in mente…
Ottima scelta!
La copertina è di Alessio Grillo, ci tengo particolarmente a dirlo perchè è un bravo artista e perchè con me ha avuto una pazienza infinita.
Io avevo in mente qualcosa e lui è stato capace di fare emergere quello che erano i miei desideri.
Volevo un volto di donna, ho pensato a mia figlia, ma mi sono resa conto che era troppo giovane per poter rappresentare la storia narrata.
Così, con gli scarsi mezzi che avevo a disposizione capii che la modella più economica di tutte ero io.
Alessio mi ha scattato centinaia di foto, ne abbiamo scelte una decina e le abbiamo (anzi le ha) trasfigurate in tutte le possibili maniere.
Questa a nostro avviso era la più riuscita. E poi il rosso è un colore che amo. E’ vitale, infuocato e….a quello che dicono gli antichi…serve anche contro il malocchio (non guasta)
L’ho visto crescere ed evolversi, il romanzo di Mavie. L’ho conosciuta quando ancora il libro conteneva soltanto metà dei capitoli, ed è stata un’esperienza affascinante vederla lavorare, giorno dopo giorno, su ciò che adesso può definirsi un’opera prima sobria ed accattivante.
Riguardo ai temi del romanzo, voglio solo sottolineare la capacità dell’autrice nel trasformare il vivere quotidiano in “quotidianità letteraria”, dipingendo (come di sicuro farebbe la protagonista) ciò che la vita ci offrirebbe solo in maniera tratteggiata. E’ la forza di questo romanzo, l’intima consapevolezza della scrittrice, di saper trasmettere al lettore, più che il diramarsi di una storia, la rappresentazione di una serie di eventi, che generano emozioni, a volte come come ferirebbero diafani coltelli, e altre come lenirebbero saputi pennelli.
Non ho letto questo tuo racconto e andrò a leggerlo subito. Il 2003 per un argomento come questo può essere considerata preistoria. Sono sicura che la percezione di uno strumento così particolare è cambiata in questi anni.
Caro Masimo
ho il piacere di inviarvi la recensione che Luigi La Rosa ha scritto sul romanzo di Mavie Parisi.
A fra poco Maria Rita Pennisi
E sono creta che muta,
un racconto di solitudine e guarigione
Un’estate caldissima. Una donna. Un computer. E un cursore lampeggiante che scandisce un’attesa crescente, amara, carica di emozione e di inquietudine. Sono queste le fila da cui Mavie Parisi prende spunto per dare avvio alla vicenda emotiva ed esistenziale dipanata nelle pagine del suo splendido romanzo d’esordio E sono creta che muta, (Perrone Lab Editore).
L’apertura, con la descrizione malinconica e profonda che la protagonista fa di sé, giunge al misterioso interlocutore che la intrattiene via chat – ma in senso più ampio al lettore del libro – come una specie di accorata ammissione: “Mio marito mi ha lasciata ormai da parecchi mesi, me e i nostri tre figli. Lui dice che ha lasciato solo me, ma è una bugia che racconta a se stesso. A dirla così si pensa subito a una cicciona di mezza età depressa e alcolizzata. Un po’ alcolizzata forse. Depressa per forza. Ma decisamente non cicciona. La mezza età non è cosa di cui si può discutere.”
Kita Narea è una donna sola. Una donna interessante. Che scende nel guado di una solitudine non ancora del tutto elaborata, non compresa fino in fondo, perché non appartiene alla sua natura deporre pacatamente le armi e cedere all’incomprensione delle cose. Kita vuole di più. Kita non ha dimenticato l’arte di chiedere, di pretendere, sebbene la vita sembra esserle sfuggita di mano, e la risalita che l’aspetta sarà dura, durissima. E questo Kita lo sa bene.
Probabilmente esiste una verità, qualcosa che lei e Stefano si sono lasciati alle spalle, o che hanno superato tralasciando di verificare tra le pieghe del non detto – quelle ombre che spesso evitiamo di osservare, nel risvolto di un dolore individuale che cresce, che s’ingigantisce, e che di giorno in giorno finisce per condizionare e qualche volta per uccidere la presunta eternità della vita di una coppia.
Kita si descrive con parole semplici, misurate eppure loquaci, e ci sembra quasi di vederla, col guizzo mai fiacco della sua intelligenza e quell’umorismo sottile che sembra l’antidoto migliore per sopravvivere al cambiamento, alla trasformazione imponente che stanno per subire la sua vita e la sua famiglia.
Da quando il marito Stefano è andato via – lasciandola tuttavia non del tutto sorpresa, anche se impreparata alla nuova gestione emotiva della sua giornata e alla cura dei tre figli nati dal loro matrimonio – pure affrontare un semplice week-end o una mattinata al mare può tramutarsi in una vera e propria epopea, piena di nervosismi e di insoddisfazioni.
Kita si racconta alle amiche di sempre: a Monica, a Elena, a Conchita (la più pungente del gruppo), e per un attimo la sua somiglia a un’estate come tante, rimessa in piedi sul fondale friabile di una rinnovata adolescenza, ma poi, la notte, quando il buio cala e tutto a un tratto le voci si disperdono, ecco che quel dolore che non ha parole – perché non ci sono parole per descrivere i palpiti che si frangono contro i vuoti del cuore, o le bugie che finalmente vengono a galla tra gli spettri tormentosi dei silenzi – Kita vorrebbe condividerlo con Damiano, ancora sfuggente e indefinibile nel brulicare un po’ anonimo del collegamento virtuale, e vorrebbe che pure lui le dicesse di capirla, di sentire lo stesso peso, di raccogliere gli stessi cocci, rileggere le stesse pagine, e abbandonarsi come lei al fuoco bianco dei ricordi, pronto a ridestarsi con la presunzione di una violenza.
Gli incontri reali e quelli del web accompagnano il trascorrere dei giorni, in un affondo sapiente che circumnaviga con maestria e struggimento il perimetro della sua graduale presa di coscienza. Kita è stanca di sperare, di aspettare, di confrontarsi con domande alle quali è impossibile trovare delle risposte, giacché le risposte forse non sempre ci sono.
Non gliele dà Giorgio, arrivato da Roma e tornato nella sua vita come una riapparizione da un sogno passato. Non può dargliele Damiano, imprendibile e complesso quasi quanto il suo ex marito. Non gliele danno i suoi ragazzi, che lei ama e dai quali è adorata, ma che hanno ancora troppa poca esperienza per accostarsi alle ferite del suo abbandono. Kita dovrà cercare ancora, e ancora, e dovrà farlo più in là, più avanti lungo il sentiero narrativo dove l’attendono nuove tenebre e nuovi più fitti e irraccontabili abissi.
Romanzo del cuore, scritto con assoluto nitore di dettagli e con una scrittura che incanta dalla prima all’ultima pagina, E sono creta che muta ci trascina lungo le tortuose strade della comprensione dei sentimenti e delle passioni. Mavie Parisi, straordinariamente brava per essere soltanto al suo primo libro, accompagna questo percorso con un delicato controcanto: quello dei versi di Pablo Neruda, che aprono i capitoli dispari del romanzo come una sorta di poetico leit motiv e che mettono in luce il significato ultimo nascosto nei gesti, nei movimenti, nell’epica post-moderna di una donna sola e coraggiosa.
Luigi La Rosa
Grazie per la risposta, cara Mavie.
Confesso di aver posto la domanda anche per poter parlare del buon Alessio, che saluto…
La scelta della modella mi pare azzeccatissima. 🙂
Ringrazio e saluto anche Carmelo Germano per il suo intervento…
Sì, Mavie… vai a dare un’occhiata a “Muccapazza” (in effetti credo sia un racconto piuttosto anticipatorio).
Grazie Carmelo. E’ vero hai visto crescere il romanzo e l’hai letto in anteprima proprio perchè tenevo particolarmente al tuo giudizio che ero certa sarebbe stato sincero e severo ma al tempo stesso indulgente e acuto, come solo quello di una persona sensibile, un poeta appunto quale sei tu, riesce ad essere.
Un saluto a Maria Rita Pennisi…
Grazie per aver inserito la bella recensione di Luigi.
Ho aggiornato il post con le nuove domande proposte da Mavie.
Le elenco nei commenti a seguire per chi avesse voglia di rispondere…
anch’io nn ho ancora letto il libro,ma trovo il titolo veramente bello.L’abbandono è un’esperienza veramente triste,che segna indelebilmente la vita ,il cuore,il sentire….è vero tutto quello che è stato scritto finora…nn mi resta che leggere il libro!!!GRAZIE finora a Mavie
Nelle relazioni sentimentali l’abbandono, in qualunque forma si concretizzi, è sempre un trauma.
Esiste un antidoto o, comunque, una “strategia” per neutralizzarlo (o per lenire le conseguenti sofferenze)?
Il trauma si abbatte solamente sul soggetto che subisce l’abbandono, o non è forse la separazione un evento doloroso anche per chi ne è parte attiva?
È possibile dopo una relazione sentimentale di una certa importanza, che si spezza nel dolore e nell’indifferenza, ricostruire un rapporto sebbene su basi diverse?
Le relazioni nate in chat che possibilità hanno di dare esiti positivi? Sono una “opportunità” o un “ripiego”? E fino a che punto si riesce a essere davvero se stessi interagendo attraverso uno schermo e una tastiera? Quali i pro, e quali i contro?
Ringrazio anche Anna per il suo intervento qui sopra…
Per oggi devo chiudere qui.
Auguro a tutti voi un buon fine settimana…
Cara Mavie,
non mi devi ringraziare di nulla. Quando un romanzo è bello, quando la storia è avvolgente, mi viene spontaneo scrivere qualcosa. Se poi scopro che una mia amica è anche un ottima narratrice, il gioco è fatto.
Benvanuta Mariarita e grazie di avere pubblicato questa bella recensione che mi è stata fatta da Luigi La Rosa
Ciao Massimo a presto
Ringrazio Anna perchè con il suo commento mi permette di parlare del titolo.
E sono creta che muta
Il verso intero è: E sono creta che muta tra le tue agili dita
E’ tratto da una poesia alla quale sono particolarmente legata.
Una poesia che mi è stata dedicata da una persona a me molto cara, purtroppo scomparsa da molto tempo.
La riporto per intero. E’ la poesia di apertura del libro
E ancora cerco una risposta che non trovo
e ancora il vento mi leviga i tratti,
e mi insegue il ricordo benchè io fugga.
e sono terre lontane, emisferi di pace,
dove regna la luce, e son creta che muta
tra le tue agili dita
di Giovanni Pennisi
Caro Massimo,
chiedi come si superi l’abbandono.
Io credo che la fase dell’innamoramento sia come una malattia. Sintomi, acme, fase discendente, convalescenza e guarigione. La fase della guarigione è quella che crea maggiori problemi in amore. Se il rapporto tra due persone è stato breve, anche se molto intenso, si soffre lo stesso e tanto, ma la cosa si complica quando si parla di unione e ancor peggio se si parla di matrimonio finito, come nel caso del romanzo di Mavie. Il matrimonio finito non implica solo il lasciarsi di due persone, ma il crollo di tutto un mondo che è partecipe di quell’amore e che ruota intorno ad esso. Quindi non devi guarire solo tu, ma devi aiutare i figli a guarire. Quando uno dei due coniugi se ne va, non si separa solo dal coniuge, ma anche dai figli.
Si fa presto a dire, ma io vedo i miei figli due volte la settimana, non faccio mancare niente loro economicamente. Mi sento a posto. Sono chiacchiere. I figli vogliono la presenza nella casa di entrambi i genitori. I figli sanno che quando uno dei due genitori va via, per qualsiasi motivo, loro non sono poi così importanti. La tranquillità o un nuovo amore del genitore passa avanti a loro. Chi va via non solo vede i figli partime, ma costringe il coniuge abbandonato a vedere i figli partime. Un coniuge abbandonato può benissimo perdonare e augurare il meglio a chi l’abbandona, ma non potrà mai superare il trauma di vedere i propri figli abbandonati e con un dolore, che non si risolve a nessuna età.
Come si guarisce dal dolore personale? Per quel che mi riguarda con il silenzio, con il passare del tempo. Vivendo e cercando di digerire il proprio dolore, bevendone fino all’ultima goccia, senza far finta di star bene, di aver superato tutto velocemente. Il dolore, come tutti gli altri sentimenti ha i suoi tempi.
Grazie, cara Rita di aver riportato la mia recensione. Carissima Mavie, sono felice del successo che stai avendo, e della fitta presenza di interventi e contributi. Che crescerà ancora, stanne certa. Quando prima parlavo di uomini “piccoli o meschini” mi riferivo solo all’atteggiamento oggettivo con cui nel romanzo loro si dimostrano incapaci di “amare” nel senso più pieno, più incondizionato al quale aspira invece Kita. Se invece parliamo dal punto di vista psicologico della tua protagonista, io ho sempre detto che lei riesce a “non giudicare” nessuno. Cosa che la rende veramente grande. Lei vive di ferite, di tradimenti, ma non porta rancori, e non si chiude mai all’universo maschile, del quale continua a sentire il richiamo e le fascinazioni. kita si cerca, e noi, leggendo il romanzo, ci cerchiamo insieme a lei. Il suo è un viaggio che mi piace sempre definire “verticale”, una discesa agli abissi, da cui grazie al cielo alla fine si risale, ricchi di esperienza e della consapevolezza raggiunta. Un viaggio che come tutte le discese conosce la vertigine, conosce il tuffo, conosce il deragliare da se stessi e dal reale. Voglio rivolgere un saluto affettuoso e particolare anche a Giulio, che ha creduto in questo romanzo. Carissimo Giulio, il merito tuo è quello di star rimescolando le acque torbide del presente, andando a sondare, andando ad “auscultare” tra le ombre. Immagino che non debba essere facile, nel vasto mar della carta stampata del nostro tempo. Eppure, tra le tante cose di poco valore, un editore è davvero grande quando fiuta invece alcuni scrittori di buon livello. Tu stai dando delle opportunità, laddove il talento ti sta indicando alcune possibili intuizioni. Continueremo a lavorare magnificamente, e sono certo che la Perrone e la Lab avranno presto un catalogo ricco di voci e di spunti. Si crescerà tutti insieme, per potenziare ciò che ancora va potenziato, per migliorare ciò che va migliorato, ma con questa dose di “coraggio”, che tu e la tua casa editrice avete mostrato sin dal principio. Nel credere. E cos’è la vocazione all’editoria se non una vocazione a credere nell’altrui valore? Un abbraccio caro a te, a Mavie, a Maria Rita, Massimo e tutti gli amici che stanno rendendo grande questo post.
