Dicembre 22, 2024

944 thoughts on “DIBATTITO SU LETTERATURA E MUSICA

  1. Il rapporto tra letteratura e musica – a mio avviso – ha origini antichissime: basti pensare alla “musicalità” dei versi poetici o di certi testi narrativi (perché anche un romanzo deve “suonare” nella testa del lettore).
    Ma non mi riferisco solo a questo…

  2. Come ho scritto sul post, mi piacerebbe poter prendere in considerazione, per poi analizzarli, i romanzi che si sono occupati di musica (e viceversa)… che hanno fatto vivere la musica all’interno delle loro pagine.

    Di conseguenza, mi pongo (e vi pongo) alcune domande…

  3. Primi ospiti di questo forum (che spero possa diventare “permanente”) sono (come anticipato sul post): Marta Morazzoni, Claudio Morandini e Achille Maccapani. Discuteremo dei loro nuovi libri e degli argomenti proposti.

  4. Parole e musica di…Binomio che può sembrare apparentemente riduttivo, se riletto in una chiave più ampia. La letteratura e la musica. Binomio apparentemente impegnativo se inteso in senso elitario. Non sono un conoscitore di musica colta. Sono un vecchio arnese che viene da una sbornia punk e heavy metal e prima ancora progressive. Sono un vecchio arnese che ha pianto quando è morto Frank Zappa. Sono un vecchio arnese che non ha nessuna prevenzione per il funk. Sono un vecchio arnese che ha amato alla follia gli Stranglers, creatori del punk e poi della new wave e per questo rinnegati da tutti. Non so nulla di musica colta e non me ne vanto. Non me ne vanto perché il rapporto fra letteratura e musica è sempre comunque presente e vivo e trascende qualunque differenziazione fra musica colta e musica plebea. Con queste mie limitazioni (che non rivendico, ma semplicemente accetto) credo che la letteratura renda la musica ancora più viva, nella misura in cui la riveste di tutti quegli stilemi a noi cari (noi amanti della letteratura, noi lettori). In questo senso la letteratura per prima non fa distinzioni. E non ne fa perché il filtro della parola scritta scava nel profondo e riesce a cogliere quei rapporti segreti fra musica e vita che solo la letteratura sa trovare. Non voglio tirare in ballo i soliti autori britannici e irlandesi. Credo che Michele Mari, con il suo Rosso Floyd, sua riuscito a creare un oggetto narrativo (chiedo scusa se rimando ad un concetto quasi vetusto mutuato dalla NIE-New Italian Epic) estremamente affascinante in questo senso. Ne ho parlato sul mio blog, ma non lascio il link, perché non voglio sporcare con una patetica autoaffermazione questi miei frettolosi appunti. Anni fa la Arcana Edizioni creò una collana che “parlava” di musica. E la chiamò “Vessazioni”, quasi a scusarsi di un probabile appesantimento della musica con la parola scritta. Ma la parola scritta non vessa la musica, anzi la fa rinascere in una nuova dimensione. Una nuova dimensione di confine, completa e affascinante. Ho appena iniziato a leggere il libro di Claudio. Appena lo finirò ne farò una recensione. Sono sicuro che non si preoccuperà se questo vecchio arnese amante rock dirà la sua. Un saluto a Massimo Maugeri e anche a Claudio Morandini col quale ci si insegue sempre sulle note del web.

  5. Caro Massimo, ci siamo! Il tema che proponi mi affascina da anni (“Rapsodia su un solo tema” mi frullava in testa, come idea generale, da quando ero ragazzino) e le tue domande mi scatenano pensieri che già oggi proverò a mettere in ordine in risposte che siano comprensibili.
    E sarà un grande piacere potermi confrontare su una questione così complessa con due scrittori come Marta Morazzoni e Achille Maccapani, e prima ancora conoscerli in questa oasi di confronto civile e alto che è Letteratitudine.
    (Ciao, Angelo, aspetto le tue impressioni!)

  6. Trovo questa discussione molto interessante. Anche a me è capitato in passato di riflettere sul binomio musica e letteratura. Sono d’accordo con Massimo Maugeri. E’ un binomio antichissimo, che oggi vive una nuova vita anche a seguito del successo dei cantautori: parole (letteratura?) in musica.

  7. Non sono brava a rispondere alle domande. E quelle qui porposte non sono semplicissime. Ma mi butto.

  8. Che cosa hanno in comune letteratura e musica?
    In cosa si differenziano nettamente?
    Secondo me hanno , devono avere, in comune il ritmo. Soprattutto il ritmo. Non si può mai prescindere dal ritmo, nè nella musica nè nella letteratura.
    Questo a prescindere dai generi.
    Il ritmo serve sia nella poesia sia nella narrativa.
    Il ritmo serve sia nella musica classica sia nella musica rock.

  9. In quali occasioni la musica è “entrata” nella letteratura (con particolare riferimento alla narrativa)?
    Quali titoli di romanzi vi vengono in mente?

    E in quali occasioni, viceversa, la musica ha “rappresentato” la letteratura?

    Quale romanzo eleggereste come il più rappresentativo del rapporto tra musica e letteratura?
    Per rispondere a queste domande voglio prendermi un po’ di tempo.
    Nel frattempo mi piacerebbe conoscere le opinioni degli altri lettori del blog.
    Auguri a Marta Morazzoni, Claudio Morandini, Achille Maccapani.

  10. Caro Massimo, io delimiterei il campo, da subito, visto che i tre titoli che proponi sono tre romanzi (e uno) che raccontano di musicisti che potremmo catalogare come “colti” (e due).
    Il rapporto tra parola e musica è antichissimo, d’accordo, ma temo che tirare in ballo queste origini remote ci porterebbe troppo lontano. Io non me la sento… Invece, vediamo che cosa succede quando a interessarsi di musica (e di musicisti) è il romanzo.
    La scommessa dei tre romanzi proposti in questo dibattito sta, mi pare, nel dedicarsi a un ambito musicale oggi poco conosciuto e praticato, elitario, talvolta guardato con sospetto. Per essere ancora più chiaro: il rock e il pop in tutte le loro filiazioni hanno già i loro cantori in letteratura, mentre la musica classica, o colta, di rado diventa oggetto di quella particolare esplorazione costituita dalla narrativa. Eppure è un mondo straordinariamente vitale, umanamente ricco, profondo, divertente anche, a guardarlo con un certo occhio.
    Chi racconta di rock o di pop parte avvantaggiato: quella è musica comunicativa per sua costituzione, dotata di un’immediatezza e di una accessibilità condivise, anche per via di una contaminazione con la parola, con il testo. Ed è musica (spero di non suonare snob, nel dirlo) strutturalmente semplice. La musica classica, o colta, o accademica, non parte avvantaggiata: è complessa, non è immediata, è “assoluta” (dalla parola), e soprattutto sembra comunicare essenzialmente se stessa, un sistema estremamente sofisticato di suoni. Raccontare questo mondo di suoni è la scommessa di cui parlavo prima.

  11. Credo che la letteratura non sia mai esente dalla musica: penso che un testo debba essere musicale, avere ritmo, suonare dentro di noi e credo anche che un musicista quando scrive abbia in mente un’emozione e sia quella che vuole rendere con il suono. Chi scrive ha le stesse emozioni e le trasforma in parole, che comunque, ‘suonano’ leggendole.

    Poi. Altra cosa: a volte scrivendo viene in mente di inserire una canzone in sottofondo. Potrebbe essere una canzone con parole che si adattano alla scena che stiamo scrivendo, o una canzone con il ritmo adatto. Oppure può essere una musica che ricalca lo stato d’animo del nostro personaggio. In tutti i casi, io lo trovo un ottimo ‘arricchimento’ della storia.
    Nella storia che sto scrivendo la musica è molto presente, perciò (forse) sento tanto questo argomento.

    Non posso dire nulla sui libri citati, perché non li conosco ma sono certa che siano interessanti anche per questo aspetto.

  12. Oibò che bel tema! difficile rispondere così, sui due piedi. Ci penserò. intanto mi vengono per ora in mente solo film, grandissimi film, come “Tutte le mattine del mondo” di Alain Corneau, che nella storia di Marin Marais e dei sui rapporti con il maestro, Monsieur de Sainte Colombe, e con la corte di Luigi XIV, racchiude tutta la dicotomia tra l’arte per l’arte e il successo. Ma forse sono già off topic. Anche se forse il film era tratto da un romanzo (che non ho mai letto), e non ricordo di chi.
    Tornerò con calma.

  13. Certo, Morena, si può parlare anche di “musicalità” del testo, e non solo del verso, ma anche delle frasi, dei paragrafi, o di cadenza, di “cursus”. Di strutture ritmiche, insomma, o di figure di suono. La cara vecchia retorica, in sostanza. Fa parte del bagaglio degli scrittori da sempre, non mi pare si possa considerare un debito nei confronti della musica, un influsso della musica, o un avvicinamento alla musica.
    Però hai ragione, quando si scrive è importante essere consapevoli di quanto questo strumento faccia risuonare le nostre parole di armonici nuovi (sto al gioco anch’io).

  14. Torno alla prima domanda di Massimo.
    Il “mestiere” del musicista (del compositore, soprattutto) e quello dello scrittore hanno molti punti in comune: il primo è la scrittura (l’alto artigianato della scrittura, potremmo dire); poi ci sono il rapporto con la committenza, con il pubblico, con il gusto, e il brulichio di tutto quel mondo che vive attorno alla e di musica (o attorno alla e di letteratura).
    Direi anche che musica e letteratura possono essere accostate, con una certa dose di approssimazione, a livello di costruzione. Qui tiro in ballo la mia piccola esperienza: ci sono forme musicali alle quali riconosco di essermi ispirato: il tema con variazioni, per esempio; la rapsodia (naturalmente).
    Ma c’è dell’altro: se uno prende una struttura di classica, cristallina perfezione come la forma-sonata, e legge, o sente, i temi come caratteri (o come personaggi) e l’intreccio e lo sviluppo dei temi come relazioni tra personaggi, ecco che ci trova una potenzialità narrativa, quasi romanzesca. Ogni compositore classico sembra aver raccontato in mille modi diversi la stessa storia. Ah, quante cose da dire ci sarebbero!

