Dicembre 21, 2024

432 thoughts on “PADRI (SCRITTORI) e LIBRI: Valter Binaghi, Gianni Biondillo, Vito Bruno, Franz Krauspenhaar, Rosa Matteucci, Raul Montanari, Amedeo Romeo

  1. L’obiettico del post, infatti, è proprio quello di avviare una discussione pluritematica… con il centro il ruolo del padre e quello dello scrittore.
    Vi propongo di discutere sui seguenti temi:
    – essere padre, oggi (ma anche essere marito o partner);
    – essere scrittore (e/o artista)
    – rapporto tra padre e figlio (anche nel caso di genitori separati)
    E argomenti collegati a quelli a cui ho fatto riferimento qui sopra.

  2. Ne ho approfittato per invitare sei scrittori che hanno pubblicato, di recente, romanzi… “in tema”.
    Si tratta (li elenco in ordine alfabetico di cognome) di: Valter Binaghi, Gianni Biondillo, Vito Bruno, Franz Krauspenhaar, Raul Montanari, Amedeo Romeo.

  3. Spero che tutti e sei gli amici invitati possano partecipare alla discussione (purtroppo è difficilissimo trovare una data che vada bene per tutti… e so che qualcuno di loro, in questi giorni, è zeppo di impegni).

  4. Discuteremo degli argomenti proposti, ma – ovviamente- avremo anche modo di approfondire la conoscenza dei nuovi romanzi firmati dagli amici scrittori che ho coinvolto in questo post.
    Si tratta di personaggi che hanno tratti in comune.
    E le storie, per un verso o per l’altro – sono collegate ai temi del post.

  5. Come ho scritto sul post…

    – Il protagonista del libro di Valter Binaghi (UCCIDERÒ MEFISTO, Perdisa Pop, 2010) si chiama Fausto Blangé: è uno scrittore che ha perso la moglie (morta suicida) e ha ucciso il suo ex analista.

  6. – Luca, personaggio del libro di Gianni Biondillo (NEL NOME DEL PADRE, Guanda, 2009), è un padre separato che deve fare i conti con la moglie che gli impedisce di vedere la figlia.

  7. – Anche il protagonista del libro di Vito Bruno (L’AMORE ALLA FINE DELL’AMORE, Elliot, 2010) – un uomo che scrive a quella che sta per diventare la sua ex moglie – deve affrontare la terribile esperienza della separazione dal figlio.

  8. – Il personaggio principale del romanzo di Franz Krauspenhaar (L’INQUIETO VIVERE SEGRETO, Transeuropa, 2009) è un anziano scrittore italiano di origine tedesca alla ricerca della moglie scomparsa. L’uomo teme che sia stata uccisa dal figlio.

  9. – Danio è il protagonista del libro di Raul Montanari (STRANE COSE, DOMANI, Baldini Castaldi Dalai, 2009): fa lo psicologo, è separato e ha un figlio, nervoso come tutti i ventenni. Ha anche una giovane fidanzata, e un tremendo segreto: è un assassino… un assassino per caso.

  10. – Andrea Morini, invece, personaggio del romanzo di Amedeo Romeo (NON PIANGERE COGLIONE, ISBN, 2010), è affascinato dalla maternità ma… ha il terrore di diventare padre.

  11. Come vi dicevo, nel corso della discussione inserirò alcune recensioni dei suddetti libri… e avremo modo di approfondirne la conoscenza discutendone con gli stessi autori (che mi accingo a presentarvi… anche se molti di loro li conoscete già).

  12. Valter Binaghi è nato nel 1957 in provincia di Milano. Si è occupato di controcultura e movimenti giovanili come redattore della rivista “Re Nudo” e curando per Arcana alcuni volumi dedicati alla musica pop (Pink Floyd, 1978; Lou Reed, 1979; Punk, 1978; Eroi e canaglie della musica pop, 1979). Ha pubblicato i romanzi: “L’ultimo gioco”, scritto con Edoardo Zambon (Mursia, 1999), “Robinia Blues” (Dario Flaccovio, 2004), “La porta degli Innocenti” (Dario Flaccovio, 2005), “I tre giorni all’inferno di Enrico Bonetti cronista padano” (Sironi, 2007), “Devoti a Babele” (Perdisa Pop, 2008).

  13. Gianni Biondillo, nato a Milano il 3 febbraio 1966 è scrittore e architetto: autore di romanzi, testi per il cinema e la televisione, articoli di tema artistico, letterario e politico, saggi su Pasolini e Proust. È membro del blog collettivo Nazione Indiana.
    Nel 2010 è stato classificato, insieme ad altri 4 autori, come finalista del Premio Bergamo, concorso letterario lombardo.
    Ha pubblicato i seguenti libri:
    • Per cosa si uccide, (Guanda, 2004)
    • Con la morte nel cuore, (Guanda, 2005)
    • Per sempre giovane, (Guanda, 2006)
    • Il giovane sbirro, (Guanda, 2007)
    • Metropoli per principianti, (Guanda, 2008)
    • Nel nome del padre, (Guanda, 2009)

  14. Vito Bruno, nato nel 1957, ha esordito nella narrativa con “Per invecchiare ho bisogno di tempo” (Stalker editore) seguito dalla raccolta “Cirlè e altri racconti” (Feltrinelli Editore, Premio Cesare Pavese). Nel 2000 è stato finalista al Premio Campiello con “Mare e mare” (edizioni e/o). Il suo precedente romanzo è “Il ragazzo che credeva in Dio” (Fazi Editore).
    Adesso è tornato in libreria con il già citato L’AMORE ALLA FINE DELL’AMORE (Elliot)

  15. Franz Krauspenhaar, nato a Milano nel 1960, ha fatto parte del blog letterario Nazione indiana ed è stato uno dei fondatori di La poesia e lo spirito. Ha pubblicato racconti in diverse antologie fra le quali “I persecutori” (Transeuropa, 2007), nonché i romanzi “Avanzi di balera” (Addictions, 2000), “Le cose come stanno” (Baldini & Castoldi, 2003), “Cattivo Sangue” (BCDe, 2005), “Era mio padre” (Fazi, 2008), ottenendo ampi riconoscimenti di critica e di pubblico. Sempre per Transeuropa ha recentemente partecipato con un racconto all’antologia “Guida alla sopravvivenza letteraria in tempi di crisi”.

  16. Raul Montanari, nato a Bergamo nel 1959, ha pubblicato i romanzi “La perfezione” (Feltrinelli 1994), “Sei tu l’assassino” (marcos y marcos 1997), “Dio ti sta sognando” (marcos y marcos 1998) e, per Baldini Castoldi Dalai editore, “Che cosa hai fatto” (2001), “Il buio divora la strada” (2002), “Chiudi gli occhi” (2004), “La verità bugiarda” (2005), “L’esistenza di dio” (2006), “La prima notte” (2008). Suoi sono anche i libri di racconti “Un bacio al mondo” (Rizzoli, 1998) e “È di moda la morte” (Perrone, 2007). Con Aldo Nove e Tiziano Scarpa ha scritto “Nelle galassie oggi come oggi” (Einaudi 2001), insolito bestseller nel campo della poesia. Molti suoi racconti e articoli sono usciti in antologie e riviste. Autore di sceneggiature e opere teatrali, ha pubblicato traduzioni da lingue classiche e moderne (Sofocle, Seneca, Shakespeare, Poe, Schnitzler, Wilde, Philip Roth e Cormac McCarthy fra gli altri). Insegna scrittura creativa a Milano.
    Con il suo nuovo romanzo – STRANE COSE, DOMANI (BCDe) – è tra i finalisti del Premio Strega di quest’anno.

  17. Amedeo Romeo è il più giovane tra gli autori coinvolti in questo post… e l’unico esordiente.
    È nato a Milano nel 1970 e ha due figli.
    È autore e regista teatrale, traduttore dall’inglese e autore di libri per bambini e ragazzi. “Non piangere coglione” è, appunto, il suo primo romanzo.

  18. Simona Lo Iacono che, nella veste di scrittrice e giurista, metterà a nostra disposizione le sue competenze per fornirci informazioni e chiarimenti sulla vigente normativa sull’affidamento dei minori nei casi di separazione dei genitori. Ne approfitto per ringraziare Simona per l’ottimo articolo che potete leggere in fondo al post.


  19. 4. Premesso che le principali vittime delle separazioni tra i coniugi sono quasi sempre i figli, tra il padre e la madre chi è che subisce – in genere – il trauma maggiore? E chi, in genere, tra i due presenta maggiori fragilità?


  20. 5. L’uomo contemporaneo rischia di rimanere vittima della corruzione del successo di più o di meno rispetto a qualche decennio fa? E il successo che corrompe colpisce di più l’uomo, il marito, il padre, lo scrittore (o – in maniera analoga – la donna, la moglie, la madre, la scrittrice)?

  21. Vi chiedo scusa per i “commenti a raffica”… ma il post è particolarmente complesso e articolato. E questi commenti introduttivi hanno la funzione di fornire un indirizzo, una linea… sperando di evitare il caos.
    😉

  22. Grazie Massimo per la tua generosità nell’accogliermi in questo contesto stimabilissimo,dove la mia,piccolissima voce,si esprime con sincerità e desiderio di apprendere dalla condivisione di temi che tu proponi,sempre interessanti.Questo tema in particolare,da me sentito profondamente come figlia,donna e madre.La carrellata di libri che hai proposto mi pare stimolante per una discussione,il tema è affrontato da differenti punti di vista e si presta,spero sempre con la delicatezza dovuta ad un argomento che tocca tutti, ad uno scambio proficuo.
    Il bellissimo articolo di Simona-che come sempre sa parlare alle menti lasciando entrare le parole nei cuori- mi apre i primi interrogativi.
    Mi soffermerei sull’ultima frase:”Segno che la legge “esterna” può vestire la famiglia. Ma che la famiglia deve trovare la legge “interna” nel proprio cuore.
    Bellissime parole.Trovo fondamentale che negli ultimi anni siano state affrontate e in parte risolte legalmente questioni legate ai dissidi familiari nelle separazioni,ma spesso penso che si fanno tante battaglie con lo scopo di garantire i diritti degli adulti in questione,mentre restano difficilmente risolvibili le questioni dei diritti della parte più debole e più bisognosa di essere tutelata:i figli.Non dimentichiamo che in qualunque relazione e dissidio di coppia,noi non siamo soli a litigare o a decidere o a far valere la nostra volontà,siamo sempre più di due,perchè è su altre persone,da noi messe al mondo, che ricadrà ogni decisione o atto del singolo. Dal momento in cui si diventa genitore, e per sempre.

  23. 1. Come è cambiato, oggi, l’essere padre?

    2. In cosa, il padre di oggi, si differenzia nettamente da quello delle generazioni precedenti? Quali i pro e i contro di tali differenze?

    Una cosa è certa,secondo me,che il padre oggi,sicuramente molto cambiato,non è ancora sicuro del proprio ruolo,in una società dove culturalmente l’archetipo della madre che genera,nutre,cresce e si occupa dei figli è ancora molto forte,anche se messo in crisi dalla figura di una donna che cresce professionalmente spesso pagando questo sforzo esterno in termini di doppio lavoro dentro e fuori la famiglia.Il padre di oggi ha scoperto la sua parte femminile,non ha paura della tenerezza,dell’intima complicità e dell’accudimento,ma nel contempo ha perduto una certa autorevolezza,forse perchè è in cerca di un nuovo equilibrio,costruisce una nuova figura di sè,più consapevole del legame affettivo e del sentimento della paternità. Questo sentimento così forte e delicato che non è puro istinto come quello femminile,ma che nasce vivendolo e nutrendolo,forse anche grazie a donne che sanno dare maggiore spazio,senza ritenersi minacciate nel loro dominio affettivo sui figli.Se il padre è cambiato,io credo sia effetto di un cambiamento culturale che ha investito anche la donna,ma mi piacerebbe chiedere a chi di dovere,se si è perduta l’autorevolezza maschile della figura del padre- e fino a che punto secondo voi- è perchè la madre si è mascolinizzata nel comportamento?E quanto ciò può creare squilibri nell’ambito familiare o portare nuovi equilibri?
    Anche se in Italia non è diffusissimo,il padre oggi può chiedere l’assenza dal lavoro per “allattamento”,come ad accettare che l’accudimento dei figli piccoli non è più unica prerogativa della madre.
    In tal senso,cara Simona,anche la giurisprudenza ha fatto molti passi avanti accorgendosi del cambiamento della figura paterna,mentre in passato era appiattita sulle richieste esclusivamente materne,oggi mi pare molto più sensibilizzata dalla posizione del padre.

  24. Tornerò più tardi,aspettando i vostri spunti di riflessione!
    un caro saluto a tutti.

  25. Dolcissima Francesca Giulia, è per me davvero un grandissimo piacere averti come “compagna di viaggio”! Ti seguo sempre con infinita commozione perchè leggo, tra le “tue” righe, un profondo interesse umano per “l’altro”.
    Così come sono felicissima della presenza di scrittori che stimo e ammiro, e della voce – appassionata al destino dell’uomo – di Ausilio Bertoli. Grazie infine a Massi che, come sempre, mi consente di apprendere e di condividere.

  26. Prendendo le mosse dalla tua prima osservazione, carissima Fran, devo dire che la legge sull’affido condiviso non è nata a protezione dei diritti dei padri, ma dei filgli, in quanto soggetti deboli ed esposti al rischio di una strumentalizzazione nel conflitto di coppia.
    Alla base della nuova legge sull’affido condiviso vi è sempre e solo la tutela dell’interesse del minore, criterio posto a fondamento della scelta fra affido condiviso ed esclusivo, valutazione che dovrà anche tenere conto della volontà della prole.

    La nuova legge sull’affidamento dei minori tende sì a privilegiare l’affido ad entrambi i genitori, ma solo in un’ottica di effettivo vantaggio.
    In conclusione, l’interesse minorile deve essere considerato prevalente su quello del mondo adulto.

    L’opzione tra affido condiviso ed esclusivo dipende quindi dalla giudiziale verifica della rispondenza dell’uno o dell’altro all’interesse del minore e dev’essere compiuta ponendo il medesimo minore al centro dell’attività istruttoria del giudicante, anche attraverso l’ascolto del minore stesso, previsto dal nuovo art. 155 sexies codice civile.

    L’audizione è considerato strumento essenziale per la formazione del convincimento del Giudice, ma anche strumento di attuazione del diritto del minore di esprimere liberamente la propria opinione, consentendo al giudicante di percepire, attraverso la voce del bambino, le esigenze di tutela dei suoi primari interessi.
    Personalmente dispongo l’audizione del minore solo se verifico preventivamente che il contatto con il tribunale non lo turberà, non ne altererà la volontà e non verrà “guidato” dal genitore convivente in un senso o in un altro.
    Quando è indispensabile questa audizione è sempre buona regola, poi, procedere a porte chiuse, creare un clima rilassato e finanche giocoso, “vedere” oltre le parole e i silenzi. Su unghie rosicchiate, ad esempio, su sguardi impauriti e su gesti sintomatici.
    Infine, disporre che il bimbo sia ascoltato senza la presenza della coppia, affinchè possa palesare in assoluta libertà la propria volontà.
    Non è raro imbattersi in cuoricini molto adulti a dispetto della minorità, in riflessioni misteriose sul senso della famiglia e della vita. Su strabilianti ribaltamenti di ruoli e sulla delicatissima, impercettibile soglia tra manifestazione del proprio dolore e tentativo di proteggere i genitori.
    —–

    Vedo che è intervenuto Franz Krauspenhaar che saluto con molta stima!
    Un buon pomeriggio a tutti!

  27. …Dimenticavo….E’ tuttavia vero che la legge è nata su impulso di un’associazione di padri separati che ha ingaggiato una vera (e giusta) battaglia in Parlamento.
    Prima dell’entrata in vigore della legge non era raro infatti assistere nella pratica a una esclusione quasi totale del ruolo del padre (e della sua famiglia di origine ) dalla vita dei figli.
    Oggi non solo la presenza paterna è valorizzata nel suo innegabile apporto di ricchezza affettiva(sia pure e sempre nell’ottica dell’interesse supremo del minore) ma è altresì assicurato un vero e proprio “diritto” agli ascendenti materni e paterni (nonni e finanche zii) in ossequio a un fondamentale principio di solidarietà familiare e di interesse del bambino a non vedersi privato dell’indubbio apporto di tenerezza degli altri parenti.
    Ora sì …Buon pomeriggio!!!

  28. Un saluto anche da me. Sto raccogliendo le idee per un intervento che, lo anticipo, tratterà non di separazioni o affidi (sono marito e padre felice, cosa di cui ovviamente ho merito solo in minima parte) ma della difficile coesistenza tra vita familiare e vocazione artistica.

  29. Cara Simona,grazie per le tue preziose delucidazioni,mi auguro che la maggior parte dei giudici che trattino con i bambini abbiano la tua sensibilità anche solo in parte,comunque mi confortano le tue parole.
    p.s.anch’io sono felice di condividere con la tua esperienza e grande sensibilità umana questo spazio,nonchè onorata di vedere,leggere,tutti questi nomi di autori bravissimi.
    Un benvenuto a Franz Krauspenhaar-che da ora in poi mi permetterò di chiamare solo Franz per comodità di tastiera e per paura di sbagliare il cognome…-.
    Un grazie e un benvenuto a Valter Binaghi,aspetto che tu raccolga le idee,ma certo che mi interessa tanto anche parlare della forse difficile convivenza fra artista e famiglia.Tuttavia senza parlare di separazioni,visto che sei un papà felicemente integrato potresti dirci il tuo pensiero su come l’essere padre oggi sia diverso dall’essere padre negli anni passati.Un articolo interessante di Paolo Di Stefano diceva che il padre oggi rappresenta l’anello debole della famiglia,sia in società sia in letteratura il padre non è più l’uomo gigantesco che faceva paura a Franz Kafka.Piuttosto negli autori nati negli anni 70 il padre oltre che ritenuto inadeguato al ruolo che gli compete,è spesso assente,è un padre-figlio non cresciuto lui stesso,perciò incapace di essere padre e di esercitare la sua autorità.Mi piacerebbe sentire cosa ne pensate voi tutti.

  30. Ne approfitto anche per ringraziare Simona per le ulteriori precisazioni sulla vigente normativa sull’affidamento condiviso.
    Credo sia un tema attualissimo che può interessare tanti…
    Grazie di cuore.

  31. Valter, il tema della difficile coesistenza tra vita familiare e vocazione artistica e di estremo interesse.
    Peraltro, la prima parte della domanda n. 5 (quella sulla “corruzione del successo”) è stata ispirata dal tuo romanzo…

  32. Riguardo a Franz, per il momento posso anticipare che una parte rilevante della sua produzione letteraria è incentrata sulla figura del padre.
    Confermi, Franz?

  33. Come dicevo questo post rimarrà in primo piano per diversi giorni.
    Dunque, possiamo prendercela pure comoda per meditare… per poi condividere qui le riflessioni che verranno, offrendole come spunto per incentivare la discussione.

  34. Cara Fran,
    credo non si possa parlare di un solo modo di essere padre, ma di diversi modi in relazione a vari momenti di crescita del figlio. Momenti rispetto ai quali è anche fondamentale il modo della donna di essere madre e di “agevolare” la funzione paterna.
    Gli studi sociologici e giuridici sono sensibili nel rivelare che ad ogni momento di crescita del bimbo deve corrispondere un diverso “ruolo” del padre. Si deve insomma trattare di una “opposizione solidale” che deve unire padre e figli ed evolversi in armonia ai diversi momenti di sviluppo.
    Il padre, infatti, ha nei primisimi anni di vita una funzione “negativa”, perchè impedisce al figlio di ristagnare nel mondo della madre; poi una fuzione di “rafforzamento” perchè accompagna il figlio nel suo rapporto con il mondo e le sue leggi. Ha poi una funzione di “collaborazione” quando lo aiuta nel momento della emancipazione eroica. Infine una funzione “ereditaria” e di memoria, quando se ne va lasciando al figlio il seme di una nuova paternità.
    Ogni generazione storica sconta, purtroppo, errori precedenti nell’impostazione della paternità in una delle fasi evolutive o, in generale. E quindi i padri di oggi sono a loro volta frutto di una generazione incerta e di passaggio, in cui il ruolo della donna era appena affiorato e quello dell’uomo iniziava a connotarsi di elementi di novità.
    Ma credo che in questa difficile soglia un ruolo determinante possa proprio giocarlo la madre e la compagna. Valorizzando la paternità come necessaria e ricchissima fonte di stabilità e, al tempo stesso, cambiamento.
    Credo infatti che tutta l’educazione di un essere umano si giochi sul fronte delle “radici” e del “viaggio”. Radici per saper andare con coraggio. Viaggio per saper tornare con umiltà.


    Auguro a tutti una bellissima serata e resto in attesa delle risposte dei due autori intervenuti e di tutti gli altri ospiti!
    Buona notte!

  35. Buongiorno a tutti. Innanzi tutto ringrazio Massimo per avermi invitato a partecipare a questa interessante discussione. Trovo già molto stimolanti i primi interventi e mi hanno spinto a una leggera deviazione dal mio punto di partenza.
    Condivido del tutto quanto detto da Simona Lo Iacono.
    La mia intenzione era di non parlare della mia esperienza personale, che Massimo non poteva conoscere e che quindi non è la ragione per cui sono stato invitato a intervenire, ma vista la direzione che ha preso il dibattito, vorrei farvi un breve accenno. Sono un padre separato, vivo da sette anni la situazione dell’affido congiunto e la pratica quotidiana dei rapporti tra madre, padre e figlia è regolata più che da ogni altra cosa da una nostra legge interna che prescinde dalle parole scritte.

    Non è però su questo che ho riflettuto nei mesi che ho passato a scrivere il mio libro, ho invece affrontato dentro di me la questione del ruolo del padre, e forse del genitore in generale.
    Mi sono trovato a riflettere sulla difficoltà di essere padre in un’epoca nella quale quasi tutti gli assoluti e buona parte delle certezze sono venute meno. Di fronte a una domanda dei miei figli, alla necessità di imporre delle regole, al desiderio di indicare una strada, sento che oggi mancano quelle “verità” che in passato potevano rendere più semplice il ruolo del padre. Mi pare che oggi sia più difficile, ma forse solo perché ieri non mi toccava questo compito tanto complicato. Sicuramente non saprei fare diversamente. Non sarei in grado di dire è così perché lo vuole dio, il partito o la morale. So dire solo è così perché mi sembra proprio che sia così. Non penso che questo dia meno forza a un genitore, anzi, alla lunga penso che ne dia di più, anche se ogni tanto risulta inevitabile un po’ di incoerenza.

    Credo che questo discorso sia collegato anche al modo radicale in cui è cambiato il rapporto fisico tra padri e figli. Penso che il contatto fisico molto più frequente sia un’altra faccia del fatto che i padri non si trovano più su un piedistallo: abbracciano, accarezzano, mostrano le loro debolezze. E’ un male? Si confondono i ruoli? Non lo so. Forse. Ma alla fine le differenze tra una madre e un padre restano, e sono talmente radicali che non immagino possano essere annullate da quella che a me sembra più una condivisione di compiti, gioie e responsabilità che una confusione di ruoli.

  36. Vorrei dare il mio benvenuto a Amedeo Romeo e dirgli che sono d’accordo con quanto ha espresso,naturalmente le mie domande sui ruoli differenti fra madre e padre oggi erano tese a stimolare la discussione.Credo che proprio quella mancanza di certezze che facevano del padre del passato un individuo più autorevole agli occhi dei figli ma meno umano,oggi ha reso il padre in genere più permeabile,gli ha dato la capacità di mettersi in discussione e la forza di mostrare anche le sue debolezze,nonchè l’aspetto tenero e tipicamente femminile di approcciarsi ai figli.Trovo importantissimo il riferimento alla fisicità che Amedeo fa, un tempo si diceva che il padre i figli li doveva baciare soltanto quando dormivano,forse per timore di perdere una forma di rispetto che era generata dal distacco fisico e dall’assenza di tenerezza.Tutto questo è sicuramente un bene per il figlio e per il padre ,anche per l’armonia di una relazione di coppia,però mi chiedevo se a livello sociale questo cambiamento,che non è da poco,in ambito individuale e familiare ha avuto ripercussioni anche negative?Mi piacerebbe avere il parere di qualche psicologo e sociologo.Esiste una corrispondenza fra il ruolo esercitato nell’educazione e la crescita di un figlio e ciò che sarà poi l’individuo all’esterno,in particolare ho sempre letto che la figura paterna è fondamentale per la costruzione dell’autostima e di come agiremo a livello sociale e professionale,sarebbe interessante capire cosa abbiamo guadagnato nella condivisione di aspetti fra paterno e materno e cosa -se esiste- abbiamo perso.

  37. Cara Simona,è vero ciò che dici sui modi di essere padre,ancora più vero se pensiamo a quanto l’assenza del padre può pesare e incidere sulla vita di un individuo,tutti questi differenti modi di contrastare collaborare e rafforzare lasciano un segno ancora più forte se parliamo per sottrazione. Penso a tutto ciò che bisogna cercare poi dentro e fuori da sè per colmare l’assenza.E non può essere trovato nella madre,quanto piuttosto nella forza che la vita talvolta ci impone, di imparare a diventare padre e madre di noi stessi.

  38. Ci sono tre persone sedute a un tavolo: un padre, una madre e un figlio. Una di queste persone è uscito dal corpo (dalla figa) di un’altra. Pensateci. Certo, con la testa lo sappiamo – sappiamo tante cose – ma provate a fare un esercizio di vuoto mentale e a sentire con la pancia l’abrasività di questo fatto biologico ed esistenziale.
    Questo dato di fatto così bestiale ed esplosivo si mangia tutto. La paternità è un riflesso sbiadito della maternità. Due persone che hanno avuto un’esperienza corporale così violenta non potranno mai avere un rapporto che non sia alterato in modo definitivo, nel bene o nel male. Questo per la paternità non vale, in nessun modo.

    Ciao a tutti, scusatemi se avrò poco tempo per intervenire. Non che non possa essere un sollievo, eh 😉
    Raul

  39. Ciao Raul,benvenuto!Eh sì certo che la visceralità bestiale del rapporto madre-figlio è fondamentale.Però pensate a quanto sia fondamentale per una figlia femmina il primo uomo-padre che la guarda e o l’apprezza o la svalorizza..se i padri qualche volta si guardassero con gli occhi delle figlie, quanti errori potrebbero rimediare,quante donne più sicure,più fiduciose verso l’amore,più propense all’universo maschile in genere.
    Eh dai che ripasserai da qui,almeno per parlare del tuo libro,da cui mi pare venga fuori una certa inquieta visione del male che ci vive accanto,senza conoscerlo nè sospettarne l’esistenza.

  40. Dice Raul:
    “La paternità è un riflesso sbiadito della maternità”
    Sarei daccordo, se fosse chiaro che questo è solo l’aspetto negativo della paternità – l’espressione indica infatti ciò che la paternità NON è e non può essere: il dato originario, la base fisica della vita e degli affetti. Ma c’è anche una caratteristica specifica dell’essere paterno, ed è l’elemento “culturale”. Il padre viene scoperto più tardi, insieme all’oggettività del logos che non è solo regola ma anche linguaggio universalmente condiviso, proiezione verso un mondo più grande ed aspro rispetto a quello del nido. Per questo, in un’epoca di sbriciolamento dell’etica e della continuità col passato essere padri è più difficile, come ha già detto Amedeo Romeo. Eppure, se la Madre è l’origine, l’immagine del padre diventa a poco a poco l’archetipo dello scopo, della destinazione che trascende l’immediato e il visibile, al punto che la vita spirituale è intesa dalle grandi religioni occidentali come una ricerca del Padre. Certo, non parliamo del padre carnale, ma senza l’esperienza e l’orientamento dati da questo diventa più difficile la proiezione e la costruzione di un futuro, esattamente come la privazione degli affetti materni rende difficoltoso il consolidamento del Sè.

    Per quanto riguarda il rapporto difficile tra vita familiare e vocazione artistica, direi che il problema sta nel fatto che si tratta di due cose entrambe terribilmente serie, per cui può essere psicologicamente difficile stabilire e rispettare una gerarchia.
    La narrazione familiare non è una delle tante occasionali o parziali di cui siamo attori, come quelle che nascono dalla dimensione ludica, professionale o episodicamente sentimentale. Il fatto che in una narrazione familiare impegni due esistenze che almeno in partenza si legano “per sempre” e che in essa nascano e chiedano di essere protette nuove vite, chiede una dedizione assoluta e senza riserve, rispetto alla quale tutto il resto viene dopo. Naturalmente spetta all’equilibrio dei componenti far si che tale narrazione sia un’occasione di libertà e di espressione piena per i soggetti, e non una gabbia soffocante. Questo può accordarsi abbastanza bene con la realizzazione professionale o la dimensione ludica e relazionale delle persone, ma viene seriamente minacciato dalla vocazione artistica. Infatti, anche un’opera d’arte è una narrazione, ma assomiglia più di ogni altra cosa a una gravidanza: tende ad assorbire il meglio e il più delle energie della gestante. Se di romanzo si tratta (e io è di quelli che mi occupo), i personaggi e l’intrigo te li porti appresso dovunque, ed è in base a quelli che ti trovi a considerare ed analizzare le tue esperienze. Ma c’è di più: nella forma che stai elaborando tu vedi il mondo intero, costruisci un simbolo della totalità quale in altro modo è impossibile fruire (non nel sapere, nè nella natura nè nella tecnica nè nelle relazioni, sempre incompiute cioè mai finite), e ti divora una sorta di smania, di urgenza metafisica (anche se non tutti la chiamerebbero così) rispetto alla quale tutto ciò che ti accade intorno rischia di sfiorarti appena. Certo, verrà il momento in cui avrai messo il punto, e l’oggetto compiuto sarà solo un volume in libreria, letto magari solo da una manciata di persone: allora ti sveglierai come da un sogno e tornerai ad a ricordarti di chi ti ha vissuto vicino, sperando che nel frattempo non ti abbia piantato in asso.
    Direte: stai esagerando. Un po’ si, lo faccio apposta. Non sempre e non chiunque scrive vive momenti del genere, ma questo può capitare e capita, perchè il rapporto di uno scrittore con la propria immaginazione è diverso da quello usuale. Nella vita di solito l’immaginazione è uno strumento: prefigura linee d’azione. Nell’arte è un fine: chiede di tradursi in quanto forma in una materia adeguata.
    Per quanto mi riguarda, dopo aver fatto esperienze di scrittura a vent’anni, ho smesso e ripreso a quaranta, perchè avevo intravisto questa rivalità pericolosa (almeno per me) e consolidare una famiglia era a mio giudizio la cosa più importante. Eppure, in questi dieci anni da che scrivo, ci sono cascato e come, nel narcisismo dell’artista, e non ho mancato di far soffrire chi mi amava. Poi si cresce dentro e s’impara a considerarsi più artigiani che profeti di un verbo inarrivabile, e la vita vera, quella fuori dei libri, ci guadagna. Ci guadagnano anche i libri?
    Forse si, o forse no: tanto peggio per loro.

  41. Un saluto cordiale a tutti gli amici, a partire da Massimo e Simona Lo Iacono, che nei suoi interventi dimostra come sempre una straordinaria competenza giuridica e – lo dico senza piaggeria – un acume non comune nell’introspezione e nell’investigazione psicologica, e da Francesca Giulia Marone, dotata di una sensibilità chiara e costruttiva.
    Il tema del post ci rimanda dritto dritto alla vita caotica, alienante, angosciante in cui siamo costretti a vivere oggigiorno. Non dico nulla di nuovo se affermo che le tensioni, le incertezze, le ingiustizie che si annidano nel mondo “esterno” o del lavoro vengono proiettate, consciamente o no, nei legami sentimentali, familiari.
    Alcuni decenni fa, però, le cose non andavano diversamente: la miseria (e la fame) la si doveva superare con sacrifici che oggi ci rifiuteremo di fare, e fuori di casa era in agguato il nemico della patria, con il fucile o la mitraglietta spianati, pronti a colpire chicchessia, non importava se donna o bambino, mentre il cielo era attraversato da aerei sinistri, carichi di bombe da sganciare sulle popolazioni che non desideravano che un pezzo di pane, la concordia e un lavoro per acquistare il pezzo di pane.
    Viviamo in tempi di pace, ma che volto ha oggi la pace? Che pace aleggia nelle famiglie, ovvero dentro le mura, sotto il tetto di casa?
    Cosa spinge gli uomoni, maschi e femmine, a cimentarsi con la carriera o il carrierismo, la competizione sociale, il successo?
    La realizzazione di sé stessi, si deve rispondere, dato che “realizzarsi” è diventato addirittura un imperativo morale.
    Una volta la realizzazione delle donne veniva cercata o esaltata nella maternità, ora… Sì, anche nella maternità, giacché la Natura non transige, ma ci sono donne che, avuto un figlio, magari il loro unico figlio, si sentono ancora insoddisfatte, non realizzate del tutto. Riversando frustrazioni e ansie nel coniuge (o nel partner), oltre che – purtroppo – nel figlio. Sono poche, ma non scordiamoci di loro e dei loro nefasti princìpi.
    Perché l’amore, la comunicazione, la serenità tra coniugi sono predittori importantissimi delle caratteristiche caratteriali dei figli e di chi ha a che fare con loro. Anche se càpita che i figli di genitori separati abbiano una propensione ai rapporti interpersonali uguale ai figli dei genitori uniti, affiatati.
    Dipende dalla “maturità” degli stessi genitori e dalla loro sensibilità nei riguardi della prole, nonché dalla loro coscienza o conoscenza di aver messo al mondo persone da amare, facendole progredire per il bene comune, non da trascurare o, peggio, da strumentalizzare (ahimè).
    Lo dico per esperienza, sulla base di alcune ricerche sul campo, suffragate peraltro dalle ricerche effettuate nel ’94 dalla Ercolani insieme con la Francescato.
    A presto.

  42. Massimo, Valter Binaghi ci ha anticipato che tratterà della difficile coesistenza tra vita familiare e vocazione artistica.
    Spero che Valter non se ne avrà se sosterrò con Escarpit come l’arte, specie la scrittura e la lettura, sia sinonimo di solitudine, ovvero l’occupazione solitaria per eccellenza.
    Infatti l’uomo che scrive o legge non parla, non agisce, anzi si allontana dai suoi simili, isolandosi dal mondo circostante.
    Ne deriva che l’atto della lettura o scrittura è sociale e asociale nello stesso tempo, poiché sopprime provvisoriamente le relazioni dell’individuo (soggetto) con il suo universo per poi ricostruirlo con l’universo dell’opera scritta o letta. E proprio per questa ragione la sua motivazione è quasi (sottolineo quasi) sempre legata a un’insoddisfazione, a uno squilibrio tra il lettore o lo scrittore e il suo ambiente, sia esso dovuto a cause inerenti alla natura umana (brevità, fragilità e via dicendo), allo scontro tra individui (affetto, amicizia, odio, compassione) o alle strutture sociali (oppressione, miseria, paura del futuro, noia). In una parola, è un ricorso contro l’enigmaticità se non l’assurdità della condizione umana. Un popolo felice – ammonisce giustamente Escarpit – non avrebbe forse storia, ma non avrebbe certamente letteratura, perché non proverebbe il desiderio di leggere o di scrivere.
    Siete d’accordo?
    Buona giornata.

  43. Ancora una volta una discussione stimolante ed entusiasmante. Faccio tanti complimenti a tutti e tanti auguri agli scrittori invitati.
    Provo a dire la mia sulle questioni proposte.

  44. 1. Come è cambiato, oggi, l’essere padre?
    Se facciamo riferimento alle figure paterne dei nostri nonni, tralasciando le genrazioni intermedie, il cambiamento è epocale e radicale. Non ancora concluso, probabilmente. Ma c’è e si vede.
    Nuovi compiti e nuove responsabilità, per i padri di oggi. L’imprtante è che questo non generi un ribaltamento delle identità.

  45. 2. In cosa, il padre di oggi, si differenzia nettamente da quello delle generazioni precedenti? Quali i pro e i contro di tali differenze?
    Il padre di oggi è più presente, collabora con le c.d. faccende domestiche, cambia i pannolini, è meno burbero.
    Lo preferisco così. Non ci vedo contro, se non nei casi in cui si cerchi disperatamente di ancorarsi a modelli vetusti. In quei casi possono nascere frustrazioni che possono minare gli equilibri familiari.

  46. 3. Che cosa significa, oggi, “volere” un figlio?
    Il verbo “volere” legato al figlio è bruttissimo. Immagino sia una provocazione. Se lo è, in effetti, è tutt’altro che peregrina dato che viviamo in una società la cui misura del successo è legata alla soddisfazione di bisogni e alla realizzazione di desideri.
    Volere un figlio può essere un grandissimo atto d’amore, ma in certi casi può essere anche un atto di egoismo.

  47. 4. Premesso che le principali vittime delle separazioni tra i coniugi sono quasi sempre i figli, tra il padre e la madre chi è che subisce – in genere – il trauma maggiore? E chi, in genere, tra i due presenta maggiori fragilità?
    Questa è una domanda difficilissima. Non so rispondere. Mi verrebbe da dire che dipende dai casi, anche se ho la sensazione che, oggi, sia l’uomo ad essere un po’ più fragile, proprio per i cambiamenti di ruoli a cui facevo riferimento prima.

  48. 5. L’uomo contemporaneo rischia di rimanere vittima della corruzione del successo di più o di meno rispetto a qualche decennio fa? E il successo che corrompe colpisce di più l’uomo, il marito, il padre, lo scrittore (o – in maniera analoga – la donna, la moglie, la madre, la scrittrice)?
    Secondo me il rischio di rimanere vittima della corruzione del successo oggi è molto più alto.
    Il successo che corrompe colpisce tutti coloro che non dispongono una interiorità forte, capace di non rinunciare a se stessi. E qui non vedo differenze tra uomini e donne.
    Ciao a tutti.

  49. ciao a tutti, grazie Massimo d’avermi coinvolto, e scusate se entro in pista solo.
    Io sono un padre separato – il mio libro “L’amore alla fine dell’amore” parla proprio di questo. In queti primi tre giorni della settimana mio figlio, che ha 2 anni, 7 mesi e 14 giorni, sta con me. In questi giorni io per lui sono tutto: padre, madre, nutrice. Tutto. Stamattina alle 6 e mezza si è svegliato, è sceso svelto dalla sua culla ed è venuto nel mio letto. Ci siamo fatti le coccole, poi ridendo e scherzando gli ho dato il biberon, l’ha lavato, vestito e portato al nido. Cos’erio io stamattina? Padre o madre? o che cosa? Questo per dire che finora – scusate se vado un po’ con l’accetta, ma per capirci – si è discusso con categorie novecentesche. Tutto sta cambiando. Anche la riproduzione. Tra qualche decennio i figli si faranno apparechi in simil lavatrici – lo dice hawking, lo scienziato inglese che vive sulla carrozzella. Nonso se è un bene o un male – propendo per il male, ma non ha alcuna rilevanza – ma è così. Quindi parlare di padri e madri vuol dire proiettarsi sul futuro. Ma non è una cosa semplice. Per dire: sono d’accordo con ciò che dice Francesca sulla femminilizzazione del maschio – scusate la parolaccia – ma dirlo adesso non è pacifico. poi vi spiego il perchè.

  50. Buon giorno a tutti ….!
    Un abbraccio speciale ai nuovi intervenuti, al carissimo Ausilio Bertoli e alla mia cara Francesca Giulia, della quale ho amato questa frase “imparare a diventare madre e padre di noi stessi”…
    —-

    @Amedeo Romeo e Vito Bruno: Sono d’accordissimo.
    E penso anche (con Amedeo Romeo) che il ruolo del padre (e del genitore in generale) risenta fortemente della generalizzata “crisi dei valori”. Anche se credo profondamente che non sia una crisi attuale, ma solo lo sbocco di un percorso maturato a partire dall’Ottocento.
    Infatti i padri dell’Ottocento appartenevano a quella borghesia costruttiva ed espansiva che non aveva ancora intaccato la morale tradizionale, all’interno della quale svolgevano il loro percorso di formazione. Ancora i fini nuovi del profitto e dell’affermazione sociale convivevano con quelli autoritari e morali riassunti nella sacra triade famiglia, patria, Dio. La vita si conduceva cioè all’interno di strutture ancora condivise e certe, il tessuto restava omogeneo e convergente.
    Con i loro figli e con lo stabilizzarsi delle conquiste scientifiche e industriali, si apre un passaggio epocale, la crisi dell’organico mondo borghese, delle sue fiducie e certezze; i figli, quelli reali e quelli descritti dalla letteratura, sono meno attivi ed intraprendenti, più istruiti, più problematici ed inquieti. Se il disorientamento apparentemente risolto nella fase degli eventi bellici, in cui la società nazionale ritrova forme di compattezza e idealità, con la pace, il riconquistato benessere, l’ampliamento storico e il confronto delle ideologie, emergono le pieghe di un retroterra disorganico ed irrazionale, molto simile al sottosuolo dell’omonimo romanzo di Dostoevskij.
    Persa la spinta morale nata sull’onda della grande guerra, innestatosi uno spirito critico non sostenuto da una fase riabilitativa (perchè emerso in modo disordinato e doloroso) la società si piega in se stessa. Diventa debole.
    La letteratura racconta tutto questo travaglio e sono d’accordissimo con Ausilio Bertoli quando dice che il ruolo della parola è quello di sanare una fragilità, una ferita.
    Ne è prova il fatto che i figli della narrativa novecentesca, da Pirandello a Gadda a Berto, si muovono in un quadro di patologie e in un paesaggio di macerie, spirituali più che materiali.