“E ancora cerco una risposta che non trovo” brevi e profonde queste parole di Giovanni Pennisi, che adesso è in “terre lontane” ma la cui voce poetica rivive grazie al romanzo di Mavie.
Spesso cerchiamo una risposta che non c’è al dolore. Il dolore è dato da un allontanamento di qualcosa o da qualcosa. Una persona che va via, che muore, che non si fa più sentire. Una casa in cui non si ritorna più, un gioiello che non ci sentiamo di indossare, un vestito che mettiamo da parte. L’allontanamento sta alla base del dolore. Perdere qualcuno che si ama corrisponde a una cacciata dall’Eden. Ritorna in noi, ancestralmente, quel momento. Sai che quella persona per te non ci sarà più. Questa è la cosa terribile da superare.
Hai perfettamente ragione, cara Maria Rita. E’ una cacciata dall’Eden, che segna una ferita profonda sul nostro mondo emotivo. Guarire da questa ferita significa cercare di richiuderla, pur sapendo che la cicatrice rimarrà per sempre, a mio parere…
Cara Mariarita, dici bene, quando finisce un amore (e io faccio un’enorme differenza tra il verbo finisce e il verbo fallisce), tutto il piccolo mondo che ruota intorno a qell’amore crolla.
E più di tutti ne fanno le spese i figli.
Sta nel buonsenso di entrambi i genitori poi riuscire a ricreare, seppure in maniera ridotta, quel clima di allegria e serenità che deve accompagnare i ragazzi nella loro crescita.
Non sempre è facile, soprattutto i primi tempi, quando il dolore dell’abbandono brucia e tu ti chiuderesti volentieri in te stesso senza avere le capacità quindi di dare nulla agli altri, neppure ai tuoi stessi figli.
Ma tu sei madre e sai che l’amore di una madre supera ostacoli grandissimi
Caro Luigi, so bene cosa pensi del mio romanzo, so bene come lo hai seguito amorevolmente sin dall’inizio, so bene quanto sei capace di entrare dentro le storie e di capirle in profondità.
A te il mio ringraziamento più sentito
I miei migliori auguri a Mavie. A causa di un contrattempo non sono potuto venire alla prentazione di Catania ma spero ci siano altre occasioni. A Luigi i miei complimenti, vero scopritore di talenti. E’ stata davvero una piacevolissima sorpresa leggere la recensione di Maria Rita Pennisi su “La Sicilia”.
Caro Salvo,
ti ringrazio molto per le tue parole affettuose.
A presto.
Carissima Simona Lo Iacono,
non ci sentiamo da un po’. Spero di sentire presto la tua voce.
Ti abbraccio con affetto
Carissima Maria Lucia,
dove sei?
Fatti sentire prestissimo.
Ti abbraccio con affetto
La fine di una storia d’amore credo che sia dolorosa per entrambe le parti. Il fallimento di un percorso di vita è sempre frustrante. Ci si chiede di chi sia la colpa, chi abbia dato di meno nel rapporto, quale errore sia stato determinante per la rottura, ma tutte queste domande non eliminano l’amarezza che si sente dentro. Comunque chi lascia prova un senso di sollievo, anche perché ha trovato il coraggio di rompere una situazione che non faceva bene a nessuno dei due. L’abbandonato sta peggio.
Salve a tutti,
banalmente credo che l’unico vero antidoto al dolore sia il tempo e nient altro, tutto il resto è un palliativo. Credo che l’abbandono sia un percorso dolorosisssimo per entrambi perchè anche chi abbandona si separa da una parte di sè che è stata importante e ne rappresenta la propria storia, è un fallimento comune, in più chi abbandona si porta la responsabilità di abbandonare che può creare molti sensi di colpa se si è persone “pulite” dentro e l’assunzione del ruolo di “carnefice”, socialmente ed emotivamente duro da sostenere. Infine credo che uno schermo permette di essere maggiormente se stessi perchè vengono eliminate le convenzioni sociali, ma proprio per questo, paradossalmente, chi sei veramente viene fuori prima ed in modo molto chiaro proprio perchè non ci sono “barriere”.
Un saluto a tutti.
Se dovessi scrivere io un libro sull’abbandono, ne verrebbe fuori un saggio di mille pagine. Tutte le volte, sedotto e abbandonato. E’ diventato un trauma. L’abbandono come costante di vita. A cominciare dai miei genitori, che appena mi videro mi abbandonarono sotto un cavolo.
@ Salvo. Ti ringrazio degli auguri. In effetti mi è dispiaciuto non averti visto alla presentazione, ma certamente ci saranno altre occasioni. E’ infatti in programma una presentazione siracusana alla quale spero potrai essere presente.
Patrizia, mi trovi perfettamente d’accordo. La separazione è una ferita che lacera non solo chi la subisce ma anche chi la mette in atto praticamente. A volte spetta al cosiddetto carnefice il compito di togliere le castagne dal fuoco per entrambi.
Sensi di colpa, cambio delle abitudini di vita, lontananza dai figli se ce ne sono.
Per contro chi resta è doppiamente ferito: nel cuore e nell’orgoglio.
Per quanto riguarda lo schermo esso ha una duplice funzione. Da un lato ti nasconde, dall’altro ti protegge.
In entrambi i casi, indipendentemente dal fatto che tu possa avere usato uno pseudonimo, o che ti possa essere nascosto dietro false identità, a mio avviso, emerge il nocciolo essenziale di te stesso. Soprattutto se il tuo interlocutore sa leggere al di là delle parole.
La butti sullo scherzo, Salvo, ma dici una verità profonda. Il senso di abbandono, spesso è qualcosa che ci portiamo dentro da molto lontano e che ci condiziona.
Saluto tutti affettuosamente. A più tardi
@Cara Mavie. Non so se ci crederai ma una banalissima foratura alla gomma dell’auto mi ha impedito di venire. Quel giorno tornavo da Messina e sono rimasto bloccato due ore per imparare come si cambia la ruota della macchina. A Siracusa verrò senz’altro, lo prometto solennemente. Le recensioni di Luigi e Maria Rita mi hanno incuriosito molto e desidero leggere il tuo libro al più presto.
Carissima Mavie,
è con immensa commozione che leggo. E con altrettanta commozione presenterò il tuo romanzo qui a Siracusa con l’inseparabile Maria Lucia.
L’abbandono. Il dolore.I desideri…
Lo schermo che nella notte brilla come una stella, che ti invita con la voce di un’anima in attesa: vieni, vieni. Trova in me la strada. Forse qui, tra le stellanti ramature dei monitor, c’è la risposta.
E invece la risposta è in noi.
La risposta all’abbandono è il ritrovamento di se stessi.
E’ una strada scoscesa, strapiombante. Noi e le cavità meno esplorate, noi e il rimando della vita, il suo mistero, le sue graffiature. E una domanda.
Perchè.
Ecco, è da lì, da quel primo perchè in un’insonnia lancinante, che l’abbandono si trasforma in opportunità.
Mia dolce Mavie, no, non esiste antidoto al dolore. E no, non è neanche possibile sperare in una strategia. Il dolore convive con l’enigma dell’esistenza, con il paludoso intrico di luce e buio, persino con la felicità.
Non possiamo privarcene senza privarci al tempo stesso della pienezza.
Ma possiamo trasformarlo, redimerlo, affrancarlo dall’unica zavorra che – veramente – sacrificherebbe la vita: non amare.
Una buona notte e moltissima fortuna, dolce Mavie. A te che ami.
Nonostante tutto.
@ Maria Rita,
vedrai, cara, ci riabbracceremo prestissimo. Un bacio a te e a Orazio.
@Alessandro Savona: Ale, amico mio. A te un doppio bacio e una notte stellata.
@Luigino, so che stai ancora poco bene. Guarisci presto.
@Alessio Grillo (il bravissimo fotografo della copertina): è meravigliosa, tesoro mio.
@Massi: anche il bellissimo “Muccapazza” evoca lo stesso sruggimento innanzi allo schermo. La stessa, dolorante, incompiutezza. Di fronte alla sofferenza, alla vita che tenacemente ci si avvinghia addosso come un’ortica, che esige il rispetto dei suoi riti e delle sue stagioni, siamo sempre e soltanto “teatranti in festa con la morte nel cuore”.
Un grandissimo bacio anche a te e un buon fine settimana a voi tutti.
Hai ragione Simona la vita è un incomprensibile intrigo di sentimenti ed emozioni. Il dolore ne fa parte. Ed è solo dall’accettazione del dolore che nasce la crescita interiore. In se stessi e nei valori profondi , nella bellezza, nell’arte si trova quel conforto che troppo spesso cerchiamo laddove non possiamo trovarle.
Ti ringrazio delle tue parole e so che sei felice per me e ti emozioni nel vedere la mia gioia. Lo so perchè è quello che ho provato io nei tuoi confronti.
Carissima Mavie come prima cosa volevo farti tantissimi complimenti, come sai ho letto il libro e l’ho trovato splendido…è stato un vero piacere collaborare insieme per la realizzazione della copertina, spero di aver reso al meglio quello che avevi in mente 🙂
Ti auguro che questo libro sia soltanto il primo di una lunga serie, piena di successi. TE LO MERITI!
Grazie mille a Massimo, per avermi citato!
Un saluto affettuoso a Luigi, Maria Rita, Simona e Alessandro!
Salvo ci conto. Non tutti i mali vengono per nuocere, alla presentazione del mio romanzo assisterai lo stesso e nel frattempo hai imparato a cambiare le ruote.
Un caro saluto a te
Grazie Alessio, sai che sono entusiasta della copertina che hai realizzato, l’ho già detto in un intervento precedente. Quello che invece non avevo detto è che hai realizzato uno splendido quadro, olio su tela, proprio della copertina
Un saluto affettuosissimo a te e a tutti gli amici del blog.
A domani
Massimo, ho appena letto il tuo racconto “Muccapazza” su Arte Insieme.
Letto e riletto perché immediato, coinvolgente, anticipatorio. Davvero anticipatorio. E poi, penso anch’io, come scrivi nell’ultima riga, che siamo dei teatranti in festa con la morte nel cuore.
Ma penso sia coinvolgente, oltre che di grande attualità e utilità, anche il romanzo di Mavie Parisi: non l’ho ancora letto, l’autrice mi perdoni.
Mi ho colpito, tra l’altro, il contenuto della frase che – nel libro – chiude i suoi ringraziamenti: “Ringrazio mia madre… per avermi fatto capire che qualunque esperienza, per quanto dolorosa, deve sfociare in qualcosa di positivo e non essere perduta tra le pieghe di comportamenti annichilenti”. Perché chi subisce un abbandono, un distacco – non solo amoroso, s’intende – precipita inevitabilmente negli abissi della depressione o della nostalgia perniciosa. Ripeto: inevitabilmente, dato che gli affetti o i sentimenti amorosi (di qualsiasi genere) per ciascun essere ritengo valgano tanto quanto l’ossigeno.
Reagire: ecco la parola d’ordine, nei casi di abbandono o distacco.
Reagire subito, aggrappandosi alle persone care, a un ideale, a un mito, a una persona desiderosa di ricominciare magari daccapo, condividendo esperienze, speranze, illusioni e proiettandole nel futuro. A mio avviso.
Adesso c’è la rete, ossia le chat, i social network, dove coloro che possono si buttano spesso a capofitto, seguendo forse la moda, ma – comunque – la voglia di non sentirsi isolati se non relegati in ambienti troppo stretti o tristi, soffocanti, senza orizzonti colorati, senza una brama, un sogno, una chimera. Insomma, un progetto o un qualcosa che faccia dimenticare al più presto le amarezze, le delusioni, i traumi, cominciando a ricostruire la vita. Guai, altrimenti.
Un saluto cordiale, A. B.
Non ho letto il libro, ma vorrei dire la mia sui temi proposti.
Non penso ci sia una strategia unica per superare un trauma, specie quello dell’abbandono. Penso che ci si debba rassegnare all’idea che la vita è fatta di abbandoni continui fin dalla nascita. Sapere che tutti prima o poi soffrono o hanno sofferto per un abbandono può consolare,il famoso mal comune…Forse si soffre più per l’abbandono in sè che per la perdita di qualcuno.Si soffre perchè si pensa di aver perso una parte di sè. Superare un abbandono equivale ad un lutto da elaborare.
Sulle relazioni in chat, vorrei dire che molti proiettano illusioni e aspettative su sconosciuti e si creano solo grandissimi equivoci. Questi innamoramenti dell’anima sono solo destinati in gran parte al fallimento di fronte al riscontro reale di corpi fatti di ben altro.
Se si resta dietro una tastiera non è amore, ma solo un’illusione vera e propria, un’infatuazione per un sogno molto mentale.