  15. Quanto alla seconda domanda:
    In cosa si differenziano nettamente?
    Io credo che la musica rimandi a se stessa, e che i suoni non siano nient’altro che suoni (mi riconosco nella linea Hanslick-Stravinskij, e direi che il mio Dvoinikov la pensa come me, mentre Ethan Prescott, il giovane americano che lo intervista, sembra più possibilista sul fatto che la musica possa esprimere qualcosa di più che pure forme sonore). Siamo noi, nell’ascolto, a sovrapporre a quelle aggregazioni di suoni dei significati che sono in realtà nostri, e che fanno parte del nostro vissuto, pescano nelle nostre esperienze, sono insomma incrostazioni soggettive, che diranno molto di noi, poco della musica.
    Poi c’è un altro aspetto: la musica vive nelle mani (o con il fiato) di mediatori, di esecutori, o meglio di interpreti, che danno vita alle partiture e le trasmettono al pubblico, con un ruolo quasi pari al compositore. È una forma di intermediazione che manca nel mondo della letteratura.

  16. In quali occasioni la musica è “entrata” nella letteratura (con particolare riferimento alla narrativa)?
    Me la cavo rimandando agli studi di Roberto Russi, che si occupa da una vita del rapporto tra musica e letteratura. Un suo libretto, densissimo di riferimenti, come “Letteratura e musica” (Carocci, 2005), mi ha dato suggerimenti preziosi sui mille modi in cui la narrativa ha potuto narrare la musica.

    Quali titoli di romanzi vi vengono in mente?
    Ne cito due, per ora. Il primo, ingombrante e ineludibile, è il “Doktor Faustus” di Mann. Chiunque scriva di musica e di compositori con gli strumenti anche dell’analisi musicologica (applicata a composizioni immaginarie) deve fare i conti con Mann. È un romanzo-monstre, che disorienta, spaventa, schiaccia, ma è anche un incredibile capolavoro che forse oggi nessuno scriverebbe più, e soprattutto nessuno pubblicherebbe.
    L’altro è quel gioiellino (così mi era apparso anni fa: dovrei verificare se mi suona ancora così) che è “Il soccombente” di Bernhard, che in Italia è stato pubblicato da Adelphi. Eccolo, il tema (che in musica viene così bene, pensate a Mozart e Salieri) del confronto tra bravura e genio – nel caso de “Il soccombente”, un talentuoso pianista crolla dinanzi al modello irraggiungibile di Glenn Gould. Irraggiungibile nel romanzo di Bernhard, è ovvio.

  17. Grazie Claudio.
    “Siamo noi, nell’ascolto, a sovrapporre a quelle aggregazioni di suoni dei significati che sono in realtà nostri, e che fanno parte del nostro vissuto, pescano nelle nostre esperienze, sono insomma incrostazioni soggettive, che diranno molto di noi, poco della musica.”
    Riprendo queste tue parole perché sono rapportabili anche alla lettura di un testo, poetico o di prosa non fa differenza. Chi legge tenderà sempre a dare alle parole il significato che sente più suo, collegandolo alla sua vita e alle sue emozioni. Di ciò che voleva dire l’autore a volte rimane ben poco. (ed è giusto che sia così).
    Anche in questo musica e letteratura sono simili: nella ‘lettura’ che ne fa chi legge e chi ascolta.
    Poi c’è l’altro aspetto, quello di cui hai scritto: la musica ha sempre bisogno di un intermediario (a meno che io non suoni direttamente leggendo dallo spartito, ma anche in questo caso la mia esecuzione sarebbe ‘mediata’ dalle mie emozioni del momento e anche dalle capacità che ho, ma questo è un altro discorso).
    La letteratura può essere gustata in piena autonomia e questo la rende più indipendente, credo.

  18. Però per me, per la stesura del mio “Rapsodia su un solo tema”, sono state importanti anche altre fonti scritte non letterarie: i Colloqui di Stravinskij con Robert Craft, innanzitutto (che possiedo in una vecchia edizione Einaudi), le “Cronache della mia vita” dello stesso Stravinskij, o i saggi di Luciano Berio (“Lezioni americane”, e “Intervista sulla musica”).
    Ho già citato altrove “Le giornate di un compositore” di Vittorio Zago: prezioso libretto, che ci permette di entrare nel processo compositivo e creativo. E quel fondamentale saggio che è “Il resto è rumore” di Alex Ross (Bompiani), sulla musica e la vita musicale del Novecento. “Rapsodia” era già in bozze, quando il saggio di Ross è uscito in Italia, ed è stato confortante per me trovare sintonie con quell’opera oltretutto accattivante e divertente.
    E chissà che altro mi verrà in mente dopo che avrò spedito questo contributo…

  19. Per quanto riguarda la musicalità della scrittura nella narrativa, vorrei menzionare “The old man and the sea” di Ernest Hemingway: leggerlo (in lingua originale) fu per me una folgorazione.
    Mi domandai quanto lavoro – geniale – sulla lingua fosse stato necessario per ottenere questa sinfonia di parole, immagini e pensieri: un lavoro di continua limatura, un procedimento “per diminuzione” (prendo in prestito questo termine tecnico del contrappunto musicale), vòlto a togliere l’inessenziale e il superfluo da ogni periodo e da ogni frase.
    Mi capitò, in seguito, di leggere “Il principio dell’iceberg”, un’intervista fatta ad Hemingway da George Plimpton (trad. it. di Angela Tranfo), in cui s’illustrava l’importanza di scegliere, lavorando alla stesura di un romanzo, ciò che dire e ciò che, invece, lasciare sommerso, inespresso, ma egualmente pulsante: l’importanza cioè di creare, parallelamente, un sottotesto che facesse da contrappunto invisibile all’écrit testuale, creando continue tensioni e risoluzioni, consonanze e dissonanze, capaci di alimentare l’immaginazione del lettore e di stimolarne la curiosità critica.
    Ho voluto, inoltre, proporre “The old man and the sea” anche per ricordare la compianta Fernanda Pivano, che di Hemingway fu geniale traduttrice e divulgatrice: leggere il “suo” “Il vecchio e il mare” è stato il poter ripercorrere lo stesso spartito, il sentir ripercosse le medesime corde di musicalità, con una sobrietà di stile e una profondità espressiva davvero ineguagliabili.

  20. carissimo massimo, mai argomento m’è stato così tattile.
    continuo a seguirvi, ma stare dietro a tutto ciò che scrivete non m’è possibile, anche perché tante cose non le conosco o capisco, per cui cerco di evitarmi brutte figure. ma qui, anche se in una piccolissima parte, so che ne faccio parte anche io.
    una volta mi dicesti…, ma io non so pubblicizzarmi, però posso dire che a me la musica m’è stata vitale, sia per l’anima che per la mente.
    non credo che si possano scindere – letteratura e musica – perché entrambe hanno la loro parola.
    noi, e qui perdonami se faccio i nomi, orlando andreucci ed io, abbiamo provato a dimostrarlo con libro in musica notediparole, lo stesso che anche la gentile scrittrice morena fanti ha recensito.
    il binomio è cammino, e il cammino ha le sue strade, ed ogni strada porta ad un porto, o casa, e questa casa ha un solo nome: vita.
    e la vita, ha i suoi, ritmi…

    lo so, non dovevo, e vi chiedo perdono, ma a volte i “figli”…

    in bocca al lupo agli autori, che per mia ignoranza non conosco, e complimenti per tutto, all’ottimo massimo.

    un caro saluto
    simonetta bumbi

  21. Nella musica, come in letteratura, è concepibile un’alternativa fra la supremazia del testo nei confronti del lettore e il primato del lettore sul testo: il lettore e il testo diventano Testo. Come dice Harold Bloom, “si è o si diventa ciò che si legge” e “quello che sei è l’unica cosa che puoi leggere”.
    Da Un ricordo al futuro, lezioni americane di Luciano Berio

  22. Il primo grande ringraziamento va a Claudio Morandini, che – tra le altre cose – mi darà una mano ad animare e moderare questo nuovo spazio letteratitudiniano.
    Come ho già avuto modo di anticipare, ho l’intenzione di fare di questo post un nuovo forum permanente.

  23. Non so se oggi e domani riuscirò a intervenire ancora (sono subentrati alcuni impegni).
    In ogni caso questo post rimarrà in primo piano almeno fino a sabato prossimo… poi predisporrò un nuovo “pulsantino” in una delle colonne del blog (come quelli sul “romanzo storico” e la “letteratura dei vampiri”).

  24. Insomma, avremo tempo e modo di approfondire le tematiche proposte e la conoscenza dei romanzi e degli autori coinvolti.
    L’intenzione, peraltro, è quella di invitare (nel tempo) altri autori di libri attinenti al tema “Letteratura e musica”.

  25. E avremo anche modo (spero) di condividere materiale e informazioni attinenti al tema della discussione.
    Per il momento mi permetto di ri-mettere in evidenza le “domande del post”…
    (invitandovi a fornire le vostre risposte).

  26. Che cosa hanno in comune letteratura e musica?
    In cosa si differenziano nettamente?

    In quali occasioni la musica è “entrata” nella letteratura (con particolare riferimento alla narrativa)?
    Quali titoli di romanzi vi vengono in mente?

    E in quali occasioni, viceversa, la musica ha “rappresentato” la letteratura?

    Quale romanzo eleggereste come il più rappresentativo del rapporto tra musica e letteratura?

  27. Forme diverse che lo spirito assume per esprimersi…
    Amo la letteratura e la musica, che sono parte imprescindibile della mia vita.
    Canto in un coro lirico, dopo anni di coro polifonico. Scrivo da sempre. E non credo che saprei rinunciare a queste esigenze d’anima.
    Letteratura e musica sono un binomio: se pensiamo al coro greco e alla sua commistione di parola, danza e musica… o alla poesia lirica. Sempre accompagnata dalla musica. La scrittura è ritmo, eufonia o cacofonia studiate, è commistione di fonemi e grafemi.
    Per le altre domande… ci penserò. Meno male che è un post permanente, bravo Massi!

  28. Innanzitutto grazie per gli spunti di riflessione sempre validissimi. Proprio l’altro giorno pensavo che per me la tastiera del computer e come quella di un pianoforte.Mi rendo conto che una storia funziona solo quando riesco a imprimerle il ritmo giusto, quando riesco a trovare parole di inedità musicalità. Per me dunque la letteratura come la musica è fatta di ritmo e note. Le note sono le parole. Per questo rileggo ogni pagina e poi tutte le pagine una dietro l’altra per “Sentire” l’effetto del loro succedersi. A volte un sottofondo musicale mi può aiutare a scrivere, può stimolare l’ispirazione che passa da un linguaggio ad un altro.
    Un romanzo musicale nel contenuto e nella forma è sicuramente “Stabat mater” di Tiziano Scarpa.

  29. Ho da poco letto “come pescare, cucinare e suonare la trota”, di Cristò (ed. Florestano): un racconto sulle prove di un concerto tratto da un lied di Schubert, La trota, appunto. Il libro è bellissimo anche per una lettrice all’asciutto di nozioni musicali.