  51. Su tale dimensione lacerata si abbatte adesso l’opera di formazione dei mezzi di comunicazione sociale; si tratta di una formazione consumistica ed industriale, che attecchisce su un’umanità labile e priva di adeguati strumenti culturali di sostegno.
    L’uomo torna a una dimensione originaria, di grande esposizione ai rischi non naturali ma sociali. Solo che vi torna non per un recupero di innocenza, bensì per debolezza.
    E’ quindi vero che i figli odierni, deboli e meno consapevoli, escono dalla tutela familiare per entrare in un’altra, dilatata socialmente, ben più subdola ed aggressiva.
    Riflettere da dove provenga storicamente la crisi credo possa aiutare i padri a risolverla, a farne un’alleata.
    La crisi avviene infatti non solo per un forte e potente meccanismo destabilizzante esterno (il progresso, le minori necessità legate alla sopravvivenza). Ma perché quel meccanismo esterno corrispondeva (e corrisponde) , in qualche modo, a un nostro desiderio interno, a un sogno di eternità e benessere…in una parola a un’insopprimibile e umanissima ricerca di felicità.
    Una volta, dopo un processo defatigante, e ore di interrogatorio a un suocero (padre di figlio separato) che chiedeva di vedere il nipotino contro il volere della nuora, emesso un dolorosissimo provvedimento che disponeva anche l’audizione del minore, a porte chiuse e con l’assistenza di uno psicologo, mi vidi arrivare un bambino di soli cinque anni, armato di cellulare, hi phone e play station. Di fronte a quella quantità di arnesi meccanici, distribuiti tra tasche e zainetti, debordanti quasi da manine incerte e piccolissime, dissi: facciamo un gioco insieme. Fammi vedere cosa c’è in queste macchinette bellissime che porti con te.
    Il bimbo ne fu felicissimo e aprì il cellulare sullo sfondo di una sua foto, da neonato, tra le braccia del nonno.

  52. non sono un teorico, sono solo uno scrittore e parlo di quello che so. Delle mie esperienze. Il mio libro parla del dolore della separazione visto dalla parte di un uomo. Di solito queste esperienze “sentimentali” sono prerogativa femminile, quindi la mia narrazione è stata vista come una sorta di invasione di campo di una riserva “di caccia” femminile…
    Poi: parlo di un padre che si occupa del figlio, di un “mammo” diciamo così. Questo è successo grazie anche al movimento di emancipazione delle donne che hanno “ridisegnato” la figura degli uomini. Ma quando lo dici in giro, spesso le donne si incazzano. Quando dici che la società sta cambiando, che ci sono uomini pronti a occuparsi dei figli, che sono pronti a lottare per vedersi assegnati i figli in caso separazione, vieni visto “di cattivo occhio” per usare un eufemismo. Me ne sono accorto in questi due mesi scarsi – il libro è uscito il 19 marzo, festa del papà – di promozione del mio romanzo. Se parli del dolore dei padri, ti senti dire che la nostra società è ancora maschilista: le donne che lavoroano in Italia sono ancora poche, guadagnano meno degli uomini ecc., quindi di che vai cianciando?
    Intendiamoci: che la nostra società è ancora maschilista è vero, ma dire che tutti gli uomini sono “maschilisti” è meno vero. C’è una parte importante della nostra società che vede uomini, padri, mariti che stanno faticosamente cercando di interpretare in maniera nuova il loro ruolo, ma pare che non interessi nessuno. Meglio continuare a parlare dei maschi “novecenteschi” contro i quali scagliarsi. E’ più comodo.

  53. Vito Bruno: “che la nostra società è ancora maschilista è vero, ma dire che tutti gli uomini sono “maschilisti” è meno vero”.
    Sono d’accordo con lei. E sono pure d’accordo sul fatto che ci sono resistenze a prendere in considerazione e ad accettare “l’uomo femminilizzato” del nuovo millennio. Però credo che queste resistenze provengano sia dall’universo femminile sia da quello maschile.
    Comunque siamo in una fase di passaggio, il cambiamento o evoluzione non si è ancora concluso.
    Leggerò il suo libro con molto trasporto e attenzione, credo e spero sia intriso anche di una forte carica emotiva ( cosa che cerco sempre nelle mie letture ).

  54. Carissimo Vito,
    è vero. La donna è impreparata e incerta. Vuole il marito collaborativo, ma anche l’uomo. Pretende libertà ma non ammette, in realtà, attentati ai tradizionali ruoli materni, ovvero, delega ma riafferma con astio, avanza e arretra.
    In fondo, credo che sia spaventata tanto quanto i padri.
    Tutto questo emerge quando la famiglia si divide (e il tribunale è il triste osservatorio della patologia delle famiglie) ma, in realtà, serpeggia già all’interno, anche in casi di apparente unione familiare.
    Non credo sia un problema di “ruoli” ma di educazione all’amore vero, come dicevo prima. Al riconoscimento che la nostra sete di felicità sbaglia solo direzione, ma rimane il motore dell’agire umano.
    Nei pochi casi in cui ho risontrato apertura e umiltà nell’affido condiviso, l’amore non è equivalso a un sentimento, ma a un percorso in continua evoluzione, creativo e fantasioso. Capace, in qualunque connotazione maschile o femminile, di riconoscere l’opposto e la sua ricchezza, lasciandosene cambiare, stupire, maturare.
    Ecco perchè dicevo in apertura che è la norma “interna” il vero propulsore della condivisione. Perchè laddove l’ordinanza del giudice, l’assegno divorzile, l’affido, l’assegnazione della casa familiare avvenga su una conflittualità non elaborata, l’ordine è solo apparente.
    E giustizia non è fatta.

  55. Buongiorno a tutti,quanti nuovi interventi e che piacere leggervi!Un benvenuto speciale ad Ausilio Bertoli e grazie per il suo intervento su cui tornerò per riprendere se è possibile tante cose interessanti.
    Mi inserisco nel discorso di Vito e Amelia-grazie per aver risposto generosamente a tutte le domande di Massimo-.Caro Vito io trovo che sia bello e confortante leggere le tue parole riguardo al rapporto con tuo figlio piccolo e non condivido assolutamente il risentimento di alcune donne verso la posizione che esprimi attraverso il tuo libro e la tua storia.Non condivido ma in un certo comprendo perchè credo che ci siano dietro anni e anni di storia sedimentata dentro la donna,la madre che è stata comunque indebolita da condizioni economiche,culturali e sociali e solo da una quarantina di anni ha avuto significative risposte anche legislative alle sue necessità.(Da quand’è che esiste la legge sul divorzio?Ci pensate a cosa subiva nel passato ,nemmeno troppo distante,la donna che volesse separarsi?Abbandono del tetto coniugale,etc etc.Insomma non pensiamo a situazioni in cui ci siano donne che con l’ausilio della propria cultura possono affrontare situazioni difficili difendendosi e difendendo i propri diritti e quelli dei figli.Purtroppo esistono ancora uomini che del potere economico fanno la loro bandiera e dettano legge,perciò è necessario l’intervento giusto di una legge esterna laddove quella interna di cui parlava Simo è difficilmente raggiungibile.Detto ciò,io non trovo che la femminilizzazione dell’uomo sia un fattore negativo anzi,credo che la donna intelligente con amore sappia lavorare per dare spazio ai sentimenti che possono solo aggiungere nella relazione a due come nell’ambito familiare,mi preoccupo però quando qualcuno parla ancora in termini contrapposizione uomo-donna,seppure siano universi differenti andrebbero armonizzate le differenze complementari per raccogliere i frutti di uno scambio di amore e di impegno e di crescita reciproca.Questo sia che la coppia non funzioni più come coppia sia che stia ancora insieme,nel caso di figli in comune.Sono d’accordo con Amelia quando parla di un cambiamento ancora in atto,perciò credo c’è resistenza,come tutti i cambiamenti porta ripercussioni nell’individuo e nella società,nell’educazione e nella crescita dei figli,ma anche nel lavoro.
    Spesso,nonostante io abbia grande fiducia nella capacità di comprensione e di evoluzione della donna in genere,ho incontrato più donne resistenti al cambiamento dell’uomo che viceversa,donne che hanno quasi paura di cedere un pò di uno spazio che è stato di loro esclusiva pertinenza,donne che percepiscono l’uomo-affettivo come una minaccia,questo mi ha trasmesso l’idea che se non si ha il coraggio di dare fiducia all’altro non ci tornerà nulla indietro,neppure in amore,tanto più in amore dove più allargheremo le braccia più sentiremo il calore dell’abbraccio altrui.
    Vito,continua a scambiarti coccole con il tuo bambino,è un’immagine bellissima e farà di lui un uomo che non avrà paura dell’amore.
    un abbraccio

  56. cara Simo,un buongiorno di cuore anche a te,ci siamo sovrapposte mentre scrivevamo e sono felice di trovare punti in comune in ciò che abbiamo detto sull’amore.

  57. vivaddio! Grazie ragazze – Amelia e Simona. Mi state riconciliando con.. boh, la società? la cultura? me stesso?
    Premesso che: a) il mio libro è una lettera alla mia ex moglie dove mi sforzo di trovare anche “l’amore alla fine dell’amore”, cioè, il modo per non buttare via un pezzo della mia – nostra – vita e soprattutto per non scalfire – per quanto possibile – il più grande amore nato dal nostro amore: nostro figlio;
    b) che dopo lotte anche aspre e dure – in questo senso credo d’esser stato onesto e sincero nel mio libro – con la mia ex moglie, che è una donna onesta e intelligente, abbiamo trovato un accordo, un buon accordo (e mi piace credere che forse, un piccolissimo contributo l’abbia dato il mio libretto, ma anche no);
    nel primo momento della separazione mi sono imbattutto:
    1) a livello giuridico in un mondo – e Simona correggimi se sbaglio – arcaico: al 99,9% le separazioni finiscono con l’assegnare il figlio alla madre (alla quale va anche la casa e un assegno di mantenimento, ma questo è un altro discorso) e il padre viene sbattuto via come se non fosse dotato di alcun sentimento “umano”, nel presupposto che esista ancora, da una parte un “angelo del focolare” (insomma, anni’50 del secolo scorso) e dall’altra parte un uomo che nel migliore dei casi non vede l’ora di scrollarsi di dosso l’impiccio dei figli;
    2) a livello culturale una quasi totale insensibilità al problema che sollevavo. Per dire, in una trasmissione televisiva su una rete nazionale, mi è stata quasi tolta la parola e alla fine mi è stato detto che io ero “una mosca bianca”.
    Ripeto: è più comodo pensare che ci sono da un lato donne in catene e dall’altra maschi predatori. Insomma, schemi novecenteschi. Tutta quella moltitudine – maschi e femmine – che si è messa in marcia verso nuovi modelli e nuovi ruoli, non figura ancora da nessuna parte. Me ne sono accorto nel dibattito sul femminismo scaturito dall’articolo di Susanna Tamaro sul Corriere: vecchie geremiadi proto-femministe sul presupposto che i maschi sono solo sporcaccioni che non pensano che a escort e trans, le donne povere vittime costrette a fare le veline per fare carriera. La parte “sana”, (la maggioranza secondo me sia maschile che femmnile che cerca e si interroga) non figura ancora da nessuna parte.

  58. Scambiare le coccole con i propri figli deve per forza voler dire femminilizzarsi? Non può esserci un modo maschile di farlo? Io credo di sì.
    Mi aggancio a quanto detto da Raul, la relazione carnale che il figlio ha con la madre è talmente forte, talmente misteriosa che un uomo non potrà mai riprodurla. Nonostante questo, l’uomo ha tutto il diritto di fare le coccole, di essere presente, di accudire e di nutrire i figli, ma rimane un uomo. Tra i pigmei i maschi attaccano il figlio al capezzolo per tranquillizzarlo, è un’immagine molto bella, che rimane affascinante anche se dal capezzolo non esce il latte.

  59. Accidenti non faccio in tempo a girarmi dall’altra aprte che la discussione è già aprtita in quarta. ora dovrò mettermi a pari!
    Comunque sia: la paternità è un’identità mobile, che è radicalmente mutata nei secoli (pare che addirittura in antichità neppure si riconoscesse il contributo biologico del padre. Le donne figliavano, ma non si sapeva perché!).
    Dal punto di vista dell’ultima generazione, addirittura, il mutamento è spaventoso. E affascinante.
    Insomma: padri si diventa. Ma, attenzione, anche madri si diventa. Sfatiamo il mito dell’istinto materno.
    Esiste una cultura della genitorialità che va prendenmdo corpo. A me interessa quella.
    Un caro saluto a tutto voi.

  60. Cara Fran,
    sono d’accordissimo con quella tua felicissima gioia per le coccole che Vito riserva al suo (fortunato) bimbo!
    Un caloroso benvenuto anche a Gianni Biondillo che mi ha colpita con questa bellissima frase :” Esiste una cultura della genitorialità che va predendo corpo”…
    E’ verissimo e questo mi consente di rispondere anche a Vito sulle statistiche giudiziarie in tema di affido condiviso ed esclusivo.
    Si tratta necessariamente di esiti ancora iniziali perchè la legge è entrata in vigore da soli quattro anni, ma devo dire che la rivoluzione c’è stata anche se per il momento è – a mio avviso – appena sbocciata e tutta da approfondire.
    Comunque, il boom dell’affidamento condiviso per figli di ex coniugi si è registrato nel 2006, anno di entrata in vigore della legge ed anno in cui le separazioni sono diminuite (confermando così l’inversione di tendenza del 2005) anche se sono aumentati i divorzi.
    Nel 2006, i coniugi che hanno deciso di separasi sono diminuiti del 2,3% rispetto all’anno precedente;
    i divorzi invece continuano a crescere, +5,3%.
    Complessivamente, si sono registrati 80.407 separazioni e 49.534 divorzi.
    Tuttavia, in dieci anni le separazioni e i divorzi sono aumentati, rispettivamente, del 39,7% e del 51,4%.
    Ci sono state 5,4 separazioni e 3,3 divorzi ogni mille coppie coniugate; il maggior numero al Nord, 6 separazioni e 4,2 divorzi ogni mille coppie. In otto casi su 10 le separazioni sono consensuali.
    Il ricorso all’affidamento condiviso è più che raddoppiato in un anno, scelto in un caso su tre: 38,8% delle separazioni (era stato l’11,6% nel 2005) e nel 28% dei divorzi (15,4%).
    Come già detto nel 2006 è entrata in vigore la legge sull’affidamento condiviso (la numero 54) ma anche prima era una procedura sempre più ricorrente: dal 2,8% nelle separazioni al 2,2% nei divorzi nel 1997 al 15,4% e all’11,6% nel 2005. La custodia esclusiva premia ancora la madre (58,3% delle separazioni e nel 67,1% dei divorzi). L’affidamento condiviso prevale nelle separazioni consensuali, il 42,2%; scende nelle giudiziali, 18,9%.

  61. Queste le statistiche, caro Vito…ma in realtà mi duole constatare che la strada è appena accennata ed è lunga.
    A volte i numeri non dicono che alcuni affidi sono condivisi solo sulla carta. Che sarebbe necessario più sostegno psicologico nei primissimi anni di separazione.
    Ma è comunque vero che un’apertura e un’inversione di tendenza c’è stata.
    Trovo positivo, come ho detto qualche commento più su, che la legge sia venuta alla luce da un’associazione di padri separati che si è battuta in Parlamento.
    Bel modo, secondo me, di essere uomo rivendicando un ruolo e un’esigenza, non trincerandosi dietro “cose da donne” e “cose di maschi”, semplicemente facendo affiorare un dolore che somiglia tanto a un lutto inascoltato e a un umanissimo desiderio di dare e ricevere amore.
    Bel modo anche scriverne, secondo me, caro Vito. Una lettera aperta a un’ex moglie alla ricerca di un sentimento trasformato e trasfigurato in un figlio…credo sia una meravigliosa attestazione, matura e dolente, di disponibilità all’ascolto.

  62. Dunque un post bellissimo e superinteressante! Vorrei tanto leggere tutti i commenti, e anzo prometto che lo farò in giornata:) ma appunto ci ho il pipik di 11 mesi e quindi il tempo è quello che è! Vi saluta tutti.
    Ma vorrei porre delle domande agli scrittori interpellati (saluto gianni biondillo:) potreste tralasciare la parte del cosa non fa il compagno e il padre, e invece raccontarci cosa è il padre? In un mio vecchio post, che non vi sto a linkà che du palle, io mi lamentavo di questa eccessiva sentimentalizzazione della genitorialità che nell’industria culturale è narrata solo come materna, secondo il concetto di materno della cultura: cioè solo cura amore affezione pannolini e pianterelli, la meravigliosa sfida intellettuale della genitorialità – che se non altro in una prospettiva reazionaria dovrebbe essere appannaggio degli uomini – è completamente scotomizzata. fai un figlio e nessuno ti dice mai che effetti fa al tuo pensare il mondo, al tuo ruolo di trasmissione etica e culturale, allo spettacolo delle genesi delle categorie mentali.
    Pannolini pannolini pannolini! E intanto vince Berlusconi.

  63. Cara Simona,avrei una curiosità, al di là delle statistiche e dei numeri,per tua esperienza diretta quanto l’affido condiviso è una necessità richiesta dai padri e quanto è anche un vero desiderio di condivisione della responsabilità della crescita dei figli anche da parte delle donne?Ho letto alcuni articoli particolarmnete polemici sulla legge riguardo al fatto che indebolirebbe la posizione di molte donne economicamente più fragili e darebbe uno strumento di controllo della libertà personale all’uomo,che in alcuni casi è padre per esecitare controlli sulla moglie- è vero che la donna non può cambiare abitazione,città neppure per esigenze di lavoro?- e che in questo modo la legge si legherebbe ,facendo un passo indietro,al concetto di colpa,impedendo anche al coniuge di rifarsi una vita altrove.Non mi è molto chiaro.Ho trovato molte considerazioni di donne che osteggiano la natura della legge stessa e mi piacerebbe se tu potessi darci un’idea più precisa in merito.
    Grazie di farmi comprendere meglio,un abbraccio.

  64. Salve a tutti,
    noi di LinkLibri prepariamo bibliografie tematiche per la promozione della lettura e per costruire percorsi fra i libri sia per lettori, sia per mediatori della lettura (insegnanti, bibliotecari) sia per librai e associazioni. In occasione della prima fiera su divorzio e separazioni Ex – Punto e a capo che si è tenuta a Milano l’8/9 maggio – Hotel Marriott – abbiamo predisposto due bibliografie sul tema, anche alla luce anche degli ultimi dati: in Italia ogni anno ci sono circa 100.000 nuovi separati e circa il 30% dei matrimoni termina precocemente con una separazione. A fronte di ciò abbiamo circa 1 milione e mezzo di figli costretti a dividersi in due.
    Un fenomeno che non possiamo sottovalutare e che lascia sempre – anche in caso di coniugi “consenzienti” – l’amaro in bocca.
    Ma i libri, anche in questo caso possono venirci in aiuto.
    Abbiamo inviato due bibliografie alla mail di Letteratitudine, alla c.a. di Massimo Maugeri: una per ragazzi e una per adulti.
    —————————————————-
    Ragazzi. Storie, romanzi, diari… per bambini e ragazzi. La bibliografia presenta 47 libri in commercio così suddivisi:
    1) Mamma e papà si separano e io non vado ancora a scuola (sino ai 6 anni): 4 titoli
    2) Dai 7 ai 10 anni: 14 titoli
    3) Oltre i 10 anni: 20 titoli
    4) Qualche aiuto per i genitori: 9 titoli
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    Adulti. “Anche i grandi amori finiscono” con 51 titoli. Si tratta di romanzi, storie, manuali di sopravvivenza per affrontare – da protagonista o da vittima – la separazione e il divorzio.
    1) Per uscirne indenni. Come evitare depressioni o evitare esaltazioni: 5 titoli
    2) I figli so’ pezzi ‘e core. Quando in mezzo ci sono i figli: 17 titoli
    3) Ma non tutto finisce. Romanzi per guardare avanti: 2 titoli
    4) Quando i protagonisti diventano i figli: 5 titoli
    5) Separarsi da uomini: 3 titoli
    6) Separarsi da donne: 6 titoli
    7) Quando il “post” è instabilità, ripensamento, esaltazione: 3 titoli
    8 ) Ma l’ironia non può mancare: 6 titoli
    9) Qualche riflessione: 4 titoli
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    Cordiali saluti, Bea Marin
    LinkLibri snc
    Via Soperga 57, 20127 Milano
    http://www.linklibri.it/progetto

  65. Inoltre,il timore sarebbe che nell’affidamento congiunto,non realmente deciso con la volontà di condividere la responsabilità e l’impegno in favore di una crescita armoniosa del figlio,si possano inasprire i conflitti irrisolti fra madre e padre .Il povero figlio spaccato in due,farebbe con papà quello che decide papà e con mamma ciò che preferisce mamma,senza un profondo intento di seguire una linea di condivisa responabilità che lo faccia crescere.In questi casi è possibile intervenire con un sostegno esterno psicologico e sociale, che ne sò?

  66. Carissima Fran,
    non c’è alcun dubbio che la legge si sia prestata a critiche, e questo perchè, in tema di famiglia e separazione, ci addentriamo in una terra ferita e di mezzo, in cui riuscire davvero (e con successo) a proteggere il minore è impresa ardua, che richiede una nuova forma d’amore nella coppia. Non più un sentimento coniugale ma un nuovo e unico desiderio genitoriale.
    Ci sono alcune norme (tra gli esempi che citi) che hanno suscitato le proteste di assocazioni di difesa della donna, e sono state ritenute un attentato alla sua debolezza economica e alla sua libertà di movimento. Te le riporto nel commento successivo (si tratta degli artt 155 bis e ss del codice civile) ma devo dire che tutta la normativa in questione non va mai letta in un’ottica di protezione del ruolo del padre o della madre, bensì in una necessaria e doverosa funzione di tutela del soggetto più debole, il figlio (in questa luce si comprenderanno meglio gli articoli legati al cambiamento di residenza e domicilio che non implicano, però, un divieto di spostamento, ma solo una – ovvia e necessaria – rielaborazione dei tempi e modi della convivenza).

  67. Art. 155-ter. – (Revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli). I genitori hanno diritto di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli, l’attribuzione dell’esercizio della potestà su di essi e delle eventuali disposizioni relative alla misura e alla modalità del contributo.
    Art. 155-quater. – (Assegnazione della casa familiare e prescrizioni in tema di residenza). Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli. Dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà. Il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio. Il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell’articolo 2643.
    Nel caso in cui uno dei coniugi cambi la residenza o il domicilio, l’altro coniuge può chiedere, se il mutamento interferisce con le modalità dell’affidamento, la ridefinizione degli accordi o dei provvedimenti adottati, ivi compresi quelli economici.
    Art. 155-quinquies. – (Disposizioni in favore dei figli maggiorenni). Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto.
    Ai figli maggiorenni portatori di handicap grave ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, si applicano integralmente le disposizioni previste in favore dei figli minori.
    Art. 155-sexies. – (Poteri del giudice e ascolto del minore). Prima dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti di cui all’articolo 155, il giudice può assumere, ad istanza di parte o d’ufficio, mezzi di prova. Il giudice dispone, inoltre, l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento.
    Qualora ne ravvisi l’opportunità, il giudice, sentite le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti di cui all’articolo 155 per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli».

  68. Quanto alle situazioni di frattura e impossibilità di decisione congiunta si deve tenere presente che una cosa è l’affidamento, altra è l’esercizio della potestà.
    L’affidamento implica una cura diretta del bambino , per scelte di velocissima attuazione e pratche, ben può essere attuato dal singolo genitore che abbia in quel momento con sè il figlio.
    L’esercizio della potestà invece è congiunto e riguarda le scelte fondamentali della vita del figlio (salute, scuola, educazione).
    In questo caso ove uno dei genitori ostacoli il progetto “genitoriale comune”, ovvero getti discredito sull’altro, l’esercizio congiunto della potestà si rivela impossibile e ove il minore ne risenta, si renderà necessario disporre un cambiamento delle condizioni e attuare un affido esclusivo.
    E’ comunque previsto un programma di “mediazione familiare” ossia di strutture di sostegno che hanno lo scopo di mediare nella coppia che non riesce a collaborare, sostenendo la nuova funzione e cercando di favorire la bigenitorialità.

  69. Infine, quanto alla mia personale esperienza, carissima Fran, ho potuto constatare una realtà ferita e variegata.
    Padri dilaniati dalla separazione e padri indifferenti, madri iper protettive e madri sagge, volontà di collaborare e finzione….
    Un intero universo di sguardi ed emozioni, sfaldamenti e incertezze. Dolore e recriminazione.
    Non è mai facile trovare la soluzione giusta. Semmai immettersi in un percorso, affrontarlo con coraggio e molta disponibilità reciproca.
    Tengo però a precisare che il nostro ordinamento ha da tempo abbandonato, sulla scorta della mutata realtà sociale, la separazione “per colpa”.
    Resta l’istituto della separazione “per addebito”, che è cosa diversa e serve a verificare se vi sono presupposti per un risarcimento del danno.
    E resta , soprattutto e sempre, l’amarezza di una decisione in cui non vi saranno, comunque, vincitori.

  70. Certo,la realtà è sempre più complessa,perciò ben venga il sostegno, la mediazione dove è possibile,sperando che fra gli individui non venga mai meno il dialogo e il rispetto, anche quando l’amore termina.
    Grazie di tutte le tue pazienti spiegazioni.Certo,ripensando alla mia personale esperienza di figlia,tanti anni fa anche dove c’erano gli strumenti non c’era la cultura,spesso la donna non era pronta per affrontare la separazione in modo corretto.Quando mio padre uscì di casa,avevo dodici anni e non mi fu data neppure una spiegazione di ciò che stava accadendo,come se all’improvviso avessero tolto la possibilità di vivere una vita ad una bambina-tre per l’esattezza- senza dirgli il perchè.Questa è la cosa più terribile per un bambino che spesso si assume tutte le colpe per qualcosa che non comprende,ferite che restano una vita dentro e chissà poi perchè fanno credere al’amore e alla possibilità di creare una famiglia ad una sola su tre( io).Non posso che essere felice che oggi ci sia tanta più consapevolezza da parte del padre soprattutto che non smette di essere padre se fallisce nel rapporto di coppia,da parte della madre che gestisce con rispetto e collaborazione la relazione per consentire ai figli di non rinunciare all’amore e all’impegno paterno.Nel mio passato è come se ci fosse una vita prima e una dopo,ho perduto a causa del comportamento e l’assenza totale del padre ,anche tutti i rapporti con la linea parentale paterna,cosa triste e che mi pare oggi si tenda a preservare con maggiore cura e attenzione,proprio perchè fa parte dei legami affettivi necessari alla crescita.Dunque posso augurarmi che il cambiamento attuale penda sempre a favore dei piccoli,che come hai detto tu Simona,sia fatto tutto nel loro principale interesse e che gli adulti coinvolti non dimentichino mai la responsabilità di colui che hanno messo al mondo e dell’individuo che dovrà diventare crescendo. Le mie ferite non mi hanno impedito di essere la donna che oggi sono e ne sono fiera,amo la mia famiglia,quello che ho creato insieme con mio marito,i miei figli.Mi amamo e mi apprezzano con le mie debolezze che non ho mai nascosto,non ho del resto impedito a mio padre di svolgere il suo ruolo di nonno-seppur a modo suo- ma è un diritto pieno che non si può negare nè a lui nè ai nipoti.Curo la bambina che ho dentro e quella bambina che mi appartiene è piena di gioia nel vedere i gesti d’amore e di impegno che mio marito ha con i nostri figli.Lo sorveglio dolcemente però,lo aiuto, lo sostengo e gli racconto tutto ciò che non ho avuto e mi è mancato,sperando che lo aiuti,più di quello che già fa, ad essere padre.
    Perciò è sempre un bene che se ne parli,si discuta,senza troppe convinzioni,senza certezze,perchè è mettendosi in discussione che si va avanti.Il dubbio ci aiuterà a crescere e a far soffrire meno. Resta da adulta un solo rammarico. Mi piacerebbe conoscere dentro il vero sentimento del perdono.Chissà,forse col tempo.
    grazie Simona,un saluto a tutti.

  71. ciao, sono una lettrice del blog che non è mai intervenuta prima. stavolta però sento l’esigenza di ringraziarvi tutti, soprattutto coloro che hanno raccontato se stessi, l’esperienza della loro vita. e tutti coloro che stanno rendendo questo dibattito bello, ricco e istruttivo.
    grazie.

  72. Ciao Lucia,sono io che ringrazio te-poi il custode celeste del blog lo farà con tutto il suo potere e cura!- ti ringrazio perchè certe volte ho l’impressione di sussurare parole a pochi amici intimi,questa sensazione di complicità porta coraggio,ma il coraggio diventa forza quando ci si accorge che ci sono altri occhi che leggono e che condividono esperienze emozioni e parole.Concordo con te quando dici che il dibattito è bello ricco istruttivo,sto imparando tante cose e registrando nella mente e nel cuore certa che tutto un domani mi tornerà utile per vivere.

  73. Agli scrittori paterni o ai padri scrittori vorrei aggiungere anche il minimale, un po’ esotico e collaterale (nel senso di “riserva indiana”) fenomeno dei babbi che hanno un blog. E dire fenomeno è già grassa.
    Eppure proviamo a parlare di come questa nostra strana condizione ci faccia vedere il mondo, qualcuno lo fa anche tralasciando il marketing e le vittorie (sic!) berlusconiane. Qualcuno prova a dire, propriamente a raccontare. Visioni del mondo. Anche sentimenti, perché no.
    Senza pannolini (e perché no?), senza rigurgiti che non siano i nostri di uomini cambiati, nel tempo di una figliolanza. Nel frattempo, di una crescita.
    Il mio secondo figlio (“l’uomo piccolo”, nel blog), una sera senza saperlo (?) ha più o meno rivoluzionato il mio modo di vedere-sentire-godere il mondo: “secondo me, crescendo la vita diventa più bella”. Questo disse, crescendo. Mica male come questione.
    Altra questione: quando affronteremo la “questione maschile” qui in Italia, tutti insieme?
    Infine, ai libri di cui sopra aggiungo, per una mia bibliografia mentale che può incuriosire altri, il libro di Tobagi e, soprattutto, quello di M Chabon “Uomini si diventa” che, malgrado il pessimo titolo italiano è un libro fondamentale.
    Scusate l’intrusione scrittori paterni…
    Alcuni punti di riferimento:

    http://sosmammo.blogspot.com/
    http://rosco-66.blogspot.com/
    http://www.papaduepuntozero.com/
    http://impromptu2009.blogspot.com/
    http://babbidigitali.blogspot.com/

    Insomma, sapete com’è… esistiamo. 🙂

  74. scusate tutti il ritardo. un caro saluto di ricambiata stima a simona lo iacono. e qui vedo delle vecchie conoscenze!:-) raul, gianni, valter. dico sinteticamente la mia, per il momento: essere padri credo sia più difficile dell’essere figli – io sono stato solamente figlio. e poi, credo che oggi il padre sia diventato, nella media, una figura più morbida. ma lo poteva essere anche un tempo. nel padre vedo un compromesso tra dolcezza fermezza e autorevolezza. certo, ma madre è, o dovrebbe essere, un vero e proprio catalizzatore di affetto, di amore puro e disinteressato. voglio dire (e intanto saluto anche francesca, che certamente puo’ chiamarmi franz, come fanno tutti!) che nella figura paterna esiste, o dovrebbe esistere un braccio che sta fuori dalla famiglia e che fa vedere al figlio il mondo esterno. la madre è solamente nucleo d’intimità.

    ma se questo era generalmente vero mezzo secolo fa, oggi i ruoli, lo sappiamo, si confondono. e a mio avviso questo non è un bene, non necessariamente. non credo ai genitori “fratelli maggiori” dei loro figli. non credo troppo alla polivalenza dei ruoli. sono all’antica, diciamolo. anche perchè sono antico…:-)

    in quanto al rapporto tra vocazione artistica e vita familiare, è indispensabile conciliare. la famiglia deve diventare supporto di tale vocazione. insomma, se una moglie non ama la letteratura, se è moglie di uno scrittore, deve imparare ad amarla.

    dico deve per chiarezza. nessuno deve niente, ma è meglio che sia così. o forse quasi necessario.

    a suivre!

  75. Grazie Lucia,grazie Simo!:-)
    Vorrei fare un passo indietro nella discussione e arrivare al commento di Valter Binaghi che mi suggerisce nuovi spunti.Valter ha raccontato molto bene la difficile convivenza della dedizione a scrivere con la dedizione primaria e totalizzante dell’amore per la famiglia,mi piace e mi emoziona parecchio il modo in cui parla dell’impegno e dell’amore continuo e quasi di una sensazione di tradimento che si sente quando si toglie attenzione e tempo all’una cosa per dedicarla all’altra.Questo pensiero si collega anche alla difficoltà di reggere il peso della spinta ad un continuo successo- effimero poi come tante cose della vita stessa-,ma non credo con particolari differenze fra uomo e donna.Solo che la donna a mio parere porta dentro di sè ancora una forte tendenza al senso di colpa quando sottrae mente e cuore agli affetti familiari.Diciamo che cerca forti giustificazioni,almeno con se stessa,perciò che l’amore sia un’opportunità e non una gabbia come dice Valter è qualcosa che non sta solo all’amore stesso ma alla nostra capacità di mediare la nostra soddisfazione personale con quella di amare e condividere la nostra vita.Io vedo due forze opposte,l’amore per la famiglia e l’amore per l’arte-in questo caso la scrittura- che pur essendpo tali possono sussistere solo se in costante equilibrio,ma l’equilibrio non è mai fermo,perciò necessitiamo di piccoli aggiustamenti di continuo.A noi stessi come individui e alle relazioni all’interno della famiglia.Immagino quanto ciò sia complicato per chi fa lo scrittore “sul serio”,ma vi assicuro che è altrettanto complicato per chi insegue il sogno della scrittura come passione come ricerca personale.Almeno chi lo è,può dire al figlio”dai lasciamai stare, papà-o mamma- sta lavorando!”.Ma chi scrive e basta deve avere la faccia tosta di dire”Mi dispiace non posso aiutarti a ripetere la storia per l’interrogazione di domani,mamma sta cercando di diventare scrittrice!”.A parte il modo scherzoso che ho tentato di descrivervi,credo che ci sia sempre una certa resistenza personale,una gabbia imposta da un censore interno che nella donna,in caso sia assorbita dall’impegno familiare,è ancora molto più forte che nell’uomo.
    Aspetto di sentire il vostro pensiero in proposito.

  76. Ciao Franz!hai ragione,bisogna anche aiutare i mariti o le mogli ad appassionarsi alle nostre passioni.Vi racconto una cosina leggera leggera.Ci tenevo tanto ad andare alla mostra di “Libri come” a Roma,giorni fa,così ho convinto mio marito,che per quanto uomo di grande sensibilità,ha tutt’altri interessi rispetto alla poesia e alla letteratura.Buttato dal letto la mattina presto,sul freccia rossa per Roma con i biglietti per sentire la rpima conferenza “Come si scrive una poesia”….dopo varie recriminazioni in sanscrito-napoletano sul perchè e che se ne fregava lui di come si scrive una poesia,gli ho detto”tranquillo,scommettiamo che ti piacerà da morire?”.E ‘ stato bello vederlo letteralmente,anzi poeticamente,rapito nel buio della sala quando Jumana Haddad recitava una sua poesia prima in italiano,poi in arabo,senza parole,totalmente assorbito dall’atmosfera e dalla voce della bellissima e bravissima Jumana.certo,non era difficile lasciarsi rapire da una donna come lei,però sono felice ugualmente e so che potrò usare questa esperienza di rapimento estatico,grazie alla bella poetessa libanese,per trascinarlo ad altre manifestazioni.Poi una volta lì,potrei dire che Jumana ha disdetto e gli lascio ascoltare qualche attempato scrittore straniero.

  77. Carissima Fran,
    mi hai fatto tanto ridere!!!!
    Forse il modo giusto per convincere chi ci ama ad accettare il nostro estraniarci nell’arte (premesso sempre – però- un doverosissimo sforzo di contemperamento di tutte le necessità familiari) è far comprendere cosa sia, per chi la vive, l’arte.
    Non solo una passione. Non un mezzo per raggiugere il successo, non un hobbie.
    Ma un’identità.
    Un indissolubile respiro dell’anima sulla nostra pelle. Una trasfigurazione della nostra vita nella carta e della carta nella nostra vita, ma così pressante e segreto, così indistricabile da noi, dalla nostra carnalità come dal nostro spirito, da non poter fare altro che identificarci.
    Ecco… come dire: amami come sono, perchè rifiutando questa mia vocazione è come se rifiutassi me stesso.

  78. bellissimo post, bellissimi interventi ed è un argomento che mi sta molto a cuore… spero di avere il tempo di seguirlo con cura. intanto un saluto a tutti.
    una cosa che mi viene in mente al volo, e penso in parte a quello che ha scritto zaub: maternalizzazione (se po’ di’?) eccessiva. ecco, io penso che questo sia un problema, non dico che un padre non possa essere anche madre, ma allora se vuole esserlo, prendendo quelle caratteristiche, allora dovrebbe essere poi capace di fare anche il “padre”, quando ci vuole. i ruoli sono brutti e scomodi, è vero, però mi pare che certe volte da genitori si debba prendersi anche la responsabilità di questi ruoli scomodi.
    Penso questo guardando quello che succede tra gli adolescenti: non hanno nessuno che gli imponga delle regole, e però hanno tutti madri e padri fantastici. Genitori ostaggi dei figli, mi fanno impressione soprattutto i padri che non prendono posizioni, non vietano, non si impongono.
    è bello fare i padri teneri e presenti con i figli piccoli, però bisogna tenere presente che quei figli crescono, prima o poi. e prendere in considerazione la terribile prospettiva di fare i genitori stronzi, ogni tanto.
    scusate se sono un incasinata, però vado di corsa…
    ciao simo, ciao francesca giulia

  79. Ciao Giorgina!Dunque quello che dici del padre che deve fare anche il padre mi pare giusto,ma in tal senso si potrebbe dire anche della madre,cioè,che debbano passare in qualche modo i principi educativi e i limiti necessari alla crescita sono perfettamnete d’accordo però non è detto che il padre debba rispondere sempre al ruolo del duro e la mamma a quello della morbida,potrebbero anche alternarsi,magari su alcun temi il padre è più disponibile e su altri no.Insomma,poichè mi pare che sia tutto in evoluzione,o meglio in cambiamento,uscendo da ruoli precostituiti che esistevano un tempo,io auspicherei una fattiva collaborazione dei due genitori che stiano insieme in casa oppure no.Magari decidendo prima di confrontarsi in “pubblico”,cioè con i figli,su una linea di condotta unica da seguire.Una dolce autorevolezza disposta anche a trattare un pò con i soggetti in questione, nei limiti della consapevolezza da parte dei figli che l’ultima parola è dei genitori,insieme.
    Simona cara,sì poeticamente”amami come sono, perchè rifiutando questa mia vocazione è come se rifiutassi me stesso.”….furbescamente vieni amore che ti porto a sentire Joumana!-oppure qualcosa che alletti il soggetto!-
    un grande abbraccio!

  80. Cari amici, intanto un ringraziamento collettivo per i numerosi commenti pervenuti.
    Purtroppo sto scrivendo utilizzando una “connessione di fortuna”.
    Speriamo che tenga.

  81. Devo subito un ringraziamento particolare a Simona (per la sua consulenza giuridico-letteraria) e a Francesca Giulia per i suoi ottimi interventi volti ad animare la discussione.
    Stupende entrambe.

  82. Ringrazio anche Ausilio Bertoli per essere intervenuto. Confido nella sua ulteriore partecipazione al dibattito, al fine di mettere ancora più in risalto gli aspetti psicologici relativi alle tematiche trattate.

  83. Peraltro alla “voce” di Ausilio Bertoli – come ho scritto sul post, che ho appena aggiornato – si aggiungerà quella dello scrittore e psicanalista siciliano Salvo Montalbano (l’omonimia con il personaggio di Camilleri è puramente casuale… anche se il nome Salvo Montalbano è piuttosto diffuso in Sicilia).