Cara Mavie,
sto leggendo il tuo libro e lo trovo molto attuale, non solo per il riferimento alle chat ma anche per il senso di solitudine e di abbandono che sembra connotare la società che stiamo vivendo. Mi convinco sempre più che la “precarietà” sia diventata il motivo conduttore delle nostre esistenze, in tutti i campi. Anche i sentimenti sembrano ormai percorsi da questo senso di “finito” che, talvolta, li svilisce nel loro significato più profondo. Ed è questo che ci rende insoddisfatti, incompiuti..Siamo combattuti tra la voglia di credere ai sentimenti veri e il “sano cinismo” che fa soffrire meno.
Per quanto riguarda l’abbandono, credo che non ci sia un antidoto che valga per tutti. Ognuno ne elabora uno personalissimo, fatto di tante cose. Per primo, l’amore verso se stessi e la voglia di andare avanti e di scommettersi ancora, anche se la ferita che ci si porta dentro, se quel sentimento è stato forte, credo non guarisca mai totalmente. Rimane lì, come una cicatrice che il tempo a poco a poco asciuga. L’importante è guardare avanti ed avere sempre un progetto, seppur minimo, da portare avanti nella vita. E continuare a credere che i sentimenti esistono, nonostante sembra così difficile trovarli.
Un in bocca a lupo per il successo del tuo libro!
Donatella
Un saluto e un ringraziamento ai nuovi intervenuti: Ausilio, Maria e soprattutto Donatella che conosco personalmente e con la quale abbiamo intrapreso un comune cammino di ricerca nella scrittura.
Ho letto anche io il racconto di Massimo: Muccapazza. L’ho trovato particolarmente curato nella ricerca lessicale, ma su questo non nutrivo alcun dubbio, e soprattutto molto coinvolgente e decisamente in tema con uno degli argomenti che stiamo dibattendo.
In un intervento precedente dicevo che la chat è solo uno strumento e come tale non è giusto e non è sbagliato, non è bianco e non è nero.
Il protagonista del racconto di Massimo usa la chat per uscire dal grigiore di una vita che non lo soddisfa più. Lavoro, moglie, la sua stessa figlia appaiono agli occhi di lui come immagini deteriori della propria anima che si trova riflessa in qualcosa in cui non si riconosce. E allora il mondo virtuale viene visto come quella lama di luce che entra da sotto la porta e che ci ricorda che di là, nell’altra stanza, qualcosa illumina l’ambiente.
In lui il mondo della chat rimane consapevolmente virtuale e quindi soltanto una estensione delle sue fantasie.
Il finale è poi particolare, ma penso che sia meglio non svelarlo.
La mia Kita corre questo rischio, corre il rischio di rimanere invischiata in rapporti virtuali che tali rimangono. In quel caso dietro lo schermo non c’è nessuno. E’ la persona che interagisce con se stessa. L’io consapevole che dialoga con l’io inconsapevole.
Ma kita è una donna forte e aiutata da questa forza e dalle circostanze esce dal virtuale riportando il tutto alla realtà.
A quel punto la chat è ritornata ad essere uno strumento inanimato, duttile nelle mani di chi lo usa.
Buongiorno!
Spero abbiate trascorso un sabato strepitoso. Mio marito ed io siamo rimasti a casa, perché lui è raffreddatissimo e le temperature sono polari.
Il sole stamani illumina il cielo, ma c’è un gran freddo.
Come stai Mavie? Hai visto quanti spunti di discussione offre il tuo libro?
Io proporrei un altro punto di riflessione, che è sempre legato al tuo romanzo.
Quando il dolore per l’abbandono si è affievolito, come si ricomincia a vivere per se stessi? Quali sono i primi passi che una donna o un uomo devono compiere per riequilibrarsi e capire che nonostante tutto la vita va avanti?
Buongiorno a te Mariarita, in effetti il sole stamattina splende e questo a mio parere modificherà i toni della discussione.
Siamo tutti un pò metereopatici, non credi?
Mi chiedi queli sono i primi passi per andare avanti. Io credo che per andare avanti bisogna guardarsi indietro.
Quello che intendo è che sicuramente ognuno di noi ha un vissuto che ha costruito lentamente, attimo dopo attimo, molecola dopo molecola.
Nel momento in cui qualche evento turba la nostra quotidianità o peggio fa a pezzi il nostro mondo (e non necessariamente deve essere una separazione), abbiamo la tendenza a credere che veramente tutto sia perduto.
E invece non è così. In un punto del romanzo Kita dice si rende conto che l’espressione “rifarsi una vita” è una sciocchezza. La nostra vita ce l’abbiamo già. Basta solo ritrovarne i brandelli scaraventati qua e là da un vento a volte crudele.
Che ne pensi?
Cara Mavie, sono molto contento degli interventi suscitati dal tuo libro, che leggerò presto. Si respira l’amicizia tra persone accomunate dalla passione per la scrittura. Meraviglioso!
Ci vedremo in Feltrinelli, a Palermo, per l’appuntamento di reading del 12 febbraio (insieme ad altri scrittori), il primo di una serie di eventi durante i quali ci sarà un confronto tra autori esordienti. Spero che altri carissimi amici avranno piacere di parteciparvi nei prossimi mesi (da Dario Ricciardi a Simona Lo Iacono, che stimo moltissmo).
Un affettuoso saluto a Maria Rita Pennisi, a Luigi La Rosa, agli amici del blog e in particolare a Massimo Maugeri.
Ancora auguri, Mavie!
Grazie Alessandro, non vedo l’ora di partecipare al reading del 12 febbraio, oltretutto avrò il piacere non solo di incontrare te, dato che non ci si vede da un anno ormai, ma anche alri autori lab che conosco solo virtualmente (a proposito di chat e social network).
Ti ho già espresso in privato il mio apprezzamento per il tuo romanzo “Etica di un amore impuro”. Voglio farlo anche pubblicamente.
I nostri due romanzi hanno molto in comune. Ma mi voglio soffermare in particolare sul doppio registro narrativo che tutti e due utilizziamo.
Nel mio è usato allo scopo di mostrare la realtà da diversi punti di vista.
Questa è una cosa alla quale tengo particolarmente perchè ne ho fatto il mio credo, non solo narrativo, ma anche di vita.
Non esiste una sola verità. Ognuno si crea la sua personale immagine dei fatti, per necessità, per potere continuare, per credere ancora in sè stessi e in qualcosa.
Cara Mavie,
Penso che la nostra vita ce l’abbiamo già, ma quando si è stati nell’occhio del ciclone, quando tutto passa, arriva il momento della ricostruzione, come dopo qualsiasi catastrofe. A volte la vita ci dà una mano, ma certe volte noi siamo in un posto e la nostra vita sembra andarsene da un’altra parte. Bisogna riacciuffarla e riappropriarsene. Riflettere e fare un progetto. Non è detto che tutto vada avanti positivamente, perché non esistono ricette che ci cambiano la vita o ci diano la felicità (sarebbe auspicabile avere solo un poco di serenità) ma questo può aiutare. Soprattutto sarebbe basilare fare un esame di coscienza e cercare di non ripetere gli stessi errori. Darsi completamente a una persona, vivere in funzione dell’altro, respirare attraverso il suo respiro, tutti questi per me sono errori, che invece di saldare spezzano il rapporto d’amore. Bisognerebbe invece conservare i propri spazie e fare insieme delle cose.
Il 5 febbraio 2010 avrò il piacere di presentare il libro di Mavie Parisi in una libreria romana e per questo lo sto rileggendo attentamente, rimanendo sorpreso dalla sua capacità di affrontare a modo suo un tema attualissimo e perfino troppo sfruttato dai mass media e dalla letteratura dell’intero emisfero occidentale. Guardandosi bene dal battere strade già percorse da altri, o di cadere nel già detto e nella frase fatta, Mavie sa orchestrare una vicenda dolorosa con un tono originale, decisamente letterario e non giornalistico: molti scrittori credono purtroppo che scrivere un romanzo equivalga a realizzare un réportage. La sua lingua si apparenta invece, a mio avviso, a quella di alcune apprezzate autrici nordamericane, fra le quali mi piace citare Anne Tyler (alla quale si devono magnifici romanzi, e soprattutto quel “Turista per caso” che io amo molto e che diventò un bel film con William Hurt) di cui Mavie replica un’attitudine a scovare nel quotidiano, negli interni domestici e nel coro delle amicizie la spia di un penoso senso di vuoto e di un’inquietudine che vanno forse al di là dell’esser stati abbandonati da qualcuno, perchè è la vita stessa ad abbandonarti ogni tanto alle tue incertezze prima che tu ne riacciuffi miracolosamente un senso che ti consente di andare avanti. Battendo la strada di una ricerca di significato in mezzo alle macerie di una solitudine non scelta, ma imposta dalle circostanze, Mavie Parisi promette per il futuro una serie di interessanti romanzi sulla pericolosità del vivere di un ceto sociale solo apparentemente privilegiato, ma in realtà condannato a girare in tondo entro le mura che ha eretto per proteggersi dall’esterno e che lo condannano in realtà a una sorta di carcerazione. Rapporti coniugali, amici e amanti, figli difficili o, al contrario, decisi a emanciparsi: c’è un intero universo che scalpita per finire dentro i suoi prossimi libri. E noi siamo in attesa di leggerli. Francesco Costa
Ciao Francesco, è un piacere ritrovarti qua a discutere con noi del mio libro.
Tu, insieme a Lugi, lo avete visto nascere e crescere, e non credo di esagerare nel dire che senza di voi il mio romanzo non avrebbe visto mai la luce.
Voi mi avete consigliato, incoraggiato, bacchettato quando era necessario.
Hai colto prfettamente nel segno citando Anne Tyler, è infatti un’autrice che amo e alla quale mi ispiro molto nei miei scritti.
La sua narrazione è rivolta a quella ordinaria quotidianità che è poi ciò che rende grande la vita di tutti.
I suoi libri sono difficili da catalogare: umoristici, drammmatici, ironici, tragici o fose è meglio dire una miscellanea di tutti questi generi , come una miscela è a vita. Non ha mai un solo colore.
Ma anche i tuoi libri mi sono serviti da spunto, anche da essi ho tratto quelle suggestioni, quelle fascinazioni che compongono la vita.
So che è in uscita il tuo libro “L’imbroglio nel lenzuolo” dal quale è stato tratto il film omonimo che ha come interprete Maria Grazia Cucinotta. Ti faccio i miei migliori auguri. Sono certa che sarà un grande successo. Un augurio sincero e affettuoso a te
Carissima Maria Rita,dolcissima Mavie, e Alessandro, amico mio…
Come si fa a ricominciare? A “rifarsi una vita”?
Credo cambiando parte.
Ribaltando lo sguardo. Vaggiando non solo in noi, ma anche nell’altro.
Sgretolando la maschera.
Sono d’accordissimo con il carissimo Francesco Costa che mette in luce le ombre di una società privilegiata, che però non sa parlare, aprire il cuore, farsi scardinare. Che si arrocca su ruoli e recita copioni, aggrappandosi a sicurezze apparenti, pronte a sfarinarsi sotto la soffiata turbinosa di un amore che muore. Di uno che nasce. Di un altro che non sa dove andare.
Polvere.
Ecco. Credo che in questo la letteratura possa assolvere il ruolo di uno specchio e un riflesso, farsi materia come quello schermo di computer a cui si è tentati di affidare l’irrisolto e che, invece, non è che noi innanzi alla nostra voce, per un attimo soli e liberi.
Nudi.
Ancora un bacio a tutti voi, cari amici, a Massimo che con strabiliante chiaroveggenza ha saputo far ballare i teatranti di fronte al buio, a Mavie che ne ha dipanato i lamenti, e a chiuque legga questo libro, umanissimo e necessario, in cui non sarà difficile riconoscerci.
Buona domenica e a presto.
Una caro e sincero saluto a tutti e in particolare agli amici (in ordine alfabetico) Lia, Luigi, Massimo, Simona. Ed ancora a tutti gli altri che con me ricevono i preziosi insegnamenti di Luigi La Rosa. Uno a parte per Mavie che è l’autrice del libro protagonista della discussione, che ringrazio per il personale invito a partecipare.
Carissima Mavie, non ho ancora letto il tuo libro, perché aspetto la sua presentazione a Siracusa. Voglio immergermi nella lettura di un libro, prima di iniziarlo a leggere, osservandone a copertina e riflettendo sul titolo; e cosa, poi, meglio della sua una presentazione che leggo sarà presto a Siracusa, per di più affidata a Simona e Maria Lucia?
Comunque la riflessione sul titolo era in atto ed i quesiti posti da Massimo convergono con i pensieri suscitatimi.
Alle prime tre domande rispondo SI.
Per la quarta rispondo ?, perché è un’esperienza che non ho, seppure accomunabile a quella embrionale e meno tecnologica dei “Baracchini – canale 14”, le ricetrasmittenti che negli anni ’70 utilizzavo proprio col fine di conoscere nuova gente. C’era il fascino della speranza di parlare con persone di altre nazioni, vanificata dalla scarsa potenza delle trasmittenti con il solo canale 14. Comunque ne ho conosciute di “voci”, ma di persone mai, perché fissato l’appuntamento non ci andavo o non si presentava l’altro/a. Oggi c’è più trasparenza, si vedono foto (ma saranno vere?), si sento voci nitidamente, si leggono scritti o si odono musiche e canzoni. Tutti, nei paesi avanzati, possono esporsi e proporsi. Senza limiti. E’ più facile, quindi, accettare di incontrarsi o, semplicemente, di chattare e video chattare. Il problema e che, poi, dopo tutto questo dirsi si crede di conoscere l’altro/a che, in verità, non potrà mai essere ciò che si è rappresentato, perché la sua rappresentazione nel reale sarà necessariamente diversa. Per chiudere, ritengo che sia solo un nuovo e moderno strumento per conoscere gente che diversamente non avremmo mia incontrato; che apre la via a possibilità di scelte ed alternative mai pensate. Resta sempre il passo successivo della conoscenza reale, secondo gli schemi di sempre, senza tecnologia. Al buio che puoi illuminare solo vivendo.