    Molto bello anche “Incanto classico” di Minervini (Stilo): musica e letteratura

  30. Grazie a te, Massimo, e grazie a tutti gli amici che rendono vivace e fertile questo dibattito.
    Ho appena scoperto in libreria un piccolo libro che fa al caso nostro: il delizioso “Mozart” di Paolina Leopardi (la sorella di Giacomo, già), ripubblicato a cura de Il Notes Magico.

  31. Ma andiamo avanti con le risposte alle domande di Massimo:
    E in quali occasioni, viceversa, la musica ha “rappresentato” la letteratura?

    Mi vengono subito in mente le collaborazioni tra Berio e Calvino (“La vera storia” e “Un re in ascolto”), Sanguineti (“Laborintus II”, “Passaggio”, “a-ronne”), Eco (“Epifanie”). Musica e parola si indagano a vicenda, si smontano e rimontano, in un gioco complesso di cooperazione e contaminazione alla pari.

    Poi mi viene in mente la ricerca di un amico compositore, Alessio Elia, che da anni si dedica a dar forma musicale in un progetto ambizioso ai racconti dell’ungherese Géza Csáth. Tra parentesi, Alessio mi ha fatto conoscere i gioielli torbidi di quel grande autore, che in Italia è quasi introvabile.

    Se poi posso buttar lì una annotazione relativa al mio romanzo, ecco che verso la fine di “Rapsodia” l’americano, Ethan Prescott, comincia a progettare un’opera (che contamini il linguaggio sofisticato della musica colta con gli stereotipi bassi della sit-com) su un (immaginario) libello settecentesco, il “Viaggio musicale nel secolo ventesimo”; in questo Joseph Mathias Mayer, un compositore tedesco antenato di Dvoinikov, immagina un viaggio nel tempo (alla Swift, alla Bergerac) nel mondo musicale del Novecento, di cui dà una immagine paradossale, caricaturale ma anche profetica.
    (È curioso scoprire che tutti i musicisti del mio romanzo nutrono una propensione per la scrittura: Prescott è praticamente un grafomane, Dvoinikov progetta trattati e edizioni critiche sul suo antenato musicista, Mayer si dedica a operette fantastiche, Thalberg è a metà di un saggio sull’accordo di settima di dominante… Come a dire che quando si tratta di fare il punto su qualcosa, di comunicare qualcosa, è la parola a tornare utile, più che la musica…)
    Ma la domanda di Massimo era un’altra, lo so: e io ho divagato senza ritegno allontanandomi dal punto. Dovrò tornarci su (ma domani, temo).

  32. Su Il Doctor Faustus, romanzo quasi dimenticato.
    La “Lamentazio Doctoris Fausti”, opera del protagonista del romanzo di Tomas Mann, è un oratorio ” in cui il musicista si contrappone a tutto ciò che di luminoso c’è nella vita, in un certo modo la Nona Sinfonia di Beethoven alla rovescia, con l’esaltazione dell’oscurità e del male invece che della gioia e della speranza”.
    Mi chiedo se Mann sia stato profeta e quanta musica e letteratura oggi abbiano questo timbro.

  33. La musica è per me un linguaggio universale, non ha bisogno di parole per descrivere un’emozione, è qualcosa di immediato, che libera la nostra sfera sensibile. La letteratura ha bisogno di più tempi, di costruzioni linguistiche che possono anche essere interpretate in modo diverso, quindi la percezione del lettore è subordinata alla propria esperienza di vita, al proprio modo di capire un racconto, al proprio giudizio critico. Le note pure, scevre di parole, entrano invece diritte senza ambiguità. Adoro la musica ed allo stesso modo la letteratura e ogni libera espressione artistica, ma non amo ad esempio la musica che si piega ad un programma letterario, ad esempio le opere di musica classica costruite per dare enfasi a fiabe o tragedie. Da Chopin a Vasco Rossi, dai Sex Pistols alla Samba…la musicalità di note e parole nel giusto equilibrio.

  34. La letteratura è a suo modo musica, ha un suo ritmo, una sua cadenza, le parole stesse sono musica e numeri come sapeva bene Pitagora, per non parlare della poesia oggi così poco letta e sottovalutata, con i versi che cantano.
    La letteratura e la musica sono attività senza senso, in questo consiste la loro sublime bellezza, sono un non-sense necessario alla vita, veicolano tempesta e quiete emotive, pungono l’animo. Hanno vita propria e in questo senso dire “faccio musica” oppure “scrivo”, appare sotto una luce ridicola, perché la materia stessa possiede scrittore e musicista. La musica, il senso del ritmo, esiste nei passi che facciamo ogni giorno sull’asfalto delle nostre città, nella pioggia che cade, nel moto dei pianeti, nel respiro, nel battito degli occhi, nel riso e nel pianto umani. Quindi impossibile liberarcene, per fortuna.
    La differenza tra letteratura e musica è come quella tra un occhio e il ritmo. Quest’ultimo possiede l’occhio attraverso il battito delle ciglia, gli da musicalità, vita. L’occhio è passivo, posseduto dalla musica, come il piede che cammina per strada, la pioggia che batte sulle tegole d’inverno. Un occhio senza battito di ciglia sarebbe catatonico.
    La letteratura è il ricettacolo del ritmo, ne è suo malgrado posseduta, anche inconsapevolmente, la sua forma definitiva non può prescindere dalla musicalità che fa parte di lei.
    Quindi non ci sono occasioni in cui la musica entra nella letteratura, la musica è letteratura, non esiste letteratura senza musica.
    C’è un’interdipendenza, un legame indissolubile, soltanto la musica è più indipendente, può esistere anche senza parole, mentre la parola nel momento stesso in cui il suono viene emesso è già una musica.

  35. (Nel frattempo ho cominciato a leggere “La nota segreta” di Marta Morazzoni: eccellente, rigoroso, intenso, appassionato – no, meglio: sensuale. Sarà una serata estremamente piacevole.)

  36. da “Schumann e Jean Paul – Una similitudine ideale)
    di Elisabetta Pani
    MUSICA E LETTERATURA: TEORIE DI TRASMUTAZIONE
    “L’estetica di un’arte è quella delle altre; soltanto il materiale è diverso”. Questo pensiero di Robert Alexander Schumann è rivelatore della tendenza tipicamente romantica a trovare un tessuto connettivo tra tutte le forme di espressione dell’uomo, a “trasmutare” un linguaggio artistico nell’altro in nome dell’assolutezza dell’Arte.
    Schumann può essere considerato il compositore più profondamente e totalmente romantico proprio per il suo grandissimo interesse per le altre arti, la letteratura in specie, che lo accompagnò sin dai primi anni della sua giovinezza, e, in particolare, per i continui riferimenti letterari delle sue composizioni. Oltre, naturalmente, che per lo slancio inventivo appassionato, struggente, tipico della sua musica; per l’amore per le forme non definite, in divenire, le creazioni inquiete, pregne di annunci e di promesse.
    Un legame profondo può unire le arti nella loro imprescindibile diversità, un’intensa parentela intellettuale, estetica, psicologica: la stessa emozione, la stessa vibrazione dell’animo, nasce, come da un sentimento generatore comune, attraverso mezzi e modalità differenti.
    Scrive Kandinsky: “Ogni arte ha un suo linguaggio, vale a dire un suo mezzo particolare ed esclusivo. Ogni arte è dunque qualcosa di concluso. Ogni arte ha una vita propria. E un regno a sé. Per questo i mezzi di arti diverse sono esteriormente diversissimi. Suono, colore, parola!.. Ma nella profonda ragione interiore, questi mezzi si equivalgono: lo scopo ultimo cancella le diversità esteriori e mette a nudo l’identità interna. Lo scopo ultimo (conoscenza) viene raggiunto nell’anima umana grazie alle più sottili vibrazioni della stessa. – … – L’affinamento dell’anima attraverso il sommarsi di determinati complessi di vibrazioni: ecco il fine dell’arte.”