  84. Dò il benvenuto a Letteratitudine ad Amedeo Romeo e a Vito Bruno.
    Grazie per essere intervenuti e per aver raccontato la vostra esperienza.
    Ovviamento attendiamo altri interventi da parte vostra.:-)

  85. Avevo già avuto modo di salutare Franz e Valter…
    Ne approfitto, invece, per salutare e ringraziare Raul Montanari e Gianni Biondillo per essere intervenuti.
    Spero che riusciranno a intervenire ulteriormente…

  86. Per la verità Raul mi aveva chiesto di rinviare la discussione di una settimana, per via di alcune scadenze di lavoro (e anche perché sarà “fuori sede” per qualche giorno).
    Anche Gianni, mi aveva confidato difficoltà analoghe.
    Purtroppo, però, avevo già concordato la data con tutti gli altri.
    Li ringrazio, dunque, particolarmente… sperando che riusciranno comunque a fare un salto da queste parti.

  87. Cari amici,
    ho letto gli interventi e due libri tra quelli presentati da Massimo nel post.
    Cercherò di leggere gli altri, compatibilmente con il tempo tiranno, poiché nel libro, nella letteratura (prosa e poesia) le esperienze vissute o rimosse (in parte) sono di aiuto a quanti desiderano – attraverso le emozioni, le evocazioni, i sentimenti scritti, ossia resi pubblici – risprendere il proprio cammino nella vita, soprattutto se ostacolato da mille difficoltà, dubbi, delusioni, disattese.
    La letteratura è il sale dell’esistenza e, sì, è anche lo specchio dove tuffare lo sguardo prima di rapportarci coi nostri simili, formalmente e informalmente. Perché? Perché la letteratura è sempre un mezzo di comunicazione che, magari subdolamente, condiziona o forgia i nostri atteggiamenti o i modi con cui ci comportiamo, o dovremmo comportarci, coi nostri simili. Beninteso per chi la frequenta direttamente o indirettamente, dato che gli altri media (giornali, riviste anche di gossip, televisione, radio, cinema…) attingono eccome dalla letteratura.
    D’altronde, la vita non è un libro aperto e non è uno specchio?
    Non dimentichiamoci che in ciascun individuo agiscono molteplici pulsioni o istinti che ne “dettano” il comportamento, le idee, i pensieri, prime fra tutte l’istinto d’imitazione, di dipendenza, di affiliazione, di dominanza.
    Esattamente gli istinti (scientificamente pulsioni) che intercorrono tra padri e figli quotidianamente.
    A tra poco.

  88. Chiedo venia a tutti gli altri partecipanti se non li saluterò e ringrazierò uno per uno, perché – come vi dicevo – sto scrivendo utilizzando una connessione precaria (magari compenserò domani).

  89. Prima di chiudere riproporrò le “domande del post” a beneficio di chi volesse cimentarsi nelle risposte…
    Nei prossimi giorni, invece, esaurita questa prima parte della discussione approfondiremo la conoscenza deii singoli romanzi “coinvolti” nel dibattito.
    (seguono le domande).

  90. 1. Come è cambiato, oggi, l’essere padre?

    2. In cosa, il padre di oggi, si differenzia nettamente da quello delle generazioni precedenti? Quali i pro e i contro di tali differenze?

    3. Che cosa significa, oggi, “volere” un figlio?

    4. Premesso che le principali vittime delle separazioni tra i coniugi sono quasi sempre i figli, tra il padre e la madre chi è che subisce – in genere – il trauma maggiore? E chi, in genere, tra i due presenta maggiori fragilità?

    5. L’uomo contemporaneo rischia di rimanere vittima della corruzione del successo di più o di meno rispetto a qualche decennio fa? E il successo che corrompe colpisce di più l’uomo, il marito, il padre, lo scrittore (o – in maniera analoga – la donna, la moglie, la madre, la scrittrice)?

  91. @ Ausilio Bertoli
    Hai scritto: “ho letto gli interventi e due libri tra quelli presentati da Massimo nel post.
    Cercherò di leggere gli altri, compatibilmente con il tempo tiranno…”

    Ma sei un grande! 🙂
    Grazie di cuore, Ausilio.
    Manda pure la parcella a casa 😉

  92. Salute a te Massimo, e agli altri partecipanti di questo blog.
    Mentre leggevo i vostri interventi nel post, saltellavano sulla mia tastiera fumetti di puttini amorosi con archetto settecentesco e quelli dei miei due figli. Filippo e Mara, quando avevano pochi anni.
    Questi ultimi più reali, ma rarefatti, dato che oggi hanno trenta uno e ventotto l’altra.
    E la simultaneità delle due allucinazioni non mi ha troppo stupito dato che ascoltando di genitori e figli, il cinquantenne sottoscritto, ha una idea chiarissima: che chi si ama genera immediatamente un primo figlio. Che comunemente chiama Amore.
    E lo accudirà, alleverà, crescerà come farà con i figli più concreti che successivamente genererà.
    Pur essendo uno psicoterapeuta non mi mai hanno mai troppo convinto le tesi di invidia, penis o uteris, affibbiati rispettivamente a donne e uomini. E nemmeno i vari complessi edipici, spacciati per verità da un certo viennese che pur inventando la psicanalisi non si mai sottoposto alla propria stessa cura.
    Voglio quindi dirvi che possiedo un idea ferma (che l’amore sia un figlio immateriale, cioè), ed una traballante (che valgano pochi modelli buoni per tutti).
    Spesso quando qualcuno dei pazienti racconta una desolante separazione, e della rabbia, o della liberazione, nei confronti dell’altro, chiedo sempre com’era prima che si sposasse.
    Prima che avesse figli.
    Sempre ho visto che riportando alla memoria quel passato, l’inconsapevole romanziere di se stesso, man mano si stupisca (e si plachi) nel ritrovare quelle ostilità, quelle identiche brecce, quelle mancanze, di cui si amareggia.
    “Ho sbagliato …”, “Sono stata un’ingenua”, ecc. ecc.
    È fremente di assoluzione la confessione di ogni errore.
    Personalmente diffido di ogni deresponsabilizzante abbaglio. Tutti facciamo quello che meglio possiamo con quello che al momento possediamo.
    Soprattutto nel trattare quel primo figlio immateriale che è la relazione con l’altro.
    Uomo, donna, se stessi …
    Alcuni (per dire della corruzione del successo) sono già corrotti dal proprio stesso desiderio.
    Vogliono!
    Non sperano, non augurano.
    Ma pretendono che la loro aspirazione (di un duraturo amore, di un meraviglioso figlio, di un libro che esprima originalmente il meglio di sé) si realizzi grazie al proprio sentimento, al proprio talento.
    E se non va come si è deciso, bisogna trovare il colpevole!
    Quando va bene, lo si trova sempre in un Sé che muto sopporta tutto il peso della vanità dell’ospite.
    Ma tornando a parlare d’amore – quando la passione finisce, quando il semplice affetto non basta a puntellare la relazione, ed è necessaria un’altra vita – quando arriva il tempo di dirsi addio, parlando di separazione insomma, voglio chiedervi: non fa anch’essa fa parte della relazione?
    Come un figlio, che giunto all’adolescenza e attaccando valori e vizi dei propri genitori rivendica una libertà che deve conquistarsi; la separazione (soggetti o succubi di essa) da chi abbiamo amato, non fa parte di quella stessa relazione amorosa che abbiamo partorito?
    Ho visto che ci si separa come si è amato. Con ferocia (o passione) se si è stati solo feroci, o con dolore, ma con dolente … amore, se si ha anche amato.
    Mi sono separato quattro volte, e so quello che dico. Almeno per quanto riguarda me.
    Una di queste separazioni è avvenuta mentre scrivevo I Fantasmi di via Ossuna 33.
    Lei voleva un figlio, ma non voleva che ne avessimo contemporaneamente due.
    Mi amava così: solo se io fossi rimasto un vero maschio. Non un pallido ermafrodita di scrittore.
    Fu l’unico momento in cui invidiai Tolstoi.
    Non per l’intrigo che egli non sapeva vivere ma che meravigliosamente intrecciava, né per il suicidio di Anna di cui l’accuso ogni mattina radendomi (per non aver avuto il coraggio di concludere senza un banale colpo di scena la vicenda con Vronsky), ma per avuto nella sua vita una Sof’ja. Che più che amare la letteratura ha amato semplicemente lui.

  93. Caro Salvo,
    prima di chiudere faccio in tempo per ringraziarti per il tuo intervento qui sopra e per la tua presenza nell’ambito di questo dibattito.
    E grazie per aver raccontato anche una parte della tua vita. Grazie davvero.

  94. @ Ausilio Bertoli e Salvo Montalbano
    Siete entrambi scrittori e terapeuti. Vi invito a uno scambio fra di voi (se possibile e se vi fa piacere) sui temi affrontati in questo post.
    Ancora grazie a voi e a tutti gli intervenuti.

  95. Eccomi a riparlare del rapporto tra padri e figli o – meglio – tra genitori e figli.
    Premetto che – e Simona Lo Iacono me ne darà atto senza riserve – un tempo non c’era l’istituzione del divorzio e neppure della separazione, sicché ciò che accadeva nelle famiglie rimaneva racchiuso dentro le pareti domestiche. In pratica, soprattutto le donne, vestali del focolare, dovevano a volte subire le angherie dei mariti, i padroni di casa, coloro che procuravano il pane alle donne medesime e alla prole.
    Ma qualcosa è cambiato. Ripeto: qualcosa, giacché molto è ancora da fare o da inventare, perché nelle famiglie nucleari, specie moderne, i ruoli sono mutati, le donne hanno un lavoro, guadagnano, contribuiscono anche economicamente alla crescita familiare, si avvalgono di nonni, baby-sitter o altro. Ma le donne costrette a non lavorare, le famiglie con scarse disponibilità economiche, rimaste sole coi problemi di ogni giorno?
    Certo, la soddisfazione familiare gioca un ruolo essenziale nell’educazione dei figli, influenzandone in modo permanente l’inconcio e, di conseguenza, la loro visione del mondo, anzitutto del prossimo.
    A tra poco, di nuovo.

  96. Rieccomi.
    Ok, Massimo, ti invierò la parcella.
    A Salvo Montalbano invio un saluto caloroso: ha descritto la sua vita in pochi tratteggi intrisi di emozioni e considerazioni utilissime per tutti. Stuzzicanti, poi, le sue idee sulla psicoanalisi, in particolare su Freud.
    Non convince neppure me l’invidia penis o uteris, però a Freud va riconosciuto un ruolo fondamentale nella ricerca degli elementi che formano il sostrato culturale sia di ogni singolo soggetto (attore) sia della collettività e nella descrizione delle patologie che ne devastano la psiche. Freud è comunque un faro, come lo sono Jung, Adler, Fromm, per citare i classici su cui ho dovuto formarmi parecchi anni fa. Penso che sarai d’accordo.
    Ma da un po’ mi sto dedicando agli studi e alle ricerche sul campo riguardo alla devianza allo scopo di mettere in evidenza – o scovare – gli effetti che la devianza produce a scapito delle comunità, oltre che dei soggetti devianti.
    — Nell’intervento precedente accennavo alla soddisfazione familiare.
    Ebbene, consentitemi ora di sostenere – in base alle numerose ricerche psicologiche e sociologiche effettuate al riguardo – come la qualità della comunicazione sia determinante per costruire convivenze, legami, rapporti di coppia in grado di produrre soddisfazione, cioè affiatamento.
    Nelle famiglie con un conflitto elevato tra i coniugi si riscontra un disimpegno, un disinteresse, una superficialità comuni.
    Causati da cosa?
    Consapevole che bisogna scrivere un trattato sull’argomento, ricordo che le compatibilità caratteriali, ossia le affinità, le empatie, i fini condivisi sono essenziali. C’entra anche l’attrazione sessuale, ovvio, ma la mera attrazione sessuale – perdonate il “pessimismo” degli amici sessuologi – varia nel tempo, perdurando al massimo fino ai quattro anni. Non rivoltatevi contro di me, vi prego!
    La soddisfazione familiare e la crescita armoniosa della prole ha bisogno estremo di comunicazione, ossia di “mettere insieme” (secondo l’etimo originario) cose e sentimenti.
    I figli, in breve, se avvertono la presenza costante e contemporanea dei genitori non cedereranno mai alle angosce o a certi “incubi” come il distacco, l’indifferenza, perfino la solitudine più tetra, foriera di tanti mostri, anche in letteratura, tra gli scrittori.
    A proposito di “mostri”, non è detto tuttavia che la mancanza di un genitore nell’educazione dei figli si coniughi necessariamente con le patologie o i disagi mentali dei figli.
    Ne ero dubbioso, ma le ricerche condotte nella Queensland University da Sue Spence – e da altri – hanno rilevato come i bimbi di madri rimaste single dopo la fine del loro matrimonio non dimostrino un’incidenza superiore in termini di disturbi psichici, quali la depressione o l’ansia patologica, rispetto ai coetanei di genitori affiatati, non divorziati.
    In altre parole, gli aspetti problematici compaiono nei figli specialmente quando le relazioni della coppia genitoriale sono assai conflittuali e disturbate, al di là del fatto che i genitori siano o no separati o divorziati.
    A domani.

  97. I figli più belli li ho fatti quando il seme è stato interessante, prodotto da uomini e da donne, la mia gestazione non ha avuto tempi definiti, istantanea, di lunga maturazione addirittura tenermeli dentro anni senza riuscire a tirarli fuori, parti brevi e istantanei o lunghi e travagliati, ho amato le mie creature di un amore pieno e senza riserve, per poi abbandonarle come una madre egoista che le vende per lucro, il bisogno di distaccarmene era per generare ancora dal di sopra.
    Certi padri che li hanno fatti con me non conoscono neppure i loro figli.
    Eppure mi manca la maternità, chissà un bambino avrebbe potuto migliorarmi il carattere, è andata così … la vita per me ha voluto altri percorsi ed altre gioie, inoltre non penso che gli artisti siano genitori meno amorevoli di persone con lavori tradizionali, forse è semplicemente più gravoso pensare ad un bebè quando non si ha un reddito sicuro, può incidere su equilibri che sono di per sè fragili e sensibili.

  98. SONO STATO MANDATO QUI DAL PADRE MIO. E alla fine del “progetto” PADRE PERDONALI perché non sanno quello che fanno.
    Il tema c’è ed è forte, intervenire, invece è difficile ci sto provando dall’inizio del post ma è come muoversi fra geometrie frattali.
    🙂
    Sul Padre e il Figlio, Cormac McCarthy ha scritto il suo “testamento” poetico, e qui su Letteratitudine ne abbiamo discusso con generosità.
    Padre, Figlio e nessuna figura femminile, come mai? Ci eravamo chiesti?
    Perché il delirio femminile sta portando l’Uomo ad una dimensione extra-umana? verso “La possibilità di un isola”? vedi Houellebecq. Il padre-pene non ha ruoli, sta seduto al tavolino fra lui e lei (madre e figlio); il padre-pene si sostituisce…e i Daniel non hanno padre, non sono figli, ma una copia di sé che di volta in volta sbiadisce, lasciando a quel che resta due possibilità: la bestialità, liberata, dell’istinto o una possibile mutazione in un diverso habitat…

  99. Gentile Massimo, trovo l’argomento scelto assai interessante e attuale, la rivista Lìnfera ha dedicato un numero allo stesso tema ed ha pubblicato una mia prosa che scrissi al riguardo, anche il romanzo di prossima pubblicazione che ho scritto affronta la stessa tematica vista dall’angolatura di una figlia di genitori separati quale sono. Sono perciò curiosa di assistere alla discussione,
    un buon lavoro Rossella

  100. In Amabili resti di Alice Sebold (libro straordinario che consiglio sempre alle giovani lettrici) , ora tradotto in film con la regia di Peter Jackson, la figura del Padre è dominante.
    La Madre, che dà la vita, scappa dalla morte, abbandona il campo, non crede, non cede al dolore, nemmeno alla pietà per il dolore di tutti, scappa e va via, lontano lontano. Il Padre resta, ma non si sostituisce a lei, indaga, pensa, ricompone, ripercorre, chiede aiuto, libera le sue potenzialità ed energie sino ad esplodere…
    Lo conoscete?

  101. Egregio dott Maugeri,

    sono incantato dalla profondità e competenza degli interventi.
    Come sa la mia esperienza matrimoniale è stata felice, e il ricordo di mia moglie è sempre una carezza.
    Ma ho avuto, soprattutto negli ultimi anni di insegnamento, eserciti di ragazzi figli di genitori separati. Ragazzi dei quali mi sono sentito, a tutti gli effetti, “PADRE”.
    Condivido quindi lo spirito aperto della Dott.ssa Lo Iacono e il dolore del signor Vito Bruno, così come le parole del Dott. Ausilio Bertoli che ho potuto constatare nella quotidianità.
    La divisione della coppia genera smrrimento e mostri quando è sanguinante, contesa e recriminatoria. Se invece i ragazzi sentono di non aver comunque perduto quel filo che legava padre e madre e provano un sentimento “familiare” a dispetto della disgregazione, tornano a una situazione di maggiore serenità.
    Sono addolorato nel leggere che alla Signora Francesca Giulia (della quale ho letto l’ottimo racconto) è stata negata la possibilità di capire.
    Ecco…credo che la verità sia un’amica della comunicazione.
    Voglia di dirla e volontà di sentirsela dire, sono alla base di ogni relazione umana.
    Infine, mi complimento per le numerose notizie “tecniche” che ho appreso.
    Devo dire che l’alta qualità del blog non ha assolutamente privato semplici lettori come me del piacere di seguirvi e amarvi.
    Mi piacerebbe, in particolare, e proprio da semplicissimo lettore, risentire la voce appassionata del sig. Vito Bruno e sapere da lui se la letteratura lo ha aiutato a elaborare il triste momento del distacco.
    Infine, vorrei mandare un abbraccio alla sig.ra Rossella che so “madre” di meravigliosi figli di pennello e anima e – consentitemi – un plauso alle meravigliose poesie di Franz Krauspenhaar che ho letto nel suo blog.
    Mi hanno fatto assaporare a fior di lingua la bellezza.
    A Lei, carissimo Dottor Maugeri, sempre il mio grazie.
    In particolare trovo bellissimo il contatto, attraverso addetti ai lavori, col mondo della psichiatria e del diritto. Sono mezzi che avvicinano anche al mondo dei libri.
    Mi abbia sempre suo
    Professor Emilio

  102. Mi pare una delle discussione più belle proposte negli ultimi mesi. Complimenti a Massimo e bravi gli soiti invitati. Lo domande sono difficile ma voglio provare a rispondere per esprimere il mio pensiero.

  103. volevo scrivere gli ‘ospiti invitati’, non so perché mi è uscito quell’obbrobbrio ‘gli soiti invitati’. Scusate.

  104. Domanda n. 1 : Come è cambiato, oggi, l’essere padre?

    E’ cambiato in maniera radicale. Lo si è visto anche dai commenti. Si è ridotto il distacco coi figli, l’alterità eccessiva, quella fredda austerità che caratterizzava i padri delle generazioni che ci hanno preceduto.

  105. ci voleva! finalmente un occhio a noi, universitari o bambini, che importa, sempre noi siamo, col carico di bagagli ogni venerdì, sfolla da papà – se papà può – e allora torna da mamma – che invece mamma può sempre. sarà vero, vito bruno, che i padri soffrono, ma il mio sa dissimularlo bene, ogni fine settimana, quando parte per i suoi infuocati viaggetti con la compagna di turno. io ho avuto la fortuna di avere una madre che l’ha saputo pedonare al momento giusto (quando ci ha lasciati per corrrere dietro a una sua collega), che non si è rifatta una famiglia per tutelare noi bambini( e in particolare mio fratello che male avrebbe tollerato un altro uomo in casa), che ha lavorato e ha persino condiviso.
    se la separazione non ha pesato sulle nostre spalle è stato solo per questa donna laboriosa e intelligente che ha saputo fare del perdono una vera colonna della nostra educazione.
    ma questo non toglie che quando si cresce la verità sappiamo guardarla noi, con i nostri occhi. e mio padre non è mammo, e non è neanche padre. è stato un semplice donatore di seme.
    io devo tutto al padre che è stata mia madre.
    Dora (comprerò il suo libro, vito bruno, per capire cos’è un padre che vuole davvero stare con suo figlio)

  106. Domanda n. 2 : In cosa, il padre di oggi, si differenzia nettamente da quello delle generazioni precedenti? Quali i pro e i contro di tali differenze?
    Ho già risposto nel post precedente. Però ne approfitto per comunicare un mio pensiero. La diffferenza dei ruoli tra madre e padre c’è, esiste. Un mammo non serve granché. Perché parlare di femminilizzazione del padre? Non mi piace. Sono d’accordissimo con qunato ha scritto Amedeo Romeo in uno dei post qui sopra.
    Non si può esser padri affettuosi e premurosi senza cercare di trasformarsi in mamme?

  107. Domanda n. 3 : Che cosa significa, oggi, “volere” un figlio?
    Questa è tremenda.L’ha già scritto qualcuno mi pare. Un figlio non è una macchina. Però la società dei consumi ci spinge sempre a pensare in termini di voglie da soddisafre, dunque la provocazione è pertinente. Mettere al mondo figli è una grande responsabilità, non basta il “volere”.

  108. buongiorno a tutti. Prima considerazione: è proprio diverente e affascinante e utile per me questa esperienza, questa finestra aperta sul mondo, sugli altri, su tanti temi che mi riguardano e mi appassionano.
    Seconda considerazione: sabato scorso, verso mezzanotte sono stato chiamato da due simpatiche giornaliste che conducono una trasmissione radiofonica su rai2 e mi hanno chiesto perchè avessi scritto un libro sulla mia doppia separazione (da mia moglie e da mio figlio – quest’ultima, grazie al cielo, rientrata dopo qualche mese di inferno grazie anche all’intelligenza e alla sensibilità della mia ex: mai dimenticarlo!); Mezzo addormentatao com’ero, e per fare lo spiritoso ho risposto: per risparmiare i soldi dell’analista.
    Il giorno dopo ci ho ripensato e non mi è sembrata più tanto una battuta. Questo per rispondere al professor Emilio. io che non sono un teorico, che sono tenacemente abbarbicato alla mia vita, alla mia realtà, l’unica che ho e che mi permette di andare a capo da qualche par te – sempre che riesca ad “attraversarla” – ho trovato nelle parole, nella scrittura il modo per “dirmi” quello che mi stava succedendo e forse per elaborarlo. Ecco, da questo punto di vista, la scrittura finora mi è servita (finora, domani non si può mai dire…

  109. mi piacerebbe anche sentire le voci degli altri autori.
    sempre grazie a letteratitudine, unica terra di verità ed equilibrio. non trovo difficile intervenire…trovo difficile starmi zitta.. 🙂
    Dora

  110. Domanda n. 4 : Premesso che le principali vittime delle separazioni tra i coniugi sono quasi sempre i figli, tra il padre e la madre chi è che subisce – in genere – il trauma maggiore? E chi, in genere, tra i due presenta maggiori fragilità?
    Sono d’accordo con la premessa delle domanda. Per quanto riguarda il discorso del trauma e delle fragilità non credo si possa generalizzare. Ognuno di noi si porta con se i traumi e le fragilità che derivano dal proprio vissuto. L’importante è non scaricarli sui figli. Non è facile. Ergo, è proprio difficile essere padri. E madri.

  111. grazie, vito bruno, delle sue parole. anche io ho elaborato l’abbandono di mio padre così. scrivendo. trovo che la letteratura ci faccia da specchio. e forse anche da padre, chissà….
    Dora

  112. Domanda n. 5 : L’uomo contemporaneo rischia di rimanere vittima della corruzione del successo di più o di meno rispetto a qualche decennio fa? E il successo che corrompe colpisce di più l’uomo, il marito, il padre, lo scrittore (o – in maniera analoga – la donna, la moglie, la madre, la scrittrice)?

    Temo che la risposta sia: si. In una società che considera il successo e la realizzazione personale l’unico vero modo per autodeterminarsi e sentirsi vivi è inevitabile che il successo possa manifestare effetti corrosivi dell’anima e del pensiero, a prescindere dalle differenze di sesso dei ricercatori di successo.

  113. @ Vito Bruno
    Oggi , per me, tappa obbligata in libreria per acquistare il suo libro. Acquisterò anche gli altri consigliati dal boss massimo, tranne il bel romanzo di Montanari che avevo già e ho già letto.
    Continuerò a seguirvi, grazie per la bella opportunità.

  114. Alla Gentile dottoressa Lo Iacono,
    saprebbe dirci se l’alta conflittualità nelle cause tra coniugi genera vere e propie malattie nei bambini?
    A Vito Bruno,
    la letteratura, oltre ad aver aiutato lei, ha, a suo avviso, avuto un effetto riflesso e benefico anche su suo figlio?
    Ad Amedeo Romeo,
    come nasce questa voglia, in un uomo, di avere in se’ un figlio? E’ un’attesa di completezza o la paura di non poterla provare? E poi…è davvero desiderio “altro” o desiderio “per se'”?
    *****
    Vi seguo da ieri con infinito interesse così come molti altri miei amici che hanno vissuto esperienze simili. Siamo tutti senza fiato.
    grazie

  115. Ho comprato oggi il libro di Vito Bruno. Intenso. Doloroso. Ribollente d’amore.
    Bravo.
    Trovo bello, caro Vito Bruno, il suo confronto, in questo blog, con la magistratura.
    Un confronto che mi è parso quasi una riconciliazione, se permette, e forse anche un nuovo modo di guardare alla giustizia.
    Ringrazio quindi Massimo Maugeri per l’opportunità che ci ha offerto nell’averci aperto, un poco, quelle aule dove si decide della vita di un altro e che (tranne a noi addetti ai lavori) arrivano ai cittadini solo dalla tv , ma in modo spesso assai distorto e solo in occasione di grandi processi.
    Mentre la giustizia quotidiana, quella che lavora per risolvere faticosamente i problemi di tutti i giorni, è silenziosa e partecipe.
    Grazie a tutti e buon lavoro.
    Avvocato Fausto Carboni, foro di Messina

  116. il titolo di questo post mi richiama alla memoria il romanzo di Ivan Turgenev, intitolato PADRI E FIGLI. lo conoscete?
    ciao a tutti.

  117. cara Renata, magari! Il mio adorato e meraviglioso puzzone è ancora troppo piccolo per cogliere e godere di eventuali effetti benefici che scaturiscono dalle attività dei suoi genitori. Certo, se io e sua madre siamo più sereni, sta più sereno anche lui…
    Tornando alla scrittura: quando è uscito il mio libro, un giovanissimo e scafatissimo critico, Antonio Prudenzano, tirò in ballo “camere separate” di Pier Vittorio Tondelli. Io, che pure nel libro cito Pier Vittorio (che peraltro ho avuto la fortuna di conoscere in vita, ma non di frequentarlo quanto avrei voluto, ed è un rammarico che mi porto dentro ) non ci avevo pensato. Certo, camere separate come il mio libro è fortemente autobiografico e per curiosità sono andato a rileggerlo. Ho trovato questa frase: «Sente insomma quel libro, o altri che ha scritto, come il suo corpo spogliato. Non una emanazione di sé, una proiezione, un transfert, ma proprio, realmente, il suo corpo». Ecco, io come lui – senza nessuna intenzione di alzarmi al suo livello, ben inteso – sento la letteratura come una parte del “corpo dello scrittore”. Come dice Peter Bichsel, un altro scrittore che ho molto amato, ci si scrive sulla pelle – nel senso, che ogni parola deve essere assunta per intero, nella sua interezza da aprte delo scrittore. Ecco, tutto questo penso che abbia a che fare con l’etica, l’etica della scrittura.

  118. Franz Krauspenhaar dice: “non credo ai genitori “fratelli maggiori” dei loro figli”. Sono d’accordissimo.
    Non bisogna mai confondere i ruoli, solo capire che sono mutati. Non c’è più il padre padrone, il padre “autoritario”, e non ha senso il “padre amicone” deresonsabilizzato dal ruolo. Oggi un padre deve essere “autorevole”.
    Per gioco, con Severino Colombo, abbiamo chiamato questa figura il “Pa3”: padre di terza generazione. (nel nostro scherzoso – ma mica troppo- “Manuale di sopravvivenza del padre contemporaneo”).
    PaTre, ma anche Patre, arcaismo di padre. Figura antica e modernissima.
    Saluto anch’io gli amici (scrittori e no).

  119. Buongiorno a tutti,quanti nuovi interventi,questo argomento è molto sentito e ringrazio nuovamente Massimo per avercelo proposto.
    Un grazie speciale al prof.Emilio per le belle parole di conforto che mi rivolge- e anche per aver apprezzato il mio racconto-.Grazie di cuore.
    Vorrei ricollegarmi a quanto chiesto da Renata- a cui risponderà compiutamente Simona.Lessi un articolo in cui si sottolineavano le conseguenze per i figli dei separati:depressione,tendenza all’uso di droghe,alla violenza,e tante altre.Insomma il succo dell’articolo era ch bisognava spingere i genitori a restare a tutti i costi insieme perchè nessun bambino al mondo avrebbe accettato che uno dei due lo abbandonasse.(E chi dice che se un genitore va via deve abbandonare i figli?Le relazioni finiscono,ma non si smette di essere padri e madri,mai).Oltre al tono perentorio che non ho chiaramente condiviso-intanto perchè credo alle statistiche fino ad un certo punto,essendo questa vita fatta di tante sfumature- sono rimasta sconcertata dalle risposte pervenute a seguito di questa pubblicazione- mi pare su un blog sulla famiglia-.Donne e uomini che illustravano la loro sofferenza di aver subito la difficile e traumatica convivenza con due genitori litigiosi e violenti reciprocamente,bambini che avevano sognato di essere in qualunque altro posto eccetto che in quella casa.Dunque,il conflitto va sempre risolto,che si viva insieme o che ci si separi,.la famiglia è cosa meravigliosa se vissuta con armonia e rispetto verso tutti i componenti,può diventare la peggior gabbia e la fautrice delle più impensabili devianze,se subìta come un carcere dello spirito.Vivere in un’atmosfera conflittuale può essere molto più dannoso del vivere con un solo genitore.Come ho già detto,elaborare l’abbandono è dolorosissimo e non basta dedicarsi alla scrittura o ad altro,bisogna con coraggio guardarsi dentro e costruire la madre e il padre di noi stessi,accompagnarsi per mano a vivere e convincersi che se non si è avuto l’amore non è colpa nostra.

  120. Gianni Biondillo mi ha preceduto. Stavo per scrivere proprio lo stessa cosa che poi ha anche detto Franz Krauspenhaar.
    Il padre dev’essere padre, non amicone. Su questa questione ho avuto accese discussioni con mio figlio circa l’educazione di mio nipote. per carità, in quanto nonno non posso e non dovrei intromettermi, lo so. però il fatto che mio nipote chiami mio figlio per nome mi sembra una cosa assurda. E che ci vuole a farsi chiamare papà? e che è, una parolaccia?
    Mio figlio dice che in questo modo il ragazzo si confida e gli dice tutto, cosa che lui non faceva con me.
    Mi fa piacere che genitori della generazione di mio figlio la pensino come una cariatide come me.

  121. A Salvo Montalbano,
    mi ha stupito il suo approccio da terapeuta. Però condivido che i problemi che affiorano dopo la nascita dei figli risalgono a un “prima” che non abbiamo “voluto” vedere. E dico “voluto” con una accezione della parola che però, non ha nulla a che fare con una volontà consapevole. Piuttosto con la paura, più che con la tirannia dei desideri. Paura, forse, di perderli e non trovarci più.
    L’arrivo dei figli, poi, scuote la coppia, la smembra: non più uomo-donna, ma padre-madre.
    Tornare a essere uomo e donna nonostante l’essere anche madre e padre, credo sia una sfida oggi difficile, innanzi tutto con se stessi.
    Che cosa ne pensa, dottor Montalbano? E Lei, dottor Ausilio Bertoli?
    ——–
    Infine, una domanda per VITO BRUNO:
    crede che diventare padre incida sulla crisi di coppia?
    A Francesca Giulia: Bellissimo racconto!

  122. Buona giornata, amici.
    desidero anzitutto chiedere a Valter Binaghi, Gianni Biondillo, Vito Bruno, Franz Krauspenhaar, Raul Montanari, Amedeo Romeo (in stretto ordine alfabetico) se non hanno nulla da obiettare qualora ribadissi che gli scrittori non fanno che recuperare, esplicitamente o velatamente, i momenti essenziali del proprio vissuto, esponendoli magari ironicamente, o esorcizzandoli o sublimandoli o cercando di comprenderli mediante un’implacabile ricognizione interiore. Oppure, nel caso di nevrosi o di altri disturbi o disagi interiori purtroppo frequenti nell’essere umano, rimuovendoli.
    Io ne sono convinto.
    La stessa domanda desidererei porla anche a Simona Lo Iacono e a Francesca Giulia Marone e agli altri scrittori che mi leggono. Cordialmente.

  123. Gioia: lo sei di nome e di fatto!Grazie davvero,mi fa piacere che ti sia piaciuto,l’ho scritto un pò come omaggio alla mia passione per la letteratura giapponese,un pò come pensiero sulla bellezza femminile che sfiorisce e su quanto sia difficile per molte donne poterlo accettare.
    Mi ha colpito la tua frase:L’arrivo dei figli, poi, scuote la coppia, la smembra: non più uomo-donna, ma padre-madre.
    Non ho una ricetta in tasca,e tutto è soggetto all’usura del tempo e agli imprevisti della vita,ma una cosa sento di dirti:ho sempre creduto che l’essere padre e madre non dovrebbe mai smettere di far essere anche uomo e donna,coppia.Certo non è un facile equilibrio e costa molto impegno,ma magari guardare ogni tanto il proprio uomo non come padre dei tuoi figli ma come il ragazzo che ti ha fatto innamorare,scoprire lo sguardo di un tempo- anche con la fronte stempiata magari :-)-. ridere insieme,scoprirsi di nuovo complici e amanti,preserva un pò di quella magia del rapporto che col tempo e l’impegno familiare spesso si perde per la via.Lo stesso dicasi del contrario.Mi pare che l’abbia detto anche Salvo più su,il primo bambino da curare in una coppia è l’amore.

  124. Ho sempre pensato che molti dei problemi che dilaniano le famiglie, il rapporto tra i coniugi, quello padre-madre, e di conseguenza quello con i figli, derivino in parte anche dalle politiche pubbliche che si mettono in campo proprio per tutelare e venire incontro alle esigenze delle famiglie. Tenendo conto, appunto, che oggi, come avete scritto nei post, sono molto mutate.

  125. Tempo fa ho letto un libro molto interessante pubblicato da Il Mulino. Il titolo è “I dilemmi della conciliazione famiglia-lavoro”.
    Si tratta di uno studio comparativo, realizzato a quattro mani, in quattro paesi europei.
    Il succo è questo.
    “Questo libro presenta un’analisi comparativa svolta in quattro paesi europei (Francia, Italia, Irlanda e Danimarca) sui dilemmi affrontati quotidianamente da genitori entrambi occupati e con bambini piccoli per conciliare la cura dei figli e le attività familiari e domestiche con il proprio lavoro. I risultati della ricerca evidenziano il ruolo critico svolto dalle politiche pubbliche nel facilitare le pari opportunità e la qualità della vita per questo gruppo di lavoratori, nonché la necessità di sviluppare nuove politiche in questo ambito promuovendo l’equilibrio lavoro/vita familiare tanto per gli uomini quanto per le donne, dal momento che il benessere delle persone dipende in larga parte da esso. Come afferma Gosta Esping-Andersen nella sua Prefazione, questo studio mostra senza alcuna ambiguità che per un funzionale e positivo equilibrio sociale non è sufficiente il solo sostegno pubblico alle madri. Occorre, in qualche modo, eliminare le differenze esistenti tra uomini e donne in relazione all’occupazione e ai ruoli di cura, e quello che “Padri e Madri” aiuta a comprendere è che non sarà possibile avere un equilibrio sociale che funziona fino a quando non si inizierà a modificare anche lo stile di vita maschile”.

  126. La lettura di questo libro, per me, è stata utile ed illuminante.
    Si può acquistare anche in rete.
    Complimenti per la discussione, che continuerò a seguire con piacere. Saluti a tutti.

  127. Com’è vissuta dai piccoli la separazione dei genitori?
    Provo a rispondere a questa domanda avvalendomi delle autorevoli considerazioni esposte più volte dalla psichiatra svizzera Elizabeth Kubler Ross, fondatrice peraltro della psicotanatologia, e raccolte sinteticamente – tra gli altri – anche da Michele A. Farris in un articolo apparso nella rivista di psicologia giuridica.
    Ebbene, la nota psichiatra afferma come la separazione sia vissuta dal bimbo, specie se molto piccolo, con un misto di emozioni che rasentano il senso dell’abbandono, della rabbia, tutti sentimenti simili al dolore che scaturisce di fronte alla morte di una persona cara.
    Benché ci siano alcune differenze sostanziali tra perdita della famiglia d’origine e morte di una persona cara, tuttavia le fasi di adattamento e di integrazione alla nuova situazione possono risultare le stesse.
    Al riguardo, gli stadi di dolore del lutto, trasposti nelle situazioni di separazione, si riassumono nella:
    1) negazione, ovvero il rifiuto dell’accettazione della separazione genitoriale, negandone la realtà, l’evidenza.
    2) rabbia, ossia l’ostilità nei confronti di uno o di tutti e due i genitori, nonché dei fratelli, degli amici e addirittura di sé stessi ritenendoli/ritenendosi la causa principale dei conflitti che hanno portato alla separazione.
    3) negoziazione. Alcuni figli, attraverso un comportamento negativo (ad esempio il ricatto emotivo) oppure positivo (ad esempio l’alleanza manipolatoria) cercano di bloccare o di posticipare il più a lungo possibile il processo della separazione, ovvero il distacco.
    4) depressione. I bimbi in parola si dimostrano apatici e hanno una maggiore probabilità di sviluppare tristi sentimenti di abbandono e di paura.
    5) accettazione. Buona parte dei bimbi, col passare del tempo, sembrano acquisire una sorta di equilibrio interiore nella sopraggiunta nuova situazione familiare, risperimentando sentimenti di conferma affettiva.
    “I figli non arrivano ad una accettazione della separazione (o divorzio) dei propri genitori – sostiene Elizabeth Kubler Ross – se prima non affrontano ed elaborano i vari stadi del dolore. Alla stregua degli adulti, essi processano ogni sentimento poco per volta fino a controllarlo adeguatamente, passando allo stadio successivo solo quando si sentono pronti”.
    C’è un’ultima cosa da rilevare, ovvero quanto la sofferenza sia funzionale, nei figli come nei genitori, al superamento del dolore.
    A dopo.

  128. torno adesso al computer (com’è delizioso quella sorta di vortice che promana dal computer e ti chiama per andare a fare una capatina in questa piazza virtuale e vedere cosa c’è di nuovo, cosa dicono quei nuovi amici che ti stai facendo….)
    m’accorgo ora che a volte c’è uno scarto temporale: stai scrivendo mentre qualche altro sta dicendo qualcosa che non puoi sentire… vabbè, rimedierò…
    intanto un grazie di cuore a Marco Vinci, a Fausto Carboni e a Dora.
    cara Dora, provo a immaginare la tua amarezza, a sentirla mia

  129. Buongiorno a tutti. Rispondo alla domanda che Renata mi rivolge personalmente riguardo al desiderio, espresso dal personaggio del mio romanzo, di portare un figlio in grembo. La riflessione parte dalla constatazione che quando una donna porta dentro di sé e dà alla luce un figlio è una parte del suo corpo che vive ancora. La sua stessa carne continua a esistere. In quest’ottica, la genitorialità maschile è incompleta, perché il padre trasmette al figlio “solo” informazioni – siano esse contenute nel dna o trasmesse con l’educazione, a livello culturale. In questo senso la maternità può essere vista anche come un modo di sconfiggere la certezza della fine, perché in qualche maniera il corpo della donna si perpetua nel figlio. Per secoli i padri hanno risposto a questa paura trasmettendo il nome, le proprie convinzioni e gli ideali. Fin quando hanno potuto, hanno cercato di nascondere e di ignorare il momento della nascita, ma ora è diventato indispensabile imparare a rapportarsi con la forza di questo evento unico. E qualcuno si perde, la curiosità diventa un’ossessione.
    Naturalmente, e con questo cerco di rispondere anche alla domanda di Ausilio, aver attribuito convinzioni e ossessioni a un personaggio per me ha significato esplorarle, dirle ad alta voce per verificare fino a che punto coincidessero con le mie. Noi come uomini abbiamo, a volte, la capacità di fermarci un passo prima di divenire ossessivi, e come scrittori l’occasione di lasciare che il personaggio oltrepassi il confine, per conoscere meglio i nostri mostri.