Mi chiamano per il pranzo. Torno più avanti per rispondere al primo degli argomenti di discussione.
@Massimo
Grazie per il caloroso benvenuto.
Buona domenica a tutti voi del forum , un saluto particolare a coloro che conosco personalmente.
Anch’io ho scritto 2 anni fa un libro autobiografico sulla mia esperienza “solitudine-chat”.
Si intitola “100mila colpi di mouse”. Chi l’ha letto l’ha definito un libro “coraggioso”.
Spero qualcuno di voi l’abbia letto e mando un “inboccalupo” a Mavie Parisi.
Buona serata a tutti.
Buona domenica pomeriggio a tutti, e grazie per i nuovi commenti.
Ne approfitto per salutare e ringraziare i nuovi intervenuti: Salvo Zappulla, Patrizia, Simona Lo Iacono, Alessio Grillo, Ausilio Bertoli, Maria Landolfo, Donatella Grasso, Francesco Costa, Pietro Aglianò, Raffaella.
E grazie a tutti coloro che sono tornati a commentare, alimentando la discussione.
Caro Massimo se sono scomparsa da Letteratitudine é perché la mia vita é cambiata. Ho abbandonatato tutti. La città, il lavoro a tempo pieno, il compagno e il figlio.
Sono attraversata da grande amore, ma vivo con le buste dei panni nel portabagagli, dormo in tre case diverse, e ho paura di perdere mio figlio.
Scriverò di questa esperienza e leggerò il libro di Mavie.
Per ora sto nel regno delle ombre. Neppure la lettura e la scrittura mi sono di conforto.
Un abbraccio
Vorrei evidenziare questo passaggio dell’opinione di Patrizia (grazie, Patrizia!), perché potrebbe sembrare – apparentemente – in controtendenza: credo che uno schermo permette di essere maggiormente se stessi perchè vengono eliminate le convenzioni sociali, ma proprio per questo, paradossalmente, chi sei veramente viene fuori prima ed in modo molto chiaro proprio perchè non ci sono “barriere”..
Cosa ne dite? Siete d’accordo sul fatto che – riparati da uno schermo (dal monitor di un pc) – riusciamo a essere meglio noi stessi?
@ Francesca Serra
Carissima Francesca, ti ho appena letta…
Scrivi: “Per ora sto nel regno delle ombre”.
Sono molto rattristato. Di certo starai vivendo una fase difficilissima della tua vita. Ti faccio tantissimi in bocca al lupo per tutto.
Dici che neppure la scrittura ti è di conforto… ma io mi ricordo che la tua è una bella penna. E la scrittura aiuta a “trasformare”… anche le difficoltà.
Coraggio!
@ Simona, Ausilio e Mavie
Grazie per aver letto (o ri-letto) “Muccapazza”.
Questa frase di Maria Landolfo, per esempio, fa da contraltare alla sopraccitata opinione di Patrizia.
Maria scrive: “Se si resta dietro una tastiera non è amore, ma solo un’illusione vera e propria, un’infatuazione per un sogno molto mentale”.
@ Francesco Costa e Mavie Parisi
Anne Tyler – a mio avviso – è una delle più grandi autrici nordamericane.
Direi che la citazione (mi riferisco a quella di Francesco) è più che lusinghiera… 🙂
@Massimo
Concordo su Anne Tyler. Ho letto molti suoi libri, consiglio a chi non la conoscesse Lezioni di respiro e Ristorante Nostalgia.
Cara Lia,
complimenti per il tuo libro di racconti “Prima dell’alba e subito dopo”.
Cari Simona, Maria Lucia, Alessandro Savona, Alessio Grillo, Patriza, Donatella, Luigi, Salvo grazie per essere qui con noi ad alimentare il dibattito sul romanzo di Mavie. Grazie anche agli altri intervenuti che non conosco personalmente.
Un saluto particolare al carissimo Francesco Costa da me e Orazio Caruso.
Ciao Massimo.
Pongo una domanda provocatoria (tentando di ribaltare i termini della questione).
Evitare a tutti i costi “l’abbandono”, in alcuni casi, può essere causa di un trauma ancora più grande dell’abbandono stesso?
Ciao, Maria Rita.
Un caro saluto anche a Lia.
Per oggi temo di dover chiudere qui.
Auguro a tutti voi una buona domenica sera e un buon inizio settimana.
Un saluto ai nuovi intervenuti: Pietro, Raffaella, Francesca.
@Pietro. “Il passo successivo è la conoscenza reale” dici, e mi trovi perfettamente d’accordo. Infatto come ho già avuto modo di dire. Un rapporto che resti nella virtualità non può essere considerato rapporto interpersonale. Diciamo che è un raporto con se stessi, con la propria fantasia, con i propri desideri.
@Francesca. In boca al lupo per la tua vita, anche se non ti conosco.
@Raffaella un crepi il lupo
Ciao Massimo,
anch’io per stasera devo chiudere qui, per un impegno imprevisto.
Vi abbraccio tutti. A prestissimo
Ciao, Maria Rita. Grazie a voi per l’accoglienza.
Buona serata domenicale a tutti, a rileggervi presto.
Accanto alla domanda di Massimo: Evitare l’abbandono può essere un trauma maggiore dell’abbandono stesso?
Rilancio un’altra tematica: L’abbandono è un trauma solo per chi lo subisce?
E inoltre, c’è una maniera “maschile” e una “femminile” di vivere l’abbandono?
Ovvero c’è una maniera “maschile” e una femminile” di vivere qualunque esperienza?
A tal proposito voglio citare un brano del mio libro:
“Così pensò di fare la più maschile delle cose: farglielo capire senza parlarle. Era questo che tentava di fare da parecchi mesi oramai. Non che fosse una decisione troppo consapevole, non era stata deliberata a tavolino per intenderci, gli veniva proprio naturale, da sempre, evitare ogni genere di discussione, quando poteva e finchè poteva.
E Kita ebbe la più femminile delle reazioni: si rifiutò di capire il linguaggio di Stefano. Parlava, parlava, discuteva, argomentava, ragionava, predicava praticamente da sola. E fu così che la voce di lei, normalmente bassa ma dolce, cominciò a sembrargli una stridula litania.”
@ Mavie.
Credo che la nostra visione del mezzo sia l’ovvia,
diversamente si avrebbe il patologico.
E non è certo internet che ha dato luogo a questo tipo di rapporti virtuali.
Le e-mail, il telefono, le lettere tradizionali ed ogni altro mezzo di comunicazione antico, moderno o futuro, è stato e potrà essere utilizzato in modo patologico, o meno; perchè la patologia è nostra, non dello strumento che utilizziamo. Le macchine, ad oggi, sono solo macchine che, a volte, anche imparano, ma che non possono concepire usi patoligici di se stesse. L’essere umano, invece, non ha certo di questi “limiti”.
La chat è soltanto un mezzo.
L’abbandono è dolore, l’abbandono è tormento. E’ tormento che infliggiamo agli altri e, chi abbandona, non lo risparmia nemmeno a se stesso.Sono lacrime inconsolabili, è la tua vita che viene fatta a pezzi,che viene travolta e stravolta. E quando ci sono figli?
Vorresti essere figlio anche tu e piangere assieme a loro.
Ma non puoi, tu sei la madre e non puoi nemmeno urlare, piangere disperarti e lasciarti andare.Ti guardi allo specchio e provi tutte le espressioni che possono rassicurare i figli. Ne trovi una e la ripeti e la accompagni con parole che spesso non hanno significato.
Continui a guardati allo specchio per ricordarti chi eri prima…
La mia vita non è stata più la stessa dopo la separazione…
Nemmeno quella delle mie figlie….naturalmente.
Ma mi sono alzata da quel letto che mi teneva depressa e angosciata e ho cominciato a far finta di credere nella serenità, a poco a poco ho cominciato ad esserlo davvero.
Ma non sono sempre convinta di ciò!
Con il mio ex marito uomo colto e intelligente, abbiamo avuto la capacità di imparare a volerci bene.Lui adesso è il mio punto di riferimento principale. Lui continua ad essere l’uomo più importante della mia vita.
Lo rivedo continuamente nelle espressioni delle mie figlie….una certa somiglianza…..un modo di camminare….e l’amore per le lettere e la filosofia…A volte mi chiedo come sia avvenuta la nostra separazione…
Essere cosi’ simili non ci ha aiutato a tenere fermo il nostro matrimonio.
Provo ,adesso, una grande tenerezza per lui.Il suo pensiero per me è illuminante…e nonostante questo……
Circa il subire gli eventi legati ai rapporti umani ho una mia teoria.
Tutto è frutto delle nostre personali scelte. E se scegliamo consapevolmente, saremo in grado di affrontare e superare anche le disavventure che ci siamo procurati. Perchè saremo pronti. L’aspettavamo.
C’è sempre a nostra disposizione la capacità sensoriale di percepire la scelta migliore. Peccato che annebbiati dalla quotidianità e, più spesso, dall’orgoglio, imbocchiamo strade improbabili. A causa di ciò, succede che percorriamo porzioni di vita che non ci appartengono (nel senso che contrastano con la nostra predisposizione naturale); e inconsapevolmente ci troviamo davanti a situazioni impreviste, non volute, ma autoprocurate.
Per sintetizzare: la consapevolezza del nostro vivere quotidiano è l’unica ragione che ci può consentire di accettare certi intoppi.
Con riguardo all’argomento dell’abbandono in una coppia, non credo che il momento tragico arrivi a ciel sereno. Entrambe le parti lo sanno già da tempo. Lo intuiscono, comunque. Chiedersi il perchè attraverso l’esame di tutte le vicende susseguitesi nel tempo può aiutare a comprendere se una soluzione c’è. Poi si dovrà scegliere. Rifiutarsi di vedere una cris evidente può solo alimentarla. In ogni caso, è evidente, l’una parte subisce sempre le scelte dell’altra.
Per collegarmi con quello che scrive Mavie, credo anch’io che ci sia un modo maschile ed un modo femminile di affronatre le esperienze, ma credo anche che i due modi siano utlizzati da entrambi i sensi.
La maniera di vivere le esperienze è sempre personale.
A volte non vogliamo confessare nemmeno a noi stessi di avere scelto consapevolmente la sofferenza.
Certo Pietro, ci troviamo profondamente d’accordo, almeno sulla chat. E l’abbandono? Tu hai una vita matrimoniale felice. Ma sicuramente, non foss’altro che per motivi professionali avrai esperienze indirette di abbandono
@ Grazia. Capisco perfettamente il tuo punto di vista. Come dice Lia Levi nel suo libro “Quasi un’estate”. Un ex marito, quando i rapporti non sono deteriorati da rancori passati e presenti è quasi un parente.
Le tue figlie sicuramente avranno subito il trauma della separazione dei genitori, avranno visto le loro certezze cadere ad una ad una, il loro piccolo mondo sgretolarsi, ma forse, anzi certamente, il loro trauma è meno doloroso dei figli “della guerra”.
Guerra che spesso gli ex coniugi conducono incuranti degli sgaurdi e degli animi smarriti di figli di ogni età.
Inoltre dici una cosa molto tenera “Vorresti essere figlio anche tu e piangere insieme a loro”
Ti dedico una pagina del mio romanzo:
“Aveva sempre evitato di esternare davanti ai ragazzi reazioni troppo esagerate.
Non sempre in questi ultimi mesi l’impresa poteva considerarsi riuscita.
Un paio di volte era fallita miseramente.
In particolare le tornò in mente la crisi di pianto di una sera. Il motivo era sempre lo stesso. Avevano passato del tempo tutti e cinque insieme, come una vera famiglia, ogni tanto capitava, poi tutto ritornava alla normalità: Stefano andava via e le lasciava un vuoto ogni volta più grande. Tutto come sempre o quasi, ma quella volta Kita non aveva retto. Avevano finito di cenare, lei come al solito si era tirata su con un pò di vino che in quel periodo in particolare serviva anche a sciogliere il nodo dell’ansia e farle mangiare qualcosa.
All’improvviso, davanti alla tv accesa, alcune lacrime avevano cominciato a scendere lungo la guancia.
In genere era capace di ricacciarle indietro, o di mascherarle con qualche abile trucco, ma quella sera sembrava una sorgente inesauribile, e questo le procurava ancora più rabbia.
Quelle lacrime silenziose erano presto diventate singhiozzi dapprima soffocati e poi sempre più rumorosi.
I figli la guardavano, lei ricambiava quegli sfguardi cercando di trasmettere le sue scuse per lo spettacolo avvilente.
Poi, visto che non c’era proprio verso di smettere, Kita decise che tanto valeva lasciarsi andare del tutto e godere del conforto dei ragazzi.
Quando si avvicinarono, lasciò che l’abbracciassero e cominciò a piangere sempre più accoratamente, ora sulla spalla dell’uno ora dell’altro, incurante delle loro facce attonite e infelici.
Quella fu l’unica volta.
Da quel momento e per parecchio tempo, non appena Kita mostrava una faccia meno che allegra, ecco che subito Davide, Giulio e Benedetta si avvicinavano preoccupati.
Grazie Mavie, non ho ancora letto il tuo libro, ma questa pagina che ho letto mi ha emozionata e commossa.
Lo leggerò presto.
Un abbraccio e grazie di cuore.
E’ saltato il contatore della casa dove mi trovo. Torno alla discussione.
@ Mavie
Certo. Credo, comunque, che la felicità e l’infelicità sono frutto di ciò che veramente vogliamo.