    La comparazione tra musica e letteratura si basa dunque, a nostro avviso, su impressioni percettive che colgono una similitudine ideale e non tratti schematicamente individuabili. In questo senso è interessante conoscere le analogie tra musicisti e scrittori fatte da A. Wendt:” Haydn si potrebbe paragonare a Goethe in quanto predomina in lui la rappresentazione epica, Mozart per il suo pathos permeato di malinconia a Schiller; Beethoven infine per il suo umorismo omnicomprensivo a Jean Paul, ma per la sua natura drammatica a Shakespeare”.
    In particolare tra musica e letteratura si può avere una vera e propria simbiosi, che va ben al di là dei legami sonori, ritmici e formali superficialmente individuabili che adesso ci apprestiamo ad elencare. La reciproca influenza tra musica e letteratura può infatti generare, ad un livello più elementare e diretto, effetti e risultati immediatamente tangibili. Il poeta, ad esempio, può dar vita ad un vero e proprio collegamento per “analogia” col lavoro del compositore: con allitterazioni e assonanze può ottenere effetti sonori onomatopeici o descrittivi, con la metrica e l’attenta disposizione degli accenti può dar vita a singolari e “musicali” andamenti ritmici, infine, con un saggio uso della ripetizione e della variazione di formule o “frasi tematiche” può raggiungere più profonde similitudini formali con l’arte dei suoni.
    D’altro canto il compositore, nel mettere in musica testi poetici, come abbiamo visto, cerca di creare un logico legame tra le parole, con il loro significato letterale e/o drammatico, e le scelte musicali. Scelte tese ad evidenziare il senso, a dar risalto ai contrasti.
    Il lied, in questo senso, è una delle forme più tipiche, rappresentative e immediatamente tangibili della romantica commistione tra le arti. In questa piccola ma compiutissima forma , infatti, grandi capolavori della poesia europea scritti a cavallo tra ‘700 e ‘800 ( liriche di Heine, Schiller, Goethe, Byron, Wolff, Kerner, Burns) sono “tradotti” in linguaggio musicale tramite melodie originali composte appositamente dai più rappresentativi compositori romantici (Schuberth, Schumann, Mendelsshon, Brahms, Wolf).
    Il lied è un grande passo avanti nel cammino verso il raggiungimento di un’opera d’arte che comprenda e, allo stesso tempo, trascenda, tutti i generi musicali; opera d’arte in cui, come dice Wagner, l’idea poetica diventa nella linea melodica del canto “il sentimento che afferra spontaneamente” mentre la “capacità di parlare” dell’orchestra si eleva a “capacità di comunicare l’ineffabile”.
    Ma torniamo al poeta che tra rime, endecasillabi e ritornelli vuol imitare ed emulare l’intangibile mondo dell’arte musicale. Si tratta di quel trasferimento delle tecniche e degli effetti di cui hanno parlato Irving Babbit e altri scrittori a proposito della “confusione romantica delle arti”. Ma Babbit parlava anche di trasferimento di “contenuti” e bisognerebbe comprendere a fondo proprio il significato di questa espressione e chiedersi quali siano in realtà, in profondità, questi contenuti, quali sia quel significato universale che non si perde, ma anzi si chiarisce ed arricchisce, nel processo di traduzione o di trasmutazione da un sistema di segni ad un altro.
    Interessante ci sembra a questo proposito la spiegazione di Calvin S.Brown a proposito dell’utilizzo, in letteratura, della tecnica musicale del contrappunto. Essendo quest’ultimo, in musica, la presenza simultanea di due o più voci del tutto indipendenti, è evidente la difficoltà di ottenere lo stesso effetto a livello letterario; in particolare è pressocchè impossibile ottenere per iscritto un contrappunto di parole e frasi. D’altra parte, se pur oralmente teoricamente realizzabile, non è affatto facile cogliere il senso di due testi ascoltati contemporaneamente.
    L’unica forma d’arte che potrebbe, grazie all’ambientazione teatrale, ottenere, a livello puramente tecnico e superficiale, un effetto simile a quello del contrappunto musicale, sarebbe il dramma. Ma neanche quest’ultimo, in realtà, è riuscito a sviluppare a pieno la tecnica contrappuntistica, se non, in parte, in alcuni drammi elisabettiani, con ben definite trame secondarie che si alternano “polifonicamente” al filo conduttore principale.
    Nel contrappunto, infatti, le varie parti devono essere separate, quasi indipendenti, pur rimanendo collegate; alle loro spalle deve esserci una qualche idea unificante, un contenuto comune.
    Il contrappunto, insomma, non è fine a se stesso, non può essere una coincidenza casuale di discorsi o trame simultanee; proprio la musica ci insegna che non si tratta di una semplice tecnica compositiva, ma di un vero e proprio punto di vista ideologico, quello che predilige la complessità alla semplificazione del reale, che vuol rappresentare le molteplicità e i difficili legami che segnano l’esistenza dell’essere umano, che vuol dar voce a tutti i punti di vista, perché la realtà non è mai una sola, e ogni voce ha diritto ad esprimere il suo, personale, sentimento di vita.
    Il contrappunto, quindi, non è una “tecnica” da individuare solo in superficie, ma un’idea, un contenuto, un significato.
    “Tra gli scrittori ossessionati dal contrappunto la maggior parte ha compreso sin dall’inizio l’impossibilità di proporre un suo esatto parallelo letterario, e di conseguenza si è sforzata di escogitare un qualche artificio che potesse passare per un equivalente approssimativo. Il più comune tentativo di risolvere il problema si basava sull’idea di un rapido spostamento dell’attenzione da una cosa all’altra. Conrad Aiken (1889-1973), che si è occupato a lungo e con buoni risultati del problema di adattare gli effetti e gli espedienti musicali all’uso letterario, scrisse una volta un saggio piuttosto dettagliato sulla sua brama di contrappunto e sui metodi tentati per assicurare la sua pratica anche alla poesia…La sua soluzione principale prevedeva l’alternanza di immagini, stati d’animo ecc. Una delle poesie di Aiken, “A Conterpoint”, illustra bene il metodo nella sua forma più semplice. Il brano è imperniato su due persone, un uomo anziano e una giovane donna, che vivono nello stesso edificio in due appartamenti diversi, uno sopra l’altro, e benché da un punto di vista strutturale ci sia semplicemente una rapida alternanza poiché i due “rincorrono i loro diversi sogni” viene mantenuta una interrelazione costante tra le due serie indipendenti di pensieri.”
    Ciò che conta, dal nostro punto di vista, nel lavoro di Aiken, non è tanto il “contrappunto” stilistico, ma quello del pensiero e dei piani psicologici; per la nostra visione della comparazione tra musica e letteratura non è affatto fondamentale che i due protagonisti della poesia siano posti fisicamente ( e visivamente) l’uno sopra l’altro, ma piuttosto che i loro pensieri, le loro riflessioni, i loro sogni, si intreccino nel contrappunto percettivo del mondo del lettore, trascinandolo nell’universo della molteplicità dei punti di vista e delle realtà.

    Robert Schumann scrive nel 1839 ad un ammiratore belga, Simonin De Sire: “Lei non conosce Jean Paul…Da lui ho imparato più contrappunto che dal mio insegnante di musica”. Questa frase è una vera rivelazione che abbatte ogni dubbio e ci porta ad una più salda consapevolezza: l’estetica di un’arte è quella delle altre, come anche il contenuto, i moduli espressivi. Infine il senso ultimo di un’arte è il senso ultimo, universale, che accomuna tutte le altre.
    Jean Paul, con la sua arte nel sovrapporre trame e piani compositivi tipica dei suoi romanzi, ha insegnato al giovane compositore l’arte del contrappunto, inteso come incastro tra due o più voci, come coesistenza di molteplici linee o punti di vista; Jean Paul con i suoi capolavori ha insegnato a Schumann l’arte del cogliere il mondo nella sua estrema complessità, nel suo intricato e arditissimo contrappunto di vite e di sentimenti.
    Per Schumann l’arte di Jean Paul contiene l’essenza stessa della musica, e quando egli, in numerose circostanze, mette Richter e Bach l’uno accanto all’altro come Maestri che hanno avuto su di lui l’influsso più grande, così egli esprime chiaramente che la musica e la letteratura sono per lui una unità, una “poesia” la cui forma espressiva può essere di suoni come di parole.
    D’altra parte il giovanissimo Robert ancor prima di approfondire la sua conoscenza di Jean Paul, scrisse per la cerimonia scolastica degli esami di maturità un discorso “Sulla Profonda affinità tra Musica e Poesia”. E ancora, quando il compositore ventiquattrenne decise di dar vita ad una propria rivista musicale “Il nuovo giornale della musica di Lipsia” ci tenne a precisare che egli non voleva fornire al suo pubblico informazioni di tipo esclusivamente musicale, bensì trattare ogni sorta di argomenti che potessero interessare “artisti in genere”.
    Dice Schumann: “Riteniamo che il pittore può davvero imparare altrettanto bene dalle Sinfonie di Beethoven, come un musicista da un capolavoro di Goethe.” Ancora una volta, quindi, musica e letteratura, ma anche musica e pittura, figlie di comuni intenti artistici e universali, sorelle che si scambiano insegnamenti, metodologie, ma soprattutto suggestioni, emozioni.

  37. MUSICA, LETTERATURA, PITTURA: ESEMPI DI TRASMUTAZIONI
    Una parentela, quella tra le arti, che non cesserà di esprimersi nel periodo romantico, ma che arriverà, passando dalla imprescindibile definizione di arte totale di Wagner, sino alle avanguardie del ’900 e a rapporti di collaborazione materiale e ideale tra rappresentanti illustrissimi delle arti più diverse.
    Un esempio tra tutti è il rapporto di profonda amicizia intellettuale e artistica tra Schönberg e Kandinsky. Il celeberrimo pittore, dopo aver ascoltato ad un concerto (tenutosi il primo gennaio 1911) il Quartetto per archi op.10 e i Klavierstücke op.11 di Schönberg, decise di scrivere al compositore una lettera di profonda ammirazione. Kandinsky aveva ritrovato nella musica del padre della dodecafonia lo stesso tentativo di rottura con le passate convenzioni, la stessa rivoluzione o “disgregazione” strutturale che lui stesso stava cercando di attuare nella pittura.
    “…Ma i nostri intenti, il nostro modo di pensare e di sentire hanno così tanto in comune che sento di poterLe esprimere la mia simpatia. Nella sua opera Lei ha realizzato ciò che io, in forma naturalmente indeterminata, desideravo trovare nella musica. Il cammino autonomo lungo le vie del proprio destino, la vita intrinseca di ogni singola voce nelle Sue composizioni, sono esattamente ciò che io tento di esprimere in forma pittorica. – … – Penso infatti che l’armonia del nostro tempo non debba essere ricercata attraverso una via “geometrica”, bensì attraverso una via rigorosamente antigeometrica, antilogica. Questa via è quella delle “dissonanze nell’arte”, dunque anche nella pittura, come nella musica…” Le “dissonanze nell’arte”, questa musica e questa pittura disgregate, frammentate, senza una forma (almeno apparentemente), talvolta persino caotiche e illogiche, sono il risultato di un’identità nel modo di sentire la vita e l’atto artistico, un’identità che nasce da un comune disagio rispetto a vecchi schemi e ad obsolete tradizioni. Ciò che cambia, come dice Schumann, è solo il “materiale”, laddove invece i contenuti e il senso estetico sono talmente simili da risultare interscambiabili.
    Ma torniamo a Jean Paul. Possiamo capire, da una pagina di diario dello stesso Schumann, come la sua opera poetica diventi esempio, modello, di una nuova libertà formale.
    Schumann infatti sostiene l’esistenza di una analogia tra la “struttura della libera fantasia nella musica” , i polimetri di Jean Paul e gli antichi cori greci. Questa libertà nasce dall’indipendenza dalle leggi del metro poetico e musicale, e questa forma d’arte libera sarebbe più geniale e più spirituale della forma tradizionale e vincolata.
    “Schumann considerava la forma di poesia di Jean Paul come esemplare per una nuova forma di poesia e di musica che verrebbe ampiamente esonerata dalle leggi della lirica metrica, e quindi dai principi di simmetria del periodo musicale”.
    “La musica sembra voler ritornare alle sue origini primordiali, quando ancora non la opprimeva la legge del rigore della battuta, ed elevarsi indipendentemente al discorso libero da ogni costrizione, ad una superiore interpunzione poetica (come nei cori greci, nel linguaggio della Bibbia, nella prosa di Jean Paul)”.
    Schumann quindi con i suoi scritti, le sue riflessioni e con la sua stessa opera ci spiega il vero, profondo legame tra musica e letteratura ed egli stesso incarna questo legame portando ai suoi massimi livelli una simbiosi che raramente ha conosciuto realizzazioni così profonde. Ne è un esempio l’op. 2, “Papillons”, nata dalla lettura dell’ultimo capitolo dei “Flegeljahre” di Jean Paul, “Larventanz”, ovvero “Ballo mascherato”. “Io ero quasi inconsapevole al pianoforte e così veniva fuori un Papillon dopo l’altro” scrive il giovane compositore nel 1832. Egli non musicò mai un Polimetro del suo idolo Jean Paul, non gli interessava sottolineare questo tipo di legame, non sono le sue parole a dare materiale alla produzione artistica di Robert bensì l’intero animo, il pensiero, il senso artistico del poeta Jean Paul.
    Qualcosa di simile a Papillon accade per la genesi di una composizione pur tanto diversa e lontana nel tempo, ovvero l’”Histoire de Babar” di Francis Poulenc. “La figlioletta di uno dei cugini di Poulenc sentendo Poulenc improvvisare gli si avvicinò e disse: – quello che state suonando è molto noioso. Perché non suoni questo? – E gli mise sul pianoforte la sua copia del libro illustrato di Jean de Brunhoff. Poulenc ne fu affascinato e cominciò a improvvisare quello che sperava corrispondesse ai sentimenti della bambina”. In questo caso il legame tra musica e letteratura è “mediato” dall’immagine, dall’illustrazione, scatenando un’improvvisazione più spontanea, immediata e, se vogliamo, semplificata.
    Si tratta anche in questo caso di un processo di “traduzione”, “trasmutazione”, “comparazione”.