  130. Vorrei dire a Dora che ,per quanto può servire, le sono molto vicina,sento il peso di ogni singola parola che ha scritto parlando di suo padre,so,perchè provato sulla mia pelle,che è un dolore che la accompagnerà per tutta la vita,ma so anche che attraverso questa ferita saprà trovare l’apertura per la vita.Nulla le impedirà di diventare la donna che sa amare e essere amata,sicuramente grazie alla presenza della sua mamma,ma grazie al lavoro che con scavo lento saprà fare dentro di sè,scoprendo quanto di bello ci sia dopo il dolore.Non tutti gli uomini sono pronti a diventare padri ed esserlo per tutta la vita,purtroppo alcuni se ne accorgono in ritardo,altri non se ne accorgono affatto e sono questi quelli che fanno più male.

  131. Buon giorno a tutti!
    Scusate il ritardo nell’intervenire ma oggi molti processi affollano la mia scrivania!
    Un primo pensiero alla mia narratrice preferita: Francesca Giulia, che con il suo racconto mi ha aperto un mondo nuovo, di parole e atmosfere! Andate a leggere il suo bellissimo racconto!

    @Renata:
    sì, gli uffici giudiziari conoscono (e cercano di risolvere) la cd “sindrome da alienazione genitoriale”.

    Questa sindrome (meglio conosciuta in tribunale come Pas) è un quadro psicopatologico relazionale descritto per la prima volta nel 1985 dallo psichiatra Richard A. Gardner, caratterizzato dalla campagna denigratoria che un figlio “allestisce” ed “organizza” nei confronti di uno dei due genitori.
    Generalmente si evidenzia nei casi di separazioni e divorzi conflittuali, quando il figlio, programmato, suggestionato e condizionato dal genitore “alienante”, mette in atto una serie di comportamenti atti ad annullare e cancellare la relazione con l’altro genitore “alienato”.

    E’ solo conflittualità? Di più, ci troviamo di fronte ad una condizione di psicopatologia familiare che non si è riusciti a contenere o a padroneggiare neanche con la separazione o il divorzio e che a causa della sua gravità ha dovuto trovare altre, abnormi, vie di sfogo per alleviare gli elevatissimi livelli d’angoscia.
    In realtà l’alienazione genitoriale rappresenta l’ultimo disperato agito nei confronti di una relazione triangolare -madre, padre, figlio – intollerabile a tal punto da mettere in atto meccanismi espulsivi violenti, concreti e pericolosi per riuscire a regredire in una più antica e rassicurante relazione duale, in genere madre-figlio.
    E’ lo stesso Gardner che ci ricorda i caratteristici atteggiamenti di un bambino affetto da Pas.

    Il bimbo in sostanza mette su una vera e propria campagna denigratoria nei confronti del genitore alienato o, meglio, da alienare. La denigrazione si basa prevalentemente su futili o deboli motivi, che non reggono al confronto con il principio di realtà. Caratteristica che accomuna questi bambini è l’assenza totale della pur minima ambivalenza nei confronti del genitore alienato. Sono presenti solo sentimenti ostili, che non trovano un fisiologico controaltare, anche se conflittuale, nella presenza di eventuali sentimenti amorevoli. Così si assiste ad una totale scissione tra il genitore alienato demonizzato, descritto totalmente cattivo, ed il genitore alienante idealizzato, vissuto dal bambino sempre e soltanto buono. Cosi il bambino affetto da Pas condividerà e sosterrà qualsiasi tesi proposta dal genitore alienante a dispetto di qualsiasi esame di realtà offrendogli un sostegno inconsciamente automatico ed incondizionato nel conflitto coniugale. La bontà del genitore alienante è sostenuta anche dal cosiddetto fenomeno del “pensatore indipendente”. Orgogliosamente il bambino si assume tutta la responsabilità della sua decisione “assolvendo” il genitore alienante da qualsiasi eventuale responsabilità o condizionamento.
    In genere la sindrome è “suggerita” anche a livello inconscio dal genitore alienante. E non è quindi raro il caso che il genitore “alienato” approdi in tribunale alla ricerca di una soluzione (ma in realtà aggravando nell’immaginario del piccolo l’idea di un genitore “cattivo”).
    Il vero sbocco non è giudiziario.
    Il tribunale può ordinare terapie di sostegno, ma la vera risposta è una seria terapia familiare.

  132. giungo qui per caso navigando da un sito all’altro. onestamente non pensavo che internet potesse offrire roba come questa. una vera miniera. e fate pure venire voglia di leggere. mica poco di questi tempi. complimenti sinceri.

  133. mi piacerebbe partecipare a questo forum padri e figli, perché gli argomenti mi interessano. così mi sono appuntato le domande. se ho tempo di elaborare delle risposte che abbiano un minimo di senso, ve le mando. altrimenti no. intanto continuo a seguirvi e mando l’indirizzo del sito ad un pò di gente.

  134. @ Ausilio Bertoli: bellissima l’espressione da te usata “processano ogni sentimento…”.
    E’ proprio ciò che penso io a proposito dei rapporti tra diritto e letteratura.
    Il processo, in realtà, è un gioco di parti la cui voce rimbalza e si scontra con quella dell’altro.
    Imputato, avvocato, giudice, teste.
    Tutte queste parti può svolgerle un solo “io” dentro se stesso, e se lo fa onestamente, con umiltà e pietà umana, non è raro che possa trovare una strada equilibrata e aperta dentro di se’.
    Allo stesso modo il romanzo è un lungo cammino, graduale e fluente, in cui i personaggi si muovono con la propria voce, col proprio vissuto, con la propria storia. Niente di più simile a un grande processo, in cui gli elementi interagiscono e si sovrappongono, in cui le mani tremano e l’anima sobbalza. In ricerca.
    Ecco, caro Ausilio, io credo che la scrittura (così come i “processi nascosti” all’interno del nostro cuore) serva a scoprirci perchè è per sua natura “ricerca”.
    Mi piace pensare che lo scrittore passi attraverso la pelle dei suoi personaggi e scopra se’ ma anche altro da se’, cio’ che non consentiva a se stesso di essere, cio’ che non vorrebbe essere, e cio’ che non ha terminato di essere. Regno dell’identità, del non voluto e dell’incompiuto.
    Alla fine del romanzo, come alla fine del processo, la decisione finale, la sentenza che tuona, non dovrebbe più essere che l’approdo, umile e scrorticante, di quel viaggio.
    Una sentenza, però, emessa da un decidente che non formuli mai un giudizio sull’uomo, ma solo sui fatti.
    Credo che il processo e il romanzo siano “giusti” solo se a “servizio”. Della verità su noi stessi.

  135. @ Valter Binaghi,
    la seguo sempre con molto interesse e vorrei ascoltare la sua voce. Perchè ucciderà Mefisto?

  136. Ad Amedeo, grazie della risposta….allora è solo paura di essere dimenticati da questo mondo? Di non contribuire veramente a etenarlo? Non crede che un uomo possa farlo egualmente attraverso la scrittura? Mi pare un modo per essere madre pur restando uomo.
    Grazie e complimenti di cuore.

  137. A Vito Bruno,
    mi è molto piaciuta questa citazione:

    “Sente insomma quel libro, o altri che ha scritto, come il suo corpo spogliato. Non una emanazione di sé, una proiezione, un transfert, ma proprio, realmente, il suo corpo”…
    Non crede che il romanzo, o il prodotto dell’arte, sia un secondo corpo, ma risanato?

  138. Al dottor Ausilio Bertoli:
    caro dottore, la vedo tornare e mi permetto di rinnovare la domanda che avevo fatto poco più su:
    “L’arrivo dei figli, poi, scuote la coppia, la smembra: non più uomo-donna, ma padre-madre.
    Tornare a essere uomo e donna nonostante l’essere anche madre e padre, credo sia una sfida oggi difficile, innanzi tutto con se stessi.
    Che cosa ne pensa, dottor Ausilio Bertoli?

  139. Gentile dottoresa Lo Iacono,
    grazie della sua risposta. Ma questo fenomeno del “pensatore indipendente” è consapevole?
    Grazie e un caro saluto.

  140. Carissima Renata,

    il fenomeno del “pensatore indipendente” è assolutamente inconscio. Anzi, il bambino, in completa buona fede, è sicuro, e rassicura gli altri, della sua autonoma decisione di non voler più incontrare l’altro genitore.
    Ecc perchè quando si dispone l’ascolto di questi minori in tribunali è sempre buona regola farsi assistere da un esperto in terapia familiare.
    Oltre a ciò un’altra tipica caratteristica della Pas è rappresentata dall’assenza del benchè minimo senso di colpa. Il disprezzo del bambino soverchia ogni possibile senso di colpa nei confronti del genitore alienato e tracima in un sentimento di trionfo onnipotente che non trova argini.
    Gli scenari proposti sono repliche infinite di copioni già rappresentati dove emerge evidente, più che una vera e propria identificazione del bambino con il genitore alienante, una sua immedesimazione adesiva con lui, così che le battute del bambino saranno inconsapevolmente ed esattamente le stesse di quelle usate dall’altro.
    In questo modo, all’occhio dell’osservatore, le lunghe liste dei perchè il bambino non voglia più frequentare l’altro genitore diventano elenchi ripetitivi di recriminazioni utilizzate in seno alla coppia.
    Spesso si osserva come il progetto di alienare un genitore contagi non solo il bambino ma tutta la cerchia di parenti ed amici del genitore alienante così che si assiste a veri e propri schieramenti tattici con lo scopo ultimo di dimostrare la totale indegnità e cattiveria di qualcuno per eliminarlo totalmente da qualsiasi scenario relazionale.
    Si tratta di episodi frequenti, purtroppo, in cui la dimensione “collettiva” non fa che aggravare la patologia.
    Nei casi più gravi queste “guerre” trovano sfogo in quei tristi episodi di sangue che approdano in tv tra lo sconcerto generale e che sono maturate nei cuori e nel tempo all’insaputa di vittime e carnefici.

  141. Carissima Simona,grazie per le tue chiarissime spiegazioni.(Grazie per il tuo apprezzamento al mio racconto.Un complimento sincero da te vale perchè sei donna sensibile e scrittrice brava e appassionata).
    Sono anch’io molto colpita da questa sindrome del “pensatore indipendente”,praticamente è un forte condizionamento che subisce il figlio da parte di uno dei genitori,ma credo,venendo a quello che chiede anche Renata,che sia del tutto inconsapevole.Forse si proietta il male che si crede di aver subìto dall’altro,lo si percepisce come “cattivo” perchè ci ha inflitto sofferenza,cosciente o no,e si cerca di cancellarlo.Non dico che questo meccanismo perverso sia da giustificare perchè causato dalla sofferenza,ma che sia frutto di quella frattura dolorosa prima dell’adulto,che poi disgraziatamente ricade sui bambini.Il problema del sostegno terapeutico è secondo me che spesso le persone coinvolte non ne riescono a vedere la necessità,pensano,si illudono di risolvere da sè.Oppure non vedono il problema,il che è terribilmente più difficile da superare.In certi casi potrebbero dare una mano le persone che stanno accanto,i parenti,ma il più delle volte questi si schierano ciecamente e violentemente o da una parte o dall’arte,perpetuando così una guerra da cui nessuno uscirà da vincitore.

  142. a Gioa: “crede che diventare padre incida sulla crisi di coppia?”
    no so, forse sì, forse no. Di sicuro me lo sono chiesto in quella specie di lettera aperta che è l’amore alla fine dell’amore… lì riporto il parere di alcune donne, mie amiche, che mi hanno scongiurato di prendere in considerazione la recente maternità della progagonista del libro – diciamo così. “Un figlio cambia tutto”. E’ così?
    Boh!!! Ripeto: non sono un teorico, in questo senso leggo con molta attenzione i post di chi può vantare alcune imortanti competenze professionali.
    E comunque la terribile bellezza della vita è che nulla è mai determinato per sempre, in situazioni analoghe, le reazioni sono diverse, a volte opposte. Per questo, anche per questo ho amato da sempre la letteratura: lì una cosa è vera per se stessa, e se insegna qualcosa oltrepassa comunque il dato sensibile, l’esperienza…
    A Renata: “Non crede che il romanzo, o il prodotto dell’arte, sia un secondo corpo, ma risanato?”
    Non so se risanato: non so se la letteratura salva la vita. Davvero non lo so.

  143. @ Vito Bruno: che impatto ha avuto il suo libro col pubblico femminile durante le presentazioni? Ha avuto modo, quando ha presentato il libro, di rispondere a domande sul ruolo del padre?

  144. Vito: secondo me la cosa bella che dici è proprio questa:oltrepassare il dato sensibile,l’esperienza.Sono molto attratta dal tuo libro.Una lettera aperta è di per sè uno sforzo di superare dei limiti,anche quelli imposti dalla fine di un amore,dalla separazione dalla sofferenza.Soltanto lasciando questa porta aperta,anche quando crediamo che le cose finiscano,nulla di ciò che è stato vissuto e provato finirà veramente.L’apertura sta nel dialogo,nella ricerca e nel mettersi in discussione.Spesso viene attribuita all’uomo una scarsa capacità di comunicazione nel rapporto di coppia,le tue parole e il tuo libro smentiscono e sono un bellissimo segno di amore anche quando finisce l’amore.Spero che tu sia apprezzato per questo sforzo,questo ponte che può unire anche in un allontanamento,al di là dell’apprezzamento letterario sicuramente raggiunto,parlo di quello umano e del coraggio di esprimere propri sentimenti.
    a tutti,un saluto e a più tardi.

  145. Egregio Dottor Maugeri,
    rileggendo i commenti mi pare pregevole l’osservazione della sig.ra Giorgia e della sig.ra Zauberei.
    E cioè l’importanza dell’autorità (Giorgia). E il modo in cui un figlio incide sul modo del genitore di interpretare il mondo (Zauberei).
    L’etimologia latina ci aiuta a focalizzare il significato del concetto di autorità, concetto che entra sempre in gioco nella relazione educativa. L’autorità, nella sua origine lessicale, non è infatti legata all’esercizio di un potere. Piuttosto è legata alla dimensione del dono.
    Il concetto di auctoritas, che deriva dal verbo augere (accrescere), nasce infatti con la fondazione di Roma e con il significato che le viene attribuito dalla tradizione. Il compito dei patres è quello di accrescere le fondamenta, al tempo stesso civili e religiose della città. Quidi si configura come la capacità dei padri di tenere vivo il passato e di renderlo operante, come mito, nel presente.
    Credo che questa indagine lessicale (da vecchio insegnante di latino e letteratura latina…che spero vorrete perdonarmi come un nostalgico rigurgito del mio ruolo scolastico) serva a riflettere su quanto dicono le sig.re Giorgia e Zauberei.
    E cioè. E’ vero che il padre deve esercitare autorità. Ma nel senso di fondare, attraverso essa, una memoria.
    Ed è in questo senso che un figlio cambia il nostro modo di vedere il mondo. Entrando nelle fondamenta della sua origine e uscendone arricchito, pronto a reimmettersi nel ciclo vitale.
    Un figlio, in sostanza, ci perpetua nella misura in cui ci siamo donati a lui.
    Un affettuoso abbraccio a tutti dal
    Professor Emilio

  146. Padri, madri, filgli, famiglia. Quando a un tratto l’incantesimo si spezza per un evento straordinario, cosa resta della famiglia e come questa può salvare ciò che sembra irrimediabilmente perduto? Questo e altro nel mio ultimo romanzo “Via da Lì”. Anch’io sarò a Torino per presentarlo domenica 16 maggio alle ore 17 presso Boopen Tutti i libri possibili.
    Cordiali saluti. Vincenza Alfano

  147. Forse qualcuno di voi si ricorderà ancora di me. Frequentavo il blog fino a due tre anni fa, circa. Poi per una serie di dolorose vicissitudini personali, che mi hanno portata anche all’estero, mi sono dovuta allontanare. Da un paio di mesi sono tornata.
    Oggi mi è successo questo. Ero in fila alla cassa di un supermercato, due signore davanti a me hanno iniziato a parlare di padri, madri, figli, separazioni, ecc. Una di loro, ad un certo punto, ha parlato di questo post, di questo dibattito. Mi è preso una specie di magone, di nostalgia. Ho aperto la connessione web del mio pc e vi ho trovati, vi ho ritrovati.
    Volevo solo raccontarvi questo aneddoto.
    Ciao a tutti.
    Ciao Massimo.
    Smile.

  148. @Ausilio Bertoli
    Chiede: se gli scrittori non fanno che recuperare, esplicitamente o velatamente, i momenti essenziali del proprio vissuto, esponendoli magari ironicamente, o esorcizzandoli o sublimandoli o cercando di comprenderli mediante un’implacabile ricognizione interiore.

    Sarebbe come dire che la scrivania su cui poggia la mia tastiera è legno d’abete. E’ certo ma non è il vero. Il vero è che a farne una scrivania è una forma che non ha più niente a che vedere col materiale di partenza. Il vizio dell’interpretazione psicanalitica dell’opera d’arte è che, riducendola a un’espressione della soggettività, finisce per cogliere dell’arte proprio quello che è meno artistico, cioè la sua capacità di rappresentare una totalità e soprattutto di parlare a tutti. Tutti abbiamo scritto poesie al liceo, ma la maggior parte di noi rileggendole dopo anni prova solo tenerezza per ciò che eravamo e sentivamo, non godimento estetico: mancava la trascendenza dai propri sentimenti che permette alla parola e alla forma di assumere un carattere incondizionato, un’oggettività che è strumento di contemplazione e di conoscenza.
    Rovescerei piuttosto la questione, dicendo che ci vuole una certa capacità narrativa per tenere insieme i frammenti della propria vita, e che la nostra identità si fonda molto sulla storia che noi raccontiamo a noi stessi, senza gettare dal finestrino o nel pattume dell’inconscio verità scomode, e tuttavia coltivando l’arte della selezione e dell’oblio, perchè l’identità (anche lei, si) non è semplice magazzino ma forma.

    @Gioia
    Chiede: perchè ucciderò (non io ma il protagonista del mio romanzo) Mefisto?
    Perchè Mefisto (lo psicanalista del mio romanzo) non è un vero terapeuta ma un demagogo dell’anima. Anzichè aiutare il suo paziente ad essere più coerentemente sè stesso, assumendo la forma dettatagli dai suoi sentimenti più profondi, lo invita a prendere la via più facile, sbarazzandosi degli ingombri del senso di colpa che invece è ciò che lo richiama alla sua reale vocazione. A farne le spese è una vittima innocente, una donna che ama (come nel Faust di Goethe, di cui il mio romanzino è una specie di riscrittura), che si toglie la vita. Il protagonista, ritornato a sè stesso dopo la tragedia, uccide il suo diavolo tentatore. E’ stato detto che è una parabola sul successo effimero, ma più di questo direi che è una storia d’amore, un’invito a considerare che non sempre il relativismo dei sentimenti e dei legami è l’ultima parola sulla condizione umana.

  149. @ Gioia
    Gentile Gioia, ho letto il suo intervento così come mi sono soffermato sui pensieri-risposta di Vito Bruno, molto apprezzati.
    E’ vero: l’arrivo dei figli – riportando le sue parole – scuote la coppia, la smembra, non si è più uomo-donna, ma padre- madre… Credo sia una sfida oggi difficile, innanzi tutto con se stessi”.
    E’ sì una sfida, una grandissima sfida con se stessi, tant’è che parecchi, specie se maschi, meno sospinti dall’istinti materno (esiste, eccome), si sflilano, cercano di evitarla o di rimandarla nel tempo a prescindere dalle ragioni economiche e dalle ambizioni professionali, di lavoro.
    Ma la sfida, che poi sfocia in uno smembramento delle certezze o delle rigidità personali acquisite in precedenza, conduce a una ri-generazione, a una ri-nascita. Sono le leggi o gli imperativi della vita.
    Del resto, a che cosa mira la Natura (ho messo apposta la n maiuscola)? Mira essenzialmente alla propagazione della specie, usando la legge dei grandi numeri, dicendola con uno dei miei “maestri”, Francesco Alberoni (v. L’albero della vita – Le forze, i desideri, le passioni che ci fanno vivere).
    Ho usato il termine Natura ma potrei benissimo usare il termine Dio, ci siamo capiti.
    Ma non vorrei aggiungere altro, detesto coloro i quali si atteggiano a cattedratici, nessuno ha in tasca la verità, siamo tutti allievi, e ciascuno di noi ha solo o molto da imparare dagli altri, magari anche dagli animali cui siamo affezionati.
    —–

    Massimo, permettimi di riportare ora l’intervento dello psichiatra infantile nonché pediatra Salvatore Grimaldi, riguardo a un sereno o fruttuoso sviluppo infantile sia nelle famiglie unite che in quelle ricostituite, tenuto da lui anni fa a Firenze, in un convegno sul tema: Genitorialità e famiglia ricostituita.
    Credo possa interessare.
    Un idoneo sviluppo infantile – asserisce Grimaldi – si basa sulla compresenza nella vita del bambino di questi fattori:
    1 – continuità: coinvolge specialmente gli aspetti pragmatici della vita del piccolo, dove egli deve poter contare su punti di riferimento solidi come una casa in cui abitare e che riconosca come tale, precisi orari del sonno, dei pasti e degli svaghi e una routine che si ripete nel tempo e nello spazio.
    2 – prevedibilità: riguarda la possibilità per il bimbo di saper pensare a un domani simile all’oggi, con una cadenza sensata e prevedibile degli eventi: questo gli consentirà di sviluppare la propria capacità di controllo delle situazioni e delle sue reazioni emotive.
    3 – affidabilità, ovvero l’aspetto centrale della questione, dal momento che l’affidabilità si coniuga con lo sviluppo della propria fiducia nelle relazioni attuali e in quelle future.
    I bimbi, in conclusione, hanno tutti bisogno di solidi punti di riferimento emotivi e di avere rapporti e legami soddisfacenti o ricchi con le figure più significative con cui si rapportano, tra queste – per esempio – anche i nonni, gli amichetti, gli educatori.
    A dopo.

  150. @Valter Binaghi:
    Mi sembra di capire che il suo romanzo è anche una rivalutazione del “senso di colpa” come sensore della nostra coscienza, come bussola che orienta e offre direzione.
    E’ una visione nuova, credo, in questa società che, invece, tende a rimuovere il senso di colpa, a privarlo della sua utilità. Mi pare di cogliere nel suo romanzo un forte richiamo etico, o sbaglio? Anche la rivalutazione così forte del ruolo dell’amore nella vita di un individuo è una bellissima, a mio avviso, inversione di tendenza.
    Grazie. Leggerò come sempre con infinito interesse.

  151. @Ausilio Bertoli…allora, forse, si rinuncia troppo presto, non crede? Ancor prima di riscoprirsi e rigenerarsi nel ruolo di donna e uomo che amano (sia pure in modo diverso).
    Devo dire che vedo intorno a me coppie che si sfaldano prestissimo, quando i bambini sono ancora molto piccoli. A suo avviso è sitomatico dell’incapacità di sapersi rigenerare nel ruolo di sposi o compagni?

  152. @Gioia
    La ringrazio, ma non credo di dire niente di particolarmente originale. Prima che l’ondata dell’effimero a tutti i costi investisse la cultura occidentale, si usava distinguere tra amore e passioni, e il primo capitava di scriverlo con la maiuscola. Che poi esistano peccati e colpe contro l’amore, lo sa perfettemante chi l’amore sceglie di coltivarlo, sacrificandovi ciò che è meno nobile.

  153. @ Valter Binaghi
    Condivido la bella espressione: la nostra identità si fonda molto sulla storia che noi raccontiamo a noi stessi.
    n saluto cordiale. A. B.

    @ Gioia
    Sì, è il sintomo dell’incapacità di rigenerarsi, dovuta – secondo me – al fatto che ognuno si sforza non di aprirsi all’altro ma di aggrapparsi al proprio ego, vale a dire all’egocentrismo o all’individualismo, disvalori caratteristici dell’odierna società sottoposta a continue bordate del più bieco consumismo.
    Cordialmente, A. B.

  154. @Ausilio Bertoli sono perfettamente d’accordo con quanto hai detto sull’incapacità di rigenerarsi,purtroppo vedo che far fronte ai problemi insiti in ogni tipo di convivenza e in ogni relazione d’amore è diventato un fatto rarao.Si preferisce mettere via,guardare oltre e magari ricominciare altrove dall’inizio,perpetuando l’idea che magari sarà la volta buona.Non dico che si debba a tutti i costi restare insieme,ma il conflitto vero e proprio difficilmente nasce dal nulla,o all’improvviso.Siamo tutti più distratti,più inclini alla cura del nostro ego- come hai ribadito anche tu- .Se vigilassimo con cura sui nostri amori,che siano fra uomo e donna,o altri,o verso i figli,impareremmo a riconoscere i segni del malessere prima che si faccia ostacolo insormontabile.L’amore vero,quello che Valter simpaticamente dice con la a maiuscola,non ammette distrazioni,non ci permette di essere pigri.Richiede quello sforzo di attenzione e di impegno che si fa nutrimento per l’amore stesso e per chi amiamo.

  155. @Ausilio rileggendo i fattori che determinerebbero un sereno sviluppo infantile fai riferimento alle figure più significative nella vita di un bambino e al senso di affidabilità.Nel caso in cui una delle due figure genitoriali sia carente è possibile che sia “sostituita” da una altrettanto costruttiva figura esterna alla famiglia?E’ possibile cercare quello che un padre assente non ti abbia dato in altre figure e superare la mancanza?Fare il padre nel senso più ampio del termine,con autorevolezza,aiutare a crescere e formare le certezze che ti accompagneranno nella vita esterna può essere svolto questo compito da una persona che non sia di fatto il padre naturale ma che racchiuda in sè tutto il ruolo paterno,perciò secondo me è fondamentale che il bambino non perda i legami affettivi con il resto della parentela.Purtroppo spesso questo è impossibile da realizzare.

  156. In cosa il padre di oggi si differenzia nettamente da quello delle generazioni precedenti? Quali i pro e i contro di tali differenze? – ci chiede Massimo in questo post.
    Sono state date dagli intervenuti molteplici risposte, perché molteplici sono le implicazioni culturali e sociali, e le differenze.
    A proposito di differenze, c’è quella – forse insanabile – tra i genitori di oggi e i loro nonni nati prima o durante la Seconda guerra mondiale.
    I nonni infatti sperimentarono sia una tragedia atroce, immane, sia le sfide della ricostruzione, formandosi in un clima sì austero, però positivo, capace di riedificare o ricomporre il tessuto lacerato dalla guerra.
    Erano uomini animati da speranze che oggigiorno sembrano eclissate: prime fra tutti quelle di un futuro migliore, grazie alla ricuperata democrazia e al loro lavoro duro, pieno di sacrifici, di privazioni.
    L’impegno di questi uomini negli anni del dopoguerra, supportato dalla compattezza familiare, ha generato un benessere mai conosciuto prima, ma insieme ha favorito il sorgere di… chiamiamoli guai, in primis quell’ umanissimo ma non certo educativo desiderio dei genitori di procurare ai figli, senza alcun impegno, ciò che loro non poterono possedere.
    Su tale gap generazionale sono state condotte inchieste e ricerche anche estesissime per comprenderlo in qualche modo, senonché le conclusioni non hanno portato a risultati condivisi, insomma a risposte certe su cui elaborare progetti in grado di affrontare i mutamenti e i modelli culturali che andavano via via imponendosi.
    In breve, alcuni studiosi evidenziarono (ed evidenziano tuttora) che negli adolescenti la ricerca dell’identità e la crisi nei rapporti con gli adulti si traduce sovente nell’insicurezza e in un rapporto con la vita assai arduo. E se il futuro appare loro oscuro se non minaccioso, il presente è considerato soltanto un lasso di tempo da riempire di soddisfazioni materiali, indotte magari con le subdole tecniche della pubblicità, cioè artificialmente.
    Altri studiosi – invece – ritengono che tali analisi si discostino alquanto dalla realtà adolescenziale (e non solo), avendo sotto gli occhi l’esempio di ragazzi seri, generosi, determinati nel perseguire i propri ideali altruistici. Ragazzi che accettano con fiducia il progetto educativo degli adulti.
    Ma nelle analisi prevale in fondo il trend socioculturale o, se volete, massmediale dei ragazzi come “possibili consumatori”, attratti costantemente da nuovi beni di consumo, nuove mode. Ne sono una riprova i fenomeni della tossicodipendenza intrecciati spesso alla violenza gratuita, individuale o di gruppo, e alla mera, stupida trasgressione.
    Un saluto forte.

  157. @ Francesca Giulia
    Sì, è possibile che una delle due figure genitoriali “carente” anche sotto diversi aspetti possa essere “sostituita” da una figura – esterna al nucleo familiare – costruttiva, che susciti fiducia affetto empatia. Difatti i ricercatori hanno notato, nelle famiglie ricostruite o ricostituite, come certi bimbi vittime della separazione abbiano saputo superare l’inevitabile trauma con l’aiuto di queste figure. Ma i casi non sono numerosissimi, da quanto mi risulta. Purtroppo, appunto.
    Cordialità, A. B.

  158. Leggo con vero piaere tutti i commenti, perchè da tutti ho appreso e a tutti devo, davvero, occasione di grande riflessione.
    Mi pare importante ripercorrere la figura del padre anche atraverso il mito, ce ci disvela, con i suoi simboli e le sue storie, la complessità dei rapporti familiari, i difficili intrecci tra amore e morte, il desiderio di trovare le proprie origini o di negarle.
    E’ significativo, secondo me, a parte il mito di Edipo, il mito di Crono, figlio di Gea (la madre terra )e Urano, il dio del cielo procreato dalla stessa Gea da sola. Cielo e terra che si uniscono, anche se questo mito racconta di un padre negativo, Urano, che sprofonda i figli nella terra per non essere da questi spodestato.
    Crono, uno dei dodici titani nati da Gea e Urano, viene coinvolto dalla madre per aggredire il padre (come non vedere in questa alleanza una prefigurazione della sindrome da alienazione genitoriale?).
    Crono evira il padre con un falcetto e questo, persi i genitali scompare e lascia libero il regno dell’universo che verrà poi conquistato dallo stesso Crono. Crono, avvertito da una profezia, vive le angosce del padre, divora i figli per timore di essere da loro cacciato, e Zeus, uno dei figli destinati a cadere nelle viscere del padre, viene salvato dall’intervento della madre Rea, che invece del figlio gli consegna una pietra avvolta in un telo. Sarà poi Zeus a regnare nell’universo grazie alla sua vittoria contro il padre.
    Questo mito è presente in molte altre forme dell’immaginario umano e mi ha sempre colpita perchè fonda l’origine del mondo in una fusione mal riuscita tra cielo e terra (anima e corpo) e in un parricidio. Come se, per esistere, si dovesse sempre negare e non affermare la vita che ci precede.
    Che ne pensa Ausilio Bertoli sul ruolo tra mito e figura paterna?

  159. Infine…Elektraaaaaaaa!!!
    Che nostalgia avevo dei tuoi smile!!!
    Un bacio di bentornata (benedetti supermercati!)
    —-
    Una buona serata a tutti e un bacio speciale alla mia cara narratrice!
    Notte!

  160. Ringrazio ancora una volta tutti voi per l’ampia partecipazione a questo dibattito che è cresciuto e si è sviluppato al di sopra delle mie aspettative.
    Grazie a tutti.

  161. Cara Elektra,
    ho provato una grandissima emozione nel leggere questo tuo commento. Ti ho pensata più volte, mi sono più volte chiesto che fine avessi fatto. Spero che non ti sia capitato nulla di particolarmente grave (se vuoi, scrivimi privatamente all’indirizzo pubblico del blog).
    Sapevi che molti tuoi commenti sono “finiti” su “Letteratitudine, il libro Vol. I”?
    E sì, come ha scritto sopra Simona, i tuoi smile sono mancati anche a me.

    (Scusate, ma Elektra è stata una delle primissime commentatrici di questo blog. Mi ha seguito sin dall’inizio e mi sono davvero emozionato nel ritrovarla).

  162. Cara Gioia,
    finalmente! 🙂
    Hai visto che è andata bene?

    Dovete sapere che ogni giorno ricevo decine e decine di mail da parte di lettori “timidi” di Letteratitudine. Persone, cioè, che hanno un po’ di timore a intervenire pubblicamente… o perché si sentono inadeguate, o hanno paura di sfigurare, o altro.
    Gioia è una di queste!
    È da settimane che mi anticipa, via mail, domande da porre a tizio e a caio. Io le scrivo, mi sembrano perfette, vai… ma, niente.
    Mi fa piacere che si sia sbloccata.
    Spero che altri lettori “timidi” seguano il suo esempio.

  163. Un saluto di benvenuto a Renata (grazie per aver animato la discussione!) e all’avvocato Fausto Carboni.
    Spero che possiate tornare ancora… diventare letteratitudiniani è facile.:-)

  164. Devo ancora saluti e ringraziamenti a Matteo Lo Vecchio, Maria Girolamo, Andrea Migliorini, Vincenza Alfano.
    Spero di non essermi dimenticato di nessuno.
    Nell’eventualità… chiedo venia!

  165. Direi che la “discussione generale” può proseguire… nel senso che se qualcuno avesse domande da porre (o volesse provare a rispondere a una o a tutte le cinque domande del post)… è il benvenuto!

  166. Caro Massimo grazie a te per avermi incoraggiata!
    E’ stato bellissimo!
    Ed è vero: è facile diventare letteratiduniani!
    Un abbraccio a tutti e buon proseguimento!

  167. Contestualmente, però, credo sia giunto il momento di approfondire la conoscenza dei libri “coinvolti” (anche se, in parte, se ne è già parlato).
    Per eviatare confusione e sovrapposizioni, dedicherei la giornata di domani (giovedì 13 maggio) ad approfondire la conoscenza dei libri di Vito Bruno e Amedeo Romeo.
    (Nei giorni successivi ci occuperemo degli altri libri)
    Parto da loro per un motivo molto semplice… ho invitato a partecipare alla discussione Antonio Prudenzano, giovane critico letterario di “Affari Italiani” che ha già avuto modo di occuparsi dei due suddetti libri.
    Antonio è in partenza per il Salone del libro di Torino e potrà intervnire solo domani.

    Seguono, dunque, le recensioni di Antonio Prudenzano dei due romanzi:
    – L’AMORE ALLA FINE DELL’AMORE, di Vito Bruno (Elliot, 2010)
    – NON PIANGERE COGLIONE, di Amedeo Romeo (ISBN, 2010)

  168. L’AMORE ALLA FINE DELL’AMORE, di Vito Bruno (Elliot, 2010)
    recensione di Antonio Prudenzano
    “Camere separate” (Bompiani, 1989), l’ultimo romanzo di Pier Vittorio Tondelli prima della fine prematura, è il libro più violentemente (e intensamente) autobiografico dello scrittore di Correggio; il doloroso racconto in prima persona di una perdita in grado di annientarti, quasi impossibile da superare, e che la mediazione della letteratura porta a definire “fenomenologia dell’abbandono”.

    Tondelli e il suo “Camere separate” in particolare non sono citati qui a caso. Sia perché è lo stesso Vito Bruno, autore de “L’amore alla fine dell’amore. Una lettera dalla parte dei padri” a tornare nel suo nuovo libro sullo scrittore di “Altri libertini”, sia perché lo stesso Bruno ha praticamente scritto il ‘suo Camere separate’. Sì perché questo suo nuovo oggetto letterario, di struggente potenza, è saturo della stessa spudorata intimità del capolavoro tondelliano.

    La lettura de “L’amore alla fine dell’amore” non può lasciare indifferenti. Vito Bruno si mette talmente a nudo nel dirompente racconto semiautobiografico della fine del suo matrimonio e della successiva separazione forzata da suo figlio, da lasciare a tratti il lettore senza parole, addirittura sconcertato.

    Siamo nella Roma deserta di un agosto di fine Anni Zero. E’ una notte (insonne) di sudori, rimpianti, riflessioni, lacrime, voglia di sfogarsi, di riprovarci, di tornare indietro (una notte di voglia di odiare, di amare, una notte di ricordi, di silenzi sconquassanti, di ululati di dolore trattenuti nell’anima…), quella in cui la dilaniata voce narrante (” faccio un ultimo sforzo e dopo tutto quello che mi hai tolto, provo a cancellare quello che riguarda me come persona. Chissenefrega di vitobruno. Amen!”, così l’autore-protagonista nelle ultime pagine) scrive a quella che sta per diventare la sua ex moglie (lui ha vent’anni più di lei) dopo sei anni intensi passati insieme (e nel libro non manca il racconto dei tanti bei momenti vissuti insieme).

    Una lettera che può diventare il manifesto (non solo) letterario di migliaia di padri costretti dalla legge alla separazione forzata dai figli in seguito a una separazione. Una lettera che è un grido di rabbia inevitabilmente impregnato di senso d’impotenza (“Non ce la posso fare adesso. Non sono in condizione di iniziare la guerra. Già solo sfiorare il pensiero che tu possa togliermi mio figlio mi pietrifica. Immaginarlo come plausibile, anzi, realisticamente molto probabile, quasi certo, mi uccide”). Allo stesso tempo, però, questa è anche una lettera di amore e di speranza: per papà Vito Bruno il suo bambino è praticamente tutto. L’amore nei suoi confronti è totalizzante, vitale. E le speranze nei suoi confronti infinite. Tanto che le pagine più commoventi sono proprio quelle in cui lo scrittore di origini pugliesi parla di lui. Giusto quindi chiudere con questa descrizione dell’ultima vacanza prima della separazione: “Per tutto quel mese, non avevo fatto altro che occuparmi di lui, giorno e notte, senza un attimo di noia, senza alcuna fatica, anche se la sera crollavamo tutti e due morti di stanchezza sui rispettivi lettini. Mi ero così abituato alla sua presenza al mio fianco che era diventato impossibile immaginarmi senza di lui. Figuariamoci immaginare qualcuno che deliberatamente volesse portarmelo via, separare un padre da un figlio: la cosa più assurda e innaturale del mondo. E invece, proprio questo stava accadendo adesso. E per mano non di uno sconosciuto, ma della donna che ho amato di più al mondo…”.

    Fonte: Affari Italiani – Culture
    http://www.affaritaliani.it/culturaspettacoli/

  169. NON PIANGERE COGLIONE, di Amedeo Romeo (ISBN, 2010)
    recensione di Antonio Prudenzano

    “Avevo sognato centinaia di volte di essere madre, eppure non avevo mai accettato l’idea di poter essere padre. No, padre no, padre non volevo esserlo. Ci ero andato vicino due volte, e in entrambi i casi ero scappato…”.
    Siamo nelle prime pagine di “Non piangere coglione”, il romanzo d’esordio del 40enne autore e regista teatrale milanese Amedeo Romeo (padre di due figli), e su cui la casa editrice Isbn punta molto. A parlare, nel bel mezzo di un irresistibile flusso di coscienza che si ibrida perfettamente con flashback cinematografici e dialoghi ai limiti del surreale, è il protagonista del libro, Andrea Morini. L’autore lo introduce con un incipit spiazzante, che appartiene alla rarità di quelli che ti lasciano di sasso e ti costringono a fermarti qualche secondo e a rileggere: “La ragazza entrò nello scompartimento del treno e si sedette accanto a me. A quel punto il libro che avevo comprato non sarebbe servito a nulla. Non avrei più letto neanche una pagina. La ragazza era incinta, e io di fronte a una donna dal sesto mese di gravidanza in poi perdo il controllo. E’ l’unico caso in cui la sola vista di una donna riesca a eccitarmi. Sento un impulso irrefrenabile, la voglio baciare, toccare e scopare…”

    Dovrebbe essere chiaro che non siamo di fronte a un romanzo italiano come gli altri, e non solo per il tipo di ossessione che racconta e per l’unicità dell’indimenticabile protagonista, incapace di accettarsi e accettare il mondo. Quell’Andrea Morini che vede stravolta la sua esistenza sempre più in bilico dall’incontro con Lena, alla trentasettesima settimana di gravidanza, incinta di un uomo che la sta per lasciare. E quella stessa Lena che, nell’esistenza priva di punti fermi di Andrea, si trasforma ben presto in un’ancora di salvezza vitale.

    Il momento del parto si avvicina, e Morini vorrebbe con tutte le sue forze mettere lui alla luce Ada, in un processo di immedesimazione con la gravidanza di Lena che conturba il lettore e dilania la mente e il corpo del protagonista. Caro Andrea, perché non insieme? Perché deve essere tua, o mia? Perché? Anzi, perché deve essere di qualcuno? Perché non può essere e basta? Senza bisogno di appatenere a nessuno? Con queste parole, nella lettera finale, Lena perdona Andrea e lo invita a tornare nella vita sua e della sua bambina. Ma non sapremo mai se il protagonista riuscirà ad accettare di non poter ospitare nel suo grembo un figlio…

    Amedeo Romeo racconta la vicenda umana a suo modo tragica di una follia inconsueta con una leggerezza che toglie il fiato. Un romanzo d’esordio incalzante, il suo “Non piangere coglione” (da un verso di “Una faccia in prestito” di Paolo Conte), che mentre ti sta sballottolando tra Milano, Genova e i suoi vicoli, e poi ancora Milano e di nuovo Genova (sempre rigorosamente in treno), ti sta anche ponendo, indirettamente, domande esistenziali fondamentali, mettendoti di fronte ai tuoi lati più oscuri, alle tue perversioni, alle tue paure, ai tuoi desideri inconfessati, a quei sogni che forse non vedrai mai avverarsi.