Nella mia esperienza professionale ho constatato che le responsabilità di una crisi di coppia, alla fine, sono quasi sempre attribuibili al 50% a ciascuno. Il tarlo principale si chiama: “chi ha cominciato per primo?”. Poi si passa a: “quello cho fatto o detto è conseguenza del tuo comportamento”. E così via all’infinito.
Caro Pietro, una cosa devo contestartela. Non sempre gli eventi ti trovano preparato. A volte neghiamo la realtà anche a noi stessi. Non riconosciamo segnali per quanto chiarissimi.
anche a te voglio dedicare un piccolo frammento del mio libro.
“Passarono parecchi mesi prima che lui si decidesse a mettere davvero la parola fine e lei, in tutto quel tempo ebbe modo di riflettere a lungo e di capire che qualunque dote avesse pensato di avere non era bastata a decifrare la realtà. E quella sensibilità di cui si vantava tanto era stata in qualche modo offuscata.
In seguito fu abbastanza semplice riconoscere, in episodi passati, segnali piccoli e grandi, ma era come sfogliare un libro della storia dell’umanità e sorridere benevolmente all’ingenua scoperta della ruota.
Il classico senno del poi”
Qual’è la verità resta sempre un mistero. Da qui la percentuale fornita.
Scusatemi ma i miei doveri di mamma mi chiamano. A più tardi.
@ Lia Simona e Mariarita, un saluto e un bacio affettuoso mi scuso se oggi non le ho ancora salutate
rispondo:
certo, certo. Quello che voglio dire è che c’è un metodo: tenere presente ogni scelta compiuta per avere consapevolezza del proprio presente e trovarsi pronti ad affrontare le difficoltà di relazione. La rutoa la costruiamo noi e sempre noi le diamo la direzione da percorrere. Comprendo chè è difficile, ma non vedo alternative. E’ questa, ritengo, la consapevolezza di cui abbiamo bisogno.
Le crisi relazionali non provengono dall’esterno. Nascono e crescono all’interno delle relazioni. Poi vengono anche esternalizzate e, a quel punto, subiscono le influenze esterne. Come ogni esperienza umana, del resto.
Quindi chi ne è l’artefice se non noi stessi?
Personalmente ritengo che le relazioni affettive mediate dalle chat siano complementari e non sostituisacano e che le relazioni sentimentali nate in questo modo non abbiamo che le stesse possibilità delle relazioni “normali”.Anzi, credo che la chat consenta di essere più “nudi”, scevri da interferenti condizionamenti.
Consapevole che la mia teoria è sorella dell’utopia e figlia del desiderio di credere che possiamo essere artecifici delle vicende della vita, auguro a tutti buona notte.
Nel ringraziare Patrizia per il suo intervento chiudo per questa sera mettendo in campo uno dei quesiti.
E’ possibile ricostruire qualcosa tra due persone che si sono separate? Non sul piano sentimentale ma sul piano affettivo
E’ possibile farlo in nome non degli eventuali figli ma in nome di se stessi, per non sentire il fallimento, per far si che un amore possa considerarsi finito e non fallito?
torno, e a frammenti scorro i commenti.
bellissima, tua madre, anima bella, e ti sono grata, per la sua forza. la mia, ancora mi dice fammi stare tranquilla, sono anziana, ma me lo dice da quando ero piccola.
non sono sparita, caro massimo. seguo tutto quel che posso, tutto quel che gli stati di lucidità mi permettono, ché la depressione mi crea voragini.
tre anni chiusa, al buio, senza riuscire a parlare, nel vero senso della parola, con nessuno. non riuscire nemmeno ad alzarmi dal divano per andare in bagno, per il terrore di perdere quel posto, la mia casa. per tre anni un divano è stata la mia casa. ho ripreso a comunicare con due tartarughe d’acqua, ed anche se adesso ho ripreso ad “usare” il mondo esterno, spesso mi devo violentare, per dire fra la gente, anche se davanti ho uno schermo.
a volte dico che la chat è stata la mia rovina, ed altre mi dico che quella rovina è stata la mia salvezza.
sono consapevole del bene e del male, ma loro si fondono, quando ti arrampichi sugli specchi. essere una sensitiva mi è servito a poco, ché gli eventi non si possono fermare. e non m’ero accorta, che la ragazza delle pulizie mi stava portando via il marito, ma forse sono stata io a permetterglielo, perché la mia mente era stanca di vivere di morte. ancora lo vedo, mentre mi urina addosso per sfregio e mi riempie di calci, e sento le mie grida d’imploro, a non lasciarmi.
solo dopo anni di studio su me stessa, mi sono resa conto che ci eravamo lasciati già da molto, e che la percentuale di colpe era al 50%. ogni notte sento quella porta sbattere, e dentro mi batte la lotta, quella di una “cosa” che cerca di tornare ad essere una donna. la chat è una fuga, un rimpiazzo a ciò che manca dentro, ma la vera vita è fuori dallo schermo, ma fuori trovi niente, trovi altre guerre, altre indifferenze, e allora ti rifugi. se tu sei sempre te stessa, lo sarai anche in chat, ma in chat la maggior parte ci va per cacciare, e allora anche lì sei preda, ché se non sei riuscita a cacciare la sensibilità, ti mangeranno sempre. la cattiva soggettività, ti fa perdere la fiducia negli altri, e vedi tutti come nemici.
ho letto, e condivido le teorie di pietro aglianò, ma ogni teoria, nel momento della pratica, si stravolge, ed ha effetti diversi da individuo a individuo, e cmq, ogni situazione deve essere vissuta, per poter dire. ricordo il medico di famiglia, quando mi parlava del cancro che stava mangiando mio padre, e mi diceva che un malato anche in punta di morte spera sempre o rifiuta di sapere, ma che a un medico quello non poteva accadere, ché ha l’esperienza e lo studio approfondito che lo rende lucido e consapevole. quando lui stesso fu colpito da quel male, ed io andavo a trovarlo, mi parlava come se potesse guarire. me lo guardavo attonita, e provavo un grande dolore dentro per lui.
i figli, diventano “armi”, ma malgrado la mia instabilità mentale dell’epoca, non l’ho mai usata contro di lui. però non sono riuscita ad evitarle di soffrire, anche perché è sempre stata lei a trovarmi, e a salvarmi la vita, e mi sento doppiamente in colpa, perché non so se ringraziarla di questo.
nella consapevolezza di quale sia il mio bene, continuo a farmi del male, perché non so gestire la sensibilità. indubbiamente siamo tutti sulla stessa barca, e a proposito, mi viene in mente una frase di una riflessione, che copio/incollo per non deturparla, del prof. Alessandro Bertirotti (antropologo della mente): In questo mondo ci sono troppi cuochi, poche navi e di certo pochissimi comandanti, mentre l’intera umanità procede verso una meta senza fine, perché vede solo la fine…
mi fermo qui, e dò invio senza rileggere, perdonatemelo.
un caro saluto a tutti.
simonetta
Intanto complimenti e auguri a Mavie…
ho avuto la gioia di partecipare alla sua prima presentazione. Ad maiora!
Interverrò più lucidamente nei prossimi giorni. Per adesso dico soltanto che Mavie riesce a cantare senza sentimentalismi la nostra quotidianità affannata ma desiderosa di contatti e calore, di senso, di stupori nuovi.
Un carissimo saluto oltre che a Mavie a Luigi, mentore di una vera e propria genia di scrittori… ad Alessio che riesce a scrivere un’emozione con i suoi colori, a Maria Rita, sempre affettuosa, entusiasta e propositiva. A Simona, con cui avrò il piacere di condividere l’accoglienza siracusana a questo libro e alla sua autrice.
Kita impara soprattutto a guardare meglio in se stessa e nei propri desideri e pensieri. Romanzo di formazione? Forse di ri-formazione, di rinascita. Che passa anche dalla tastiera di un pc.
Lessi MUCCAPAZZA ai suoi tempi – vengono i brividi… quanto tempo è passato? – e l’emozione oggi è la stessa.
Oggi poneriggio ho visto in tv per la prima volta L’ULTIMO BACIO e mi sembra calzante con la discussione sul libro di Mavie. Uomini con il complesso di Peter Pan, donne che lottano contro l’abbandono e il tradimento, donne che acquisiscono consapevolezza di se stesse, uomini che si perdono e forse si ritrovano, anche loro.
Cara Simonetta,
la tua storia non può non colpire anche se è una storia comune, passami il termine per piacere.
Nel mio libro c’è una frase che dice “Il dolore non è neanche vagamente esclusivo”
E questo non ha nulla a che vedere col mal comune mezzo gaudio. Semmai è il contrario: il dolore di uno fa vibrare i dolori di tutti.
E’ vero una separazione è un lutto e come tale ha bisogno di una elaborazione. Ognuno reagisce a modo suo ed ha la sua pesonale via per contrastare il dolore e riemergere.
Non esiste purtroppo una ricetta unica e precostituita.
Nel mio libro, Kita compie la sua personale discesa agli inferi accompagnata dall’alcol.
E’ questo il suo modo di farsi del male, perchè è ovvio che bere o stare distesi su un divano o rimanere al buio, il chiudersi al mondo o qualunque altra diavoleria si metta in atto è solo un modo di farsi del male.
Ti sei accorta che anche tu hai avuto delle colpe nella vostra separazione e a questo ci credo. Ma non parlerei di colpe direi che in certi momenti si instaurano dei meccanismi che portano le relazioni interpersonali a compiere un certo cammino che a volte è segnato e inevitabile.
Tuo marito non si sarebbe comportato nello stesso modo se davanti avesse avuto un’altra donna. Tu non ti saresti comportata nelle stesso modo se di fronte avessi avuto un altro uomo.
Non ci sono colpe, Simonetta cara, e solo quando dentro di te questo pensiero metterà radici profonde fino a diventare consapevolezza, inizierai la risalita.
Bellissimo nel senso di agghiacciante l’episodio del dottore ammalato.
E’ difficile dare una valutazione esatta della realtà quando ci si trova in mezzo agli accadimenti.
E’ normale, è umano.
Coraggio Simonetta!
Un saluto speciale a Maria Lucia, un’altra persona che sta percorrendo, insieme a me e a tanti altri amici, un cammino all’interno della scrittura.
So che il mio libro ti è piaciuto e, conoscendo la tua sensibilità, sono particolarmente fiera di questo.
Quando presenteremo il romanzo a Siracusa io mi sentirò protetta e a casa perchè so che vicino a me ci sarete tu e Simona.
Prima di andare al lavoro mi preme rilanciare un quesito che mi sta particolarmente e cuore.
C’è una differenza per voi tra relazione finita e ralazione fallita?
Ovvero, qualunque relazione, nel momento in cui finisce, è da considerasi fallita?
1) Un abbandono è una ferita, un colpo per l’ amor proprio, un’esclusione, un castigo. E fa male, non solo metaforicamente ( gli psicologi hanno rilevato, attraverso la risonanza magnetica funzionale, che nell’ abbandonato che soffre si attivano le stesse aree cerebrali che sovrintendono al dolore fisico).
2) L’ autore ( o l’ autrice) dell’ abbandono ha certo una presa di coscienza tormentata, come è possibile quando si fa chiarezza in una situazione, ma ne trae comunque dei vantaggi ( si può sentire svincolato, liberato da un rapporto non più convincente).
3) E’ possibile ricostruire, ma solo dopo aver superato il lutto e sempre a seconda dell’ intensità e del coinvolgimento della prima storia. E dopo aver recuperato fiducia in se stessi ( sentirsi rifiutati da una persona porta a intaccare tutta la percezione del mondo esterno in senso negativo, l’ ostilità di uno diventa ostilità di tutti ).
4) Le chat line possono dare spunti, occasioni di apertura ma a questo strumento deve poi corrispondere un vissuto reale. Su uno schermo non siamo veramente noi stessi e non ci confrontiamo sul serio con l’ altro se poi non ne condividiamo la quotidianità. Bisognerebbe quindi, a mio avviso, avere infine il coraggio di saltare oltre quella barriera.
5) Non c’ entra molto, ma mi viene in mente ” Ne me quitte pas”, una bellissima canzone francese.
E infine un bel libro sullo struggimento d’ amore: IL MUSEO DELL’ INNOCENZA di Orhan Pamuk.
Grazie per l’ attenzione.
Luciana Prisciandaro
cara Mavie,
prima di andare al lavoro rispondo al tuo quesito.
Se le relazioni sono esperienze di vita, nel bene e nel male lasciano sempre qualcosa, in genere aiutano a crescere. Che bella questa frase ottimista e positiva!!!ma (non nascondiamoci dietro ad un dito) si arriva a pensarla così solo quando, e dopo essersi voltati indietro per brevissimo tempo, nel presente il bilancio della propria vita tutto sommato risulta positivo, le trasformazioni hanno portato nuovi amori, gratificazioni e successi professionali, un futuro ricco di speranze e buone prospettive. Al contrartio se ti senti rovinata e non sei riuscita a rinascere come avresti voluto, nonostante i traumi e la tua voglia di farcela, ecco che sopraggiunge la parola “fallimento”: la sua gravità oltrepassa il piano personale legato alla relazione “finita” fra i due, per estendersi su un piano molto più doloroso che è quello sociologico. Appare il “perdente” nel quale nessuno vuole rispecchiarsi e che tutti sfuggono come il portatore di quanto si è sempre scongiurato….
Pirandello fu maestro nel mettere in scena personaggi che entrano vincenti e che escono annientati da un società senza verticalità, ecco ne parlo da siciliana con esperienza americana, come colei che ha tanti ricordi.
Alla fine, cari signori e care signore, è sempre meglio lasciare bei ricordi di sè, lo scrivo da religiosa.