    E’ curioso notare quanta musica, quanta “comparazione” si ritrovi nei giudizi su Jean Paul. Già Novalis aveva riconosciuto che “Richter poetizza una fantasia musicale”. Wihelm Dilthey lo chiama apertamente “il poeta più musicale di questi tempi”. Hugo da Hofmannsthal afferma ancora: “La poesia tedesca non ha prodotto niente che sia così imparentato con la musica”. Infine Max Kommerell afferma che Jean Paul è riuscito a creare una nuova arte nel linguaggio, “la prosa cha canta”.
    Schumann e Jean Paul incarnano quindi il più profondo e intimo legame tra due arti apparentemente così diverse come musica e letteratura, grazie ad una identità nell’ispirazione, nello stile, nella forma, nello stesso sentire la vita e l’arte. “Robert Schumann è il Jean Paul musicale” scriveva Lenser nel 1838 nel saggio “Robert Schumann e la scuola romantica” apparso sulla rivista “Zefiro”, e forse, anche se Jean Paul non ha potuto risentire dell’influenza della musica schumanniana, potremmo chiamarlo “lo Schumann letterario”.
    Ma, nonostante l’evidente paradosso cronologico, è inevitabile chiedersi quali sarebbero state le reazioni di Richter nell’ascoltare l’umoristica, drammatica, rivoluzionaria musica schumanniana; forse, ispirato dalle suggestioni di quest’ultima, avrebbe scritto polimetri o romanzi “alla Schumann” o, addirittura, avrebbe inserito vere e proprie “citazioni” dell’opera del compositore facendo suonare ai suoi innumerevoli personaggi “musicanti” melodie tratte da “Papillons”, dalle “Scene infantili”, da “Davidsbündler”, dal “Carnaval”.
    E’ ciò che accade in uno dei capolavori della letteratura tedesca del ’900, la novella di Schnitzler “La signorina Else” pubblicata nel 1924, a cavallo delle due guerre mondiali, periodo di crisi e disgregazione della società borghese ormai corrotta e priva di ideali e di quella cultura che sino ad allora l’aveva rappresentata.
    La protagonista vive l’eterno dramma di coloro che, non accettando i compromessi, le falsità, i ricatti di una società dominata dall’immoralità e dal dominio del denaro e del sesso, sono costretti ad isolarsi, a ripiegare nel mondo della propria coscienza, ad esistere solo nella propria interiorità in una condizione di smarrimento e di distacco, tragico e disperato, dal mondo reale.
    Attraverso il monologo interiore, un vero e proprio flusso di coscienza senza schemi, regole, forme precostituite, ma legato solo al mondo di sentimenti, percezioni, emozioni della protagonista, siamo trascinati nel “suo” mondo, e guardiamo con i suoi occhi le atrocità di una realtà bieca e insostenibile. E proprio nel momento più tragico dell’intera novella, quando la giovane, ormai distrutta nel proprio essere e in preda ai primi effetti allucinatori di un veleno mortale spontaneamente ingerito, si mostra nuda davanti ad uno squallido individuo per ottenere la somma di denaro necessaria ad evitare l’arresto del padre, proprio in quel momento Schnitzler inserisce “fisicamente” e “narrativamente” stralci del “Carnaval” di Schumann.
    “Ma che ho fatto? Che ho fatto? Che ho fatto? Svengo. Tutto è finito. Ma perché non c’è più musica?” E così, proprio sulle note di Florestano, la giovane donna ha compiuto il suo estremo sacrificio e comincia lentamente a morire esattamente quando la musica si interrompe. Una musica scelta non a caso: il Carnaval, infatti, come vedremo (capitolo V) è il luogo della maschera e della finzione, della lotta tra i sostenitori dell’autenticità e della solidità dei valori nella vita come nell’arte e coloro che invece perseguono facili mete e falsi ideali.
    E’ l’eterna lotta tra il mondo prosaico e le anime poetiche, quella lotta che Jean Paul aveva risolto nell’ umorismo, sereno, tragico talvolta, ma pur sempre ancorato ad un mondo ancora fiducioso nell’uomo e nel futuro della società.
    Schumann, con il suo “Carnaval”, funge da tramite tra i due autori, anche lui arriverà a quella disperazione insanabile, a quell’assoluta impossibilità di integrazione che porta la giovane signorina Else ad uccidersi. Finisce la musica, il gesto è ormai compiuto, e ad esso si collega inevitabilmente la morte della protagonista, ritenuta pazza proprio da coloro che la circondano, coloro che dovrebbero amarla e disperarsi con lei.

    La musica del “Carnaval” ha quasi aiutato, accompagnato la messa in scena di Else, il suo mostrarsi nuda; lei a tratti riflette, a tratti ascolta la musica di Schumann, non un compositore a caso, proprio lui che viveva il suo stesso dramma, proprio lui che nell’impossibilità assoluta di essere compreso dal mondo decise di gettarsi nel Reno e che, solo due anni dopo, ormai internato in un manicomio, esprimeva a sua moglie Clara il desiderio di avere una copia del suo romanzo preferito: “Flegeljahre” di Jean Paul.

  38. Condivido il pensiero di Claudio Morandini sulla differenza che intercorre fra la Musica classica dove non c’è il verbo ed il rock, pop, o comunque il cantautore che sullo spartito ci mette la poesia, viceversa, sul testo la musica.
    Elisabetta Pani ha spiegato al massimo quello che la sottoscritta ha pensato in modo elementare e cioè che mi piace comunque il risultato finale, mi piacciono gli abbinamenti, anche i più insoliti, nel mixer delle arti gli elementi si richiamano fra loro e tutto è possibile. Ma ci pensate, certi film a scena muta non diventano straordinari con il sottofondo musicale? o la lettura di certi testi letterari (anche su palcoscenico) accompagnati dagli strumenti riprendono una vita inconsueta, la musica può accomapagnare qualsiasi cosa, quando il connubio è azzeccato. Altrimenti, si è vero, è meglio il silenzio.
    Non ci sarebbe Baudealire senza Delacroix, Renoir, Monet senza Zola e Flaubert, Pollock è gia jazz, Heminguay lo sa.
    Baci.

  39. Nel rapporto musica-letteratura mi viene in mente per prima cosa la lirica: opere nate da storie, Orfeo (mito di Orfeo ed Euridice), Madama Butterfly (Madame Chrisantéme), La Traviata (La signora delle Camelie) e quanti altri. La voce silenziosa della parola scritta ha trovato forza nella forza della musica e delle voci che hanno esternato le passioni tragiche. L’antico binomio musica-letteratura accompagna da sempre un altro antico binomio, eros e thanatos.

  40. Buonasera a tutti.
    Mi scuso per il ritardo con il quale rispondo (o meglio, provo a rispondere) alle specifiche e stimolanti domande sottoposte da Massimo Maugeri.
    Che dire? Ho visto che molti altri si sono già scatenati ad esprimere le proprie riflessioni, degne di essere delibate con una particolare attenzione. Preferendo quindi opportuno evitare di incorrere in doppioni inutili e stanchi per il lettore, vorrei soffermarmi su un altro aspetto poco considerato. Mi riferisco al “fraseggio” narrativo, che in teoria può scaturire dall’ascolto della musica, magari in cuffia mentre si è concentrati sul pc portatile a scrivere, riuscendo a non ascoltare i ticchettii odiosi della tastiera (nulla in confronto ai tasti della vecchia Lettera 32!). Ebbene, più passa il tempo, e più mi rendo conto che sono due fattori diversissimi e opposti tra loro. Non perchè non possano necessariamente essere collegati (e magari lo sono per l’autore, che collega questa o quella pagina a questa o quella soundtrack, a prescindere che sia solo di musica classica), bensì per il fatto che il testo scritto alla fine vive di luce propria. O meglio, di una sua musicalità, di un respiro che si può percepire attraverso la pagina scritta, e che emerge in tutta la sua potenza, che va quindi oltre le righe stampate d’inchiostro, acquisisce una sorta di forma voluminosa, quale è quella della musica che si ascolta (questa percezione emerge dal vivo, di fronte a un pianista, un quartetto d’archi, anche e soprattutto una grande orchestra sinfonica), ma che è diversa… non so come spiegarmi. Potrei dire che il binomio che ho in mente nel leggere certe pagine non necessariamente è lo stesso che può immaginare il lettore, perchè magari, forse, ha altre note nella propria testa, proprie e diverse immagini di musicalità che si sviluppano dalla lettura della pagina scritta.
    Secondo me, un altro dei fattori da analizzare è proprio questo. L’influsso della musica, di cui si ha una piena conoscenza (intesa, per essere chiari, come conoscenza mnemonica dovuta al ripetuto ascolto), che va ad incidere sulla narrazione.
    Per spiegarmi, vorrei citare una scena chiave di un film di Cameron Crowe, “Almost famous”. Quella scena, in realtà, era stata tagliata e pertanto non era stata utilizzata “Stairway to heaven” dei Led Zeppelin. Difatti è finita negli extra del dvd. Ebbene, in quella scena il giovane William deve convincere la madre e le sue parenti a lasciarlo partire per il suo primo servizio per Rolling Stone, per intervistare il gruppo rock degli Stillwater. E lo fa proprio con l’ascolto condiviso di “Stairway to heaven”. Che però dal dvd non si sente. C’è solo silenzio. Ma vediamo le reazioni dei personaggi, in questo e in quel punto. Non si ascolta la musica, si può collegare questo aspetto a quel passaggio strumentale, e così via. Certo, si capirebbe tutto se con lo stereo di casa nostra (come suggerisce il regista, prima dell’inizio della fase della scena) ognuno provasse a cimentarsi col playback, come quando ci proiettavamo col super 8 muto il mangiacassette con il sonoro dello stesso cartone animato, tantissimi anni fa. Ma proprio qui sta il bello, nell’immaginarsi una colonna sonora diversa.
    Proprio a ripensarci, mi viene in mente la scena finale del mio primo romanzo (Taci, e suona la chitarra!). Era tutta ambientata in Val Badia, avevo scelto di dare un taglio espositivo rasserenante, e così mi ero servito, in fase di stesura, dell’ascolto ripetuto dell’adagio conclusivo della Sinfonia n. 3 di Gustav Mahler;tante le ragioni, ovviamente, Mahler scriveva la quasi totalità di quelle sinfonie d’estate a Dobbiaco, proprio in quelle vallate, e pensavo che l’ascolto di quel tipo di suono potesse influenzarmi. Mi sono reso conto solo più avanti che un conto era il flusso narrativo di quel corposo e abbracciante finale e un altro era invece ciò che potevo esprimere, attingendo proprio da quell’atmosfera a metà tra il sereno, il malato, l’angosciante, il dolore più lacerante, quasi vicino alla morte, e in fine quel senso di resurrezione, di ritorno ad una nuova vita. Quell’aspetto, forse, non scaturiva dal testo che ne è venuto fuori.
    Perchè erano due situazioni diverse, queste.
    Comunque mi riservo di sviluppare questi temi a ripartire da domenica sera, se ce la faccio.
    Grazie per l’ospitalità.