    L’inizio del libro è scoppiettante, eccitante, contagioso. Nelle pagine centrali si scende inevitabilmente di tono, perché ormai alla pazzia di Morini ci si è abituati e la tensione può solo calare. Il rischio, a questo punto, è restare delusi dal finale. E invece qui Amedeo Romeo ti frega, con una conclusione potentissima, degna del primo capitolo. Un happy end che arriva dopo il momento più delirante e sanguinante (in tutti i sensi) della storia. Così “Non piangere coglione” finisce, e forse la zoppicante letteratura italiana post-Anni Zero trova il suo cantore.

  170. Caro Massimo,carissima Simona anch’io sono molto felice di tutti gli interventi e del materiale istruttivo che si è venuto a formare,ma soprattutto del clima di scambio proficuo fra tutti,più “esperti” e meno “esperti”.Bellissimo l’aneddoto di Elektra al supermercato,qualche volta ascoltare le discussioni degli altri fa proprio bene!
    Prima di augurarvi una splendida notte,lancio un interrogativo-che in un certo senso non riguarda solo i padri,ma i genitori insieme-.
    Pare che molti studiosi sostengano che oggi i genitori indubbiamente più inclini al dialogo di quelli del passato,rischiano di”impigliarsi”- non trovo altro termine che indichi meglio ciò che penso- in un comportamneto dettato dalla troppa razionalità che spingerebbe il bambino ad una crescita veloce e precoce,ad un ruolo di piccolo adulto caricato troppo presto di responsabilità.I genitori hanno guadagnato le possibilità di un dialogo più complice ma perso quello che i medici chiamato “intuitive parentig” cioè quella capacità tutta istintiva di interagire con il figlio.
    Secondo voi è possibile che dal passaggio ad un modello di genitori che imponevano il “no” imperativo senza discutere e senza mettersi in discussione siamo approdati ad un modello troppo esplicativo,razionale e che impone una crescita troppo precoce al bambino?
    Abbiamo davvero perduto un pò la capacità di agire d’istinto, in senso buono?
    Il padre in particolare avrà più sofferto questo cambiamento?

  171. Quelle sopra sono le “letture appassionate” di Antonio Prudenzano, che invito a intervenire per porre (se vuole) nuove domande ai due scrittori.
    L’invito a porre domande a Vito Bruno e Amedeo Romeo è – ovviamente – rivolto a tutti.
    (Insomma, improvvisatevi intervistatori).

  172. @ Vito Bruno e Amedeo Romeo
    Vi chiedo, se possibile, di inserire – qui tra i commenti – brani tratti dai vostri libri.
    Brani a vostra scelta, che ritenete particolarmente significativi…

  173. …dimenticavo…una cosa banale ma ci tengo a dirla:Massimo bellissime le foto in bianco e nero che hai scelto per il post.Tutte tenere,ma quella che parla al cuore è quella in cui papà e bimbo giocano insieme.Oggi i padri giocano molto di più.In questo è cambiata di certo la figura del padre.Il mio non giocava mai.Anche nel gioco c’era alle spalle un’ombra che poteva diventare rimprovero come un’ala nera d’uccello sulle teste.
    buonanotte a tutti.

  174. Caro Massimo,
    sarà una “gioia” imparare a scrivere bene letteratitudiniano…. 🙂
    buona notte, ancora una volta, a tutti !

  175. Scusa se ho interposto i miei commenti alle recensioni dei libri.
    Sopra è naturalmente “intuitive parenting”,saltata una “n”.
    saluti cari a tutti.

  176. @ Simona
    Gentile Simona,
    la tua cultura è enciclopedica e la tua sensibilità intensissima, densa, che dà calore, dolcezza e sostegno. Una sensibilità – lasciamelo dire – profondamente amorevole e materna. Che ha ben poco da spartire coi miti maschili con cui siamo venuti e veniamo ancora a patti, ci piaccia o no, dal momento che la formazione “mitologica” che ci è stata impartita già sui banchi di scuola e altrove nessuno mai potrà sradicarla. Io ogni tanto ci provo, ma che sforzi e che fallimenti!
    Preferisco i miti femminili, quelli che esaltano la femminilità e la maternità, dato che la vita scaturisce dalla Madre, dalla donna. Anzi, secondo le ultimissime ricerche antropologiche (non ti scandalizzare, eh! Ma lo saprai…) pare certo che non sia stato il maschio a venire al mondo per primo. Il maschio, però, con la forza, l’astuzia, la sete di potere e di supremazia ha saputo concentrare su di sé ogni attenzione, ogni azione.
    E’ uscito da poco un libro scritto da vari autori, tutti specialisti nei rami della medicina. Si intitola “Il padre contemporaneo” ed è edito da Hygeia Press. Due capitoli iniziali sono dedicati ai miti e agli archetipi della figura paterna e alla paternità solitaria, ovvero il sogno proibito dell’uomo (la nascita dal mare, dal suolo, dalla pietra; le nascite anomale di Atene e Dioniso; l’ostetrico e la levatrice-uomo; l’allattamento maschile; la figura della madre nei miti: non sufficiente né necessaria).
    Lo consiglio sia a te che a tutti i lettori.
    Ma non farmi aggiungere altro, sull’argomento ruolo tra mito e figura paterna. Niente altro (lo scandisco sorridendo).
    Con affetto, A. B.

  177. Buonanotte, Gioia.
    (Ehi, sembra un saluto da attore americano degli anni Cinquanta).
    😉

    Scherzi a parte, un serena notte a te, ad Ausilio e a tutti… da uno sfinito uomo con la camicia celeste.

  178. @ MIRIAM
    @ VALTER BINAGHI E PROF. EMILIO
    Carissima Miriam Ravasio,
    le tue parole hanno un contenuto altissimo. Non è possibile spiegarLO.
    Ti sposi sempre in bianco, donna con rimmel nero sulle folte ciglia.
    Ed ecco la cronaca di un episodio il cui senso non si distacca dalle profonde parole di Miriam Ravasio.
    Circa un anno fa, in occasione della presentazione del suo libro “in P arte Morgan”, alla facoltà di lettere e filosofia di Catania, ho partecipato all’ incontro tenuto da Marco Castoldi.
    Arrivò in sala muovendosi come un personaggio dei fumetti disegnato dal bravo Corto Maltese, pantaloni alla caviglia, blazer su camicia bianca, il ciuffo dei capelli irto sulla testa ed immancabili occhiali da sole. Disse che lui non era quel personaggio che tutti stavano applaudendo, ma che lo gestiva consapevolmente, il suo personaggio. In parte era vero.
    Quando invitò il pubblico ad intervenire, mi avvicinai sul palco e, prima di prendere in mano il microfono per porgli le mie domande, avvenne un fatto “simpatico”, un tira e molla fra me che gli toglievo gli occhiali da sole e lui che se li rimetteva, siamo andati avanti così per un pò, fino a quando lui ha ceduto. Ma per poco.
    Chiesi: “m’interessa il dandy che c’è dentro di te. Da dove viene?”
    Mi rispose: ” Deriva da mio padre, era un uomo molto elegante, di grande gusto.”
    Gli dissi: ” I media forniscono alle masse false identità. Inoltre è dilagante la mancanza di ragione insieme ad un istinto collettivizzato.”
    E lui: “ cosa vuol dire istinto collettivizzato?”
    Intellettuali, studenti – gli risposi – sono persone preparate o che si preparano culturalmente ad entrare in una società organizzata tecnologicamente che procede verso l’utopia esistenziale, non vedi che il determinismo è l’elemento del potere e che prenderanno il colpo gobbo ideali e idealisti? E’ tutto capovolto!
    Morgan concluse che il mio intervento era sì profondo, ma patetico, penoso, aggiunse tante altre p…
    A posteriori, ritenendo che le parole del “maestro Morgan” sono quelle di un presuntuoso e che probabilmente ha bisogno di capire chi è il vero Padre, ho veramente orrore di chi non prova vergogna nel confrontarsi con i figli di un Italia dove i soldi di quattro sniffate v.i.p. giornaliere sono lo stipendio medio di un precario.

  179. mi sono connesso nel pomeriggio e solo ora sono riuscito a terminare la lettura di tutti i commenti. come sempre c’è tanto da imparare da questi confronti online proposti qui.
    ora sono troppo stanco per rispondere alle domande, o per farne qualcuna io.

  180. sono molto curioso di leggere qualche pagina dei libri.
    vabbè era giusto per passare un attimo.
    buona notte

  181. @Rossella
    Assolutamente si.
    Sembrerà banale, ma il solo fatto di sentirsi responsabili di una creatura ti porta a sentirti responsabile di un intera generazione che erediterà il mondo che gli hai lasciato, cioè fa di te uno che pretende per il mondo un futuro. So bene che anche chi non ha figli può preoccuparsi del futuro, ma è chiamato a un’etica più astratta, e dunque più difficile. Per quanto mi riguarda, non ho difficoltà ad ammettere che la paternità mi ha cambiato (dovrei dire mi ha fatto crescere) più di ogni altra cosa al mondo, anche più dell’amore, perchè nell’amore si è comunque contemporanei, e su un piede di parità. L’amore ti chiede di trascendere il tuo egoismo per darti a un altro che comunque ti ricambia. La paternità (o maternità) ti chiede di seminare dove non raccoglierai. E’ così che il mondo avrà un futuro, e non si chiuderà su di noi con il coperchio della bara.

  182. Buona giornata a tutti!
    Scappo in udienza e saluto i primi due autori la cui voce, già tra i commenti, ho apprezzato moltissimo!
    A Vito Bruno vorrei chiedere se – dopo la scrittura – questa creatura di carta, così coraggiosa e scorticata, abbia, in qualche modo, alleviato altri padri.

    Ad Amedeo Romeo (la cui idea narrativa trovo davvero geniale) vorrei invece chiedere se la gestazione non sia anche desiderio di un’appartenenza, non solo a livello genitoriale, ma tra tutti gli esseri umani, di cui il protagonista ha una lancinante nostalgia. Non perdersi, non distaccarsi, non partire. Vivere senza abbandono. L’intimità estrema (essere nella carne di un altro) contro la paura estrema.
    E’ così?

    Infine, ad Ausilio Bertoli un grandissimo e grato abbraccio per le sue bellissime parole. Le conserverò nel cuore. Grazie!

  183. Buongiorno a tutti e complimenti per lo sviluppo del dibattito, non immaginavo che si arrivasse così lontano… e poi dicono che ci sono solo i talk show…

    raccolgo l’invito del gran capo Massimo

    Domanda per Vito Bruno (che un po’ di post fa ha esagerato con i complimenti):

    sono convinto che entro un paio d’anni il tema dei padri divorziati e dei loro diritti diventerà un tema sociale “popolare” (proprio come è successo, ed era ora, alle violenze in famiglia, per decenni-secoli nascoste). Il tuo libro può diventare un manifesto (non solo letterario) dei padri che chiedono alla nostra giustizia i diritti che attualmente non hanno? Sei pronto a “metterci la faccia”, a proporti come punto di riferimento? (anche perché, come mi hai raccontato, tanti padri nella tua stessa situzione ti scrivono per condividere le vostre esperienze…)

    ps. Vivo a Milano da sei anni ma sono pugliese, di Manduria (Taranto), che non è un posto così arretrato. L’altro ieri ho telefonato a un po’ di amici che organizzano incontri culturali per proporne uno sulla questione dei padri separati, partendo proprio dal libro di Vito Bruno (anche lui pugliese trapiantato, ma a Roma). La risposta (che mi ha lasciato di sasso) è stata: ma se qui le donne hanno appena cominciato a divorziare… ed era ora… visto che finora solo pochissime hanno trovato il coraggio di abbandonare mariti violenti e condizioni di estremo disagio famigliare… forse quello dei padri separati sarà un tema d’attualità al Nord, ma qui non lo sarà almeno per altri dieci anni.

    Che ne pensi Vito? Che ne pensate lettori di Letteratitudine? E mi rivolgo soprattutto a chi conosce bene la realtà del Sud… Quanto a me, spero che i miei amici si sbaglino, ma visto che mi hanno elencato dati ufficiali sull’aumento dei divorzi a partire dagli ultimi 3 anni (dopo che per anni il dato, molto basso, era rimasto invariato), temo abbiano ragione…

  184. buongiorno a tutti!
    allora, inziamo congli arretrati.
    @ Gioia: “che impatto ha avuto il suo libro col pubblico femminile durante le presentazioni? Ha avuto modo, quando ha presentato il libro, di rispondere a domande sul ruolo del padre?”
    @ Simona: “vorrei chiedere se – dopo la scrittura – questa creatura di carta, così coraggiosa e scorticata, abbia, in qualche modo, alleviato altri padri.”
    La cosa più divertente di questo mio libro, che praticamente si è scritto da solo, nel senso che io scrivevo per me e per un’altra persona (la mia ex moglie) e che solo grazie agli interessamenti di un amico editor è diventato un lilbro “cotto e mangiato” (l’ho scritto in quattro settimane, a febbraio stavo ancora correggendo gli sfondoni di una scrittura frenetica e a marzo era già in stampa), è che mai ho ricevuto tante telefonate, e-mail e sms da parte dei lettori (grazie anche alla rete, a Fb che rende facile trovare le pesone). La cosa ancora più buffa è che i maschi, anzi, i padri separati si sono sentiti “capiti” (soprattutto per le conseguenze legali della separazione: “perdita” dei figlio, della casa, ecc.) e alcuni mi hanno spinto addirittura a fondare un movimento (se non proprio un partito) per portare la voce dei padri separati in parlamento. Ma le lettere più intese e coinvolte mi sono arrivate dalle donne, forse perchè più abituate a parlare di sentimenti e a scovarli anche dove sembrano nascosti. E’ il bello della scrittura e della lettura: un libro, alla fine appartiene a chi lo legge e lo fa proprio. Io, di mio, ci ho messo quell’onestà di cui parlava Hemingway. E con questo fors eho risposto anche a Francesca laddove commenta: “secondo me la cosa bella che dici è proprio questa:oltrepassare il dato sensibile,l’esperienza.Sono molto attratta dal tuo libro.Una lettera aperta è di per sè uno sforzo di superare dei limiti,anche quelli imposti dalla fine di un amore,dalla separazione dalla sofferenza.Soltanto lasciando questa porta aperta,anche quando crediamo che le cose finiscano,nulla di ciò che è stato vissuto e provato finirà veramente.L’apertura sta nel dialogo,nella ricerca e nel mettersi in discussione.Spesso viene attribuita all’uomo una scarsa capacità di comunicazione nel rapporto di coppia,le tue parole e il tuo libro smentiscono e sono un bellissimo segno di amore anche quando finisce l’amore.Spero che tu sia apprezzato per questo sforzo,questo ponte che può unire anche in un allontanamento,al di là dell’apprezzamento letterario sicuramente raggiunto,parlo di quello umano e del coraggio di esprimere propri sentimenti.

  185. Buongiorno a tutti. Devo ringraziare Simona per la sua domanda. Sì, credo che per il desiderio maschile della gestazione sia proprio questo: desiderio, e bisogno, dell’intimità estrema, contro la paura estrema. E questa paura estrema può essere identificata da una parte nella paura della morte, dall’altra nella paura della solitudine. Entrambe queste paure vengono, almeno in parte, sconfitte nel diventare genitori. La prima, più astratta, perché, se si riesce a sentirsi parte dell’umanità nel suo complesso, dando la vita a un altro essere umano si è contribuito a salvaguardare la specie; la seconda, molto più concreta, perché la responsabilità di essere genitore non solo grava, ma riempie di senso. Chi accetta fino in fondo di essere genitore comunque non sarà più solo e non potrà più tirarsi fuori dal consesso umano.
    A questo proposito, visto che Massimo ci invita a farlo, inserisco un brano del mio romanzo.

  186. All’alba del giorno dopo ero sdraiato nel letto accanto a Lena. Non c’era niente da fare, la invidiavo. Ero eccitato, desideravo il suo corpo, volevo il suo corpo, nel senso che volevo che il suo corpo fosse mio. Volevo essere lei. Essere madre. La paternità non mi interessava, anzi, mi faceva paura, mi spaventava l’idea che i miei cromosomi, le mie abitudini e i miei pregiudizi si trasferissero in un altro essere umano. Non avevo interesse a che nel mondo ci fosse un altro come me, volevo esserci ancora io nel mondo. Mi misi a sedere con la schiena appoggiata al muro. Solo un corpo cresciuto dentro di me, staccato a forza dalla mia carne, lacerandomi il ventre avrebbe potuto rendermi immortale. Volevo essere immortale? Di sicuro non volevo morire, non so se sia la stessa cosa.
    Mi alzai, scesi la scala, entrai in bagno e mi fermai davanti al lavandino.
    Mi spogliai lentamente, sbottonai la camicia, slacciai i polsini. Aprii la fibbia della cintura e abbassai i pantaloni. Tolsi la camicia. Avevo il petto ricoperto di peli, lo sapevo. Non occorreva guardarmi nello specchio. Conoscevo questo corpo che odiavo da trentacinque anni. Infilai le dita nel tappeto morbido che mi ricopriva il torace. Una sensazione disgustosa, come quando, nuotando a occhi chiusi, si sfiora qualcosa sotto la superficie dell’acqua e non si capisce di cosa si tratti. Frugai nell’armadietto sotto il lavandino. Da qualche parte dovevano esserci delle strisce per la ceretta. Le trovai. La scatola era quasi piena. Scaldai le strisce tra le mani e una a una me le attaccai al petto, con cura, su tutta la superficie. Non lasciai neanche un centimetro vuoto. Chiusi gli occhi. Contai fino a tre e strappai. Strappai. Strappai. Cinque, sei, sette strisce. Il dolore era terribile. Avevo la pelle rossa, coperta di escoriazioni.
    Mi fissavo allo specchio. Rosso, le lacrime agli occhi, disperato.
    Avvertii una presenza alle mie spalle. Era Lena. Mi guardava con un’espressione sul viso che mi fece subito pensare alla Pietà di Michelangelo.

    Ed ecco che Lena aveva quello stesso sguardo, che non mi chiedeva niente. Non capiva quel mio dolore, perché impossibile da conoscere per lei, in tutto diversa da me, ma comprendeva il dolore, la possibilità del dolore.
    La guardavo dallo specchio del bagno, nudo con il petto arrossato, le lacrime agli occhi, stanco, ancora stanco di vivere, di quella stessa stanchezza che avevo provato quella notte nella nebbia. E mi inginocchiai davanti al lavandino e mi misi a gemere e singhiozzare, e se Lena mi avesse toccato sarei morto per la disperazione, e allora lei si sedette sul water con il coperchio chiuso e non disse una parola, non allungò la mano, ma reclinò il capo. Non mi strinse tra le braccia, senza sfiorarmi prese in grembo il mio dolore. E non guardò me, guardò lontano, e così guardava l’umanità, mentre con una mano si accarezzava il ventre che conteneva l’umanità. E io singhiozzavo, la bava mi colava dai lati della bocca, avevo freddo.
    Poi, come sempre, come tutto, passò.

  187. un’altra cosa sul piano generale della conversazione che si è tenuta fino qui, sulla crisi dei ruoli genitoriali (il padre che deve rappresentare l’autorità, la madre l’affetività, ecc.). Parto come sempre dalla mia esperienza (non avendo altro a cui attingere). Io ho avuto la fortuna di avere una famiglia tradizionale, un padre severo e un tantino autoritario (con cui ho lottato finchè è stato in vita, che dopo ho scoperto di amare immensamente e che è l’argomento numero 1 della mia scrittura – per dire: anche in questo ultimo libro un capitolo è tutto per lui) e una madre dolcissima ma che sapeva e, grazie al cielo, sa ancora – a 85 anni – sgridarmi. Quindi tutto normale. Una tipica famiglia “coi valori”.
    Quando la mia ex moglie una mattina mi ha detto che non mi amava più e che voleva lasciarmi, decretando di fatto che nostro figlio sarebbe stato un figlio di separati e la nostra famiglia finita, io non ci volevo credere. Non volevo accettare la realtà. Fatemi tutto, dicevo tra me e me nel delirio del dolore, ma non questo. Per un momento ho anche pensato che era meglio la morte. Per la mia esperienza, per la mia cultura, una “cosa” del genere era incomprensibile. Inaccettabile. Soprattutto in relazione al futuro di mio figlio, che non avrebbe – forse – avuto quell’infanzia meravigliosa che era capitata a me, nonostante i tant iproblemi “pratici” della mia famiglia. Ho avuto una nostalgia immensa per “la famiglia tradizionale”, per quei ruoli definiti, chiari, netti dei miei. Ma passato il momento più drammatico, quando ho dovuto accettare la realtà soprattutto per mio figlio (cosa facevo? lo mollavo proprio quando più aveva bisogno di me?), quando ho dovuto accettare la realtà di una separazione, ho messo da parte ogni nostalgia e mi sono rimboccato le maniche. E tutte le categorie concettuali novecentesche, freudiane (padre autorità, madre doclezza ecc.) ecc. le ho dovute mettere nel cestino delle belle cose che furono. Che non servono più . Per dire: anche stamattina (da oggi pomeriggio va da sua madre) ho dato il biberon al mio cucciolotto (nel sonno, “come quando era ancora piccolo” ho detto a un mio amico stamattina, come se il mio puzzone di 2 anni 7 mesi e 16 giorni avesse già un passatro), abbiamo fatto un po’ di lotta nel lettone (bracciodiferro), l’ho lavato tra le sue vibrate proteste, ci siamo fatti un sacco di risate scendendo le scale a saltelloni e poi l’ho portato al nido. Da oggi pomeriggio, per qualche giorno sua madre sarà madre, padre tutto… Insomma, ruoli e figure tutte da ridisegnare. Anche la mia nostalgia del passato, della mia famiglia d’origine, è un lusso che non mi posso più permettere.

  188. ho letto il brano di amedeo romeo e mi è piaciuto moltissimo. anche secondo me come ha detto simona lo iacono l’idea di fondo è geniale.
    bravo amedeo romeo, stasera il tuo romanzo sarà a casa mia.

  189. ho letto il post delle 9:35 di vito bruno e mi ha toccato il cuore. nella mia esperienza ho conosciuto uomini, diversi amici, mio fratello, che hanno lasciato le rispettive compagne e mogli. non so perché avevo maturato l’idea che le vittime dell’abbandono fossero quasi sempre le donne. evidentemente non è così. per questo le parole di vito bruno mi hanno colpito. sono quelle di un marito e di un padre abbandonato.
    i libri di bruno e di romeo si faranno compagnia sul mio comodino.

  190. volevo provare a rispondere alle domande di massimo. non sono domande facili. proprio no. mi sono venute fuori risposte banali quindi per il momento non le scrivo qua.
    magari ci ripenso un pò su e le riscrivo.
    ciao.

  191. Allora, ecco l’inzio del libro.

    Sono arrivato a casa alle nove di sera, con due ore di ritardo. Un viaggio infinito. Neanche arrivassi dall’America. Fa un caldo boia. Umido. E’ il 10 agosto, notte di san Lorenzo. Notte di stelle. Io neanche l’ho visto il cielo. Neanche ho alzato lo sguardo da terra. Adesso che ci penso non ricordo nulla di quello che ho fatto nell’ultima ora. Mi sono mosso come un aereo senza scatola nera. So soltanto che sono atterrato e basta.
    Non ho una sola immagine nella memoria. Niente. Un unico pensiero largo e fermo come un’acqua stagna, che lentamente mi ha sommerso e non mi ha fatto più respirare.
    Sono tornato in me quando ho girato le chiavi nella porta di casa. Mia.
    Ho pensato che ho soltanto un’ultima rata di mutuo da pagare. Una liberazione. Aspettavo questo momento da quindici anni. Pensavo sarebbe stato bello, un evento da festeggiare.
    Pensavo.
    L’odore di casa mi è saltato addosso come un vecchio cane fedele che corre a leccarti. Ho divaricato le narici al buio e ho capito che c’era stata Alena, la nostra donna di servizio, l’infaticabile e silenziosa signora ucraina, che esagera sempre con i detersivi, ma poi sì, sullo sfondo di pulito senti affiorare più nitido l’odore di chi ci abita – il mio e il tuo, fusi ormai in unico indistinguibile, a cui da quasi due anni si è aggiunto un odore di bambino.
    Del nostro bambino.
    Quello sì, inconfondibile.
    Ho acceso la luce e ho visto esattamente ciò che mi aspettavo: il mobile grigio comprato quand’ero ancora single dopo i lavori di ristrutturazione, i libri ammucchiati sullo scaffale, la mensola inclinata che aspetta da una vita di essere raddrizzata, la pila di lettere e fatture accatastate vicino al telefono, la cornice d’argento con la foto mia, tua e di nostro figlio, poggiata a faccia in giù sul mobile rosso ciliegia – il regalo di matrimonio di mio fratello, tre anni fa.
    Quasi.
    L’anniversario ricorre tra dieci giorni per l’esattezza.
    Ricordi?, il 20 agosto del 2006 fu una serata spettacolare giù in Puglia, l’unico sabato caldo e sereno in un’estate piovosa e fredda. Per mesi, io, tu e le nostre rispettive famiglie ci siamo raccontati ridacchiando la fortuna che abbiamo avuto a beccare l’unica sera buona a disposizione. Nella chiesetta in cima alla collina dove ci siamo sposati, alle sei di pomeriggio faceva sì, caldo, ma già quando il sole aveva iniziato a scivolare dietro il bosco in un tramonto spettacolare come solo in quel cielo levantino e solo in quel preciso periodo dell’anno, che ha già le morbidezze di settembre, si stava bene. Benissimo. La notte poi ci è scesa addosso come un respiro leggero ed è finita in un attimo.
    E’ andato tutto troppo veloce e io ne volevo ancora, volevo tornare indietro, all’inizio della serata, riviere la cerimonia con la chiacchierata del mio amico Fabio – il prete che aveva conquistato tutti, vecchi mangiapreti e giovani gaudenti -, rigustarmi tutta la festa, il banchetto con i tavolini sul prato verde, gli amici e i parenti arrivati alla spicciolata da tutte le parti d’Italia.
    C’era stato persino chi aveva spezzato le vacanze all’estero pur di festeggiarci sull’aia di quella masseria, pur di danzare insieme alla sposa a piedi nudi sull’erba al suono delle fisarmoniche e dei violini, delle mandole e dei tamburelli.
    Eri bellissima nel tuo vestito bianco indossato con la spavalda noncuranza di un prendisole. Ridevi felice. Anche tu ne volevi ancora e non volevi più andar via quando tutti sono tornati a casa. Tutti, tranne gli amici più intimi, i tuoi compagni di liceo disposti a fare baldoria a oltranza come fosse una serata qualsiasi di un qualsiasi fine anno scolastico.
    Avevo dovuto trascinarti via di forza e poi, nel trullo preparato lì accanto, ti avevo sfilato il vestito bianco come a una bambina addormentata e sulla pelle avevo trovato due chicchi di riso che ci avevano lanciato all’uscita dalla chiesa, chicchi ormai ammorbiditi, cotti dal tuo calore.
    E’ stato il mio unico pasto quella sera, il pasto più essenziale e nutriente della mia vita.

  192. molto bello, davvero molto bello il brano di vito bruno. una lettera e una dichiarazione d’amore alla sua lei. cosa accadrà dopo lo sappiamo già. immagino che questo brano sia la dolcissima premessa ad un urlo di dolore espresso in forma narrativa.

  193. x antonio prudenzano
    come dico spesso ai miei amici nordici, la parola sud non rende l’idea e non basta. la realtà del sud è complessa e variegata, difficilmente circoscrivibile. dunque, dipende. dipende dai luoghi e di contesti. dipende se si prendono in cosiderazione le grandi città o gli entroterra. dipende.
    anche se è pure vero che al sud il senso della famiglia unita, unita nonostante tutto, è più forte e visto quasi come dovere. e che le donne sono forse un gradino più sotto nella scala dell’emancipazione. ma ripeto, la realtà è complessa.

  194. grazie vito. ho appena finito di leggere il suo brano e mi sento di condividere le parole espresse da giacomo tessani.
    stessa cosa dicasi per il brano di amedeo romeo.
    grazie.

  195. Vorrei chiedere alcune cose a Vito Bruno.
    La sua ex moglie ha letto questo suo romanzo? Cosa ne ha pensato? Ne avete parlato?
    Un giorno lo leggerà anche suo figlio. Che effetto le fa questa idea?

  196. Ad Amedeo Romeo chiedo : che cosa c’è di lei nel personaggio del suo libro? Ci sono tratti autobiografici?

  197. Cara Vale, prima di pubblicare il libro l’ho fatto leggere alla mia ex moglie. Le ho detto che lei non avesse voluto, non l’avrei pubblicato. Lei ha avuto ovviamente delle cose da ridere su alcuni punti del libro, ma mi ha detto di pubblicarlo. Per tante ragioni, immagino. La più importante è che, da donna intelligente qual’è, non ha voluto togliermi una libertà per me vitale: quella di esercitare la mia professione di scrittore. Di questo le sarò per sempre grato. La seconda ragione, credo, è la seguente: il libro è una dichiarazione d’amore per lei ad amore finito, o meglio – per quello che mi riguarda – trasformato. Il mio è un tentativo di guardare e di salvaguardare , come dice il titolo, “l’amore alla fine dell’amore”. Certo, ci sono sempre macerie quando una storia d’amore finisce, bisogna attraversare il deserto, l’inferno di sentimenti a volte degradanti – soprattutto per chi li prova -. Non è una passeggiata. Forse è stata una delle esperienze più dolorose della mia vita, anzi, senza forse.
    Ma gli anni che abbiamo vissuto insieme, per me sono stati gli anni più belli della mia vita, e chiudermi nel rancore avrebbe significato scarnificarmi, tagliarmi un pezzo di carne viva, mutilare la mia vita. E questo a tacere dell’evento più grosso scaturito da quella storia d’amore: nostro figlio: un regalo incommensurabile.
    Certo, nel mio racconto ci sono anche passaggi duri- ometterli sarebbe stato disonesto intellettualmente, falsificare la realtà, trasformare tutto – anche il dolore – in qualcosa di artificiale e falso, in onore magari al politicamente scorretto. Ma alla fine della lettera, quello che resta, credo, è la testimonianza di un amore. Di una stima.
    Per questo, se un giorno il mio dolce puzzone, vorrà leggere questo libro, voglio pensare e sperare di non correre alcun rischio: troverà l’amore che ha legato i suoi genitori, le ragioni – forse – per cui a un certo punto l’amore è finito e, certo, anche la guerra per averlo: perché sia io che sua madre l’abbiamo sempre desiderato e continuiamo a desiderarlo e ad amarlo, e per lui abbiamo lottato prima di trovare – considerate le circostanze – forse il miglior compromesso possibile.

  198. Grazie Vito. Dici cose belle e forti. In bocca al lupo per la tua vita e per la tua scrittura.

  199. A tutti ma in particolare a:

    Gioia.
    Naturalmente, gentile Gioia sono d’accordo con lei nel ritenere inconsapevoli i ‘non-voluti-vedere’ del prima. Vorrei però ricordare che esistono vari gradi di inconsapevolezza. Da una rimozione marginale alla negazione più totale. E certamente tutti questi meccanismi (di difesa, non a caso vengono chiamati) sono al servizio della paura di non realizzare i propri desideri. So che questa considerazione è un mixage delle sue affermazioni. Ma è stato fatto apposta. Perché l’inconsapevolezza a mio parere è uno dei (geniali) mezzi per mantenere viva l’aspettativa di un desiderio realizzabile. E l’unione con una persona che amiamo è naturalmente una delle aspettative più naturali.
    La questione che nel precedente intervento cercavo di sottolineare è che spesso torciamo (inconsapevolmente? Certo, ma non stupidamente …) la realtà dell’altro pur di adattarlo ai nostri sogni. Spesso eliminando parti di noi o dell’altro che nel tempo ricompariranno, chiedendo udienza e soddisfazione. E l’arrivo di un figlio, la presenza di un terzo amato, moltiplica il rifiuto di quelle parti che dalla coppia sono state scisse e messe nel comodo inconscio. Un figlio sconvolge spesso il patto di non belligeranza di queste parti alienate, aprendo così la via ad un conflitto più profondo di quello che scaturirebbe dalla semplice complessità della triade madre-bambino-padre.
    Quindi amare, o avere un figlio, dovrebbe essere la volontà di conoscere i sogni dell’altro più che realizzare i propri mediante l’altro.
    Ed appropriarsi della responsabilità della propria oculata inconsapevolezza rappresenta secondo me uno degli obiettivi iniziali di una maturazione non semplicemente anagrafica.
    “Tornare a essere uomo e donna nonostante l’essere anche madre e padre, credo sia una sfida oggi difficile, innanzi tutto con se stessi” lei diceva.
    Certamente!
    Mantenersi uomo e donna, nonostante l’essere padri e madri, direttori e direttrici, dottori e dottoresse, scrittrici e scrittori, prigionieri o secondini.
    Ma non è da sempre questa la sfida principale di ogni essere umano?

    Ad Ausilio Bertoli.
    Ciao Ausilio, felice d’incontrarti.
    Dicevo prima di Freud per testimoniare come anche in psicoanalisi l’antitesi tra maschile e femminile ha originato posizioni che non sono servite granché ad un progresso verso l’individuazione.
    Perché alla teoria fallocentrica di Freud (applaudito dall’establishment maschile) rispose la Horney invertendone di 180 gradi le interpretazioni classiche (con notevole successo presso il concernente femminile).
    Sterile antinomia tra maschile e femminile, o tra paterno e materno, che continua ancora oggi a dominare.
    Tanto è vero che ci si continua a chiedere, secondo me vanamente, cosa deve fare un padre e cosa una madre.
    Forse la stessa domanda contiene un presupposto tutto da verificare, cioè che il sesso si identifichi in un ruolo.
    E che i ruoli siano complementari o simmetrici: il fecondante e la fecondata intensamente costruttori o distruttori del puer magnifico dei loro rispettivi ventri.
    Con effetti a volte paradossali (ricordi l’episodio dei genitori isolani in Caro Diario di Moretti?)
    Personalmente ritengo la complementarietà o la simmetria utili per spiegare una dinamica conflittuale o di semplice patto sociale (Quali infatti i limiti di competenza? Quando passare dall’una all’altra).
    A mio parere l’effetto migliore che può cogliersi dalle esperienze contemporanee (incluse le separazioni) è il farsi avanti di quello che Hersch chiamava ricombinazione sussidiaria (un’autorità che si sostituisce momentaneamente ad un’altra quando quest’ultima non sia in grado, per patto o per accidente, di compiere gli atti di sua competenza).
    Tra genitori o tra ex-coniugi. Tra genitori e figli.
    Insomma la sostituzione di una cultura dei giochi a somma zero (se io perdo,tu vinci e vic.), con quella a somma diversa da zero (se tu vinci, vinciamo entrambi).
    Lo so che è un antico sogno illuministico.
    Ma questo è il mio faro.

    p.s. più sotto un altro accenno ad una tua considerazione

    A Dora.
    Gentile Dora, ricorda la sindrome presentata in queste nostre conversazioni da Simona Lo Iacono?
    La P.A.S. Sindrome di alienazione genitoriale.
    Descrive una situazione in cui un bambino aliena senza apparenti sensi di colpa un genitore non ritenuto all’altezza del proprio ruolo.
    Ebbene vorrei dirle che esiste anche una sindrome di autoalienazione genitoriale.
    In cui in genitore (magari ottemperando semplicemente agli obblighi d’assegno di mantenimento) volontariamente si isola dalla famiglia precedente, tagliandola fuori dalla coscienza e dall’azione come se egli (meno spesso, ella) non fosse mai esistito in essa. Sottolineo questo punto perché quest’azione in realtà è un auto punizione. E nemmeno tanto inconscia. Molte volte nascosta da comportamenti aggressivi e travestita da rifiuti manifesti.
    Non conosco il suo caso, ed è possibile che quello che le dico non c’entri per nulla. Volevo soltanto offrirle una considerazione. Un caro saluto.

    A Simona Lo Iacono
    Lei scrive: “Nei pochi casi in cui ho riscontrato apertura e umiltà nell’affido condiviso, l’amore non è equivalso a un sentimento, ma a un percorso in continua evoluzione, creativo e fantasioso”.
    Sono parole rivoluzionarie.
    Dicono di un amore che è principalmente relazione e non semplice emozione, e di noi (uomini e donne) creatori, ricreati dalle nostre stesse materiali o immateriali creature.

    Utilizzo quest’ultima riflessione per commentare la considerazione di Ausilio (gli scrittori recuperano, esplicitamente o velatamente, i momenti essenziali del proprio vissuto).
    Vero, ma se non c’è una ri-creazione nel recupero dei propri vissuti non esiste arte. E, trascendendo la propria storia individuale, trasformare un comunicabile fatto di cronaca, in processo passibile di riflessione altrui.

    Un caro saluto a tutti. Salvo.

  200. Rispondo a Vale.
    Il mio romanzo non è autobiografico, ma naturalmente, soprattutto trattandosi di un’opera prima, nel personaggio c’è molto di me. Come ho scritto in un precedente post, direi che ci sono riflessioni e ossessioni che per non perdersi completamente si cerca di tenere a bada e che con la scrittura possono essere esplorate. Far oltrepassare il limite a un personaggio è sicuramente meno pericoloso che oltrepassarlo in prima persona. Scrivere ci prepara e ci rende più consapevoli.

  201. @ Salvo
    Ho letto il tuo intervento eloquente, molto interessante. La ri-creazione nel recupero nel recupero del proprio vissuto è fondamentale, oserei dire vitale.
    ——

    @ Ai lettori e a tutti gli scrittori intervenuti.

    Ho tralasciato in precedenza, a proposito di arte, di aggiungere quanto sia opportuno, per capire realmente un’opera letteraria, o per gustarla appieno, in modo completo, conoscere in profondità la vita dell’autore o l’ambiente in cui è vissuto.
    Mi spiego con un esempio: Gregor Samsa, protagonista del romanzo “La metamorfosi” di Franz Kafka, si sveglia una mattina trasformato in un grande insetto orripilante. Il lettore segue le vicende di questo mostro che introietta fino alla morte l’orrore provocato nei familiari, specie nel padre, che anche lo tortura; ma è come se partecipasse alla vita dello stesso Kafka, comprendendo “quanto il genitore gli apparisse grossolano, autoritariio, pessimo educatore, impegnato a umiliare il figlio presentandosi come il suo contrario e proponendosi come modello” (il commento è di Cesare Segre).
    Quest’opera di Kafka ha un valore emblematico per le mie considerazioni e, in un certo qual senso, per la comprensione, appunto, delle espressioni artistiche. Ma dite pure la vostra.

  202. Massimo, ci hai anche chiesto giudizi e pareri sul rapporto padre-figli.
    Ma si è anche spesso sostenuto (da me in particolare) come ai genitori si possano sostituire altre persone nella crescita dei bimbi.
    Concedimi, prima di elaborare una risposta di valore psicosociologico, quanto sia essenziale, per conoscere il significato profondo che assume la separazione nella psiche di un figlioletto, esaminare il vincolo intensissimo che lo lega ai suoi caregivers, ossia quanti si prendono cura di lui fin dai primi vagiti.
    Si stanno facendo sempre più strada, in proposito, la natura e la funzione del comportamento di attaccamento, ovvero la teoria chiamata dell’attaccamento, che annovera tra i suoi massimi esponenti J. Bowlby (uno dei suoi testi basilari tradotti in italiano è “Costruzione e rottura dei legami affettivi, ed. Cortina).
    Bowlby definisce “attaccamento” la tendenza dell’essere umano a strutturare solidi legami affettivi con particolari persone, la cui perdita provoca turbamenti emotivi gravi e profondi, nonché disturbi della personalità sia in tenera età sia nella maturità.
    Il comportamento di attaccamento si configura, dunque, in qualsiasi forma di comportamento che consenta a un individuo la vicinanza con un altro, considerato come preferito.
    Esaminiamo il bimbo.
    La persona verso cui il bimbo dirige il suo attaccamento è generalmente chiamata “madre” o “figura materna”. In realtà – però – la maggior parte dei bimbi si orienta verso più figure di attaccamento, ma non tutte vengono trattate o considerate allo stesso modo. Tra queste, la figura principale può non essere appunto la madre.
    Comunque, è evidente che la scelta del bimbo dipende dalle persone che si curano di lui e dalla composizione della famiglia, perciò – con molta probabilità – avrà a che fare con la madre, il padre, i nonni, i fratelli maggiori…
    La ricerca effettuata da Shaffer ed Emerson – per esempio – sui bimbi scozzesi ha messo in rilievo come il ruolo della madre può essere assunto anche da altre persone che si comportino in modo materno verso il bimbo, ovvero che abbiano con lui una vivace interazione sociale e una pronta reazione ai suoi segnali, ai suoi approcci.
    La conclusione da trarre?
    Nei bimbi c’è la tendenza a dirigere l’attaccamento verso una figura particolare, di cui diventano possessivi e di cui sentono la mancanza tutte le volte che tale figura è o si dimostra assente, nonostante la presenza di altre figure di riferimento.
    Ovvero: anche se nella maggioranza dei casi la relazione di attaccamento più intensa è quella madre-figlio, il padre può diventare benissimo caregiver verso il quale il figlio direziona l’attaccamento, anche nel caso in cui non sia disponibile tutta la giornata.
    “La scelta del padre come una delle principali figure di riferimento – ribadisce giustamente la psicologa Elena Caraccio – è determinata sia dalla sensibilità alle richieste infantili, sia dalla presenza di un’interazione giocosa e positiva di cui il bambino è il principale protagonista. Il caregiver che sa stimolare piacevolmente il bambino o lo sa far divertire viene cercato dal piccolo, che ne sentirà la mancanza quando non sarà presente”.
    Mi fermo qui per non tediarvi più di quanto non vi abbia magari tediato.
    Cordialmente.