Saluti
Rossella Grasso
Ho letto tutti i commenti e ringrazio per aver organizzato questa discussione in cui molti di noi non potranno che ritrovarsi.
Le domande sono molte e per ognuna di esse si potrebbe scrivere un saggio. Per il momento non mi sento di rispondere. Forse più tardi, o nei prossimi giorni.
Però ci tengo molto a fare gli auguri a Mavie Parisi. E ti faccio una domanda, Mavie. Quella che racconti in questo libro è una storia inventata o autobiografica? O anche se non autobiografica attinge dalla tua vita?
E poi un abbraccio forte a Francesca Serra ed a Simonetta Bumbi. Il vostro dolore, il vostro disagio, coincide con il mio. Lo percepisco attraverso il monitor.
Sono con voi.
@ Luciana, grazie di essere intervenuta, le tue affermazioni sono in linea di massima condivisibili. Naturalmente poi ognuno in base al proprio vissuto farà i necessari distinguo.
Io però sono ottimista di un ottimismo maturato negli anni, e derivato non da una sciocca fiducia negli eventi ma da un profondo credere nelle possibilità del singolo, capace, se lo vuole, di rialzare la testa in ogni caso.
@ Rossella. Grazie anche a te. Nel tuo intervento c’è un messaggio importantissimo: si può fare in modo che le cose finite non diventino fallimenti, anche in questo caso dipende solo da noi.
Finita la fase di lutto, finita la fase della discesa nel dolore, inizia la risalita. Insidiosa, piena di pericoli ma necessaria. Ed è proprio in questa fase che bisogna lavorare perchè le cose positive del passato rimangano dentro di noi in quel prezioso scrigno che si chaima esperienza di vita. Ripeto: lo dobbiamo a noi stessi.
@ Susanna. Spero che tornerai a trovarci per condividere esperienze e emozioni.
Mi chiedi se il mio romanzo è autobiografico. POsso risponderti dicendo che tutti gli episodi narrati sono di pura invenzione. Ma posso anche dirti che molte delle cose che pensa la protagonista e soprattutto quelli che sono stati definiti “sofferti monologhi interiori” mi appartengono.
Il mio prossimo libro ha come protagonista un uomo, una storia distante da me. Ma nel primo avevo anche bisogno di mettermi in gioco in molti sensi.
Buonasera a tutti. E’ con vero piacere che torno a connettermi. Rispondo a Mavie.
Una storia finita, secondo me, è una storia che è nata, cresciuta e poi è morta. Ciò implica il fatto che alla base ci sia stato un amore vero, che nel tempo e per le circostanze, a un certo punto è finito.
Una storia fallita, invece, presenta da subito una falla, che nessuno dei due vuol vedere e che nel tempo si allarga fino a creare un baratro nella coppia.
Mi sono chiesta perché spesso le unioni di oggi falliscono. Per anni non ho saputo darmi una risposta, ma negli ultimi tempi mi sono convinta che oggi, nella massima buona fede, si scambia l’attrazione, per amore ed ecco il motivo per cui, secondo me, i matrimoni falliscono subito, certe volte si torna separati dalla luna di miele, perché esaurita la fiamma finisce tutto. Questi sono matrimoni che nascono falliti in partenza, se a questo si aggiunge che molti valori sono tramontati il gioco è fatto. Io credo che la società sia a una svolta e che ci avviamo al superamento del matrimonio tradizionale. La società si sta evolvendo velocemente ed è possibile che anche il matrimonio, che è alla base della nostra società, in futuro cambi fisionomia.
Chissà Rita, io tutto sommato spero che nei giovani non si spenga l’entusiasmo, la voglia di costruire, la voglia di crederci ancora. Forse bisogna solo aggiustare il tiro.
Una cosa mi incuriosisce di questa discussione, salvo eccezioni la maggior parte degli interventi è stata fatta da donne.
Mi sono chiesta il perchè. Dipende dal fatto che l’autrice è donna, o che è donna la sua protagonista.
Oppure l’abbandono ha una direzione e un verso ” privilegiato “?
Non ho ancora letto il libro e credo che lo leggero’. L’abbandono, come penso sia descritto/trattato nel libro -e come l’ho vissuto/subito io-, e’ una terribile deriva. Credo sia determinante anche il periodo della vita in cui cio’ avviene. Anche se solitamente c’e’ una “rinascita” che porta sempre qualcosa di nuovo di se stessi, non e’ semplice (anzi pressoche’ impossibile dai 45 anni in poi) ristabilire un rapporto di un certo spessore. No, non credo che la chat sia un’opportunita’; a volte e’ un’illusione, una speranza. Ma come si fa ad avere scambi di idee con una persona di cui non puoi vedere lo sguardo, le movenze, il sorriso… Certo, ti fa capire quante persone sole ci sono in giro e questo ti imprime ulteriore tristezza. E comunque l’abbandono e’ atroce, specialmente se avviene inaspettatamente ed in un contesto di coppia in cui la “parte lesa” credeva fermamente. Non lo auguro a nessuna donna (tra quelle che non l’hanno mai provato). Ciao a tutti. Maria Stefania
Cara Mavie, partecipo con gioia a questo lungo e ricco elenco di contributi e riflessioni sul tuo libro che testimonia quanto l’argomento sia “toccante”. Innanzitutto voglio dirti quanto ho apprezzato in questi anni la tua tenacia e determinazione nel portare avanti il tuo progetto di scrittura…ricordo i nostri primi incontri al gruppo, le confidenze sulle speranze e sui desideri legati alle parole…Io delle parole ne ho fatto un mestiere…Non ho ancora letto tutto il libro ma conosco l’emozione che ci sta dentro, l’inquietudine, le attese, le delusioni…hai saputo dare voce a quello che ciascuno di noi vive o ha vissuto almeno una volta nella vita. L’abbandono, il tradimento…è la vita…universale e unica nello stesso tempo che appartiene a tutti, uomini e donne. Ma certo, noi donne siamo speciali protagoniste di questi sentimenti perchè più spesso degli uomini siamo capaci di rischiare tutto…e di perdere tutto. Credo che si cresca soltanto se siamo capaci di “attraversare” il dolore, tutto, fino in fondo, e che solo il dolore è capace di quella straordinaria capacità di “fecondare” il cambiamento. Grazie.
Cari amici, ringrazio tutti per i nuovi commenti.
Ne approfitto per salutare e ringraziare i nuovi intervenuti (dando il benvenuto a chi scrive qui per la prima volta): Grazia, Patrizia Pagano, Simonetta Bumbi, Maria Lucia Riccioli (grazie anche a te per “Muccapazza”), Luciana Prisciandaro, Rossella, Susanna Rondi, Maria Stefania Carraresi, Patrizia.
E grazie, ovviamente, a chi era già intervenuto ed è tornato a intervenire.
Mi soffermo un attimo su Simonetta Bumbi.
Simonetta ha accennato alla sua esperienza difficile… e ha anche scritto un libro. Trovate qualche cenno qui: http://www.zam.it/1.php?articolo_id=2859&id_autore=0
Ecco… vorrei approfittarne per chiedere a Simonetta di raccontarci qualcosa su questo suo libro. E magari di farci leggere un brano.
@ Mavie
Cara Mavie,
credo che questo dibattito si stia evolvendo in maniera interessante.
E devo dire che mi sembri un’ottima “animatrice”. Mi sa che ti coinvolgerò in qualche altra discussione 🙂
Intanto il dibattito prosegue.
Mavie fa notare che la maggior parte degliinterventi sono firmati da donne. Metto in evidenza le domande che hanno fatto seguito alla suddetta considerazione.
Dipende dal fatto che l’autrice è donna, o che è donna la sua protagonista… oppure l’abbandono ha una direzione e un verso ”privilegiato “?
Che ne dite?
@ Maria Lucia Riccioli e Maria Rita Pennisi
Segnalo su “Letteratitudine chiama scuola” è intervenuta la poetessa/insegnante Norma Stramucci:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/09/28/letteratitudine-chiama-scuola/
Vi invito (se potete) a fare un salto per interagire con la nostra ospite.
Una serena notte a tutti…
@Maria Stefania. Permettimi di dissentire. Non credo che ci sia un’età per costruire un “rapporto di un certo spessore” . Certo il tempo che passa porta con se non soltanto un bagaglio di esperienza ma purtroppo anche un fardello di disincanto. Ma, e se avrai la bontà di leggere il mio libro, ti accorgerai di ciò che voglio dire, il disincanto va combattuto con l’incanto.
E l’incanto non si trova necessariamente in una nuova relazione amorosa.
Quando qualcosa finisce, e soprattutto quando finisce un amore, ci sentiamo dire spesso “adesso devi rifarti una vita”. E’ qui che, secondo me c’è l’errore di fondo. La vita non si fà nè tantomeno si rifà. La vita è un fiume che scorre. Biisogna imparare a navigarlo e, incontrando una rapida, assecondare la corrente.
@Patrizia. Grazie, la tua presenza è preziosa per me, proprio perchè il nostro cammino è comune. Da anni ormai ci lega una passione e questo dimostra che non esiste un’età adatta per credere. Normalmente si dice che le amicizie più forti sono quelle della giovinezza, e questo è vero solo perchè i ragazzi sono capaci di credere con entusiasmo in qualcosa. Noi abbiamo creduto e crediamo con entusiasmo in qualcosa e per questo siamo “ragazze” e per questo la nostra amicizia è forte.
@ Massimo. ti ringrazio ancora una volta dell’ospitalità e del bellissimo complimento che mi fai chiamandomi un’ottima animatrice. Se potessi interverrei sempre e con lo stesso entusiasmo nelle discussioni che proponi perchè toccano argomenti vivi e interessanti, e li affrontano sempre con la mediazione dei libri, che tutti noi amiamo perchè altrimenti non ci troverremmo qui. purtroppo non è sempre facile seguire tutto perchè siamo presi dai mille impegni quotidiani.
Ti ringrazio anche di avere segnalato il libro di Simonetta.
Credo che il tema affrontato da questo libro di Mavie Parisi tocchi le corde di molti di noi. Faccio tanti auguri a Mavie.
E’ vero, la maggior parte degli interventi sono di donne. Perché?
Secondo me non è questione di sensibilità. Un abbandono fa soffrire in egual misura donne e uomini. Credo si tratti dell’attitudine ad aprirsi su questi temi. Credo che l’uomo abbia più difficoltà a farlo, che sia più restio. Siete d’accordo?
Le domande……
Esiste un antidoto o, comunque, una “strategia” per neutralizzarlo (o per lenire le conseguenti sofferenze)?
“Secondo me, no. Nessun antidoto per il dolore. Ma accettato e smaltito, piano piano.”
Il trauma si abbatte solamente sul soggetto che subisce l’abbandono, o non è forse la separazione un evento doloroso anche per chi ne è parte attiva?
“Come hanno già detto altri, la seconda. Fa soffrire entrambi. Chi viene abbandonato ha sulle spalle il peso di aver subito decisioni altrui, chi abbandona ha sulle spalle il peso di un probabile senso di colpa.
Certo, se chi abbandona lo ha fatto perché ci sono altre braccia in cui rifugiarsi, beh, la situazione è un pò diversa……”
È possibile dopo una relazione sentimentale di una certa importanza, che si spezza nel dolore e nell’indifferenza, ricostruire un rapporto sebbene su basi diverse?
“Difficile, ma possibile”
Le relazioni nate in chat che possibilità hanno di dare esiti positivi? Sono una “opportunità” o un “ripiego”? E fino a che punto si riesce a essere davvero se stessi interagendo attraverso uno schermo e una tastiera? Quali i pro, e quali i contro?
“Secondo me chi è bravo a indossare una maschera nella vita, sarà altrettanto bravo a indossarla in chat……. e viceversa”
non sono d’accordo con Amelia. credo che ci sia una diversa sensibilità, una “sensibilità maschile” e “una sensibilità femminile”. secondo me la sensibilità femminile, in temi come questo, è più accentuata.
@ valerio e amelia. Grazie di essere intervenuti. A mio parere avete ragione tutti e due perchè l’una cosa non esclude l’altra.
Esiste una sensibilità maschile o per meglio dire esiste un’educazione diversa alla sensibilità. Da subito e anche in maniera inconsapevole gli uomini vengono educati a concentrare le loro risorse emotive in altri ambiti.
Al contempo c’è anche una maggiore propensione femminile a parlare, in generale, e di questi argomenti in particolare.
C’è una maggiore abitudine alla confidenza. Le donne tra loro parlano molto, gli uomini tendono più a fare delle cose insieme.
Per il resto sottoscrivo in pieno l’affermazione di amelia secondo cui nell’abbandono si soffre in due, anche se in maniera diversa (ovviamente in assenza di “caritatevoli” braccia che ti accolgano).
anche l’uomo soffre per amore, per abbandono. non c’è dubbio. E questa sofferenza è stata degnamente rappresentata nei film, nei telefilm, nei libri. il classico personaggio seduto al bancone del bar mentre beve per dimenticare. oppure i vecchi film in cui “l’abbandonato” si arruolava alla legione straniera. anzi, nel passato forse la sofferenza dell’uomo, del maschio, è stata più rappresentata. ma è sempre una sofferenza consumata in solitudine.
anche nella vita reale difficilmente un uomo abbandonato si apre, se non con qualche amico prescelto.
E’ vero Valerio, ma non credi che a volte, una maggiorre apertura, una condivisione del disagio, farabbe bene alla coppia?
forse. non lo so. penso che condividere un disagio faccia sempre bene.
quello che vedo io è tanta gente, tante coppie, che camminano sull’orlo di un baratro senza volgere lo sguardo al precipizio. eppure se guardassero, forse, farebbero un passo indietro, verso il sentiero.
ma a volta la paura del vuoto è superiore al vuoto di un abbandono.
a volte chiudere gli occhi è più facile che aprirli su un baratro che rischia di divorarti. e questo vale per uomini e donne.