  41. Caro Massimo, le domande sono sostanziose e interessanti. Nei prossimi giorni ti rispondo. Grazie per avermi coinvolto.
    Saluti a te e a tutti.

  42. Buongiorno a tutti!
    Concludo la risposta alla domanda di Massimo su come la musica abbia “rappresentato” la letteratura. Anche a me, come a G. Franca Graziani, viene innanzitutto in mente l’opera, che ha posto sulla scena il letterato, il poeta spesso, e lo ha fatto agire contro forze più grandi (la Storia, l’Amore, la Perdita dell’ispirazione, la Morte…).
    Il primo titolo che voglio citare è “Death in Venice” di Britten (da Mann, ovviamente): lo scrittore, il disfacimento, le illusioni, l’agonia di un mondo… C’è tutto (e Ethan Prescott sarebbe d’accordo con me).
    Poi, alla rinfusa: “Hyperion” di Maderna (da Hölderlin, il Poeta è rappresentato da un flauto), l'”Elegia per giovani amanti” di Henze, l’Allen Ginsberg che compare nel “Marilyn” di Ferrero, l’Hoffmann che fa da padrone di casa ne “Les contes d’Hoffmann” di Offenbach…
    E l'”Andrea Chénier” di Giordano. Poesia, Storia, Libertà, Martirio…
    (E questa è fatta, Massimo! Saluto te, Marta Morazzoni, Achille Maccapani e gli altri.)

  43. Così come la musica, toccando note profonde e sconosciute, viene apprezzata per l’armonia dei suoni, allo stesso modo ritengo che la scrittura debba innanzitutto suscitare delle emozioni. E’ facendo appello alle emozioni, e non solo all’intelletto, che un testo letterario può essere realmente apprezzato. Per affascinare e coinvolgere il lettore, infatti, bisogna implicarlo emotivamente, e in questo caso la scelta del ritmo ed il riuscire a dare il giusto dinamismo al testo è fondamentale.
    Un libro non è apprezzabile solo per il contenuto e per il significato, ma anche per la sua forma, la semplice leggibilità e la gradevolezza della lettura.
    Sarò “all’antica” ma apprezzo ancora la consonanza delle parole e la musicalità del testo, amo uno stile abbastanza classico, che non indulge in quel nuovo genere chiamato “scrittura creativa” che aborrisco e il cui risultato è il proliferare di sterili esercizi di stile, fini a se stessi e di nessun interesse, ma che anzi disturbano la lettura con una ricerca continua di figure retoriche che si vorrebbero originali ma che, spesso, fanno solo stridere i denti.
    Ciò che rende godibile un testo sono la rapidità e la concisione dello stile. Leopardi rimprovera ad Ovidio una certa prolissità e si chiede perché in lui le immagini siano così poco piacevoli. E risponde: “Perché queste immagini risultano in lui da una copia [abbondanza] di parole e di versi, che non destano l’immagine senza lungo circuito, e così poco o nulla v’ha di simultaneo, giacché lo spirito è condotto a veder gli oggetti appoco appoco per le loro parti”.
    Saper creare musica è un talento naturale, una dote, come saper dipingere e scrivere. La tecnica si può imparare, ma non potrà mai sostituire la sensibilità dell’artista o la sua capacità di saper descrivere situazioni e stati d’animo, come se fosse nel bel mezzo dell’emozione che li ha provocati, suscitando nel lettore turbamento e commozione. Un buon libro è come una sinfonia di Chopin o un pezzo dei Pink Floyd.

  44. Carissimo Dottor Maugeri,
    complimenti per questo interessantissimo spazio che, da amante appassionato dell’opera, mi consente di dire una cosa a cui tengo molto. E cioè che musica e letteratura hanno spesso attinto al medesimo cuore. Deve sapere che io sono un affascinato cultore di un genere letterario assolutamente in disuso, quello dei “librettisti”.
    Come saprà di certo i librettisti erano coloro che prestavano la propria prosa per adattarla alla musica dei grandi compositori. In Italia ne abbiamo avuti di validissimi (Lorenzo da Ponte, Angelo Anelli, Jacopo Ferretti, Cesare Sterbini, Felice Romani, Temistocle Solera, Francesco Maria Piave, Salvatore Cammarano, Arrigo Boito, Giuseppe Giocosa, Luigi Illica).
    Purtroppo nell’Ottocento, in pieno Romanticismo, i critici del melodramma sostenevano che i librettisti non erano poeti, bensì “volgari prosatori”. Ultimamente, invece, c’è stata una legittima rivalutazione.
    Tali artisti, infatti, erano dei veri letterati e se anche in massima parte hanno attinto da drammi e commedie di altri grandi autori (Schiller, Byron, Hugo, Shakespeare, ecc.), hanno tuttavia saputo con estrema eleganza e con sottile arte, mettere in poesia un’altrettanto ottima prosa.
    Per esempio Temistocle Solera scrisse per il Nabucco, di Giuseppe Verdi, i versi del più celebre coro del melodramma, il famoso canto disperato degli schiavi ebrei, i quali, sulle sponde dell’Eufrate, sono accompagnati solo dalla nostalgia per la loro perduta patria:
    «Va’, pensiero sull’ali dorate, / va’ , ti posa sui clivi, sui colli, / ove olezzano tepide e molli / l’aure dolci del suolo natal!»

    Si tratta di una doppia arte: abbinare i versi al ritmo e insieme legare storia, personaggi, trama sovrapponendoli a pause e note.
    Segno che l’arte si nutre davvero di innesti e non conosce schematizzazioni!
    Una felice sera dal sempre suo
    Professor Emilio

  45. Sono sommerso delle ondate di parole che stanno riempiendo questo blog !
    E’ la prima volta che mi capita di scrivere su un blog, anche perché la mia età non favorisce la confidenza verso questo mezzo di comunicazione; ma sono stato attirato dal tema: certo non banale e non frequente, considerando che da sempre nutro una grande passione per la musica e sono un (modesto) lettore da fine settimana; per lavoro, infatti, sono più avvezzo a leggere (e “comporre”) relazioni tecniche, normative e documenti di pianificazione territoriale.
    Ciò anche per giustificare la pochezza di quel che segue, in un contesto che – mi pare – ha il solo limite di un dotto dialogo, ma tra “addetti ai lavori”.
    Vorrei perciò focalizzare il mio velleitario contributo su due considerazioni, tra loro, in qualche modo, correlate o conseguenti.
    1 – la sperequazione tra i due poli della questione: per “musica” sono portato a intendere una forma di espressione umana che si concretizza con suoni di strumenti, voci e altri mezzi in grado di produrre – appunto – suoni. “Musica”, di per sè, non chiarisce le caratteristiche, i contenuti o il pregio del prodotto: è musica la suoneria di un telefono, così come il sottofondo di uno spot pubblicitario. La musica nasce e muore; al limite può essere registrata e riascoltata, oppure essere scritta e reinterpretata. Può essere “Arte” (quando il Tempo e la Sorte lo decidono) o può essere vacuo sfogo (forse salutare). “Letteratura” è un termine che presuppone – mi pare – un riconoscimento, da parte di un editore e dall’altro da un insieme non vuoto di lettori. Diversamente, dovremmo parlare più genericamente di “Scrittura”. Il confronto tra “Musica” e “Scrittura” potrebbe – per la verità – essere ancora più stimolante !
    Tant’è che, in uno dei primi commenti di questo blog, siamo stati invitati a riferirci a una “certa” musica.
    2 – e qui entra in gioco l’attributo “colto”, cui, in modo automatico, si attribuisce una valenza di positività. Ma qualcuno ha la definizione di “musica incolta o stupida” ? Non vorrei si confondesse cultura e complessità (come mi pare accennato quando si definiscono le musiche pop e rock come prive di adeguata complessità – invito all’ascolto di qualche album di Genesis o Zappa o Pink Floyd; e “Sergent Pepper” è incolto ?). Preciso che chi scrive, quasi cinquant’anni fa, con i compagni di scuola, scopriva i Beatles (senza la mediazione di Gianni Minà), conoscendo a memoria le sinfonie di Beethoven, mentre si appassionava a Brahms ed entrava nello straordinario e infinito mondo del Drama wagneriano, questo sì, splendida applicazione di unione tra musica (ritengo adeguatamente “colta”) e letteratura ! D’estate, però, in riva al mare, vivevo intense sensazioni e serate indimenticabili nell’unione tra le note che uscivano malamente da un paio di chitarre e le parole che non so se classificare “letteratura”: Mogol, Guccini, De Gregori …
    In sintesi – non conclusiva: la Musica vive di sè e può vivere CON le parole; la Letteratura vive DI parole.

    Mi piacerebbe rispondere alle domande, ma ho troppo sonno ed è già lunedì !

    Chiedo comprensione per il “pistolotto” e auguro buona notte.

  46. A Luigi Fortunato: l’etichetta di musica “colta” è insoddisfacente, come capita spesso con le etichette, ma è comoda ed è comunemente usata. Sono pronto a usarne un’altra se ce n’è un’altra più calzante (e altrettanto comoda). Scrivere musica “colta” non presuppone l’esistenza di una musica “incolta” (così come, che so, la musica “leggera” non presuppone una musica “pesante”). Non ho scritto quello che Luigi, nel difendere appassionatamente la dignità di tutta la musica, mi attribuisce. Ho semplicemente proposto di delimitare il campo della discussione. Ma che il rock e il pop siano strutturalmente semplici non è uno sgarbo, è una semplice constatazione. Più semplici, più immediati, più fruibili.