  203. gentile dr. bertoli, sto seguendo con molto interesse i suoi interventi e quelli del dr. montalbano. mi sembra una discussione completa, ricca di spunti e voci, con le problematiche viste e trattate da diversi punti di vista in base alle varie competenze.
    un bel luogo dove ‘tuffarsi’ e apprendere.
    molte grazie a tutti.

  204. Ausilio trovo questo ultimo intervento ancora più esaustivo anche rispetto ai dubbi che più su avevo manifestato riguardo alla possibilità del bambino di riferirsi ad altre figure,per cosi dire “laterali”,in cui trovare modelli sostituivi.Grazie mille della cura con cui hai illustrato il problema.
    A Vito e ad Amedeo complimenti per le belle pagine che hanno voluto condividere con noi.In fondo anche i vostri libri sono la testimonianaza concreta e sentita di quanto sia cambita la figura del padre.Un padre che parla apertamente di sentimenti privati che lo rendono fragile,lo espongono,rivelano il dolore ma soprattutto raccontano l’amore anche attraverso l’apparente fallimento dell’amore stesso,che si rinnova e lascia testimonianza di sè e del suo valore nella traccia della parola scritta.
    grazie a tutti.

  205. @Vito Bruno
    Ci tenevo a dirti che ho letto il tuo romanzo precedente, “Il ragazzo che credeva in Dio”, e l’ho trovato molto interessante, avvicinabile per certi versi a “Per queste strade familiari e feroci” di Ferruccio Parazzoli, altro romanzo che ho amato molto. Quello che hai scritto qui mi spinge a leggere anche quest’ultimo, cosa che farò presto.

  206. Caro Ausilio,
    interpreti la mia idea della letteratura come atto di resurrezione. Da una negazione ad una affermazione e, ancora, dalla vita in se’ alla vita in altri. Nel passaggio perdiamo qualcosa, acquistiamo altro, ci accingiamo a congedarci da noi e a vederci rivivere. Sono d’accordo nel dire che trasfigurando la vita nell’arte (e anche l’arte nella vita) si seleziona, si indirizza, si segue una sotterranea e abissante via, che è il significato. Il “senso”.
    Non è un viaggio indolore, e non è neanche un viaggio a vista in cui si possa dire che la direzione è sempre sicura. Ma è nell’attraversamento che la trasformazione si compie, con sorpresa, anche per chi tiene il timone.

  207. Carissimo Amedeo Romeo,
    chi scrive scaglia sempre dardi contro la fine, contro il pensarsi a tempo, a scadenza.
    E l’intimità che descrivi in modo così leggero e seducente, è davvero la più lacerante ricerca che un essere umano possa compiere.
    Quando avevo mio figlio in me godevo del suo battito nel mio, sentivo che il suo guizzare mi colmava, mi restituiva a me stessa. Non ho mai desiderato che il pancione finisse, anche se aveva cambiato il mio corpo. L’ho perpetuato, anzi, in altre notti di solitudine, quando il suo tondeggiare tra le mie ossa pareva immettermi nel segreto di una creazione millenaria e condivisa.
    Per tutta la gravidanza ho chiamato mio figlio pesciolino.
    Quando pesciolino è uscito fuori da me e ha smesso di navigare le mie acque, ho provato un senso di abbandono ultimo, inconfessabile, lenito solo dalla gioia di poterlo guardare.
    Adesso, dopo dieci anni, a ogni suo movimento involontario nel sonno, io ripeto: “Facevi così, esattamente così, anche quando eri in me, pesciolino”.
    Lo riconosco. E placo quella distanza, immergendomi in una pienezza perfetta.

  208. Cara Simo, è bellissimo e dolcissimo questo tuo commento qui sopra. (E aiuta davvero a comprendere il senso del libro di Amedeo).
    Salutaci il pesciolino con tanto affetto…
    Che possa navigare sempre in buone acque!:-)

  209. Ne approfitto per ringraziarvi tutti per i nuovi commenti pervenuti e per gli interventi molto analitici (mi riferisco soprattutto ad Ausilio Bertoli e a Salvo Montalbano).

  210. Mi chiedevo… quand’è che i nostri amici scrittori protagonisti di questi dibattito cominceranno a “interloquire” tra loro?
    Ha cominciato Valter con il suo commento delle 7:45 pm, di oggi. Di questo lo ringrazio.

  211. Carissimo Vito Bruno,
    più di ogni cosa mi ha colpita l’andamento dolente e lirico della tua scrittura, un rotolare nell’anima che grida oltre ogni fine.
    Belli quei chicchi di riso caldissimi del contatto di un abito nuziale, bella quella voglia di perpetuare la festa, di ricordare, nonostante tutto.
    Non taci. Vuoi ancora trovarti ad annodare un principio, a urlarti che un passato c’è stato, vuoi che non passi, quel passato, perchè scrivendone sai che un po’ lo trafughi dal suo inevitabile perdersi. Da quel fluire di tutte le cose verso la dimenticanza, se non ne scriviamo.
    La tua pagina è bellissima.
    Spero che quella piccola vita di due anni e sette mesi che ti trotta accanto faccia in fretta a leggerla.

    Un carissimo abbraccio.

  212. Fiera del libro
    http://www.salonelibro.it/ di Torino. Sarò presente il 15 maggio dalle 17 in poi con il mio libro:

    – Forse tu sì (Storie minimali) – nello stand della casa editrice (*Padiglione 1 – C22*) dove potrete trovare oltre al mio libro tutto il catalogo della Giulio Perrone Editore e di Perrone LAB.

    Vi aspetto numerosi

    Francesca Bertoldi

  213. Be’, per la verità all’inizio della discussione c’era già stato qualche scambio. Me n’ero dimenticato… scusate.
    In ogni caso, sarebbe bello se continuaste a scambiarvi impressioni…
    (La butto lì… così…)
    😉

  214. Adesso approndiremo la conoscenza di altri due libri… ma questo non ci impedirà (se volete) di proseguire la discussione generale e di porre domande a Vito Bruno e Amedeo Romeo.

  215. Oggi approfondiremo la conoscenza dei romanzo di Valter Binaghi e Gianni Biondillo.

    Comincio con quello di Valter Binaghi, proponendovi la recensione di Michele Lupo apparsa sul blog “La poesia e lo spirito”.

  216. @ Salvo Montalbano: un abbraccio di cuore. Condivido l’idea che il finire del sentimento non elimini la relazione, ma anzi, a volte, la reincarni in un “progetto” diverso, condiviso. Laddove i coniugi sono disponibili all’ascolto, e si immettono in questo cammino, si reiterpretano alla luce di un diverso modo di rapportarsi all’altro. Spesso si chiedono perchè tutto questo non sia avvenuto in tempo, o quando c’era amore.
    Io dico loro che se si condivide, in qualunque forma, c’è sempre e comunque amore. D’altra parte i cives romani, nell’antico diritto, non dicevano amare, ma dicevano “diligere” che vuol dire “scegliere”.

  217. “UCCIDERò MEFISTO”, di Valter Binaghi (Perdisa Pop) – recensione di Michele Lupo

    Questo piccolo libro di Valter Binaghi è una dichiarazione d’amore. E fossimo in vena di slogan giornalistici aggiungeremmo: Valter Binaghi è l’ultimo romantico. Che oggi suonerebbe straniante non perché questo genere di affermazioni porti con sé la tracotanza di un linguaggio da rotocalco seppure midcult. E’ che presa sul serio, la scena descritta nell’affermazione è quella di un camminare a ritroso, un pensiero forte e avventuroso che marca una differenza sensibile rispetto al regime del presentismo, dell’esperienza evanescente e consumistica cui sembra voler soggiacere l’Occidente attuale – consiglio a tal proposito di leggere gli ultimi libri di Massimo Rizzante o di Mario Perniola.

    Il libro racconta la vicenda del professor Blangé, scrittore che riesce ad avere fortuna quando si mette in moto un meccanismo editoriale indifferente alla qualità dell’opera ma tutto teso a individuare nuclei emotivi “di massa” – nel caso specifico, il tema oggi davvero invasivo della “vittima”, declinato qui nella storia di una donna (nella realtà la moglie dello scrittore) che ha perso il bambino che aspettava.

    Blangé inizia a partecipare a incontri e presentazioni astruse, anche estranee al mondo letterario in sé e contigue invece ai casi variamente disgraziati di cui si nutre il pubblico – fino a diventare, lui, una star della televisione. Liricheggiante, spiritualmente ambizioso, Blangé si lascia prendere dal successo grazie alla spinta di uno psicanalista del genere oggi molto in voga: di quelli che “liberati dalle zavorre, afferra l’attimo, fanculo alle convenzioni” insomma il solito repertorio nato in salsa freak e oggi splendidamente complice delle nostre esistenze ridotte a edonistico spettacolo. C’è qualcuno che paga per tutto questo: la moglie di Blangé, figura un po’ esile, preraffaellita quasi, forse un po’ troppo devota, che vede venir meno la lealtà del suo uomo e lo scopre invece amante di una sua studentessa – via facebook, è ovvio.

    Non credo che Binaghi (che sospetto non del tutto estraneo alla figura del protagonista) volesse fare del moralismo, quanto piuttosto misurare attraverso il racconto il peso variamente distribuibile fra responsabilità e presenza da una parte e narcisismo spettacolare dall’altro. L’esteta Blangé si compiace infatti del suo amore vero (la moglie) ma in fondo non sente quello che sente lei, il suo dolore lui lo trasferisce nei libri che scrive ma in fondo gli è estraneo – la sua è una sensibilità manieristica, appunto, un esercizio di stile. Fino a quando lei si toglierà la vita e solo successivamente Blangé ripenserà la sua storia, rispondendo attraverso l’unica cosa che conta davvero: l’azione. Ma l’azione qui è paradossale: novello Faust, il nostro, prima di lasciarsi morire dal dolore, farà fuori lo psicanalista Mefisto che gli aveva cambiato (e rovinato) la vita.

    Non vorrei fare un torto a Binaghi, blues-man di lunga data, ma la favola nera che racconta sembra uno scherzo – musicalmente parlando. Il gioco metaletterario, l’agente di polizia che ragiona sugli stilemi del noir, la satira sul sottobosco editoriale, gli inserti lirici del protagonista alternati alla storia, tutto questo aggiunge un tocco, se mi si perdona l’ossimoro, di drammatica levità al libro.Tralasciando prodromi e primi sviluppi, in età romantica lo Scherzo era una composizione strumentale che alternava a una parte vivace, anche di carattere drammatico, un episodio lirico o malinconico. Be’, il libro di Binaghi, tecnica e stile al servizio di un pensiero controcorrente, è costruito più o meno così.

    Non sai se più azzardato o coraggioso, di sicuro più sensibile al mito che alla cronaca, nel richiamare un motivo così inattuale come quello dell’amore unico, assoluto, spirituale, Binaghi percorre una strada ardimentosa. Anche se facessimo fatica a seguirlo, nell’aerea e allucinata ricostruzione narrativa, Binaghi c’infila dritti dritti nella domanda delle domande, che non è di che cosa parliamo quando parliamo d’amore ma piuttosto, cosa resta di una vita che non è sognata sino in fondo?

    Fonte: http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2010/03/24/valter-binaghi-uccidero-mefisto/

  218. Infine…un abbraccio a te , Massi…vedo che ti accingi a presentare i bravissimi Valetr Binaghi e Gianni Biondillo.
    Ti seguo e ti auguro una buona serata, in attesa di scoprire – con grandissimo piacere – anche i loro “mondi”.
    Un bacio a tutti!

  219. “NEL NOME DEL PADRE”, di Gianni Biondillo (Guanda) – recensione di Grazia Casagrande
    ———
    “Non so più qual è il mio ruolo, non so più niente di mia figlia. Non so come va a scuola, non ho visto le sue pagelle, non conosco i suoi compagni di classe… tutto quello che so è che devo pagare, pagare, pagare…”
    ———
    Una storia come tante ma, come quella di ogni uomo che si trovi in una situazione dolorosa, assolutamente unica e irripetibile.
    Divorzi e separazioni sono sempre più frequenti e non è questa la sede per cercarne il perché, né per esprimere giudizi: è così e basta. Ma se il fallimento di un’unione è traumatico per i protagonisti, i veri problemi sorgono quando la coppia ha dei figli.

    L’ultimo romanzo di Biondillo, così lontano dai suoi precedenti, ha certamente un forte riscontro nella realtà. Quanti uomini infatti si trovano nella situazione del protagonista? quanti riescono a risollevarsi dopo la fine di un legame anche se la responsabilità del fallimento è in gran parte loro? e soprattutto quanti si rassegnano a subire da parte della ex moglie la privazione dei figli? Perché, e le statistiche lo confermano, sono molti i padri che vedono frustrata la propria funzione e il proprio ruolo paterno per puro spirito di vendetta.

    Da alcuni anni il violento rifiuto del genitore affidatario (in genere la madre) di condividere con il padre l’educazione di un figlio dopo una separazione si è fatto più frequente. Ancora una volta non cerchiamo il perché, né lo fa Biondillo, ma osserviamo il fatto in sé e lo si può fare con crescente empatia grazie allo sguardo di uno scrittore sensibile e intelligente. Il protagonista del romanzo ha delle responsabilità: troppo assente dalla vita familiare e con un tradimento mai confessato alle spalle.

    Ma si diventa partecipi della sofferenza, della disperazione e della rabbia di quell’uomo a cui è negata la possibilità di svolgere il proprio ruolo di padre, di godere della presenza della figlia e di poterle dimostrarle tutto l’amore che prova. Spesso per un uomo la paternità è una conquista lenta, non istintiva ma, forse proprio per questo, è intollerabile che venga poi calpestata.

    Il trovare un’altra compagna non cancella il dolore del vedere la figlia usata come arma di ricatto. Il turbamento in cui il protagonista vive, lo sconvolgimento psicologico del passare settimane, mesi interi senza godere della vicinanza della bambina, crea insicurezza per tutti gli affetti.
    La vita è così, spesso chi non ha responsabilità subisce le ansie che altri hanno provocato: questo aspetto, ben evidenziato nel romanzo, complica tutto e impedisce la riconquista di quel po’ di felicità che la vita può tornare a offrire.
    Alcune pagine sono altamente drammatiche e, da buon scrittore di gialli, Biondillo lascia a lungo sospeso l’esito che, nell’alternanza di emozioni dell’oggi e di ricordi del passato, è perfettamente coerente e conseguente.
    Una parte del libro parla poi dell’associazione che accoglie e assiste i padri separati: una realtà realmente esistente e sicuramente meritoria, così come tutto ciò che dà possibilità di confronto e di sostegno a persone sole in difficoltà. Parlare con altri che hanno attraversato lo stesso difficile cammino permette il superamento della disperante solitudine a cui non può bastare una spalla amica su cui piangere ma servono consigli concreti.
    In questo quadro così tormentato la figlia, oggetto del contendere, appare piuttosto serena, così equilibrata da non schierarsi mai con l’uno o con l’altro genitore. Di certo alcune esperienze fanno rapidamente maturare i bambini, ma è la consapevolezza dell’amore di entrambi i genitori ciò che fortifica, nel romanzo come nella vita reale, i figli dei separati.

    Biondillo che vive una serena vita familiare, è riuscito a creare personaggi credibili e a entrare in forte empatia con loro. Intensa è la costruzione della progressione emotiva del protagonista, calibrato e credibile il recupero di equilibrio complessivo. C’è anche la volontà di non fare apparire un “mostro” la donna, sia spiegando i motivi di tanto rancore della ex moglie, sia delineando in modo positivo il personaggio della nuova fidanzata cilena. Certo: dalla parte dell’uomo, ma non maschilista!
    Complicità con i personaggi, ma soprattutto con il lettore: l’autore spesso indica come la conoscenza dei fatti narrati lo coinvolga insieme ai lettori, abile ed efficace stratagemma narrativo che permette una maggiore partecipazione emotiva agli eventi narrati da parte di chi legge, non passivo spettatore, ma consapevole osservatore che può capire, meglio dei protagonisti stessi, il perché del loro agire.
    ——–
    Gianni Biondillo – Nel nome del padre
    193 pag., € 14,50 – Edizioni Guanda (Narratori della Fenice)
    ISBN 978-88-6088-086-4

    Fonte: http://www.wuz.it

  220. Vi invito, inoltre, ad ascoltare la voce di Gianni Biondillo nell’ambito dell’intervista radiofonica rilasciata alla trasmissione Fahrenheit (proprio in riferimento a questo romanzo).
    Cliccate qui

  221. Nei precedenti commenti, Gianni aveva fatto riferimento a un alatro suo libro scritto a quattro mani con Severino Colombo. Si intitola: “Manuale di sopravvivenza del padre contemporaneo. (Diventare Pa3 in poche, oculate mosse)”. Sempre edito da Guanda, nel 2008:
    http://www.ibs.it/code/9788860887528/biondillo-gianni/manuale-sopravvivenza-del.html

    Vi riporto qui la recensione di IBS

    Gianni Biondillo ha quarantadue anni e due bambine: Laura di sette anni e Sara di tre. Severino Colombo altrettanto: Anita di sei e Zeno di tre. Il primo è scrittore, il secondo giornalista. Hanno scoperto, oltre alla scrittura, di avere molte cose in comune: sono vicini di casa e sono due padri che ogni mattina portano i figli alle stesse scuole, elementare e materna. Questo libro parla in maniera agile e scanzonata delle loro vite da Pa3, che sta per Padri Autonomi di terza generazione o anche Padri al cubo, che è la definizione scelta dai due autori per raccontare i nuovi papà di oggi.
    Il racconto inizia con una gara un po’ speciale: i due papà spingono i passeggini con sopra i due piccoli allacciati stretti, e si sfidano nell’aria fredda dell’autunno milanese a chi arriva prima all’asilo. Ridono come matti, corrono a perdifiato tra lo sdegno delle madri che li vedono arrivare di corsa, come due incoscienti al traguardo del cancello della materna. La narrazione delle peripezie del babbo odierno continua, il tono è ironico ma la descrizione veritiera, troviamo simpatiche annotazioni, pagine di diario comiche, approfondimenti sulle tipologie paterne (dal papà spartano, a quello trendy, a quello marpione), e attraversiamo così tutte le fasi della crescita dei figli: gravidanza, neonatalità, prima infanzia, età scolare. Biondillo si sofferma su un ricordo che dà il senso a tutto il libro. Racconta di quel signore in pensione con la figlia già grande e già lontana al quale, quando faceva l’architetto, aveva ristrutturato la casa. Gli disse: “Si goda sua figlia. Il lavoro non è poi così importante…”. E lui quel consiglio l’ha seguito, ne ha fatto un mantra. E’ diventato uno di questi nuovi papà che fanno i mestieri di casa, hanno mogli che lavorano e che quindi “il primo che arriva prepara per l’altro”, litigano spesso con la lavatrice e con le geometrie imperfette del rifare un letto, ovviamente cambiano i pannolini (esilarante l’elenco delle venti possibili “cacche” del pupo!). Questi Padri al cubo non se la tirano, sanno di essere imperfetti e in evoluzione, non vogliono sostituirsi alle madri contemporanee né essere confusi con il “mammo”, sicuramente però le loro vite ruotano intorno a quelle dei figli. Mentre i professionisti in carriera non possono perdere tempo per quelle “futilità”, mentre scrittori e artisti i figli proprio non li fanno più, i due simpatici papà autori di questo libro provano gusto a cantare le ninne nanne la sera, faticano a fare la spesa e ad accompagnere i figli a nuoto, a scuola e dai dottori, ma sono fieri del loro nuovo ruolo, duro, ma essenziale. Loro ci sono, e la presenza è già di per sé il valore aggiunto rispetto alle vecchie generazioni. Da non perdere la descrizione del “Tranquillo weekend di paura”, ovvero il periodo in cui la madre si deve assentare all’improvviso per motivi urgenti e il papà, anche se è un “genitore al cubo”, si ritrova inghiottito nel caos tra supermercato, pulizie, letti, corse in piscina, appuntamento con la pizzeria come d’abitudine al sabato, perché “i figli ci tengono alle tradizioni”: al primo bancomat guasto c’è il rischio di tracollare, al secondo c’è fila allo sportello e le due bambine iniziano a fare le scalmanate… “è questa la paternità, bellezza!”, sembrano dirci i due autori tra il serio e lo scanzonato, in queste descrizioni ironiche di un nuovo modo di essere padri, oggi. Sono spassose anche le descrizioni delle notti: “ho dormito in una posizione assurda, tutta la notte, con i suoi piedi sulle reni. C’è in lei una predisposizione alle diagonali…dorme sempre di traverso”, e da lì il racconto prosegue con una mattinata tra proposte di gite domenicali fuori porta destinate a fallire, cartoni animati e pile di piatti che intasano il lavabo.
    Un libro divertente, nel quale chi ha figli non farà fatica a immedesimarsi, destinato a far sorridere tutti, mamme comprese. In Appendice, il test per scoprire se sei un vero Pa3 (o se millanti), il cruciverba e il glossario minimo ma indispensabile del papà autonomo.

  222. Attendo con grande piacere le pagine dei libri di Biondillo e di Binaghi.Intanto un abbraccio alla dolce e bravissima Simona,mi è piaciuta tanto la descrizione del rapporto con la pancia e il suo pesciolino.Peccato che Massimo ha già fatto il post su madre e figlia,però a pensarci bene mancherebbe quello su madre e figlio maschio….. 🙂
    Ho amato anch’io visceralmente i miei pancioni,per il secondo appoggiavo dolcemente la testa di mia figlia e le dicevo di ascoltare e di parlare perchè così il fratellino o la sorellina quando sarebbe uscito come prima cosa avrebbe riconosciuto la sua voce e non avrebbe avuto paura di essere fra “estranei”.Con mio figlio,tipo di poche parole,quando era agitato,lo abbracciavo forte,restando muti,dondolandoci come rami dello stesso albero fino a quando sentivo con il mio cuore sul suo che il vento forte si era calmato.E i padri in questione che “tecnica” usano per rassicurare i figli?
    un abbraccio a tutti

  223. Ma potremmo organizzare una discussione anche sul rapporto madri-figli (maschi)… perché no.
    Insomma, tutte le combinazioni possibili qui su Letteratitudine 🙂

  224. Nei prossimi giorni avremo modo di approfondire la conoscenza dei libri di Franz Krauspenhaar e Raul Montanari.
    Franz è in partenza per il Salone del libro di Torino e vi saluta (ma tornerò presto qui), Raul rientrerà in sede la settimana prossima (magarigli chiederò di rifare un salto da queste parti).

  225. Vi proporrò anche l’intervista radiofonica di Fahrenheit a Raul Montanari… però vorrei farvi sentire le voci anche degli altri quattro scrittori/ospiti coinvolti in questo post.
    Dunque ho deciso di invitare Valter Binaghi, Vito Bruno, Franz Krauspenhaar e Amedeo Romeo alla puntata di Letteratitudine in Fm di venerdì 21 maggio.
    Domani, invece, (se volete) potrete ascoltare in trasmissione Gian Paolo Serino e Alfredo Colitto
    Per informazioni: http://www.radiohinterland.com/?q=node/5474

    Per ascoltare in streaming potete cliccare qui: http://www.radiohinterland.com/streaming/radiolimpia.asx
    .

  226. Grazie Simona. Se fossi il mio personaggio, dopo il tuo racconto invidierei ancora di più le donne per quell’esperienza che io non potrò mai provare. Siccome non lo sono, e ho due figli, di cui la più grande ha l’età del tuo e il più piccolo l’età di quello di Vito, mi godo quello che ho: la possibilità di prendermi cura di loro, fuori dal ventre.
    Francesca chiede come questi padri rassicurano i figli. Io come lei, abbracciandoli.

  227. Ringraziando ancora una volta Massimo per lo spazio che offre al mio romanzo, ve ne propongo l’incipit:

    *********************************************************

    Leonetti è in piedi dietro di lui. L’uomo è seduto al tavolo: i palmi appoggiati, la schiena eretta, quasi una posizione da meditante. È tranquillo, Leonetti lo capisce dal ritmo regolare del respiro che gli solleva lievemente le spalle. Glielo domanderà restando così, senza guardarlo negli occhi, perché sia turbato il meno possibile. Lo sguardo diretto imbarazza sempre e predispone al mascheramento, che è l’anticamera della menzogna.
    «Perché l’ha fatto?».
    L’altro non svela il minimo sussulto. Del resto la domanda era attesa: non ci sono per questo, i poliziotti? Attende qualche istante prima di parlare, e Leonetti si chiede cosa stia fissando con quello sguardo immobile, se la maniglia della finestra (uno di quei pomelli girevoli di metallo più rustici che antiquati) o quello che c’è fuori, una porzione di cielo stinto come le lenzuola del carcere.
    «Vede commissario», dice, «stamattina sono sceso al bar per un caffè (casa mia ormai è come quella dei terremotati, non c’è una tazzina che non sia rotta o lurida) e una volta giù mi sono accorto che non avevo il portafoglio». L’uomo ha una bella voce, il tono affabile, privo d’inflessioni, l’espressione impostata senza risultare contraffatta, come di uno per cui parlare in pubblico è un talento naturale più che una professione. «Lei penserà: risali in casa e prendi i soldi, no? Tanto più che abiti nello stesso isolato. E invece no. Mi sono detto: rimani, e vedrai che nel giro di mezz’ora qualcuno verrà a offrirtelo. Perché è così che va la vita, se la lasciamo andare. La sete e l’acqua sono fatte l’una per l’altra, e s’incontrerebbero da sole se il Diavolo non ci mettesse lo zampino».
    «E com’è finita?».
    «È arrivato Provasi, quello delle pompe funebri. E mi ha offerto caffè e cornetto, senza nemmeno che dovessi chiederglielo».
    «Bene», dice Leonetti, senza muoversi da dietro. Quell’uomo gli fa pena: sembra vecchio di una sapienza infinita eppure ignaro come un bambino. Vorrebbe mettergli le mani sulle spalle, trattarlo da amico, rassicurarlo. Fargli capire che non è obbligato a inventarsi stronzate. Il delitto è chiaro, lui è reo confesso, si tratta solo di ricostruire il movente.
    «Però non capisco il nesso», aggiunge.
    Finalmente l’uomo si scuote dalla sua immobilità. Muove il capo, annuisce.
    «Una volta il mondo non era fatto di cose, ma di parole. Gli antichi ascoltavano il vento, guardavano le figure nel volo degli uccelli, ed erano parole di Dio. È perché avevano il cuore puro. Dopo, tutto si è confuso, le cose hanno smesso di parlare e gli uomini hanno cominciato a misurarle. Ma qualcosa è rimasto. Ognuno ha diritto al suo angelo».
    «Cosa vuol dire?».
    «Un angelo. La pagina che Dio gli ha affidato per leggervi il proprio nome segreto, quello che solo Dio conosce, e per scrivervi la propria preghiera, l’unica che sarà esaudita. Mi creda commissario. Ognuno ha il proprio angelo in questo mondo, purché sappia riconoscerlo. Ma il mondo è diventato un casino, la gente anziché incontrarsi sbatte contro i muri come fosse ubriaca. Perché c’è chi spaccia veleni, sa? Droghe che creano allucinazioni, specchi deformanti che ci fanno inorridire di noi stessi e fuggire la verità».
    «Ma che c’entra con ciò che ha fatto oggi?».
    «Al bar c’erano due ragazzi, lei a un tavolo, lui a un altro. Ho visto la luce che avevano intorno, era la stessa, lo stesso colore rosato, la stessa vibrazione, capisce? Ma lei era curva su un libro con l’iPod nelle orecchie, lui guardava dappertutto tranne che da quella parte, poi si è messo a fare l’occhietto alla cameriera, una brunetta con le tettine a punta, alla fine l’hanno chiamato al cellulare, ha pagato e se n’è andato. Quei due venivano dallo stesso pianeta, erano naufraghi della stessa nave, se si fossero incontrati sarebbero stati la salvezza l’uno per l’altro. Ma non è andata così».
    «Dunque?».
    «Ho pensato a me e Margherita. Noi ci siamo riconosciuti, ma poi qualcosa ha spezzato il cerchio, e adesso la mia vita è finita. Per me non c’è rimedio, ma altri hanno ancora speranza, come quei due ragazzi. Domattina, al bar, forse sapranno incontrarsi. Ma bisogna togliere i veleni dal mondo, tutta la musica cattiva, quella che confonde le anime, e anch’io devo fare la mia parte. Ucciderò Mefisto, ho pensato, e questo è quanto».

    Leonetti fa il giro del tavolo e gli si mette di fronte. La sua sagoma squadrata da montanaro si staglia tra l’omicida e la finestra proiettando un’ombra larga che lo avvolge interamente. L’altro, sui quaranta, si potrebbe definire un bell’uomo: fisico asciutto e longilineo, occhi chiari, capigliatura biondo cenere, folta. Tranne il colorito forse, un po’ troppo pallido, e le labbra pronunciate, tumide, gli danno un che di femmineo.
    «Quando dice Mefisto intende il dottor Giacomo Collinaro, che lei ha ucciso questo pomeriggio intorno alle cinque, con un colpo di pistola in faccia».
    «Esatto», conferma l’uomo, senza abbassare gli occhi limpidi.
    Leonetti sospira appena, sforzandosi di non apparire spazientito.
    Quest’uomo è pazzo, l’aveva avvertito l’ispettore Brivio, che ha provveduto all’arresto: «Vedesse in che stato è l’abitazione. E in macchina, poi, non ha fatto che delirare. Chiamava il suo custode: l’airone. L’airone, capisce? Un uccello. Poi parlava di Faust, e Margherita, e Mefistofele: ma non sono i personaggi di un film?».
    Non è proprio un film, voleva dirgli Leonetti, ma poi ha evitato: non gli piace far sentire ignoranti i sottoposti e del resto nemmeno lui conosce il Faust di Goethe se non per la trama, che tutti quanti bene o male conoscono. Una cosa è certa: l’uomo si chiama in effetti Fausto Blangé, e già in macchina con Brivio ha confessato di essere autore dell’omicidio di Collinaro. Solo che lo chiama Mefisto. È pazzo? Leonetti ne ha viste troppe per non sapere che in questi casi molti si fingono tali, per ottenere la seminfermità mentale e schivare l’ergastolo, ma qualcosa gli dice che quest’uomo è incapace di una finzione strategica. Non ha nemmeno chiesto la presenza dell’avvocato all’interrogatorio.
    «Sappiamo che Collinaro è stato il suo psicanalista negli ultimi tre anni. Abbiamo trovato nel suo schedario registrazioni di fatture intestate a lei per una bella cifra. L’ultima risale a due mesi fa. Mi può spiegare come mai i vostri rapporti si sono guastati al punto tale da spingerla a ucciderlo?».
    L’uomo lo guarda sorridendo, con simpatia. Poi scuote la testa.
    «No», dice. «Sono stanco adesso. Mi riporti in cella. Devo sognare l’airone».

  228. @ Lucia Messina
    La ringrazio della benevola attenzione.
    @ Francesca Giulia
    Ti ringrazio nuovamente, di cuore.
    @ Simona
    Da te ho sempre qualcosa da imparare o su cui riflettere.

    — Ne approfitto per rivolgere la mia gratitudine anche alle altre persone che mi hanno sostenuto o mi hanno dato interessanti spunti letterari, specie gli scrittori intervenuti finora. A. B.

    ———————

    Massimo, ho prima esposto sinteticamente la cosiddetta teoria dell’attaccamento. Ma vorrei aggiungere – al riguardo – qualche altra informazione, facendo notare come l’attaccamento sia mediato da diversi tipi di comportamento, raggruppabili in due classi:
    a) comportamento di segnalazione: i segnali sociali con cui il bimbo cerca di ottenere la vicinanza della madre sono il pianto, il sorriso e la lallazione (termine medico che indica una sorta di balbettio).
    Nel primissimo periodo di vita del bimbo, nessuno di questi segnali è corretto secondo lo scopo e il partner può rispondervi o no. Se non c’è risposta, possono seguire comportamenti nuovi: il pianto può continuare per lungo tempo, mentre il sorriso – ad esempio – non prosegue in modo indefinito e può capitare che venga sostituito dal pianto.
    b) comportamento di accostamento: le azioni del bimbo si legano all’avvicinarsi, all’aggrapparsi e alla suzione.
    Appena il bimbo è in grado di muoversi, tende ad avvicinarsi alla madre e a seguirla. Verso i nove mesi, con lo sviluppo dell’apparato conoscitivo, il bimbo è in grado non soltanto di raggiungere la madre quando la vede, ma può anche cercarla in luoghi che gli sono familiari.
    Per quanto concerne l’azione di aggrapparsi, il piccolo essere umano è meno abile dei primati, ma già dalla nascita è nelle condizioni di farlo. Questo comportamento si riscontra quando il bimbo è sottoposto a bruschi cambiamenti di posizione o quando è allarmato.
    Anche la suzione alimentare, di solito rivolta verso il pollice o il succhiotto, è finalizzata a ottenere tranquillità e conforto o sollievo specie quando il bimbo è agitato o allarmato.
    A presto.

  229. Tutti sono “bravi” nel dare consigli.
    Ma, dato che stiamo assistendo a una rivalutazione del ruolo dei papà nella formazione e nell’accudimento dei bimbi, sentiamo cosa propone (consiglia) – ai papà – la psicologa clinica Elena Caraccio, peraltro studiosa della teoria dell’attaccamento.
    Secondo la psicologa clinica, nel rapporto padri-figli bisognerebbe che i padri dedicassero ogni giorno ai propri bimbi un’attenzione configurabile nei giochi, nelle letture, nelle passeggiate…
    Non bisognerebbe, poi, che lesinassero gesti di affetto: i bimbi hanno necessità del contatto fisico, perché dà sicurezza e serenità. Guai, però, all’invadenza: le coccole e i baci vanno dati quando il bimbo li richiede.
    Utilissimo sarebbe che i papà parlassero ai bimbi delle paure, ansie e azioni sperimentate dai bimbi medesimi, ascoltandoli attentamente su quanto manifestano anche con i gesti, oltre che con le parole.
    Se i papà sono separati, non dovrebbero mai sparlare del coniuge di fronte ai figli.
    Indispensabile per i papà, infine, è concordare con il coniuge le regole di condotta da far rispettare: i comportamenti opposti confondono i figli e sminuiscono l’autorità del genitore smentito dalla condotta opposta del partner; così come è indispensabile che i papà si rendano conto che il tempo passato lontano dai bimbi molto difficilmente verrà colmato o recuperato nei tempi successivi.
    Buona giornata.

  230. Buongiorno a tutti.
    Devo un grazie a Francesca (e non è il primo), a Simona (quello che è dici è pari alla bellezza della tua prosa), a Valter (anch’io ti seguo da tempo, non solo lbri, certi post del tuo blog li faccio e li sento miei), a Massimo per l’opportunità che mi ha dato e per la radio next week.. thank you……….

  231. Buona giornata a tutti!
    Bellissime e intense le parole di Valter Binaghi, del quale amo la capacità d’affondo nell’oscuro che c’è in noi, la forza – tutta narrativa – di disotterrarlo, di seguirlo nell’arrotolarsi delle sue spire.
    Caro Valter, che confine c’è, in questa sua ultima fatica, tra amore e follia? Tra desiderio e morte?
    —-
    @ Gianni Biondillo: trovo interessantissimo che uno scrittore di gialli approdi alla narrazione emotiva, ma non mi stupisce. Il giallo è un modo (e tra i più alti) di narrare la tensione emotiva (e le sue escalation) e , quindi, di trapassare la realtà di ogni uomo. Non a caso niente come il giallo dissacra l’idea del bene e del male come concetti separati, insinuando invece che la loro coesistenza è già in noi, e può fatalmente sovrapporsi.
    In questo libro, però, mi pare di percepire che – a differenza dei tradizionali gialli – non ci sia un colpevole, ma che tutti (anche chi ha una responsabilità nella separazione) siano filtrati da un occhio intriso di pietà umana. E’ così? …E nei suoi gialli, che valore ha la “pietas”?

    Infine una felicissima giornata a tutti!
    Non mi sarà possibile intervenire fino a domani, a causa di pressanti impegni lavorativi! Vi auguro quindi una serena discussione!
    Tornerò con piacere a rileggervi!

  232. Vito grazie a te,ho letto con grande interesse tutte le cose che hai scritto,terrò con me tante delle informazioni e dei pensieri che avete tutti espresso su questo post delicato e fondamentale.Si sono incrociate esperienze di vita e competenze come dovrebbe essere sempre per far arrivare le parole alla gente e non parlarsi addosso come molti accademici fanno e molti cosiddetti”intellettuali”.Sono grata a tutti e a tutti i contributi.
    per collegarmi a quanto detto anche da Ausilio,bravissimo e precisissimo nelle sue esposizioni,vi inserisco una poesia che ha ispirato un libro meraviglioso- che molti di voi conosceranno- e che ha accompagnato tutto il tempo magico della mia prima gravidanza:I bambini imparano quello che vivono di Dorothy Law Nolte.E’ un libro semplice con grandi verità e andrebbe letto anche da quelli che pensano di non diventare genitori,ma che da adulti si presume abbiamo sempre la responsabilità di mostrare il giusto con le loro azioni e non solo con le parole,perchè tutti i bambini ci guardano.
    ———–
    I bambini imparano quello che vivono
    Se i bambini vivono con le critiche, imparano a condannare
    Se i bambini vivono con l’ostilità, imparano a combattere Se i bambini vivono con la paura, imparano a essere apprensivi
    Se i bambini vivono con la pietà, imparano a commiserarsi Se i bambini vivono con il ridicolo, imparano a essere timidi
    Se i bambini vivono con la gelosia, imparano a provare invidia
    Se i bambini vivono con la vergogna, imparano a sentirsi colpevoli
    Se i bambini vivono con l’incoraggiamento, imparano a essere sicuri di sé Se i bambini vivono con la tolleranza, imparano a essere pazienti
    Se i bambini vivono con la lode, imparano ad apprezzare
    Se i bambini vivono con l’accettazione, imparano ad amare
    Se i bambini vivono con l’approvazione, imparano a piacersi
    Se i bambini vivono con il riconoscimento, imparano che è bene avere un obiettivo
    Se i bambini vivono con la condivisione, imparano a essere generosi
    Se i bambini vivono con l’onestà, imparano a essere sinceri .
    Se i bambini vivono con la correttezza, imparano cosè la giustizia.
    Se i bambini vivono con la gentilezza e la considerazione, imparano il rispetto Se i bambini vivono con la sicurezza, imparano ad avere fiducia in se stessi e nel prossimo Se i bambini vivono con la benevolenza, imparano che il mondo è un bel posto in cui vivere.
    Dorothy Law Nolte
    ————-
    Un buon giorno a tutti voi,a Simona speciale 🙂

  233. @Simona
    E’ una domanda da un milione.
    Freud ha congiunto eros e thanatos, facendone una coppia antitetica ma in qualche modo perennemente inseguentesi in una danza circolare. L’unico vero appagamento del desiderio sarebbe in prospettiva il ritorno alla quiete prenatale, l’eterno silenzio? Non lo credo, non l’ho mai creduto, anche se le esperienze giovanili con le droghe (sono stato eroinomane, tra i 19 e i 23 anni) mi avevano quasi portato in quel punto. Credo che questo accada quando è ostruita la via a una reale intimità, che è la vera promessa della nostra vita di relazione (sessualità inclusa ma non esclusiva). Il fatto è che nasciamo all’amore con la proiezione estetica del nostro immaginario sull’altro, cui segue una delusione inevitabile. Se superiamo questa fase l’amore si radica in noi come un’impegno etico, un dono consapevole e laborioso, ma non si vive di sacrificio. A liberarcene potrebbe essere l’assunzione dell’amore umano in una sfera superiore, dove ognuno è per l’altro nudità e tenerezza, ma gli occhi che lo guardano non sono più quelli della rivendicazione o del possesso, ma quelli dell’infinita misericordia di Dio per cui l’essere umano è amabile, nonostante le sue miserie. Sentirsi accolto così, e proiettato in un altrove che tramite l’amante si fa presente, è il contrario del Thanatos. E’ la certezza inspiegabile che l’amore reca con sè l’eternità, è quando ti vien da dire all’altro: ti amerò per sempre, e in questo per sempre l’eternità diventa quasi necessaria.