Vale per uomini e donne. Ma nella mia esperienza, che ovviamente non può che essere soggettiva e limitata, ho notato che spesso sono più gli uomini a chiudere gli occhi di fronte al baratro sentimentale.
è probabile che sia così. ma non è possibile che gli uomini parlino con altri segni, al di là delle parole, che a volte le donne hanno difficoltà a capire?
e dunque torniamo al discorso delle differenti sensibilità.
“Così pensò di fare la più maschile delle cose: farglielo capire senza parlarle. Era questo che tentava di fare da parecchi mesi oramai. Non che fosse una decisione troppo consapevole, non era stata deliberata a tovolino per intenderci, gli veniva proprio naturale, da sempre, evitare ogni genere di discussione quando poteva e finchè poteva.
E Kita ebbe la più femminile delle reazioni: si rifiutò di capire il linguaggio di Stefano. Parlava, parlava, discuteva. argomentava, ragionava, predicava praticamente da sola. E fu così che la voce di lei, normalmente bassa ma dolce, cominciò a sembrargli una stridula litania.”
Questo è un piccolo frammento del mio libro. Pensi che possiamo essere d’accordo su questo?
penso proprio di sì. rende l’idea molto bene.
cara mavie,
qualche volta è come dici tu, qualche volta no.
Fortunatamente parole come lutto, dolore, discesa, risalita, tragici abbandoni dopo anni di convivenza e matrimoni non mi appartengono. Relitti abbandonati ne ho visti parecchi, oppure gente che con una marcia in più che è andata avanti e gente che, pur ripiegando su alternative diverse, non ha mai dimenticato… l’abbandono sicuramente ha un verso privilegiato ed è quello- in molti non saranno d’accordo – del potere economico. Il più forte spesso è anche il più ricco, voglio dire che certi problemi con i soldi si risolvono con maggiore rapidità e la psiche soffre meno…
Bentornata Rossella. Introduci un tema scottante: il potere economico che dà direzione e verso all’abbandono. E’ triste ammmetterlo, ma a volte è proprio così. In certi casi, in molti casi, e almeno nel nostro tipo di organizzazione sociale, le donne sono quelle che spesso mettono da partre la loro realizzazione sociale, professionale ed economica per il cosiddetto bene della famiglia.
Tutto va bene fino a che c’è una ripartizione dei ruoli che punta verso lo stesso obiettivo: la crescita della famiglia.
Quando la famiglia va a rotoli ognuno raccoglie ciò che ha seminato. Ciò che le donne hanno seminato non è però quantificabile, o almeno non in termini materiali. Anche oggi, in una società che vorrebbe le pari opportunità, la parte femminile della coppia si spende entro le mura domestiche (e questo indipendentemente dal fato che possa anche lavorare fuori). La parte maschile, nel perseguire il bene comune, ha però il vantaggio che questo bene comune coincide con la realizzazione individuale in campo professionale.
Alla separazione a lei resta la gloria, a lui restano i soldi.
Fammi terminare con una considerazione umoristica, altrimenti cado in depressione. Come dice Paperon de’ Paperoni “E se i soldi non fanno la felicità…figuriamoci la miseria”
Non ho letto gli interventi precedenti – per mancanza di tempo.
Saluto tutti e mi scuso se magari dico cose che possano essere già state dette.
1. Non so se qui nessuno ha citato Sophie Calle e il suo mitico “Prenditi cura di te” – opera d’arte concettuale che è stata anche rappresentatas a Parigi alla vecchia biblioteca nazionale di Avenue Richelieu. Calle proponeva la lettera con cui un uomo lasciava una donna, chiudendo con “prenditi cura di te” – lettera che noi visitatori potevamo avere – dopo di che offriva l’interpretazione di 107 donne di questa lettera: donne pittrici, professoresse, ballerine, attrici, architette… un lavor meraviglioso, che gli avvrentori della biblioteca potevano godere ai singoli schermi di computer per ogni posto, oppure appesi alle pareti. C’era anche la nostra fantastica Littizzetto. Ecco il senso è l”antidoto alla fine della relazione è un’interpretazione di se e del proprio passato che diventa creazione. L’antidoto è la trasformazione.
– La chat può essere un luogo in cui parlando si lavora a questa trasformazione – perchè un’acquario, un clima protetto. Io non escludo affatto che possano poi nascerci relazioni significative. Penso anche al fatto che con il mio blog e anche frequentando questo di blog, mi sono fatta delle amicizie reali, forse è piu che altro un modo nuovo e diverso di incontrare gli altri. Non sono i mezzi a costruire le nevrosi, quelle se ci sono adattano tutti i mezzi alle proprie necessità.
Saluti a tutti.
Ciao Zauberei. Hai detto una frase che condivido in pieno e che è poi quanto, in sintesi, emerge dal mio romanzo: “l’antidoto alla fine della relazione è un’interpretazione di se e del proprio passato che diventa creazione”.
E parafrasandoti direi non solo prenditi cura di te, ma anche del tuo passato che è poi anche la tua vita e quindi te stessa.
Inoltre, come non condividere il fatto che le nevrosi usano di tutto per emergere e assoggettarci.
Ogni strumento è buono, anche la chat. L’incapacità di costruire relazioni che abbiano uno spessore, una significatività (per dirla alla tua maniera), non ha bisogno di nascondersi dietro a un pc. Verrebbe fuori comunque.
Grazie del tuo intervento
Una cosa che mi ha colpita del romanzo di Mavie è il modo in cui riesce a rappresentare lo smarrimento maschile che è la vera tragedia della nostra contemporaneità. Mentre le donne sono stressatissime wonder women che si barcamenano tra lavoro figli ufficio spesa relazioni iperproblematiche quadramento del bilancio amiche mare arte e public relations, gli uomini sono di una fragilità e di una confusione sconcertanti.
La mancanza di modelli maschili di riferimento che siano validi è uno degli aspetti allarmanti dell’emergenza educativa. Sì, emergenza, perché ormai non è più una questione.
carissimi
dopo il vostro ampio dibattito sui temi dell’abbandono e della risalita, mi piace citare una battuta che mi disse un mio saggio amico, che contribuì non poco ad affrontare l’apnea della risalita.
Mi disse: “è meglio essere abbando-nati che abbando-morti”.
Essere abbandonati è come una rinascita?
Bentornata Maria Lucia. Benvenuto Orazio.
Smarrimento maschile che ho voluto sottolineare quasi con affetto.
L’ altra metà del mio cielo mi provoca una profonda inquietudine ma nessuna voglia di rivalsa.
Hai ragione Maria Lucia: fragilità allarmante.
Orazio che dirti? Tu non mi sembri particolarmente smarrito anche perchè a scuola di scrittura frequenti una pletora di donne e ti sei femminilizzato.
E che non ti suoni come un insulto chè per me non lo è.
Per il momento chiudo e vado in radio a discutere ancora di questi temi.
il tema dell’abbandono si presta alla riflessione persnale e al confronto …è un mare magnum che ispira(ed ha ispirato)artisti, poeti, scrittori, musicisti.giovani e non.Esiste un antidoto per neutralizzare la sofferenza proeniente dall’abbandono?chissà, me lo sono chiesta tante volte senza riuscire a dare una risposta definitiva…forse chi abbandona è più forte di chi viene abbandonato?O FORSE è IL CONTRARIO? Il trauma, a mio parere, si abbatte su entrambi, perchè la separazione da chi hai amato ti segna in un modo o nell’altro… è pur sempre un evento doloroso. Ritengo, infine, che sia possibile, dopo una relazione sentimentale di una certa importanza che si spezza nel dolore e nell’indifferenza, ricostruire un rapporto su basi diverse.
Un ringraziamento a Massimo e all’autrice del testo che ci dà l’opportunità di “liberare” i nostri pensieri
Cara Mavie, ho letto con molta attenzione il tuo “contro-commento” al mio (che era anche il mio “esordio” in questo interessantissimo blog ed e’ stato anche un esordio in senso assoluto -il tema mi ha spinto a “rompere il ghiaccio”-). Preciso che, a proposito di chat, io ora mi sento a disagio perche’ mi piacerebbe partecipare a questa discussione guardandovi tutti negli occhi. Comunque ti volevo dire che l’incanto io non l’ho perso e spesso mi sono insinuata nelle rapide assecondandole. Non sono una “rassegnata”; la mia vita e’ piena, ma non posso nascondere a me stessa che una parte di me e’ compressa, soffocata, ed e’ quella parte che forse potrebbe dare il meglio (probabilmente ora piu’ di prima): Con stima. M.Stefania
Eccomi di nuovo qui. Noto con piacere che la discussione è ancora viva…
Ringrazio i nuovi intervenuti: Amelia Corsi, Valerio, Zauberei (sempre efficace!)…
E poi: Chiara (grazie a te… continua a intervenire) e Maria Stefania (dài… una volta rotto il ghiaccio non puoi che rimanere da queste parti 🙂 )
E un saluto anche a Rossella, Mari e Orazio.
MariaLucia scrive che ‘lo smarrimento maschile è la vera tragedia della nostra contemporaneità. Mentre le donne sono stressatissime wonder women che si barcamenano tra lavoro figli ufficio spesa relazioni iperproblematiche quadramento del bilancio amiche mare arte e public relations, gli uomini sono di una fragilità e di una confusione sconcertanti.
La mancanza di modelli maschili di riferimento che siano validi è uno degli aspetti allarmanti dell’emergenza educativa. Sì, emergenza, perché ormai non è più una questione’.
Carissima, queste parole le ripeteva sempre una mia cara amica rivolta al marito. Ed io ero sempre d’accordo con lei. Mentre ripeteva queste parole, però,cresceva suo figlio viziandolo a più non posso. Poi il figlio si è sposato e dopo qualche tempo si è separato dalla moglie. La mia amica mi ha detto che è stata tutta colpa di quella disgraziata, che stressava il suo povero figlioletto senza capire le sue esigenze.
Un saluto a Chiara, Maria Stefania e Rosalba che ci porta testimonianza di una cosa che purtroppo è molto vera.
Ciò che siamo è frutto non solo della nostra natura ma anche e soprattutto dell’educazione che abbiamo ricevuto.
Non c’è dubbio che gli uomini (intesi come maschi) ricevano, soprattutto nel nostra paese, un’educazione che spesso li porta al centro di un mondo attorno al quale ruotano attenzioni e aspetttative. E proprio queste aspettative poi costutuisco, in primo luogo per loro stessi, un peso che è spesso insostenibile.
Mi piacerebbe adesso che si parlasse di chat in termini concreti. Lasciando da parte idee e teorie, mi piacerebbe se qualcuno riuscisse a raccontarci la propria esperienza reale.
Lei dice bene, cara Mavie. Ma il problema è che secondo me c’è molta ipocrisia anche da parte delle donne. Ci lamentiamo degli uomini e della loro educazione quando sono nostri compagni e mariti, dimenticandoci che siamo noi stesse da madri a impartire loro una certa educazione quando sono nostri figli. Anzi, in quest’ultimo caso poi siamo brave ad andare su tutte le furie se poi qualcuna ce li tocca o ce li disturba.
Ripasso da queste parti e mi accorgo che la discussione è ancora viva. Ho pensato in questi giorni alle relazioni nate in chat. Mi sono ripetuta più volte che non ne avevo nessuna esperienza e pertanto mi fosse impossibile intervenire….Ma poi mi è venuto in mente che io frequentando quasi assiduamente questo blog ho creato dei legami con Letteratitudine che è si’ un luogo-non luogo(come mi piace definirlo) ma è anche un luogo che mi ha dato la possibilità di conoscere sia il padrone di casa, il gentilissimo e bravo Massimo Maugeri ,che molti altri frequentatori di questo spazio, scrittori e non….
Mi accorgo che vengo qui non solo per mandare qualcosa di mio, ma per leggere il pensiero altrui ,per confrontarmi e relazionarmi….
Molto spesso mi sento arricchita.
Dietro questo schermo vedo intelligenze..sensibilità, persone disposte a parlare di sè, ad esprimere le proprie opinioni.
E questo mi piace molto
una strategia? in questo periodo della mia vita sto mettendo in campo moltissime “strategie” per non lasciarmi sopraffare dall’infelicità: nonostante l’effetto del momento, poi a lungo andare nessuna “strategia” funziona davvero. E l’infelicità si impadronisce dell’anima.
saluti
Cara Mavie,
hai ragione. Orazio da quando frequenta il corso di scrittura, a furia di stare con le donne, si è femminilizzato. Infatti parla in continuazione degli abbando-nati e degli abbando-morti. Cosa devo fare?
Mi fa pensare a un mio collega con cui viaggiavo anni fa. Eravamo tutte donne meno lui. In macchina si parlava di argomenti femminili e lui taceva. Poi cominciò anche lui a parlare di gravidanze, parti e allattamenti. Si femminilizzò e poco dopo si sposò e d ebbe un figli, così potè realizzare il suo desiderio di maternità.
Mavie, non farci caso. Orazio si mette al mio computer e cambia il nome e l’indirizzo, mettendo il suo. Naturalmente il messaggio per te è mio.
Maria Rita Pennisi
Leggendo gran parte degli interventi mi vengono in mente le parole di madre Teresa di Calcutta quando le chiesero quale fosse il più grande dramma dell’umanità e lei rispose: “La solitudine”.