  47. In ogni caso, e lo dico con un sorriso, non vale citare Zappa per dimostrare la complessità del rock! Zappa era un eclettico onnivoro, che pescava a piene mani da ogni musica. La complessità gli viene da questo approccio dongiovannesco alla musica, oltre che dall’ammirazione per le complesse partiture di Varèse e Stravinskij.

  48. Ripropongo a questo punto la questione principale di questo forum: COME LA MUSICA PUÒ ENTRARE NELLA LETTERATURA (nella narrativa, in particolare?)? O, riformulando: COME LA PAGINA SCRITTA RACCONTA LA MUSICA?
    Aspetto con grande curiosità le risposte di Marta Morazzoni e Achille Maccapani.

  49. Non lascerei cadere nemmeno la questione della “musicalità” della pagina. Ci sono scrittori che “compongono”, altri che “orchestrano” le loro pagine con una sensibilità che non è semplicemente cura formale o gusto retorico. Me ne viene in mente uno, Guido Conterio (“Città caffè”, “Fosca Bis”, entrambi Mobydick), che spero possa partecipare presto a questo dibattito.

  50. Complimenti per la bella discussione. Anche se non intervengo, vi seguo con piacere e ammirazione.
    Laura

  51. laura mi ha tolto le parole di bocca 🙂
    seguo anch’io e imparo tanto dai vostri post. grazie mille.

  52. Sorelle e rivali, musica e letteratura intrattengono da sempre stretti rapporti: condivisione di forme, conflitti per il primato, reciproche sollecitazioni espressive e linguistiche. Una dialettica che interessa la poesia, il teatro, ma anche, soprattutto tra Ottocento e Novecento, la narrativa. Perché un romanzo si legge, ma si deve anche ascoltare.

    Poesia, musica, danza: Wagner amava immaginarsele come tre sorelle unite, nell’antica Grecia, in un eterno girotondo. Unità originaria perduta, che egli intendeva ricomporre. Anche senza condividere l’ideale di una fusione delle arti, vale la pena di riflettere sul rapporto di interazione tra l’espressione letteraria e quella musicale. Sappiamo che per i Greci la mousiké era la poesia cantata; ma delle note di quella ‘musica’ ci sono pervenuti pochissimi frammenti di incerta decifrazione. Conviene quindi lasciare il mondo antico e partire dal più familiare terreno della letteratura italiana, dove fin dal Trecento la ‘poesia per musica’ costituisce un genere specifico e caratteristico.
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    Marina Verzoletto è pianista, critico musicale dei mensili «Letture» e «Jesus»; già docente di Filosofia e Storia nei licei, ora Dirigente scolastico del Liceo Artistico Felice Casorati di Novara

  53. Poesia per musica
    Una ‘poesia per musica’, in quanto pensata in vista della sua intonazione, ha una precisa struttura metrica: articolazione in strofe, versi regolari, simmetrie richieste dalla periodicità degli accenti musicali. Anche nella scelta dei vocaboli e nella disposizione dei suoni presta attenzione alle esigenze tecniche della voce. Metastasio nei suoi libretti mostra bene quanto sia più comodo cantare sulle ‘a’ e sulle ‘o’; le sue coppie di brevi strofe in rapidi versi dalla fluida scorrevolezza ritmica offrono il supporto ideale alla struttura melodica e virtuosistica dell’aria «col ‘da capo’» settecentesca. Non meno significativa era stata, quattro secoli prima, la vicenda dell’Ars nova, con le sue forme poetico-musicali, il madrigale e la ballata. Nel Trecento il madrigale presentava precise caratteristiche formali: da due a quattro stanze di tre versi settenari o endecasillabi, in rima libera, concluse da un ritornello o coda di uno o due versi, che riassumeva il senso del componimento. A ogni verso corrispondeva una frase musicale; nei madrigali più antichi le melodie della prima stanza erano riprodotte nelle successive. I due versi della coda potevano avere melodia identica oppure melodie diverse; talvolta la ‘licenza’ era identificata da un metro ternario, in contrasto con quello binario della stanza. L’altra forma principale dell’Ars nova italiana, la ballata, fin dal nome rivela rapporti con la danza, che si manifestano nella struttura rigorosa di ripresa-piede-piede-volta-ripresa (A-B-B-A-A). Lo stile melodico è meno fiorito rispetto al madrigale; in compenso c’è una maggiore vivacità ritmica.
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    Marina Verzoletto è pianista, critico musicale dei mensili «Letture» e «Jesus»; già docente di Filosofia e Storia nei licei, ora Dirigente scolastico del Liceo Artistico Felice Casorati di Novara

  54. Poeti in musica
    Se nella ‘poesia per musica’ è la seconda a orientare le scelte della prima, non mancano casi di influenza della poesia sulla musica. Esemplare il caso di Petrarca: una poesia pura che, affidata ai compositori, crea una forma musicale ad hoc. Nel Cinquecento Petrarca diventa canone poetico e musicale al tempo stesso: petrarchismo e madrigale sono fenomeni indissolubili. Esiste ancora una forma poetica chiamata madrigale, ma è molto più libera di quella trecentesca; e soprattutto, in musica si chiama madrigale anche la composizione su forme poetiche come sonetto, canzone, ballata, sestina. Tratto distintivo del madrigale cinquecentesco è la stretta corrispondenza fra testo e musica, che va oltre l’equivalenza semantica dei “madrigalisti” (per esempio, la melodia che sale sulla parola “cielo”) per ricercare il significato intimo del testo. Il risultato è una composizione non strofica, con sezioni sempre diverse la cui struttura è dettata dal contenuto più che dalla forma della poesia.
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    Marina Verzoletto è pianista, critico musicale dei mensili «Letture» e «Jesus»; già docente di Filosofia e Storia nei licei, ora Dirigente scolastico del Liceo Artistico Felice Casorati di Novara

  55. Io canto da sola
    Nella meravigliosa fioritura della polifonia madrigalistica cova il germe di un conflitto per il primato. Tra Cinquecento e Seicento letterati e musicisti manifestano insofferenza per le complicazioni contrappuntistiche e, appellandosi a un’idealizzata antica Grecia, inventano il melodramma e con esso la monodia accompagnata, il canto a una sola voce, nel quale “l’oratione sia padrona dell’armonia e non serva”, come scrive il grande Monteverdi. Breve illusione, perché i virtuosi del belcanto non tardano a far valere le loro esigenze, e quelle del pubblico pagante. La storia dell’opera nel Seicento e Settecento sta tutta nella forza centrifuga della musica rispetto al testo, e nel reiterato tentativo di ricondurla alla disciplina di questo. Al di là degli esiti altissimi che i progetti di “riforma” (Gluck) o la genialità dei singoli (Mozart) sortiscono, i rapporti tra le arti sorelle si raffreddano: i letterati non sembrano guardare alla musica che come a un galante ornamento nella vita dell’uomo colto.
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    Marina Verzoletto è pianista, critico musicale dei mensili «Letture» e «Jesus»; già docente di Filosofia e Storia nei licei, ora Dirigente scolastico del Liceo Artistico Felice Casorati di Novara

  56. Attrazione fatale
    Alla ricerca dell’unità perduta muovono con decisione i Romantici. È una liaison tanto dangereuse quanto intrigante, dalla quale il Settecento si era tenuto prudentemente lontano. Il ‘musicale’, misterioso e incontrollabile elemento disgregatore, si insinua nella poesia. La musica è sentita come il grembo da cui sono sorte tutte le arti e al quale torneranno. I poeti sono i primi a insistere sull’inadeguatezza della parola; solo la musica può attingere la verità suprema e immediata. E.T.A. Hoffmann proclama che “la musica è la più romantica di tutte le arti, anzi si potrebbe quasi dire che è la sola arte perfettamente romantica”, capace di dire l’ineffabile, il magico, l’inconscio, l’universo del sentimento e dell’inquietudine spirituale. Anche il poeta cerca di creare una nuova musica verbale, rafforzando la vibrazione musicale che anima la lirica autentica o accontentandosi del gioco sonoro di vocali e consonanti. Da questo sfondo emergono la teorizzazione e la pratica poetica, drammatica e musicale di Wagner. Il ritorno all’unità originaria è da lui espresso con la forza di un’immagine carnale: “La musica, intesa come donna, deve necessariamente essere fecondata dal poeta, inteso come uomo”. Essendo poi l’autore sia poeta che musicista, l’opera d’arte totale acquista un’inquietante fisionomia androgina.
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    Marina Verzoletto è pianista, critico musicale dei mensili «Letture» e «Jesus»; già docente di Filosofia e Storia nei licei, ora Dirigente scolastico del Liceo Artistico Felice Casorati di Novara

  57. Ascoltare il romanzo
    Al breve primato romantico della musica reagì l’aspirazione dei letterati, così ben espressa da Mallarmé, di “reprendre à la musique son bien”. Wagner e la sua discendenza musicale rimasero comunque un punto di riferimento per gli scrittori al volgere tra Ottocento e Novecento. Di tanta narrativa italiana e straniera è possibile realizzare una ‘lettura sonora’, ricostruire il paesaggio acustico di musiche, voci, suoni, rumori che è spesso, più che sfondo, sostanza del racconto. Un solo esempio, tra i molti possibili. Nella Recherche di Proust il ruolo della Sonata per violino e pianoforte di Vinteuil dispiega nella forma più compiuta la concezione della memoria involontaria. La petite phrase che apre la sonata crea in Swann al primo, casuale incontro un’emozione indistinta, che nelle successive apparizioni nel corso del romanzo si precisa seguendo le vicende dell’amore per Odette. L’immaginaria Sonata di Vinteuil, quale che sia il suo modello reale (forse la Ballade di Fauré), è un paradigma del linguaggio musicale di fine Ottocento, di ascendenza wagneriana ma anche brahmsiana, e della sua analogia con una narrativa tesa a cogliere il flusso della coscienza: in qualche modo, a farsi musica, l’arte che dà forma al tempo nell’unità della memoria.
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    Marina Verzoletto è pianista, critico musicale dei mensili «Letture» e «Jesus»; già docente di Filosofia e Storia nei licei, ora Dirigente scolastico del Liceo Artistico Felice Casorati di Novara

  58. Che cosa hanno in comune letteratura e musica?
    letteratura e musica, quelle di livello alto, per come le intendo io, riescono a penetrare nell’anima del lettore-ascoltatore. riescono a farti emozionare. a portarti in una dimensione altra.
    a me accade spesso.