  234. sono sorpresa, piacevolmente sorpresa di aver scoperto questo posto. faccio mie le parole di francesca ‘terrò con me tante delle informazioni e dei pensieri che avete tutti espresso su questo post delicato e fondamentale’.

  235. ho letto anche il brano di valter binaghi. mi ha molto colpita. e anche le cose che ha detto in risposta a simona.
    grazie. è un piacere essere qui.

  236. @ Valter Binaghi
    Intanto complimenti, ho letto anch’io il bel brano.
    Volevo chiederle se secondo lei la ricerca del successo contiene sempre in sé elementi destabilizzanti per chi la persegue.
    E’ questo quello che capita al protagonista del suo libro?
    E uccidere Mefistofele può equivalere a uccidere, a eliminare, una parte “tarata” della propria coscienza critica?
    Grazie.

  237. Caro Valter,aspettando Simona….Bellissime parole sull’amore sulle tue,l’amore,ne sono profondamnete convinta,porta in sè l’eternità.
    il mito antico di Adone racconta che questo innamorato di Afrodite,fu ucciso per gelosia folle da Ares- alcune versioni portano ucciso da un cinghiale feroce- dal suo sangue sgorgagorono splendide rose rosse,anche per desiderio espresso da Afrodite. Da ciò,pare sia scaturito il simbolo della rosa rossa come simbolo di amore eterno,di immortalità,ma soprattutto di quel sentimento amoroso che a tutto sopravvive.Si ritrova la rosa come simbolo d’amore in tanti miti raccontati a venire,dai Romani a storie legate al cristianesimo.Al di là di ciò,l’amore quando ha capacità di suoerare se stesso,diventa il soffio di vita che gratuitamente nutre la vita stessa di un significato che la trascende.Non è mai disgiunto dalla bellezza,ma non quella visibile all’occhio esterno,l’amore è la bellezza dell’occhio di chi ama,non è possibile che amando veda diversamente.
    Aspetto qualche pagina del tuo libro,Valter.

  238. Valter: forse è proprio l’amore l’angelo che manca al protagonista della tua storia e di cui tutti avremmo diritto?

  239. Francesca Giulia, Valter Binaghi ha già messo un pagina del libro nel post delle ore 12:06. Lo hai letto? A me ha incuriosito molto.

  240. Valter:oltre ad un richiamo all’amore e alla trama che intreccia le motivazioni personali del personaggio a quelle universali di una mancanza di certi valori,esiste anche nel tuo libro una forma di denuncia per l’indifferenza sociale in cui si muovono gli individui,dalla più piccola forma di gentilezza che viene a mancare nella vita di tutti i giorni all’assenza di valori nell’ambiente circostante?Perchè un uomo che apparentemenete non pare un folle spinto ad un gesto omicida come tanti arriva al gesto estremo senza che nessuno se ne accorga in tempo?E forse si rifugia nel sogno di un airone perchè la realtà è fredda e distaccata,e nessuno sa più ascoltare la vita.

  241. Cara Amelia,sì,grazie sono tornata indietro e ho riletto con grande attenzione.

  242. @Valter Binaghi
    L’affermazione “Ognuno ha il proprio angelo in questo mondo, purché sappia riconoscerlo” contenuta nel brano trascritto da lei (da te) un po’ più sopra, mi spinge a chiederle se la figura dell’angelo sia anch’essa un mito cui aggrapparsi per acquisire sicurezza e protezione “in questa valle di lacrime” (come recita la preghiera) o – invece – una presenza reale, palpabile.
    Ho anch’io il mio angelo protettivo, e lo invoco di continuo, da sempre, benché la formazione scientifica mi solleciti in un certo qual senso a “ricusarlo”. Ma se non avessi quest’angelo o se non percepissi la sua presenza, cadrei forse nella disperazione.
    Eh già, l’importanza di un credo, o di un mito, o dell’evocazione letteraria sono essenziali nel tirare a vivere. Non crede?
    E per lei (per te) chi è e come si manifesta quest’angelo?
    Un saluto forte.

  243. Tantissime domande, provo a rispondere a tutti.

    @Amelia
    Credo che un uomo sano dovrebbe cercare innanzitutto e per lo più la qualità dell’opera, perchè solo in essa c’è autentica elevazione spirituale. Ma l’uomo sano è il santo, e noi siamo tutti peccatori. Feriti dall’origine, a causa dell’amore imperfetto che non ci ha saputo accogliere, e per tutta la vita cerchiamo di compensare. Come se avessimo in cuore un buco che c’impedisce di essere sazi: e che cos’è il successo se non l’amore duraturo e perfetto, mitizzato dalla ferita narcisistica? Credo che il successo faccia molto male quando è cercato di per sè, mentre la cura dell’opera è scuola di oggettività, quindi di libertà. Ma mentre lo scrivo, so quanto è difficile continuare a scrivere ed esibirsi senza essere ossessionati dal plauso altrui.

    @Francesca Giulia
    Si, nelle svolgimento del romanzo diventa chiaro che l’angelo di cui parla Fausto è l’amore vero, quello cui ognuno avrebbe diritto in questo mondo e che dovrebbe incontrare se sapesse riconoscerlo e rinunciare ad ogni altra seduzione per quello, come il mercante di cui parla il Vangelo, che vende ogni altra ricchezza per l’unica perla veramente preziosa.

    @Ausilio
    Quello di cui tu parli, nel libro è impersonato dall’airone. Una sorta di immagine ricorrente, uno spirito-guida (di derivazione un po’ sciamanica, lo ammetto) cui Fausto ha affidato fin dalla giovinezza il ruolo di custode della propria interiorità. E’ un elemento importante nella storia e, se può interessare, è anche l’aspetto più autobiografico. Trent’anni fa, quando la mia vita doveva svoltare o finire, io sognai ripetutamente l’airone, mi ritrovai a disegnarlo dovunque e infine a seguire quelle che mi parvero le sue indicazioni. Così, sono ancora qui che vi parlo. Se cercate in un Bestiario medioevale i significati simbolici associati a questo uccello, scoprirete cose interessanti (che comunque ho messo nel libro)

  244. NESSUNA POLEMICA IN VISTA.
    Ho capito Massimo e ti ringrazio per avermi risposto privatamente, ma c’è una parte del nostro scambio al quale vorrei che anche gli altri partecipassero, focalizzata l’attenzione non più sul “pater familias” ma su un “Padre” che appoggia il suo sguardo sulla Società, e questo lo scrivo come colei che conferma le parole di Antoni Tàpies e cioè:” tornare continuamente a considerare la funzione dell’arte nella società”. O comunque di ciò che contribuisce alla formazione del pensiero.
    La sottoscritta quotidianamente ha a che fare con le masse giovanili, mi accorgo di come scimmiottano il grande fratello, x factor, Morgan il mito, la promiscuità, vedessi quanti Marco Mengoni vedo giornalmente e quante volte sento quel “ragazziiiiiii” pronunciato alla Alessia Marcuzzi, un voierismo
    esasperato, il gossip, le minchiate utopistiche di eserciti in jeans e
    scarpe da ginnastica senza padri e senza madri, alla mattina con
    lavori part time, alla sera dark lady in una Catania trasgressiva
    omologata al resto della nazione, dove gli stessi eserciti procedono
    nel futuro senza una meta.
    C’è che ti aspetti per loro altri esempi comportamentali da parte dei miti televisivi, dei governanti, per carità ci mancavano gli orrori di certe tonache, insomma da parte di quelli che dovrebbero essere “le guide”, visto che spesso neppure le famiglie hanno provveduto, avendoli abbandonati nell’incertezza e nella fragilità, sono figli privi di un futuro reale
    perchè nessuno si e responsabilizzato veramente sul loro avvenire.
    Inoltre ogni trasgressione non è più tale: primo perchè le fanno quelli
    ” importanti”, secondo perchè è normale, neppure “il male di vivere” è
    riconosciuto, in barba alla psiconanalisi che non ha più niente da
    curare, scienza del cavolo, può darsi, però sull’importanza educatiiva
    delle figure genitoriali gli strizzacervelli hanno lavorato parecchio.
    Delle cause che hanno generato i malesseri non importa più a nessuno,
    ognuno si cura a modo suo, tanto chi se ne frega, lo fanno tutti compreso il presidente del pelo, a questo punto sarebbe molto meglio che Jimmi Hendrix sostituisse Padre Pio. E’ una questione di coerenza.
    Di paternità nei confronti della società.
    E sono contenta che anche Massimo Maugeri si impegni in questa direzione.

  245. sono d’accordo con quello che scrive rossella. anch’io sono a contatto con i giovanni per via dell’associazione che coordino e condivido le stesse preoccupazioni. nel nostro piccolo cerchiamo di stimolarli a interessarsi ad altro, che non sia solo la tv coi suoi falsi miti. in tal senso anche un percorso di educazione alle letture è utilissimo. per questo trovo molto valido ciò che si propone questo sito.

  246. Simona, la verità è che io non so risponderti. Ho pubblicato nella mia vita 12 volumi. Di questi solo 3 sono (fra virgolette) gialli. Anche solo numericamente io non sono un giallista in senso stretto. Io racconto l’umano, tutto qui.

  247. Ciao Gianni Biondillo, non ho letto tutti i tuoi libri ma tra quelli cho letto “nel nome del padre” mi pare uno dei migliori. complimenti

  248. Carissimo Gianni Biondillo,

    so che è un bravissimo architetto! Non crede che l’architettura abbia molto in comune con la scrittura? Non solo perchè il romanzo è capacità di struttura, ma anche perchè l’architettura è, prima di tutto , progetto.
    La sua professione ispira l’arte narrativa?

  249. Caro Valter Binaghi…nel suo caso, invece, il confronto con la musica è inevitabile…La scrittura è infatti anche capacità di andare “a orecchio” non crede? Le capita di seguire assonanze durante la stesura della prosa?

  250. @ Rossella
    Grazie Rossella, come ho avuto modo di dirti privatamente credo che ciascuno di noi (nel proprio piccolo) abbia la possibilità di fornire ai ragazzi modelli alternativi a quelli “imposti” dai media. Lo diceva, qui sopra, pure Lucia Messina e so che la pensi così anche tu.
    In tal senso possiamo tutti essere “padri”.
    Per quanto mi riguarda mi capita di parlare molto con i giovani, anche nelle scuole (quando mi invitano)… raccontando l’esperienza di Letteratitudine, cercando di spiegare loro perché – secondo me – è importante (e piacevole) leggere.

  251. Ancora a Gianni Biondillo…
    trovo struggente che l’inizio dell’azione narrativa nel suo romanzo coincida con Natale…credo che sia una delle feste più tristi perchè impone una gioia diffusa, generale, che spesso spezza chi vive un dolore.
    E’ un incipit simbolico in questo senso?…E sarebbe possibile leggere qualcosa?

  252. E ora…una buona notte gioiosa… 🙂 Grazie infinite a chi vorrà rispondermi e un affettuoso saluto alla dolcissima Francesca Giulia

  253. E sempre in riferimento a Gianni, vi segnalo il suo nuovo libro scritto a quattro mani con Michele Monina (che saluto).
    Si intitola: “Tangenziali. Due viandanti ai bordi della città” (Guanda, 2010)
    http://www.ibs.it/code/9788860884503/biondillo-gianni/tangenziali-due-viandanti.html

    Milano sta cambiando. Archiviata dolorosamente quella “da bere”, del rampantismo anni Ottanta, la città si sta trasformando da capitale della moda e della finanza a moderna metropoli multietnica che ambisce a un ruolo sempre più centrale nella cultura europea e occidentale. Presa coscienza che esistono molti modi per conoscere una città, e molti modi per raccontarla, Gianni Biondillo e Michele Monina, il primo scrittore fortemente attaccato alla sua città, e il secondo, milanese d’adozione, da sempre appassionato di psicogeografia, decidono di mettere da parte lo spirito del flâneur e per una volta di intraprendere un viaggio programmatico da fare insieme: un giro intorno alla città dove l’uno è nato e l’altro è arrivato una decina d’anni fa e che ancora non sono riusciti a decodificare. Seguendo il margine della tangenziale di Milano, i due scrittori cercano di tracciare una mappa della città a partire dai suoi contorni. I viandanti della tangenziale mette in scena luoghi, personaggi, aneddoti, storie, traiettorie sghembe, percorsi d’acqua, cantieri in corso, polaroid di periferie, suggestioni psicogeografiche, appunti di fisiognomica cittadina, materiali vari raccolti durante i lunghi tragitti, fatti rigorosamente a piedi.

  254. Scusate la mia latitanza di ieri e di domani: scrivo dal computer di scuola perchè a casa mia è saltato l’ADSL

    @Gioia
    La musica importa, e soprattutto ho imparato dalla “leggibilità” del testo in pubblico (faccio molti reading, accompagnato da musicisti) e mi sono ritrovato sempre più a scrivere pensando a come “suonano” certe pagine a voce alta: restituire al testo il suo carattere di narrazione orale è una delle cose che mi propongo, in effetti, nei miei spettacoli.

    L’airone non è solo simbolo d’aria. Secondo una tradizione medioevale, nidifica una sola volta nella vita, è simbolo di fedeltà. Secondo un’altra tiene una pietra nel becco: è il silenzio che custodisce la parola.

  255. Caro Massi…al volissimo (prima di approdare alla Corte d’appello di Catania)…sì, ieri – tra un impegno e l’altro – ho partecipato ad un incontro di studi sul tma della legalità, in una scuola “a rischio”. Si tratta di un istituto con forte presenza tra gli alunni di appartenenti a famiglie malavitose.
    Parlare di Mafia e legalità era quindi una grande sfida.
    E però. I libri mi hanno aiutata.
    Ho portato con me “La mafia spiegata ai miei figli” di Silvana La Spina, che è un testo illuminante per parlare ai giovani non solo delle origini storiche della mafia e di tanti atteggiamenti ai limiti dell’illegalità, ma soprattutto di quel vischioso conformarsi di cui parlava Rossella a tutti i livelli.
    Ho visto che vero è che i ragazzi attingono ai modelli televisivi, ma lo fanno perchè hanno paura, perchè sono disorientati e stanchi, perchè le maschere sono sempre state, per l’uomo, la cosa più comoda da indossare quando si decide non di fare “gruppo” ma di fare “branco”.
    E riconoscersi, attraverso codici, segnali, gesti e abiti, rassicura.
    Ma vero è anche che sorpendentemente questi ragazzi non hanno sedato, se stimolati improvvisamente a un brusco cambio di rotta, una forte curiosità per il mondo degli adulti e per i misteri di quell’essere grandi che sanno solo scimmiottare e farsi piacere, ma del quale ignorano le difficoltà e i sogni.
    E così è andata. Mani alzate a chiedere, domande fiume, il libro fotocopiato nelle parti più salienti e persino un paio di alunne che si sono informate per sapere come si fa a diventare magistrato.
    Spero che passato l’entusiasmo di una giornata diversa, con i libri oltre che con le istituzioni (ero in compagnia del comandante dei Carabinieri, della polizia di Stato e della finanza), questi ragazzi coltivino una scintilla nel proprio cuore e possano ricordare una delle domande più “provocatorie” e belle che mi siano mai state fatte ad un incontro pubblico(da parte di un ragazzo “a rischio”):
    “Dottoressa, ma davvero crede che un giudice possa sconfiggere la mafia con un libro?”
    “Con un libro letto da tutti. In molti lo hanno già fatto”.

  256. ..Penso allora che anche un libro possa assumere una forte connotazione di paternità, se ci cambia. E che siamo “figli”, quando ci lasciamo, a nostra volta, cambiare da un libro.
    Buona giornata a tutti!

  257. Una piccola riflessione personale rivolta a tutti, ma soprattutto a coloro che sono stati ventenni tra gli anni Sessanta e Settanta, e in quei decenni hanno partecipato ai movimenti che volevano “cambiare il mondo” (io ero ventenne negli anni Settanta e ho partecipato a quei movimenti). Mi piacerebbe leggere (anche) cosa ne pensano i padri scrittori, o gli scrittori di libri sui padri, che partecipano a questa discussione.


    Brevissima premessa teorica. Vi è un’ampia letteratura relativa al “padre assente” degli ultimi decenni. Ed inoltre, considero molto importanti le riflessioni sul ruolo maschile nella seconda metà del Novecento che si trovano negli scritti e nel lavoro di Robert Bly. Fine della premessa.
    Mi sembra che, ad osservare certe esperienze disastrose di alcuni miei amici, la difficoltà a dire no e sì ai propri figli in modo equilibrato (con una scarsità di no – comunicati, inoltre, con imprecisione) sia derivata da una specie di senso di colpa (in realtà si tratta, a mio parere, di una esperienza passata non ben elaborata e non vissuta più nel presente con maggiore comprensione). Ha a che fare probabilmente con l’equivoco legato ad una riflessione del padre più o meno del seguente tipo: “Cercavo anch’io di combattere i divieti, e quel ‘vietato vietare’ del mio passato era uno dei miei modelli. Perchè dovrei dire no adesso a mio figlio?”
    Un equivoco da cui scaturiscono molti e gravi problemi; in primo luogo: l’incapacità del figlio di sentire una realtà “reale”, data dall’avvicendarsi del giorno e della notte, del sì e no, del positivo e negativo, compreso in una accezione priva di moralismo – semplicemente due aspetti complementari della stessa realtà. E poi, la difficoltà di esprimere il no rende evanescente la figura del padre, non vi è cioè un Padre riconoscibile, una Legge incarnata, un Territorio. Al figlio è preclusa così un’esperienza fondamentale d’iniziazione: la lotta contro il Padre, per la conquista d’una propria esistenza autonoma, e l’abbandono per protesta d’un territorio. Combattere cioè il Padre, per poterlo riconoscere poi da adulto come uomo, con gratitudine. Ma il Padre, per le generazioni che oggi hanno venti-trent’anni, spesso non è mai esistito, ridotto a parvenza spaventata del proprio ruolo – un ridicolo fantasma sfuggente o nel migliore dei casi un essere senza scheletro, un mollusco.

  258. caro Gaetano,quand’ero ragazzo più o meno nei tuoi anni credo, c’era una battuta – che poi tanto battuta non era – messa nella bocca dei padri che si rivolgevano ai figli: ” e ricordati che quando parli con me devi stare zitto.”
    Insomma, quella era l’aria che si respirava nelle case di allora.
    Poi i figli sono diventati padri, si sono ricordati della loro adolescenza, hanno cambiato atteggiamento, sono diventati amici dei figli e il risultato qual’è? che i figli sono diventati degli sbandati e i padri dei molluschi – per usare, grosso modo, le tue parole.
    Morale? Si stava meglio quando si stava peggio!
    Ma è davvero così?
    Non so. Per natura e- e diciamo anche, per professione: quella di chi cerca di interpretare la vita attraverso la scrittura, e attraverso realtà singole e (si spera) con un significato che le trascende – diffido di certe semplificazioni, diciamo, sociologiche. Per dire: ho visto figli di medesimi genitori reagire in maniera diametralmente opposta a una stessa educazione. Ciò che andava bene per un figlio non andava bene per l’altro.
    Quindi: boh!
    Però, ragionandoci sopra, credo che entrambe le esperienze sopra delilneate (il padre autoritario, e il padre amico) abbiano un comune un elemento: l’assenza. Facile dire no, faciel dire sì, e non stare lì a motivare il sì e il no, calarli dall’altro con autorità o con leggerezza.
    Più difficile assumersi le proprie responsabilità, stare lì a confrontarsi e dire sì quando è sì, no quando è no. Insomma, presenza.
    Ciò detto, fare il padre è il lavoro più difficile del mondo, il margine d’errore non c’è, nel senso che si sbaglia sempre. E’ il modo di sbaglilare che rende tollerabile il rapporto, che alla fine forse salva padri e figli. Credo…

  259. Cara Simo, grazie per esser riuscita a trovare il tempo per intervenire ancora (in mezzo ai mille impegni).
    Sottoscrivo in pieno quanto hai scritto, amica mia.
    Credo che davvero possiamo essere “padri” dei nostri giovani proprio in questo modo propositivo: offrendo esempi e possibilità alternative (e offrendo se stessi) con umiltà, ma con convinzione.
    Gettando semi, qualcuno di essi (non tutti, certo) attecchirà alla terra fertile e darà frutto.

  260. Credo che le parole di Vito valgano come indispensabile e sempre valida premessa: “fare il padre è il lavoro più difficile del mondo, il margine d’errore non c’è, nel senso che si sbaglia sempre. E’ il modo di sbagliare che rende tollerabile il rapporto, che alla fine forse salva padri e figli”.
    Questo per dire che il “padre presente” può anche sbagliare… il padre assente, sbaglia sempre.

  261. La mia sensazione (e mi riallaccio di nuovo alla spunto di Gaetano) è che i padri della mia generazione (che è quella dei padri quarantenni, per intenderci) stiano tentando di ricomporre i pezzi per ricercare un nuovo equilibrio tra la severità esasperata dei padri del “ricordati che quando parli con me devi stare zitto” (un ossimoro quasi grottesco), e il lassismo eccessivo dei padri del “ti dico sempre di sì, amico/figlio”.
    Questa è la sensazione che ho guardandomi intorno, tra i padri che conosco.
    Non so se la condividete…

  262. Concordo pienamente con il pensiero espresso da Vito-e anche da Massimo- è vero i padri di oggi sono in una fase di transizione tutta giocata sull’equilibrio fra un’autorità che prima non si osava mettere in discussione e un rischio di “mollezza”,di cui parla Gaetano- un saluto affettuoso a te!-.Mi interesserebbe sapere dai padri quanto ritengono indispensabile nello svolgere questo ruolo serenamente l’appoggio e la presenza della donna nell’ambito della relazione padre- figlio.E in cosa secondo loro è stata mancante o assente nel passato,quanto è cambiata anche la posizione della donna nell’ambito di questo presupposto cambiamento del ruolo paterno di oggi.
    un saluto speciale,sempre alla mia Simona,presente e superdisponiblie con i suoi interventi- me li stampo Simo,così ti tengo in una cartella a parte!-.

  263. Massimo dici la verità,ti stai preparando a fare un post con “Gaia” e con “Letizia”???
    scusami se sono “Franca”.
    🙂

  264. Caro Vito, grazie della risposta. Mi hai ricordato una frase che fa parte anche della mia adolescenza: “E ricordati che quando parli con me devi stare zitto.” Ma nella mia memoria quella frase riappare ora con più autorirarismo, detta in terza persona: “Quando parla tuo padre devi stare zitto!”. E ricordo anche un mio carissimo amico che dava del voi ai suoi genitori.
    Sì, certo, anch’io facevo riferimento, implicitamente, alla “responsabilità” del padre, cioè alla capacità, all’ “abilità”, di saper dare risposta, “responso”. (ohibò!).
    E conosco bene il rischio delle generalizzazioni di cui tu parli. La definizione “Scienze Umane” è già un paradosso: impossibile contemplare la gamma infinita delle variabili comportamentali connesse all’umano, impossibile dunque categorizzare la sociologia, la psicologia, la pedagogia ecc. come Scienza. Solo determinati comportamenti della Folla (ma cos’è la folla?) e di individui appartenenti agli automatismi della folla possono essere, probabilmente, previsti ed anche dunque “creati”.
    P.S. Bella casa editrice la Elliot con la quale hai recentemente pubblicato (ho letto da poco nella Elliot il meraviglioso “Il disegnatore di alberi” di Roberto Amato). Spero di leggere presto qualche tuo libro. Buona scrittura!

  265. Caro Massimo, condivido la tua sensazione, pur conoscendo meno – per distanza generazionale – i padri più giovani. Abbracci e buon weekend!

  266. Caro Gaetano,mi permetto di aggiungere al commento tuo e d Vito,un’altra risposta tipica dei miei ricordi del raporto con il padre- per quel poco che è stato in casa con noi-.Alla domanda da parte nostra “Perchè?” seguiva sempre immancabilmente il suo “perchè no!”.Di certo una grande conquista dei padri e dei figli di oggi è l’apertura al dialogo,alla comunicazione e alla spiegazione dei motivi di una negazione di un permesso,di un rimprovero.Considero tutto ciò un elemento positivo e un passo avanti nella relazione padre-figlio,ma come mi chiedevo più sopra,spero che Ausilio Bertoli o salvo Montalbano,o altri possano aiutarmi nella comprensione,questa tendenza opposta a spiegare tutto e a razionalizzare buona parte del rapporto,può,come sostengono molti ,aver fatto perdere quella dose di istinto che guidava i rapporti affettivi?Quello che i medici chiamano “intuitive parenting”?Certe volte siamo portati davvero a ragionare troppo spingendo anche i piccoli ad un forzato ragionamento?

  267. scusate la tastiera fa i carpicci e di tanto in tanto mi salta qualche lettera…

  268. @ Gaetano Failla
    Ben ritrovato.
    Ho letto come sostieni che la definizione “Scienze umane” sia un paradosso, giacché è impossibile categorizzare la sociologia, la psicologia, la pedagogia e via dicendo.
    In effetti ciascun individuo possiede una personalità unica e irripetibile. Senonché queste “scienze” sono nate apposta per comprendere gli atteggiamenti e i comportamenti di ciascun individuo. Focalizzandone le azioni. Azioni che, secondo i teorici del funzionalismo e dello strutturalismo, racchiudono in sé essenzialmente due funzioni: una manifesta e l’altra latente. Spetta al sociologo o allo psicologo scoprire quella latente, scavando nelle pieghe dell’animo, specie nell’inconscio (subconscio).
    Non parlerò, in proposito, delle perplessità se non della ripulsa di Benedetto Croce a considerare scienze le nuove conoscenze che stavano prendendo forme e modelli attingendo dalle scienze naturali.
    Sì, bisognerebbe definirle discipline, ma la sociologia, la psicologia, l’economia poggiano – oggi – soprattutto su modelli estrapolati dalla matematica e sulle tecniche statistiche, e se i risultati cui giungono non vengono verificati, non ottengono cioè il consenso “esteso” degli studiosi, quindi non dovrebbero avere validità. Come vedi, uso appositamente il verbo dovere al condizionale.
    Ma nemmeno in astronomia, geologia, fisica e via dicendo i risultati delle ricerche sono sempre suscettibili di smentite e aggiustamenti. Si procede per tentativi ed errori, come – secondo me – procede la Natura, intesa come entità filosofica.
    Le scienze sociali e umane (sociologia, psicologia, economia) non possono fare a meno né delle scienze pure, matematica e biologia in primis, né dei loro metodi. Ma è un argomento su cui non si finirebbe mai di discutere, creando tra l’altro incomprensioni, lacerazioni, astio. Come l’avrò già creato io.
    Cordialmente, A. B.

    @ Francesca Giulia
    Concordo pienamente anch’io su quanto sostenuto da Vito, da Massimo e da altri sulla fase di transizione e sui portati dell’autoritarismo.
    Al riguardo, vorrei sottolineare come oggi stiamo vivendo un’emergenza educativa che stenta a trovare soluzioni.
    D’altronde la società si evolve in continuazione, ma oggi si evolve così rapidamente rispetto ai tempi passati che diventa addirittura difficile seguirla. Credo che ciò sia dovuto soprattutto all’espandersi della comunicazione e dell’informazione mediante i nuovi mezzi tecnologici, alle migrazioni, alle aperture delle frontiere economiche e culturali, in breve alla globalizzazione. Già, la globalizzazione. Appunto.

  269. @ Gaetano Failla
    Correzione di un termine scritto nell’intervento appena battuto.
    Ho scritto: Ma nemmeno in astronomia…
    Ebbene, noterai che ho sbagliato scrivere nemmeno; la parola che intendevo scrivere è anche.
    Grazie, A. B.

  270. Simona ho letto con grande soddisfazione il tuo intervento relativo all’incontro con i ragazzinella scuola,ti faccio i miei più cari complimneti per l’impegno e la fiducia che poni nell’atto del comunicare e del seminare soprattutto in quei contesti dove è più facile arrendersi. Devo dire che nonostante siano giuste molte considerazioni di Rossella,che saluto affettuosamente e che tira in ballo un senso di responsabilità collettivo verso i ragazzi,credo che in questa massa indistinta,che a prima vista pare essere così,di ragazzi fatui e che si muovono seguendo modelli scorretti presi in prestito dai media,esistono tante individualità che bisognerebbe solo stimolare con giusti strumenti nell’ambito ristretto della famiglia,della scuola e naturale della comunicazione legata allo spettacolo e alla cultura ppolare della TV e etc.Scavando sotto la crosta dell’apparente superficialità di molti ragazzi c’è desiderio di confronto,di crescita.Il problema vero è che hanno un vuoto di valori,se non ci sono modelli di riferimento per loro,modelli sani,si riempiranno più facilmente di quei modelli vacui,ma se gli adulti,dal piccolo contesto di vita quotidiano a quello più ampio di vita pubblica,mostrassero maggiore spessore questi stessi ragazzi avrebbero a chi ispirarsi.Responsabilità comune da condividere fra adulti,tutti possiamo svolgere il ruolo educativo del padre,essere un esempio nei fatti non nelle parole.

  271. Caro Massimo,ho aperto il computer e come faccio sempre per prima cosa sono andata a vedere letteratitudine Ho letto il tema sul “Padre ” ed ho pensato che sei veramente un soggetto umano dai vasti orizzonti.
    Ho provato a leggere un pò di tutti ma rimbalzano le idee più diverse anche se alcuni denominatori sono comuni.
    Per me “l’enigma Padre” è stato sempre oggetto di riflessione (anche se appartengo ad una famiglia tradizionale-nucleare) forse perchè chiunque mi conosce ed ha conosciuto mio padre mi dice sempre ” si spiccicata to’ patri”
    La ricerca sul padre mi ha sempre talmente interessata che vi ho scritto persino il romanzo “Alla corte del nonno masticando liquirizia”.
    Sono convinta che la madre “è”. E’ il presente. E’ l’amore che vivo. E’ la terra su cui poggio i piedi.
    Il padre è come la scrittura di cui parla Simona Lo Iacono ossia la ricerca. Il futuro a cui non approdo mai.
    La socratica espressione”conosci te stesso” mi dice che per conoscermi devo trovare mio padre. Non mi basta che mi dicano “si spiccicata…”
    Per un figlio il padre resta sempre un personaggio misterioso di cui vuole sapere qualcosa di più di quel che sa anche perchè in qualsiasi famiglia la figura paterna è filtrata sempre da quella materna.
    Si sa sempre poco del padre e la paura di delusioni è a volte così forte che alcuni preferiscono non aprire quello che io nel mio libro chiamo “plico” dentro cui chiudo il padre ma anche la verità perchè il padre è la Verità.
    Io parlo di un padre-nonno che come padre è dentro un plico ed è uno sconosciuto e come nonno è la memoria della famiglia, per cui nella coppia nonno/padre l’uomo risulta un “mito sfingeo”.
    Resta comunque alla base della dinamica il principio del riconoscimento che non è soltanto legale ma soprattutto psicologico.viscerale e che in mancanza si concretizza in rifiuto. Il rifiuto intimo del figlio per me ha il senso di lasciare la creatura nelle mani del Fato Dio aveva fatto a quell’uomo x un dono e quell’x lo ha rifiutato. Il bimbo resta senza protezione umana senza alcuno che lo aiuti a portare il peso della vita. Questo problema è molto complesso per cui mi fermo qui, dico soltanto che il rifiuto incoscio struttura una relazione ambigua.
    La differenza (sociologicamente parlando) tra il padre di ieri e quello di oggi sta secondo me nel fatto che ieri il Pater familias era legato alla prescrittività
    quello di oggi all’estemporaneità. Il primo,vivendo in una società definita a-priori aveva degli obiettivi formativi concreti e tradizionali ed educava il figlio alla consapevolezza per raggiungerli, il padre di oggi vive in una società vischiosa e mutante ed è obbligato a fare il padre artista voglio dire che, anche se incosciamente, i genitori di oggi hanno capito che non è tanto importante far apprenere ai figli un mestiere quanto invece è utile sviluppare . la capacità di inventarsi la vita.
    Prima sulla scia dell’illuminismo e della rigidità istituzionale bisognava sviluppare la parte destra del cervello, oggi, in una società instabile e mutante bisogna mettere in movimento la parte sinistra del cervello.
    (Così succede che mentre il mondo va a destra il cervello è obbligato ad andare a sinistra!!!…).
    In tale realtà.
    Come si comporta un padre che fa l’artista ed insegue il successo?
    Al contrario di come Creonte si è comportato con Emone il quale volendo difendere i valori di Antigone ci ha rimesso la vita, ma Emone a Creonte che gli diceva”bisogna difendere le leggi che sostengono l’ordine e non cedere mai alle donne”” rispondeva “Padre la ragione è un dono divino tale che supera ogni altro bene”
    Se il figlio dell’artista è capace di tale tipo di risposte, vuol dire che l’artista ha insguito il successo ma non ha dimenticato suo figlio.

  272. Dimenticavo di dire agli scrittori che ho prenotato di ciascuno di loro il libro indicato.”Speriamo di trovarli” mi ha detto il libraio.

  273. Caro Ausilio Bertoli, ti ringrazio davvero del tuo intervento in disaccordo con il mio, perchè in esso noto ricchezza. Quando mi è capitato di leggerti qui e là sul web ho trovato sempre interessanti i tuoi scritti.

    Sulla faccenda Scienze Umane in quanto paradosso (e sembra paradossale anche che io sia laureato in Sociologia, una delle discipline delle Scienze Umane, e abbia inoltre scritto e lavorato da sociologo: tuttora sono interessato a tale disciplina) aggiungo solo che l’umano, come dicevo a proposito della folla, è prevedibile quando il comportamento si approssima ad un automatismo, quando l’uomo si approssima – come spesso accade in realtà – al robot: per tale motivo funzionano i modelli probabilistici e perfino, secondo alcuni, le profezie di Nostradamus. Ma spesso i modelli matematici non riescono nemmeno lontanamente ad afferrare e prevedere la vita di uomini sottratti all’automatismo, di uomini liberi si potrebbe dire, oppure investiti da onde di cambiamento (di emotività personale, per esempio, o collettiva). Sì, certo, come tu dici anche in fisica, astronomia ecc., i risultati della “verità scientifica” non sono mai stabili e vengono modificati da nuovi studi e ricerche. Tuttavia nelle Scienze Umane la sensazione d’un punto di riferimento “scientifico” pur momentaneo è così evanescente e oscillante da risultare irrilevante.
    Un caro saluto e grazie ancora

  274. E ancora grazie a Francesca Giulia.
    Per quanto riguarda gli articoli di Simona ti dico che prima o poi coinfluiranno in un libro.
    E questa è una profezia e una promessa. 😉

  275. Raul Montanari, Strane cose, domani
    pp.280, € 17.50, Baldini Castoldi Dalai

    recensione di Ade Zeno
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    Le storie di Raul Montanari sono congegni raffinati, esperti, molto prossimi alla perfezione. Non è una novità, del resto: dopo nove romanzi pubblicati e una quantità impressionante di racconti sparsi fra riviste, quotidiani, antologie, e ovviamente raccolte in volume (“Un bacio al mondo” e “È di moda la morte”) l’abilità affabulatrice nell’intessere trame degne di questo nome animandole con personaggi quasi sempre memorabili sembra ormai un dato di fatto incontestabile (e, c’è da sospettarlo, incontrovertibile) se ci riferiamo a uno degli attuali maestri del noir italiano. Anzi, del post-noir, come ha recentemente definito la propria poetica l’autore stesso, avanzando – pur tra le legittime riserve che un’etichetta può suscitare – l’ipotesi di nuove strade percorribili dalla letteratura di genere, fra l’altro troppo spesso agglomerata (dalla critica, dalle fascette editoriali) in un unico indistinto calderone che in cui possono coabitare voci anche del tutto dissimili, se non diametralmente opposte per qualità e intenzioni. Un noir che esplode e va altrove, insomma, sganciandosi una volta per tutte dagli schemi classici per mettere in scena drammi più vicini, quotidiani (meno polizieschi?) pur conservando le ritmiche inquiete, i colori scuri, il respiro ansimante. Ed è infatti quello che accade a “Strane cose, domani”, romanzo turbinoso e violento in cui una suspense da thriller psicologico sequestra da subito il lettore per condurlo nell’intimità dei suoi protagonisti, nelle loro stanze introspettive, in un laborioso e teso scavo verso zone nascoste fatte di segreti rabbiosi e incubi privati. L’innesco del plot parte da un evento bizzarro, apparentemente innocuo, ovvero il ritrovamento da parte di Danio – io narrante della storia – di un diario abbandonato. Non è un diario qualsiasi, un’agenda amorfa piena di annotazioni insignificanti, ma il nascondiglio scelto da una ragazzina per imprigionare (e liberare) l’assurdo dolore di morbosi drammi familiari. Scoperta fatale che spingerà il protagonista a rintracciare l’autrice di quelle pagine e a scoprire che l’oggetto in questione non era stato dimenticato, ma lasciato di proposito perché arrivasse nelle mani di qualcuno, una specie di messaggio nella bottiglia in cui la parte delle onde oceaniche è interpretata da un piovigginoso giardino pubblico. Da qui, da questo pretesto in cui il caso veste il ruolo di giostraio matto, la combustione dei carburanti sclerotici che faranno partire il telaio avviando un ipnotico vortice di incontri paralleli capaci di affiancare le coincidenze del presente all’emersione di fantasmi passati. Fantasmi con cui Danio (finora fortunosamente fuggito a lontane e irrimediabili colpe) dovrà presto fare i conti, d’ora in poi contemporaneamente attore e spettatore degli sconvolgimenti abissali che stanno prendendo il sopravvento sulla sua vita, sui suoi amori complessi, sulla contorta e sanguinante solitudine che spartisce con la propria coscienza. Ed ecco allora che i solchi graffiati dalle tracce del noir si trasformano in altro, in qualcosa di più, aggiungendo alle impronte per così dire classiche (omicidi velati di mistero, inseguimenti, antagonisti violenti, perfino uno scalcinato – nonché irresistibile, per simpatia e dolcezza – investigatore privato) imprevedibili deviazioni verso la “normalità” dei personaggi, cioè verso il loro apparire come esseri umani sopraffatti da se stessi, dalle proprie azioni, soprattutto dall’amore senza condizioni per la vita. Perché malgrado l’orrore che li circonda, malgrado i paesaggi angusti offerti da una Milano maestosamente triste (ulteriore personaggio fondamentale in quasi tutti i romanzi di Montanari), malgrado insomma tutto il nero che sembra poter solo soffocare e uccidere, resiste comunque l’ambizione di voler restare vivi a ogni costo, di sopravvivere alla prepotenza del destino, di oltrepassare i confini della morte con rassegnata felicità, e perché no, con un sorriso beffardo stampato sulle
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    Fonte: “La poesia e lo spirito”: http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2009/10/09/strane-cose-domani/

  276. Ciao
    Vito Bruno,ho curiosità di leggere il tuo romanzo perchè mi piacerebbe vedere come rendi coerente e credibile un rapporto, quale è quello tra padre/figlio di per se stesso complesso e per la maggiore dei casi sconnesso.
    Io ci ho provato con il mio libro citato ma ho dovuto ricorrere all’intrigo per dimostrare come in un teorema che il Padre è la Verità.
    Infatti sono partita da una teoria, elaborata durante la mia vita professionale e dimostrare a me stessa che era vera. Però la conferma me l’hanno data gli studenti del liceo scintifico di Barcellona che hanno afferrato la metafora e mi hanno posto domande a raffica.
    Qual è la teoria che sta a monte del tuo romanzo? Forse la scoprirò quando lo avrò letto perchè adesso ,dal sunto, vedo un padre ma non un figlio.
    Vedo nostalgia del tempo che fu, ma interloquendo scopro che in fondo gli attributi con cui oggi si definisce il “dovere essere padre” ti risultano insufficienti per definire un rapporto tra padre/figlio.
    Certo l’amore risolve tutti i problemi non perchè l’amore ci renda felici, non perchè ci offra l’eden ma perchè attraverso l’amore si scopre la sofferenza , il dolore ed è questo che unisce mentre separa.Ma allora un padre ed un figlio possono incontrarsi soltanto nel dolore?
    Ma forse è proprio così :niente si salva se non passa nel crogiolo della sofferenza. Infatti noi genitori oggi siamo portati a nascondere ai figli ambasce e preoccupazioni e non ci accorgiamo che loro le vanno a cercare altrove o le ricevono da altri. Questa secondo me è una delle cause della solitudine esistenziale e dell’incomunicabilità tra padri e figli. Ai miei tempi tutto era condiviso nella famiglia, anche la vena aristica di mio padre ansi per noi figli era motivo di orgoglio.
    Comunque antico o moderno, vero o falso,autoritario o permissivo un padre ci vuole sempre, se non altro per avere un “luogo ” dove ritornare dopo aver mangiato “ghiande con i porci”,ritrovare il senso della propria identità, la propria tribù di appartenenza, ed i valori che avevamo smarrito.