Quante persone si ritrovano chiuse nella propria stanzetta la sera senza avere qualcuno che li ascolti. In una grande città si è ancora più soli. Persone che vivono la loro condizione con angoscia, tristezza, rassegnazione. Persone che si sono lasciate, amori finiti, amori mai nati. Un universo che chiede ascolto, aiuto, una mano tesa. E allora internet diventa l’unico appiglio a cui aggrapparsi, basta un clic e ci si ritrova in una comunità, ha anche i suoi vantaggi, si puà indossare la maschera e dimostrarsi brillanti, vitali, esuberanti. C’è lo schermo a proteggerci e anche se scende qualche lacrima, gli altri non la vedono. Ma è vera compagnia? O solo un surrogato? Mah! Penso che rischi di diventare soprattutto un sedativo, una narcosi. La vita è fuori, all’aperto e i contatti tra gli esseri umani avrebbero anche necessità di qualcosa di più materiale.
@Maria Rita. Non c’hò capito nulla, quando sei tu? e quando Orazio? cos’è uno sdoppiamento della personalità? e chi ha partorito tutti quei figli? spero non Orazio.
PS. Non fate caso a quell’accento partito malauguratamente, ma di sera non vedo bene la tastiera del computer
Scusate se il mio primo pensiero va a Paola che in questo momento non riesce ha smarrito il cammino. Il cammino verso la serenità verso la forza, versola fede in se stessa.
Parole al vento, mi rendo conto. Una sconosciuta che ti scrive da dietro uno schermo del suo computer cosa può rappresentare?
Ma io, cara Paola, credo nell’energia che onda su onda, particella su particella arriva fino a noi da sentieri inusitati e bizzarri.
Riesci a sentire la mia?
Con affetto
In effetti tra Maria Rita e Orazio stanno facendo un gran pasticcio. Non si capisce chi ha partorito chi e soprattutto chi ha partorito quell’idea degli abbando-nati e abbando-morti, anche se mi piace l’idea dell’abbandono come inizio della rinascita.
E parliamo della chat. Chi la vuole cotta e chi la vuole cruda. Grazia si trova bene in questo blog, Salvo è pieno di dubbi.
Io ho già avuto modo di esprimere più volte la mia idea. Il computer come strumento. Puoi usarlo come vuoi tu.
Ma non posso non sottolineare che è uno strumento particolarissimo dalle potenzialità enormi.
E’ falsa compagnia quella che trovi su internet? Io credo di no. Attraverso la rete io personalmente sono entrata in contatto con gente che non avrei mai potuto raggiungere in altra maniera. Realtà lontane, gruppi di cui nemmeno conoscevo l’esistenza.
Io la considero una finestra sul mondo. Ti affacci e guardi quello che succede fuori da te. Certo non puoi stare sempre affacciato, devi scendere in strada, toccare, annusare, non solo guardare.
Io poi sono una che ha grande ammirazione per le opere dell’ingegno umano. La tecnologia mi commuove quasi quanto la poesia. Forse perchè se fosse stato per me le ruote probabilmente sarebbero quadrate.
Cara Mavie, come vedi la discussione nata da “E sono creta che muta” continua a svilupparsi con immutato interesse…
Il tema è attualissimo e, al tempo stesso, “antico”. E in un modo o nell’altro ci riguarda tutti.
Naturalmente ringrazio tutti gli intervenuti per i loro commenti.
Credo che Rosalba abbia introdotto una altro tema importante che in un certo senso incrocia quelli trattati in questo post: la difficoltà a essere “bravi genitori”. Anche questo è un problema che riguarda tutti (donne e uomini).
Per chi non lo sapesse rivelo che Maria Rita Pennisi e Orazio Caruso sono moglie e marito.
Entrambi scrivono, entrambi insegnano, entrambi intervengono su questo blog. 🙂
@ Grazia
Ti ringrazio moltissimo.
Io faccio di tutto per impostare queste nostre discussioni nell’ottica dello scambio costruttivo e della condivisione. Ci credo davvero tanto e non faccio mancare occasione per ringraziare tutti coloro che mi aiutano a portare aventi questo progetto anche qui, nella “fredda” blogosfera.
E per questo ringrazio anche te…
quante verità, in questi commenti, e tutte personalizzate dall’esigenza di se stessi. credo che la verità non esista, e credo sia giusto così.
un saluto a tutti, e un ringraziamento a mavie, massimo, e al dolore, anche di susanna.
seguo le sofferenze, e forse è per questo che ho partecipato alla condivisione qui. per continuare a studiarlo, ma senza cercare di evitarlo, ché una mia amica suora diceva sempre: gli occhi che non piangono son meno belli. ed io non mi elemosino nulla, e non ho mai cercato pacche sulle spalle, ché le dita le voglio per toccare scrivere amare, e non per nascondermici dietro. le mie tartarughe, m’hanno aiutata a fare i primi passi verso il dopo, ma non soltanto per l’abbandono matrimoniale. non era mia intensione scrivere un libro, ma lui è nato. scrivevo per terapia. scrivo per sopravvivermi. lui è un tragitto, è tante storie, nella storia di un cervello che non riesce a staccarsi dal petto. la prefazione della brancatelli è semplice, ma dice tutto. la psichiatra dice che i “vaffanculi” sono necessari, ma io non ho mai detto una “parolaccia” a nessuno, e iniziare a cinquant’anni non è facile. e allora studio il significato, anche delle parole, e i loro parallelismi con ciò che è stata “le mie cento vite”. e poi li scrivo, e dopo nasce quello che gli altri chiamano libro. non potrei scegliere un brano da far leggere, ché i figli mica sono figliastri, e una madre non fa distinzione. non sono stata una buona madre, e poi sono venuta qui come persona, e voglio poter continuare ad esserlo, senza paura del secondo fine.
io ringrazio maurizio, anche perché ho sentito che è una bella anima, ed ho affidato, in qualche modo, a lui, le mie tartarughe, come le ho affidate alla casa editrice. e ringrazio mavie, per quel che ci ha regalato, e ringrazio la “serietà” di questo luogo, ché fa bene. a me, lo fa.
scusate, se non dico nulla sugli altri interventi, molto interessanti e su cui avrei da aggiungere, ma sono in giorni di buio, e non ce la faccio.
un abbraccio
simonetta
@ Paola
Forza, Paola! Nei periodi difficili, a volte, mi è stato utile anche leggere una semplice frase di un libro (che magari, in quel frangente, sembrava essere scritta apposta per me).
Certo, il sollievo è momentaneo. Ma non bisogna mai rinunciare a ricercarlo.
Unisco il mio affetto a quello di Mavie. Spero che ti arrivi, a cavallo di qualche bit.
@ Simonetta Bumbi
Grazie, Simonetta.
Io ppenso che spesso le parole hanno un effetto “salvifico” sia per chi le scrive, sia per chi legge.
Se, e quando, avrai voglia di condividere qui con noi un brano tratto dal tuo libro… non esitare a inserirlo.
Non ci sono mai secondi fini nella condivisione.
Un abbraccio forte anche a te.
Un caro saluto anche a Salvo Zappulla.
Caro Salvo, credo che incontrare gli altri anche attraverso un monitor non può e non deve impedire l’incontro con le persone in carne e ossa (ché questo siamo), laddove è possibile.
E in fondo, tu stesso (come me del resto) hai avuto la gioia e il piacere di conoscere di persona amici che avevi conosciuto proprio in questo spazio.
Sono d’accordo con Mavie quando dice che Internet (le chat, i social network) sono solo strumenti… mezzi. Sta a noi il compito di usarli in maniera adeguata e equilibrata.
Ma tutto ciò accadeva prima che il tempo, lo spietato accumularsi dei giorni avesse resa evidente l’amara, assoluta verità.
Un silenzio sempre più fitto si insinuò tra loro. D’un tratto il loro dolore divenne separato personale, incomunicabile.
Avrei piacere di concludere questa giornata condividendo con voi queste splendide parole di Ian Mac Ewan
Cara Mavie, grazie per queste frasi di Ian McEwan.
Ho pubblicato un nuovo post, ma spero che qui la discussione possa continuare…
Caro Massimo ho già visto il tuo post su pirati e letteratura.
A presto per altri commenti.
sto cercando di recuperare i commenti non letti -ovvero tutti. intanto faccio tantissimi auguri a mavie parisi per il romanzo.
Seguirò il dibattito con grande interesse.
Sono un’appassionata dei pirati dei Caraibi e di Johnny Depp. Mi piacerebbe saperne di più sui romanzi di ieri e di oggi che hanno i pirati come protagonisti. E anche sui saggi che sono stati presentati qui.
Dei pirati nella vita reale in verità non so molto. Anzi, non pensavo che ci fossero ancora pirati in giro.
Saluti.
Scusate, credo di aver sbagliato post.
Auguri all’autrice del libro di cui parlate qui.
Grazie a letizia e a sabrina per gli auguri.
@ letizia aspetto i tuoi interventi
@ sabrina, in effetti qui non si parla di pirati, ma va bene lo stesso e se l’argomento è di tuo interesse mi faranno piacere anche i tuoi interventi
Segnalo, in tema, il romanzo di William Burroughs (da me letto quasi trent’anni fa), “La città della notte rossa”: un viaggio pericoloso, quello che ci fa percorrere solo la letteratura eccellente.
(P.S. Da ragazzino non mi entusiasmava Salgàri: mi sembrava un viaggio esclusivamente “fisico” e un po’ di cartapesta. Mentre Evangelisti, per parlare dell’oggi, merita moltissima attenzione).
Ops… Ho sbagliato anch’io post… Sorry…
Tanti auguri a Mavie Parisi per il suo “E sono creta che muta”!
@Gaetano Failla
sbagliando sbagliando prendo altri auguri (non guasta)
carissimi Massimo e Mavie… sì, i vostri sostegni mi sono arrivati, li ho sentiti forti! Grazie. E’ difficile spiegare. E soprattutto lungo. Trovare rifugio nella solitudine spesso è un modo per vivere, soprattutto quando fuori tutto ti soffoca. Vi voglio bene.
Grazie ancora
Cara Paola, la solitudine è a volte il luogo della vita ma non sempre. Spiegare è lungo, spesso. Notevolmente difficile, ma a volte serve. Io ho tutto il tempo che vuoi, se lo vuoi.
Ancora un abbraccio, cara Paola.
E tanta forza!
Cara Mavie il tuo libro pone all’attenzione due fenomeni adesso di grande rilevanza sociale: i temi dell’abbandono e delle nuove forme di contatto, quali possono essere le chat fra le persone. Sono aspetti nuovi per incidenza e per sviluppo e caratterizzano purtroppo questi nostri tempi, in cui si è perduto il patto affettivo tra uomo e donna, sentito come intesa duratura, anche fra mille ostacoli, lungo il percorso temporale della vita. Ai tempi dei nostri genitori erano poche le coppie che si voltavano le spalle, non riconoscendosi più nei valori e nei sentimenti iniziali che li avevano uniti. Oggi, appena l’amore subisce una lieve flessione, s’invoca la libertà. Da una parte ciò manifesta un minor grado di ipocrisia, dall’altra ci indica che le unioni poggiano proprio sul nulla. Manca un obiettivo comune che cementifichi il rapporto, qualcosa che vada oltre il semplice “amore” umano. Il cemento lo fanno i grandi ideali, politici, etici o religiosi che siano e soprattutto la stima reciproca. L’amore non può più bastare da solo. Per quanto riguarda le chat, non saprei come definirle. Mi sembrano lo specchio delle falsità sociali, dialoghi all’infinito fra chi non si conosce realmente e cerca di sembrare ciò che non è. Un altro tentativo fallito quindi di raggiungere l’altro attraverso elaborazioni mentali fini a se stesse.
Grazie alla nostra autrice per aver sviluppato, con la sua sensibilità, tali problematiche attuali.
Rosa Zappulla
Grazie Rosy per il tuo intervento. Penso che la possibilità che oggi abbiamo di scegliere la strada che più ci è congeniale senza la paura del giudizio sociale abbia effettivamente strappato il velo dell’ipocrisia.
Troppo fragili le coppie, troppo fragili i sentimenti, troppo banale il concetto di amore basato esclusivamente sull’attrazione
Per quanto riguarda la chat, come ho già avuto modo di dire, non emetto giudizi, così come cerco di fare nel romanzo.
La mia Kita la utilizza per tirarsi fuori dslla aolitudine. Non fa una cosa giusta nè sbagliata. Ritengo che qualunque mezzo possa essere valido in certi momenti della nostra vita. L’importante è utilizzarlo come strumento appunto e non come panacea.
A quattro mesi dalla pubblicazione, il romanzo E sono creta che muta di Mavie Parisi continua a girare per l’Italia, insieme all’autrice e pare che stia andando bene. Piace molto la storia di questa Kita, che tra depressione e voglia di ricominciare, riesce a barcamenarsi, senza andare a fondo. Forse piace perché parla di un problema che ognuno di noi o direttamente o indirettamente conosce o forse perché è scritto così bene da tiraci dentro, fino a non poterci staccare dalla storia. Chissa! Certo è che le donne se ne sono innamorate e gli uomini non sono rimasti indifferenti. Sta suscitando molto interesse questo romanzo.
Complimenti all’autrice. Però dopo quella di Kita vogliamo un’altra storia altrettanto intrigante, quindi Mavie, di corsa alla scrivania.
Maria Rita Pennisi
Sabato 20 marzo, ore 17.30, al Museo della Lava di Viagrande (via Dietro
Serra) il cenacolo culturale “Antonio Aniante” della Pro Loco di Viagrande
presenta il romanzo di Mavie Parisi “E sono creta che muta”, Giulio
Perrone editore, Roma, 2009.
Interverranno Maria Rita Pennisi, Anna Tiziana Iannotta, modererà Paolo
Licciardello, leggerà Orazio Caruso. Al termine dell’incontro vi sarà il
breve concerto del duo panoforte e flauto Miceli-Calcagno.