  277. Negli ultimi dieci anni della mia vita ho avuto a che fare con le nuove generazioni, l’esperienza che vi racconto è americana così come quella italiana, anzi siciliana.
    Circa otto anni fa mi trovavo c/o la U.C.L.A. di Los Angeles, frequentavo un corso di disegno artistico e vivevo in un appartament-studio all’interno del college universitario. In questi monolocali attrezzati tutte le sere si organizzavano festini a base di alcool, tutti bevevano sempre e comunque, vi erano molte ragazze madri, quasi tutti i ragazzi provenivano da famiglie allargate (tre o quattro matrimoni a testa); ogni tanto prendevano le automobili e partivano in gruppo, attraversando l’America, alla ricerca non so di cosa…
    Ricordo che una sera anch’io organizzai una cena con piatti italiani, mi ringraziarono della parmigiana fino a non poterne più, sembrava che dentro la salsa al pomodoro e le melanzane trovassero un pò di calore, affetto, “that’s amore”.
    Rimpatriata non sono riuscita a mantenere i contatti, non so se lo spilungone Paul del Minesota è diventato un bravo attore, Joan di San Francisco un regista, Ketty e il suo ragazzo architetti, biologi,, etc., c’erano anche tanti studenti che provenivano dall’Iran, impossibile averli in mente uno per uno, forse perchè dalla finestra del mio appartament-studio ho fotografato nella globalità una generazione americana un pò sguaiata, con una cultura specialistica fatta di tests, tecnologicamente molto attrezzata, senza mai approfondire le singole conoscenze. Umanamente, comunque, erano molto fragili e sensibili, persone intelligenti.
    Italia bella, Italia mia. Sicilia bedda, Sicilia mia. Vivo in Catania e continuo a fotografare le giovani generazioni con i loro linguaggi, i comportamenti, i tribalismi, ovviamente Elio, Pino e Rita non studiano al college americano, ma la t-shirt e i jeans strappati sulle ginocchia sono quelli di Paul, Joan e Ketty, a volte hanno lo stesso sguardo assente, stanco, velato, anche loro provengono da famiglie disgregate e vogliono la libertà. Per stare all’interno del branco preferiscono (come nota argutamente SIMONA LO IACONO) mettere le solite maschere per nascondere sensibilità e vulnerabilità, ma se si riesce a toccare il tasto giusto tirano fuori la capacità critica, sono persone acute e molto intuitive, hanno coscienza dei loro limiti: come quando un ragazzo ha detto: io non sono contro le raccomandazioni per trovare una sistemazione, il fatto è che non ne ho, nè padri nè padrini…

  278. Buona domenica a tutti!
    Oggi accantono tutto, fascicoli e codici, e porto mio figlio alla “giornata dell’aria” ad Augusta, dove visiteremo dirigibili e angar, volanti acrobazie del cielo e mongolfiere…
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    Ringrazio tanto il mio caro Massi per le profezie, la mia dolcissima Francesca Giulia e tutti gli altri interessantissimi ospiti. Un abbraccio anche a Rossella e a Gaetano.
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    Mi è piaciuta tantissimo la frase di Mela Mondi…che sottolinea, come Ausilio e Massi, il momento di passaggio che vive l’essere padre. E scrive una frase bellissima…che essere padri è “ricerca”…
    Io credo che questa sia la condizione migliore per tutti, padri, madri e uomini comuni. Trovarsi e non sentirsi mai approdati. Mettersi nella condizione di dover imparare sempre. Di farsi stupire da tutto.

    Ho letto l’incipit del libro di Raul Montanari e lo trovo meraviglioso.
    Bellissimo l’attacco in terza prsona, e il finale, sorprendente, in prima, che fa cambiare prospettiva ed emozioni.
    Questo raffinatissimo cambio di prospettiva, poi, non è solo interessante da un punto di vista narrativo, ma psicologico.
    Il protagonista, infatti, è uno psicologo, e per questo non può resistere al richiamo di un diario abbandonato su una panchina….
    Mi piace moltissimo questo sguardo posato sulle cose, questo lasciarsi vincere da un oggetto che altri avrebbero scansato o che non avrebbero visto, perchè proprio quelle righe abbandonate per apparente casualità, celavano una richiesta di aiuto.
    E questo mi fa pensare che chi chiede aiuto lancia sempre segnali da decifrare, soprattutto i figli.
    E’ così, Raul Montanari?
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    Ancora un abbraccio “volante”e buona domenica!

  279. Grazie dottssa Simona, leggo sempre le sue parole che mi sembrano pesate e non le nascondo che mi stupiscono per il passaggio mentale dalla rigidita delle leggi alla cretività dei concetti.
    La mia teoria del padre/ricerca è leggibile nel romanzo ALLA CORTE DEL NONNO MASTICANDO LIQUIRIZIA sul quale anche un suo giudizio mi farebbe molto piacere.
    Buona domenica a lei e suo figlio “alla giornata dell’aria”. Prendetene un pò, con allegria, anche per me che trascorro le mie giornate in casa.
    Buona domenica a tutti: animatori,scrittori,commentatori.

  280. Spero che Simona si sia goduta lo spettacolo meraviglioso di dirigibili e mongolfiere sospesi nel cielo,qui a Napoli giornata grigia e un pò ventosa,fatta di pioggerellina sporca e nuovole dense.
    Ho letto l’incipit del romanzo di Raul Montanari e l’ho trovato molto avvincente,ci si aggrappa alle parole che ti tirano dentro la storia da subito,questa è la magia dell’ottima scrittura.Misteriosa atmosfera eppure quotidiana,scena di tutti i giorni,svelandoci subito che l’uomo in questione è un assasino.Una rivelazione che ci intriga ancora di più,così forte all’inizio di una storia vuol dire che in seguito la tensione potrà soltanto aumentare,sono sicura che leggendolo saprà condurre il lettore nelle zone più oscure dell’intimo pensiero del protagonista.Ci chiediamo subito,chi è?E che importanza avrà questo ritrovamento per lui?
    un caro saluto a tutti

  281. Ringrazio Mela e Rossella, per i nuovi interventi… e Simona e Francesca per le domande rivolte a Raul (che spero possa leggere).
    Sul libro di Raul posso dirvi che la scena del ritrovamento del diario su una panchina non è inventata… si tratta di un episodio che è davvero capitato a Raul (come spero possa raccontarci lui stesso… e come ha già dichiarato nell’intervista a Fahrenheit).

  282. Buongiorno a tutti,
    ancora grazie a Francesca e Simone (ho la sensazione di conoscervi già da tempo…), grazie a Gaetano (giro i tuoi complimenti alla Elliot, questa piccola ma agguerrita casa editrice), e poi sono d’accordo con te Mela: ci vuole un padre, ” dove ritornare dopo aver mangiato “ghiande con i porci”…

  283. Ciao Vito,secondo me è l’effetto letteratitudine,io ormai sono “cotta”,pur non avendo mai incontrato di persona molti di qui,dico “i miei amici in Sicilia”,immagino i volti,le espressioni e i gesti di vita quotidiana.Condivido emozioni e pensieri,o dissento su qualche argomento dentro di me e poi mi prometto di “discuterne” con i miei amici letteratitudiniani.Il dramma vero lo vive mio marito che è subissato di nomi e racconti vari confondendo personaggi inventati a quelli reali,così qualche volta spaesato mi fa”Ma questo esiste davvero o è uno che hai inventato?”.Potrebbe essere uno spunto per un racconto,ci sto pensando da tempo.
    un caro saluto.

  284. Caro Massimo,un buongiorno speciale a te e a Simo.Oggi il mio piccolo ragazzo approda sui lidi siciliani in gita con la scuola,porterà negli occhi al suo ritorno,un pò della magia della vostra terra meravigliosa e calda ,alla sua mamma!.Quindi una parte del mio cuore e del mio sangue è a girovagare fra città barocche e valli antiche!.
    Sì,Massimo aspettiamo con ansia di colloquiare con l’autore,sarebbe interessante sapere oltre al ruolo che riveste il diario ritrovato nello svolgimento della storia anche perchè lui abbia scelto proprio questo oggetto:solo perchè gli è capitato davvero o perchè ha una valenza speciale in quanto depositario di verità,confessioni,che spesso neppure a se stessi si riescono a fare?Quindi è uno strumento che pone il protagonista di fronte ad un faccia a faccia con la coscienza.
    un abbraccio

  285. Buongiorno a voi letteratudiniani, diurni e notturni.
    Un saluto particolare a Vito Bruno, a Franz Krauspenhaar, ad Amedeo Romeo, a Raul Montanari, a Gianni Biondillo, a Valter Binaghi . Aspetto di leggere i vostri romanzi.

    A tutti, ma a Francesca Giulia, in particolare:
    abiti in una città che io, palermitano, amo come poche altre.
    E che appena posso incontro con la stessa trepidazione che si ha per un’amante. Che non sai mai se conosci veramente o se te la sei inventata da solo.
    Chiedevi: “ … questa tendenza opposta a spiegare tutto e a razionalizzare buona parte del rapporto, può, come sostengono molti, aver fatto perdere quella dose di istinto che guidava i rapporti affettivi? Quello che i medici chiamano “intuitive parenting”? Certe volte siamo portati davvero a ragionare troppo spingendo anche i piccoli ad un forzato ragionamento?”
    Credo che la tua domanda sia potente, potentemente dirompente intendo.
    Perché mette in dubbio l’intero apparato del sapere, e dirige lo sguardo verso l’interna e felicemente ignorante intuitività.
    Che è patrimonio comune ad ogni mammifero. Basti pensare che la maggior parte del nostro cervello è costituito da aree associative che permettono di avvertire dalle manifestazioni corporee (facciali o tattili) lo stato d’animo dell’interlocutore.
    Questa capacità è sviluppata non solo nei primati ma anche in quegli animali che definiamo domestici (e che forse per questo da millenni trattiamo come persone).
    In quello che dico è sottinteso che per esercitare la capacità intuitiva occorre per prima cosa esercitare rapporto (visivo/tattile/olfattivo). Ovvero un r-apporto reciproco (lo sottolineo) in cui i membri della relazione entrano mediante i sensi in sintonia empatica.
    L’esercizio di tale sintonia non è però per nulla scontata.
    Infatti basta che il caregiver (nella relazione genitore bambino) o uno dei membri della coppia, sia troppo a lungo coinvolto nel rapporto con se stesso, che l’empatia non solo non si manifesta, ma viene percepita dall’altro come rifiuto.
    Oppure può accadere che la carenza di empatia cerchi di compensarsi (come avveniva in passato) con l’eccessivo uso di norme, domande, spiegazioni, istruzioni, mancando totalmente l’obiettivo di raggiungere quel qualcosa che è insito nella relazione empatica e che nessuna cultura può sostituire. Ovvero il circuito virtuoso: creatore-creatura-ricreazione del creatore.
    Qualcosa che non soltanto serve al bambino, ma ad ogni membro della relazione.
    Lo dicevo prima a Simona e ad Ausilio: il creatore che entra in rapporto con la propria creatura viene da essa creato (o ricreato).
    La cosa può funzionare anche con l’opera artistica.
    La quale ha tempi di produzione, esposizione, divulgazione, e retroazione sullo stesso artista, simili all’influenza interiore (quella esteriore avviene immediatamente) che un bambino ha sui propri genitori (due anni circa, secondo Heinz Kohut).
    E che dire poi dei nostri figli che esercitando verso di noi la loro empatia, e chiedendoci se siamo tristi, preoccupati o arrabbiati, ricevono spesso un depistante “No, ma che dici?”.
    La verità, a mio parere naturalmente, è che per esercitare l’empatia o quel intuitive parenting di cui parli occorre tempo.
    Un’infinità di tempo: tutto il tempo che ci vuole.
    E questa non è epoca di lentezza, ma di velocità (leggo un libro del dottor Spock e so che fare!).
    La “strategia dell’attenzione” da parte dell’adulto (e degli adulti da parte degli adulti), di cui il bambino ha un disperato bisogno per non sentirsi disorientato, facilmente si aggirano con un velocissimo ‘no!’ o con un egualmente veloce ‘sì’! Mettendo in pace (sono d’accordo con te Massimo) le coscienze dei troppo preoccupati di sé, che spesso, ma solo per caso, sono anche genitori, maestri, politici.
    Vorrei intervenire più avanti sull’argomento delle Scienze Umanistiche introdotto da Gaetano Failla che trovo divertente per la sua “irriguardosità” .
    Ma un’altra volta. Per oggi, ho già abusato.
    Un sorriso d’intesa a Mela Mondì con i suoi nonni/padri.
    Salvo.

  286. Carissima Fran…sai che Ortigia in questo momento è invasa da scolaresche?
    Sarebbe bellissimo incorciare il tuo bimbo!!! Spero che possa portarti un po’ delle nostre suggestioni…ma – come sai – mi piacerebbe moltissimo averti qui!
    E poi, sì…anche io spesso sento di conoscervi personalmente, di essere parte di questa vita fatta di schermo e anima. D’altra parte credo che Internet – se usato in modo sano e condiviso – possa gettare ponti, snodarsi tra vite e unire in un modo misterioso, che forse è senza mani e senza suoni, ma non è comunque senza abbracci e sguardi, nè manca di emozione e sentimenti.
    Caro Vito Bruno, ho ordinato il tuo libro e sento di averlo davvero fatto mio.
    Carissima Mela Mondi, cercherò anche il suo, di libro e lo leggerò con infinito piacere.
    Infine, caro Massi, attendiamo gli scrittori che ci hai preannunciato. Di Franz Krauspenhaar ho letto poesie stupende sul suo blog.
    Un bacio a tutti e un felice pomeriggio!

  287. Caro Salvo Montalbano, condivido questo rapporto tra creatura e creatore. E credo anche che sia una delle ragioni per cui, talvolta, gli amori muoiono. Perchè non hanno capacità di rigenerarsi, crescere, alimentarsi e autoalimentarsi. Nè sanno farsi creatura, con umiltà e abbandono.
    E’ un vero peccato, perchè il segreto della pienezza credo stia tutto nel cambiare parte, nel non giudicarne nessuna, nell’essere genitore e figlio e ancora figlio e genitore. Marito e moglie, moglie e marito. Nel “costruirsi” ogni giorno, inannanzi a se stessi e agli altri.
    Un affettuoso saluto

  288. Care Simona e Francesca, grazie per aver letto l’inizio di SCD. Come dice giustamente il nostro padrone di casa e come ho raccontato diverse volte (anche in situazioni riprese su YouTube), la situazione descritta è reale.
    Tre anni fa ho davvero trovato su una panchina di Parco Sempione, qui a Milano, il diario di una ragazza che per età poteva tranquillamente essere mia figlia. L’ho cercata e incontrata, e quando mi ha rivelato che quello stesso giorno aveva disseminato per il parco non uno ma sette diari, ho pensato ovviamente due cose.
    Che quelli non erano, come diceva lei, atti simbolici per liberarsi di un anno di sofferenze, ma richieste d’attenzione, messaggi in bottiglia (tanto più che quel certo giorno pioveva che dio la mandava).
    E che c’era una trama fortissima e già scritta: un uomo come me trova un diario, ma senza che lui lo sappia un secondo uomo ne trova un altro. Entrambi corteggiano la ragazza… e la questione del rapporto padri-figli esce molto violenta e tagliente da questa situazione, ma non posso dire di più altrimenti l’editore mi insegue con la cazzuola.
    Un caro saluto a tutti, spiacente di non poter essere presente più di così al bellissimo dibattito.

  289. @ Salvo Montalbano
    Interessante, per quel che mi riguarda, la tua frase – da te lasciata in attesa, bontà tua, d’un prossimo commento – in riferimento ad un mio intervento “divertente per la sua ‘irriguardosità'” (citando le tue parole).
    Interessante per la lezione che la discussione via internet mi sta continuando ad inviare, e che dovrò infine imparare: la (quasi?) impossibilità di un reale approfondimento in gruppo di temi complessi, a causa proprio del mezzo usato, il computer cioè, il quale forse non è adeguato a tali imprese.
    Avevo espresso una mia piccola riflessione, con il desiderio di sentire altri pareri, relativa al “padre assente”, e prima mi viene detto che da ciò si deduceva un “si stava bene quando si stava peggio” (cosa del tutto estranea alla mia riflessione) e poi, invece di parlare di “padri e figli”, come era nelle mie intenzioni manifestate inizialmente, si continua una discussione con me sulle scienze sociali, tema che io avevo toccato, in una risposta, del tutto incidentalmente.

  290. Eccomi di nuovo qui.
    Buon pomeriggio a tutti e – come sempre – grazie mille per i vostri interventi in questo post destinato a entrare nella classifica dei più commentati del blog.
    Riparto dal basso verso l’alto, a partire dal commento di Gaetano…

  291. Caro Gaetano,
    che internet come strumento di comunicazione sia un medium incompleto, lo ribadisco molto spesso (proprio per gettare, a priori, “acqua sul fuoco” sull’inevitabile rischio di incomprensioni). Ma è pur vero come ha sottolineato Francesca (e come ha ribadito Simona quando ha scritto “D’altra parte credo che Internet – se usato in modo sano e condiviso – possa gettare ponti, snodarsi tra vite e unire in un modo misterioso, che forse è senza mani e senza suoni, ma non è comunque senza abbracci e sguardi, nè manca di emozione e sentimenti”) che anche questo medium incompleto possa fornire la possibilità di creare amicizie e immaginare “i volti, le espressioni e i gesti di vita quotidiana”.
    Ma questo lo hai sperimentato anche tu.
    Leggendo il commento di Salvo non ho percepito, in verità, l’intenzione di polemizzare con te… semmai l’intenzione (come avrà modo, immagino, di precisare lui stesso) di offrirci il suo punto di vita sul tema che tu hai toccato anche se pur in via del tutto incidentale.
    Del resto, quando non ci si capisce, ci si può sempre spiegare…

    🙂

    Altra cosa: a volte l’inserimento delle faccine aiuta a cogliere lo spirito di una frase…
    Usate le faccine, gente! Non siate timidi.
    L’uso di uno smile non comprometterà mica l’autorevolezza del proprio pensiero.
    Parola di uomo con la camicia celeste.
    O no?
    😉

  292. Oltre a Simona e a Francesca, ringrazio Salvo Montalbano per l’intervento delle 2:31 pm (sì, Salvo… quando presentai Daniela Carmosino da Tertulia invitai tanti amici scrittori a partecipare all’evento: oltre Tea Ranno… Salvo Zappulla, Mavie Parisi, Domenico Trischitta, la stessa Simona – proprio lei, sì – e tanti altri).

    Ne approfitto per salutare Vito Bruno.

  293. “L’inquieto vivere segreto” di Franz Krauspenhaar - recensione di Piersandro Pallavicini (LA STAMPA - Tuttolibri) ha detto:

    «L’INQUIETO VIVERE SEGRETO». Un sogno cartesiano
    di Piersandro Pallavicini

    Il romanzo di Franz Krauspenhaar “L’inquieto vivere segreto” (Transeuropa, pp. 140, e 12,90) ha una fotografia in bianco e nero per copertina.
    Nella foto c’è un paio di gambe di manichino accoppiato e opposto a un altro paio di gambe, le due paia posate tra il ramo e il tronco di un albero. Ci vuole più di un istante per renderti conto di cosa si tratta e quando ce l’hai fatta rimani con il dubbio di non aver capito bene. Rimani spiazzato, straniato. Ebbene questa copertina in cui fatichi a sistemare origine e terna d’assi cartesiani è la porta d’ingresso perfetta per un romanzo che le somiglia: lo straniamento, il dubbio, sono i sentimenti che accompagnano la lettura.
    Franz Krauspenhaar (Milano, 1960) è stato talvolta associato per i suoi romanzi al genere giallo. Che qui assolutamente non c’è. È vero che c’è una moglie scomparsa, del cui possibile omicidio l’io narrante sospetta il figlio e la nuora, poi scomparsi anche loro.
    È vero che c’è stato un rapimento, durante il quale l’io narrante e il figlio si son visti rivelare da un commando mascherato la segreta attività di aguzzino nazista del padre e nonno. Ma sono solo elementi che soffiano l’aria malata dell’enigma, dell’irrisolto, dell’incomprensibile che eppure accade, dentro una vita che sembra un’infinita esperienza onirica.
    La chiave di lettura, in questo complesso romanzo breve, sta nel lavoro dell’io narrante, che è quello dello scrittore. È un romanzo che con le tinte del sogno e della visione porta alla luce il rovello di chi, scrivendo, si trova a fare i conti con la contaminazione tra le proprie opere e la vita reale. Un tema classico, a dir poco.
    Ma è bravo Krauspenhaar a nascondere origine e assi cartesiani, come nella copertina: leggi e non sai se i personaggi si muovono nel quadrante della realtà o in quello del sogno. O in quelli criptati, dove l’io narrante non parla a te, lettore, ma allo scrittore e a chi gli sta intorno nella vita vera, e di ogni enigma ha la chiave.
    Piersandro Pallavicini

    fonte: LA STAMPA – Tuttolibri, SABATO 3 APRILE 2010

  294. Franz Krauspenhaar (insieme a Vito Bruno, Valter Binaghi e Amedeo Romeo) sarà uno sei quattro ospiti della trasmissione radio “Letteratitudine in Fm” di venerdì prossimo.

  295. Ringrazio Salvo Montalbano per la risposta che ha dato ai miei interrogativi,concordo pienamente che al di là delle norme,della conoscenza in genere e dell’esperienza da cui tentiamo di trarre insegnamento per gestire i rapporti,sia fondamentale recupare quel senso di empatia con l’altro.Una relazione d’amore,d’affetto o anche di incontro semplicemente non può prescindere dal mettersi in ascolto con tutti i sensi che abbiamo a disposizione verso l’altro.Accogliere,ricevere anche i segnali di qualcosa d’indefinito che ci torna indietro dai nostri stessi gesti e dalle nostre parole,cercare il punto in cui si acuisce la sintonia con l’altro,e quando troviamo questo punto spesso nella vita dobbiamo essere capaci di rimetterlo in discussione e ricominciare a cercarne di nuovi.Perchè è su questa ricerca affannosa ma piena del sentire umano che ritroviamo noi stessi e l’altro.
    grazie.

  296. Ringrazio Raul Montanari e auguro al suo romanzo- che presto leggerò- lunga vita!

  297. Un bacio speciale alla cara Simona- è nei miei desideri e programmi un giro dalle vostre parti!-.
    Un caro saluto a Massimo.
    Un rinnovato saluto a Gaetano- dunque anch’io credo che non ci sia polemica nella risposta di Salvo,però ho molto apprezzato il tuo commento quando parlavi dei tuoi ricordi dell’incapacità di spiegare del padre e ti ho manifestato anche i miei-ahimè tristi- ricordi del mio.Certo l’assenza a cui tu fai riferimento,caro Gaetano, è un’assenza che si maifesta non solo con la mancanza fisica della figura paterna ma con la mancanza della funzione del padre che magari c’è fisicamente nella famiglia ma è molto poco in ascolto riguardo alle esigenze affettive dei figli.Oggi ,senza generalizzare,mi pare di poter dire che il padre tenti davvero di usare tutti i sensi a disposizione per un dialogo e un incontro con i figli.
    un caro saluto a te.

  298. Un pensiero per tutti i lettori di Letteratitudine e di questo post speciale,il mio grazie personale a Massimo,uomo di speciale sensibilità.
    Andate al laboratorio di traduzioni.
    abbracci

  299. Grazie Massimo e Francesca Giulia, un abbraccio a entrambi con l’augurio d’una bellissima serata.
    La questione su messaggio e medium (“Il medium è il messaggio”, è la tesi ben nota di McLuhan) mi sta molto a cuore, e credo sia di fondamentale importanza – si pensi soltanto alle vicende televisive e politiche italiane degli ultimi tre decenni.
    Per rientrare in tema, ricordo, forse un po’ banalmente, il bellissimo “Padre padrone” (1975) di Gavino Ledda che all’epoca aveva riscosso un successo tale – ed ampi dibattiti, anche aspri – da venir poi tradotto in ben quaranta lingue.

  300. E a proposito di McLuhan e del suo “Il medium è il messaggio”, caro Gaetano, ne parlammo ampiamente anche nell’ambito di un vecchio post a cui mi sento molto legato (e che mi pare ancora attuale).
    Lo segnalo a beneficio di qualche nuovo amico che volesse dare un’occhiata:
    http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/02/e-piccola-la-letteratura-della-grande-rete-la-letteratura-dopo-la-rivoluzione-digitale/

    P.s. Per me il medium non è il messaggio… ma lo condiziona 😉

  301. Ho dato un’occhiata a questo vecchio post, Massimo. Illuminante, davvero. E anche notevolmente in anticipo sui tempi. Bravo. Buona serata a tutti!
    Aspetto di sentirvi in radio!

  302. Caro Massi, ho ordinato i sei libri presentati nel post. Ho ordinato anche Letteratitudine, il libro. Lo terrò sul mio comodino e la sera non chiuderò gli occhi se prima non avrò letto una pagina.
    Smile.

  303. Bentrovati, cari amici.
    A Gaetano,
    nessun sarcasmo da parte mia nei tuoi riguardi.
    Anzi sicura simpatia per le affermazioni espresse che, magari incidentali per te, costituiscono un argomento stimolante per me.
    Inoltre considera la miriade di spunti interessanti che nascono in una conversazione scritta: a volte si perde il filo dell’avanzare del discorso. E capita che rileggendo frasi o interi post precedenti si torni indietro in una danza sincopata ben diversa da quella che si compie in un dialogo a voce (mi spiace non aver raccolto gli altri tuoi spunti).
    Usavo il termine divertente, per descrivere la reazione che provo ogni volta che mi trovo davanti ad un paradosso. In questo caso le Scienze Umane , in cui gli stessi cultori, o i professionisti, di tali materie, come te da sociologo o me da medico, spesso ad un certo punto della loro storia culturale arrivino a considerare evanescente la validità predittiva delle loro stesse discipline (da ciò l’irriguardosità). Un esempio è quello di Pierre Janet, che ad un certo momento (considerando i suoi studi non scienza ma pura letteratura) distrusse tutti i suoi appunti e ritirò dalle librerie le intere sue opere.
    Spesso me ne sono chiesto il motivo. O almeno cosa incida in quest’area della conoscenza a buttare in aria il tavolo dichiarando irrilevante il precedente punto d’osservazione.
    Mi pare di avere trovato una mezza risposta nel fatto che, il soggetto che studia, sia l’identico oggetto studiato. E che pertanto risulti difficilissimo, a volte angosciante, a costui (cioè a noi tutti) mantenere salde le opposte e spesso contraddittorie posizioni di uomo libero e contemporaneamente determinato.
    Può servire quest’ultima considerazione a spiegare anche la difficoltà ad essere genitori?
    Un caloroso saluto.

  304. Salvo Montalbano, sono d’accordo che l’empatia è il collante primario nella relazione umana di qualsiasi tipo, anche quella economica, come dice Rifkin.
    Già trent’anni fa mi aveva fatto riflettere Rogers e un pò capire che senza l’empatia non si entra in relazione con nessuno. Con il modello di Rifkin in sostanza il rapporto padre figlio da entropico si divrebbe trasformare in empatico in modo da cogliere nella storia stessa del rapporto lo sviluppo positivo ecc…. Però come ai tempi del razionalismo si inneggiava al pensiero matematico adesso si sta esaltando come panacea l’empatia, mezzo naturale di comunicazione ma che sottrae molto alla individualità umana, e ci sottrae il piacere della diversità poiche si potrebbe cadere in una unità soffocante. Non per niente l’empatia era il mezzo di comunicazione dei popoli arcaici.
    Fare dell’empatia un assoluto della comunicazione come alcuni dicono non danneggia il libero sviluppo della personalità?
    Forse fra qualche anno o secolo troverò la risposta certo è che le teorie sono come il fuoco, bisogna prenderle con le pinse, senza dimenticare che sono utili come il fuoco.
    Grazie per avermi dato lo spunto di parlare dell’empatia, una riflessione che mi sta a cuore.

  305. Anche a Mela Mondì:
    nel parlare di empatia mi riferisco più alla concezione della psicologia del Sé di Kohut, piuttosto che al modo di intendere di Rogers. Non già un “far sentire” simpatia e disponibilità, bensì alla capacità di provare ciò che un’altra persona prova, seppur in misura attenuata, considerando (per tentativi) i propri inevitabili malintesi percettivi.
    Quest’ultima condizione contempla quindi il ritorno a sé per stimare la percezione. E di usare la propria identità per immaginare la momentanea identità emotiva dell’altro.
    Intesa in questo senso, non potrebbe esistere empatia se la persona che dice di provarla è in simbiosi psichica o fisica con l’altra. Nel primo caso una persona patologicamente dipendente (o controdipendente). Nel secondo caso penso alla madre incinta: ella avvertirà sì l’esistenza del bambino dentro di sé, ma non può, se non metaforicamente, dire di sentire le emozioni del proprio bambino.
    Nel rapporto tra il padre-figlio/a, questa condizione dovrebbe essere facilitata dal non esserci mai stata per lui una condizione entropica (mi piace come ben la chiami), mentre la madre deve superare la iniziale condizione simbiotica che ne distorce per i primi tempi la percezione.
    Oggi, molti padri enfatizzino (perché molto è stata enfatizzata) l’iniziale relazione materna. Considerandosi ospiti in attesa di essere vicari della padrona di casa o di essere finalmente chiamati nel ruolo di showman del piccolo lord.
    In realtà la capacità empatica di un uomo, sempre fisicamente fuori dalla simbiosi, è essenziale anche per facilitare la donna a non sentire la gravidanza una solitudine necessaria. Perché in ragione di ciò, in seguito, potrebbero scatenarsi inconsapevoli rivendicazioni di “proprietà” sul frutto del ventre suo.
    Quindi non solo le teorie sono come il fuoco, ma ogni nostro vantaggio è come il fuoco.
    Dipende da cosa è alimentato 🙂
    Una caro saluto. Salvo.
    p.s. Puoi spiegarmi cosa intendi col dire dei padri/nonni? Grazie.

  306. Salvo Montalbano sono d’accordo con te sul discorso “empatia” e in particolare sulla chiosa che lo spiega, cioè sul “dipende da cosa è alimentato”. Infatti possiamo parlare di empatia solo se la relazione tra due esseri umani è strutturata sull’amore autentico.
    Per quanto concerne il padre/nonno mi riferisco prima al fatto che ciascuno di noi ha dei ruoli che sono alcuni innati e ed altri acquisiti. Il padre come testimone storico per il figlio è un nonno in quanto portatore della tradizione e valori della famiglia di appartenenza, della storia passata, narratore di quegli eventi a cui il figlio non ha assistito. La prima ricerca del padre ,il figlio la opera proprio attraverso il padre/ memoria .
    Come padre il soggetto umano non esiste se prima non ha ricevuto il dono del figlio e non lo ha accettato col cuore e con la mente.
    Quindi l’uomo come padre è nel futuro. L’uno e l’altro sono in permanente passaggio dalla potenza all’atto, tant’è che non smettono di cercarsi per tutta la vita.
    In tutto questo la cosa interessante è il processo formativo dell’uno e dell’altro, processo che nel suo evolversi modifica l’uno e l’altro i soggetti
    ma modifica anche la prima realtà sociale che un tempo era la famiglia.
    Il rapporto con il padre/ memoria e con il padre/ processo può a volte incepparsi per delle variabili sconosciute e da qui l’entropia che rende complessa e caotica la relazione padre/figlio.
    Mi fermo qui sperando di essere stata, anche se sommariamente, esaustiva
    ringraziandoti per avermi dato l’occasione di parlare della tematica che ho romanzato nel mio “Alla corte del nonno masticandi liquirizia” ove esprimo l’idea che ho di questo rapporto il quale per dirsi costruttivo deve avere al suo interno amore e verità.
    Un saluto ed un ringraziamento a tutti perchè da tutti ho imparato qualcosa.

  307. Valter Binaghi, Vito Bruno, Franz Krauspenhaar, Amedeo Romeo saranno ospiti di Maugeri a “Letteratitudine in Fm” del 21 maggio

    Nella puntata di Letteratitudine in Fm di venerdì 21 maggio discuteremo sul significato dell’essere padre, oggi; dell’essere marito (o partner); ma anche dell’essere scrittore (e/o artista). E ancora, sul rapporto tra padre e figlio (anche nel caso di genitori separati) e su quello tra uomo e donna all’interno del nucleo familiare. Riprendendo un post pubblicato su Letteratitudine-blog qualche giorno fa, Massimo Maugeri ha invitato quattro scrittori che hanno pubblicato, di recente, romanzi… “in tema”. Si tratta di: Valter Binaghi, Vito Bruno, Franz Krauspenhaar, Amedeo Romeo… autori dei seguenti romanzi: – UCCIDERÒ MEFISTO, di Valter Binaghi (Perdisa Pop, 2010) – L’AMORE ALLA FINE DELL’AMORE, di Vito Bruno (Elliot, 2010) – L’INQUIETO VIVERE SEGRETO, di Franz Krauspenhaar (Transeuropa, 2009) – NON PIANGERE COGLIONE, di Amedeo Romeo (ISBN, 2010)
    http://www.radiohinterland.com/?q=node/5508

    Ascoltaci in diretta da qui:
    http://www.radiohinterland.com/streaming/radiolimpia.asx

    RADIO HINTERLAND f.m. 94.600

    Sede Amministrativa – Via Turati, 12 – 20082 Binasco (MI)
    Testata Giornalistica e Sede Operativa – Via F. Turati, 12 -20082 Binasco (MI)
    Telefono: 02.905.57.73
    Fax: 02.900.91.191
    E-mail: info@radiohinterland.com

  308. Caro Massimo ho sentito la puntata di stamattina e ti faccio i miei complimenti.E’ stata una puntata ricca di incontri e spunti interessanti.Molto bello ascoltare le voci degli autori con cui avevamo dialogato qui.Mi sento molto vicina al pensiero di Franz Krauspenhaar,per carità nel mio piccolo,ma il concetto lo sento molto mio,quando ha espresso il vivere totalizzante della passione della scrittura dicendo che in fondo è come la vita .L’atteggiamento verso la vita stessa,l’andare a cento all’ora o col freno tirato spesso si riflette nella scrittura e nell’approccio più passionale o meno che si ha nella vita.E’ proprio un modo di sentire.Poi condivido il discorso sulla necessità- mi pare lo abbia detto Vito Bruno?-correggimi se ricordo male, sullo scrivere solo i libri necessari,ma per se stessi,come un’urgenza,una verità che spinge per essere rappresentata.Non di certo una urgenza assoluta ma personale,proprio per questo secondo me autentica.Forse era Binaghi,scusate sto stanca stasera.
    saluti affettuosi a tutti

  309. io son diventato padre da poco
    la mia prima figlia
    sarà che ho bisogno di lei
    ma sono felice
    e convinto che sia la miglior cosa entrata nella mia vita
    volevo solo dire questo
    grazie
    c.

  310. Carmine auguriiii!!!! E’ bellissimo che tu abbia bisogno di lei,più di quanto una piccola creatura abbia bisogno del genitore,è l’amore caro amico,ed è un amore che durerà per sempre.

  311. Aggiorno il post preannunciando la partecipazione al dibattito della scrittrice Rosa Matteucci, il cui più recente romanzo pubblicato – “Tutta mio padre” (Bompiani) – è perfettamente in tema con la discussione in corso. (Rosa Matteucci – così come Raul Montanari – è tra i dodici finalisti dell’edizione di quest’anno del Premio Strega).

  312. Sono particolarmente lieto della partecipazione di Rosa, perché la sua voce di scrittrice si aggiungerà a quella degli altri scrittori (uomini) che ho coinvolto nel dibattito.

  313. Questa, la nota del libro di Rosa Matteucci “Tutta mio padre” (Bompiani)

    “Qui non c’è più nessuno.” Una figlia smarrita, che ha perso padre madre e cane, chiosa: “Il cordoglio provato per la scomparsa dei genitori naturali è piscio di gallina in confronto al dolore irrimediabile che si prova per la morte del cane.” È solo l’inizio di un picaresco e straziante viaggio al termine della notte, a ritroso in un tempo spento e bruciante, alla ricerca dell’impossibile riscatto di una figura paterna speculare e complementare a quella dell’io narrante, che mette in scena con coraggio assoluto il gran teatro di splendori e miserie in una decadenza familiare. Una storia unica, ineguagliata eppure simile a tutte le altre nel senso ultimo, da una prova di coraggio all’inevitabile disillusione che sublima la sofferenza. E un’Odissea da vertigine nell’Italia in bianco e nero del secolo scorso, con giganti, maghe, mostri marini e allegrie di naufragi. Qui Ulisse è un uomo che ha tentato così tante vite da non viverne davvero neppure una, la sua; eppure sa – lo aveva sempre saputo, e infatti aveva recitato la parte di se stesso solo per ispirare l’unica persona che potesse raccontarla – che un giorno la figlia lo renderà davvero un eroe, quale nella realtà mai era stato.

  314. @ Rosa Matteucci
    Cara Rosa,
    prima di approfondire la conoscenza del tuo libro metto in evidenza (nel commento che segue) le “domande del post”… invitandoti (se ti fa piacere) a fornire le tue risposte.

  315. @ Rosa Matteucci

    1. Come è cambiato, oggi, l’essere padre?

    2. In cosa, il padre di oggi, si differenzia nettamente da quello delle generazioni precedenti? Quali i pro e i contro di tali differenze?

    3. Che cosa significa, oggi, “volere” un figlio?

    4. Premesso che le principali vittime delle separazioni tra i coniugi sono quasi sempre i figli, tra il padre e la madre chi è che subisce – in genere – il trauma maggiore? E chi, in genere, tra i due presenta maggiori fragilità?

    5. L’uomo contemporaneo rischia di rimanere vittima della corruzione del successo di più o di meno rispetto a qualche decennio fa? E il successo che corrompe colpisce di più l’uomo, il marito, il padre, lo scrittore (o – in maniera analoga – la donna, la moglie, la madre, la scrittrice)?

  316. Che cosa significa, oggi, “volere” un figlio?
    Volere un figlio per me non ha alcun significato. Sono in perenne conflitto con la fola nicciana dell’eterno ritorno, che ritengo una grande illusione suggestiva ma fallace, e con la legge della conservazione della specie, che ci fa vedere – come ubriachi – nel primo che incontriamo l’anima gemella che a mio avviso non esiste.
    Esiste solo l’unità.

  317. Premesso che le principali vittime delle separazioni tra i coniugi sono quasi sempre i figli, tra il padre e la madre chi è che subisce – in genere – il trauma maggiore? E chi, in genere, tra i due presenta maggiori fragilità?
    I figli dei separati stanno forse meglio oggi rispetto al passato, grazie a una legislazione supergarantista. Prima – intendo prima della legge sul diritto di famiglia- nascevano fuori dal matrimonio, erano abbandonati, ceduti a terzi, fatti crescere sotto l’onta dell’ignominia sociale del bastardato.

  318. IL SUCCESSO: Se uno ha avuto una buona educazione e ha un minimo di cervello non si ubriaca per il successo – a parte che sarebbe da stabilire cosa si intenda per successo.
    Nelle coppie ciò che le disgrega e le fa vacillare – o peggio le rompe – è banale e prevedibile. Le coppie si formano per un fine comune, quando uno dei due – maschio o femmina non importa – viene risucchiato in un gorgo di impegni, e diventa in qualche modo personaggio, l’altro si sente abbandonato e la coppia esplode.

  319. questo tema mi sta molto a cuore e vorrei, se riuscirò a trovare un pò di tempo, provare anche io a rispondere alle domande poste secondo quella che è la mia modesta opinione.
    Vi segnalo intanto però un altro libro che va centrare in pieno l’argomento, “l’ombra più lunga- tre racconti sul padre” – di Gianfranco Pecchinenda. colonnese editore.
    è un libro breve e incisivo fatto di tre racconti diversi di grande suggestione che hanno in comune l’ombra, quella più lunga, quella del padre: la figura più ingombrante e necessaria nella vita di ogni uomo. Temi principali del libro sono la memoria, la morte, l’identità e soprattutto l’autorità e il rapporto tra generazioni.
    Spero di aver dato un utile contributo al post e sono sicura che tornerò presto per continuare a confrontare il mio pensiero col vostro.
    colgo anche l’occasione per complimentarmi per il blog tutto .
    Anna Pianura

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