  59. Ringrazio Marina Verzoletto, che fornisce un contributo autorevole alla questione principale di questo dibattito (e ci ricorda verso la fine le pagine fondamentali che Proust ha dedicato alla musica).

  60. In cosa si differenziano nettamente?
    il messaggio, il tipo di comunicazione è diverso. quello della musica è più immediato, istantaneo. la letteratura opera in un periodo più lungo.

  61. altra cosa.
    la musica la si può ascoltare più volte con piacere crescente. può avvenire anche per la letteratura, con romanzi e poesie. ma da questo punto di vista il paragone non regge.
    ho ascoltato la nona di beethoven centinaia di volte. il mio romanzo preferito l’ho letto solo tre volte.

  62. Angelo Ricci ha ricordato qualche giorno fa l’ultimo romanzo di Michele Mari, “Rosso Floyd”, che non vedo l’ora di leggere (in questo caso, lo confesso, è l’autore a contare per me più che il soggetto, ma forse farei meglio a tenerlo per me…).
    Rilancio con alcuni titoli sulla musica o con musica che nel frattempo mi sono venuti in mente: qualcuno ha letto “Ravel. Un romanzo” di Jean Echenoz (Adelphi)? o i libri di Hélène Grimaud, “Variazioni selvagge” e “Lezioni private” (entrambi Bollati Boringhieri)? o “La pianista e i lupi” di Hella Haasse (Iperborea)? o “Daimon” di Patrizia Bisi (Einaudi)?
    E ora me ne sto buono buono in lettura…

  63. se dobbiamo citare un esempio in cui la musica è entrata in letteratura secondo me non si può non parlare di Thomas Mann. Innanzitutto per il suo stile:l’armonia musicale, il ritmo musicale sono caratteristiche della sua scrittura.Nel Doctor Faustus, Adrian compone l'”Apocalipsis cum figuris” e il 34simo capitolo è dedicato alla disquisizione musicae sull’Apocalipsis, opera dodecafonica, che Mann associa al fascismo, in quanto esempio di musica razionalizzata e burocratizzata

  64. segnalo l’ultimo saggio d’yves bonfoy bergeret sul rapporto tra poesia e musica…
    e ultime presentazione dei miei versi le ha musicate Ludovico Pipitò, grade chitarrista e compositore appassionato di Sconhberg. Ci siamo ispirati al saggio di bonfoy.

  65. Tra gli ultimi libri che hanno un forte riferimento musicale ti ricordo il libro per ragazzi “Piano Forte” di Patrizia Rinaldi, tra i tre vincitori del premio Morante ragazzi di quest’anno.

    Ciao,
    Maria

  66. Valentina Giacobbe ha ragione, Thomas Mann è un riferimento fondamentale in questo dibattito. Abbiamo già ricordato il “Doctor Faustus” e “Morte a Venezia”; consideriamo anche “I Buddenbrook” (non solo le pagine più propriamente ispirate alla musica, ma anche l’uso di leitmotiv similwagneriani nella costruzione dell’opera – un dato così caratteristico che se ne parla anche su Wikipedia).
    Grazie anche a Riccardo Raimondo che ha ricordato il denso saggio di Bonnefoy “L’alleanza tra la poesia e la musica”, pubblicato da poco da Archinto.
    E grazie a Maria Franco per il suo suggerimento: è importante che la musica non entri solo nella letteratura per adulti.

  67. In attesa degli interventi di Marta Morazzoni, – che saluto (Marta interverrà nei prossimi giorni) – ne approfitto per salutare e ringraziare i nuovi intervenuti.

  68. Saluti e ringraziamenti a: Maria Lucia Riccioli (Mari, aspetto i tuoi contributi), Vincenza Alfano, Carlotta, Gabri210, Marzia, Maria Antonietta Pinna, Elisabetta Pani…

  69. E ancora ringraziamenti e saluti a: Rossella, G.Franca Graziani, Achille Maccapani (autore di “Bacchetta in levare”), Giomastro53, il caro prof. Emilio, Luigi Fortunato, Laura, Manuela, Marina Verzoletto (o chi per lei)…

  70. Mi pare che la discussione si stia evolvendo in maniera più che soddisfacente… e vi ringrazio davvero.
    Per quanto mi riguarda, uno degli obiettivi principali di post come questo è quello di puntare alla condivisione dei saperi (oltre che allo scambio di opinioni).
    Mi pare che stiamo andando proprio in questa direzione.

  71. Ho rocevuto diverse mail da parte di scrittori ed editori che hanno scritto e pubblicato libri che, in un modo o nell’altro, hanno a che fare con il tema “letteratura e musica” in senso lato.
    Dirò loro di intervenire…

  72. Per adesso ci siamo soffermati più che altro sul rapporto letteratura/musica con riferimento alla musica classica/sinfonica… ma allargando la visuale l’ambito di discussione si estende a dismisura.
    Potremmo provare, progressivamente, ad “allargare” la discussione.
    E Michele Mari, con il suo “Rosso Floyd” (Einaudi), potrebbe essere uno dei futuri ospiti di questo spazio.

  73. Per il momento, però, direi di concentrarci sui tre libri segnalati nel post.
    Avete già letto la recensione/intervista di Nicolò Carmineo relativa al romanzo “La nota segreta” di Marta Morazzoni.
    Direi di occuparci del romanzo del nostro amico Claudio Morandini…

  74. Intanto segnalo il testo del servizio che Giulio Cappa ha dedicato a “Rapsodia su un solo tema” all’interno di “Buongiorno Regione”, trasmissione della RAI Valle d’Aosta, il 23 aprile 2010.
    (commento che segue)

  75. Dopo “Nora e le ombre”, dopo “Le larve”, Claudio Morandini correva il rischio di farsi una fama da romanziere del mistero e dell’orrore, di lucido indagatore e fustigatore di aldilà improbabili, di passati inconfessabili e di presenti miserie. In questo terzo romanzo, “Rapsodia su un solo tema. Colloqui con Rafail Dvoinikov”, l’atmosfera è completamente diversa. Ethan Prescott, giovane e brillante compositore americano – parliamo di musica “colta”, “classica”, per intenderci – decide di occuparsi di un musicista russo, in qualche modo sopravvissuto al comunismo, un maestro nascosto e controverso, autore di musiche importanti, alcune di valore assoluto. Intorno ai colloqui tra i due musicisti Morandini tesse una serie di racconti che riguardano il privato del giovane e il passato del maestro, insieme a documenti, trascrizioni di interrogatori, recensioni e testimonianze. C’è anche lo scritto di un musicista del settecento antenato di Dvoinikov, uno strano “Viaggio musicale nel secolo ventesimo” che offre a Morandini la possibilità di descrivere la musica del nostro tempo attraverso l’effetto di straniamento descritto dai critici russi inventori dell’analisi formale della letteratura.
    Il romanzo è fruibile a diversi livelli: c’è la storia personale, anche sentimentale, del protagonista Ethan Prescott. C’è il buio clima della dittatura staliniana che permette a un musicista mediocre di perseguitare e umiliare l’eccellenza di artisti che non può comprendere. C’è l’umorismo di Morandini, che fa parte del suo stile, ma qui non è più di color nero, è più disincantato che cinico. C’è un panorama della scena musicale contemporanea dove l’autore spazia con disinvoltura sia dal punto di vista storico che da quello tecnico.

    Ma soprattutto “Rapsodia su un solo tema” è quello che dichiara di essere: un romanzo – cioè un racconto che intrattiene descrivendo il mondo e la vita come nessuna storia o cronaca è in grado di fare.

  76. @ Claudio Morandini
    Questo tuo romanzo è piuttosto corposo… quanto tempo hai impiegato a scriverlo?/b>

    Che tipo di riscontri hai avuto (fino a questo momento) dai lettori?

  77. Scusate, ma mi ero dimenticato di inserire la minibio di Claudio Morandini.
    Eccola…

    Claudio Morandini è nato ad Aosta dove vive e insegna Lettere nel liceo scientifico.
    Ha scritto commedie per la radio e monologhi per il teatro. Ha pubblicato i romanzi “Nora e le ombre” (Palomar 2006) e “Le larve” (Pendragon 2008), e racconti su varie riviste. “Le dita fredde” compare nell’antologia “Santi. Lives of Modern Saints”, pubblicata a Baltimora (Black Arrow Press 2007).

  78. “Tu m’invitasti a cena…”
    Il gentile, pubblico auspicio di un mio intervento nel dibattito da parte di Claudio Morandini mi incoraggia a tentare alcune grezze risposte al volo alle domande proposte.
    Il primo “aggancio” che mi viene in mente è quel mirabile, probabilmente irripetibile corto circuito letterario-musicale rappresentato dai Maestri Cantori.
    E poi, vediamo.
    Musica che rappresenta la letteratura: assegno d’istinto il primato ex aequo ai due Grandi Dirimpettai, con “Histoire du soldat” e “Pierrot Lunaire”.
    Musica “entrata” nella letteratura: qui, in sintonia con la sollecitazione di Morandini, voglio citare un romanzo che, sebbene di contenuti perlopiù estranei alla musica, veicola in ogni pagina una quantità enorme di fascinazione melodica e timbrica. Si tratta di “Horcynus Orca” di Stefano D’Arrigo, a mio giudizio il capolavoro del nostro Novecento narrativo.
    Per venire infine al comune denominatore fra musica e letteratura, suggerirei di cercarlo in quella maledizione, e croce, ma anche sfida, e delizia, che prende il nome di “scrittura”. Non ingannino la possibilità ed esistenza di musica improvvisata e letteratura “orale”: anche queste sottintendono uno sforzo di traduzione “nero su bianco”, il passaggio dal caos dell’interiorità inespressa all’arengo, duro ma ripagante, dell’emozione condivisa.
    Un caro ringraziamento per l’ospitalità concessami.

  79. Caro Massimo, risponderò con grande piacere alle tue domande (domani, però, con la lucidità che ci vuole, e che a quest’ora mi manca…).
    Quanto alle pagine dal romanzo, che ne dici di quelle dedicate proprio alla “Rapsodia su un solo tema”, l’enigmatica composizione di Dvoinkov che dà titolo all’intero romanzo?

  80. Ecco la pagina che Ethan Prescott dedica alla RAPSODIA SU UN SOLO TEMA di Rafail Dvoinikov.
    ***
    La “Rapsodia su un solo tema” per orchestra d’archi e tromba è senza dubbio il capolavoro misterioso e intangibile della maturità compositiva di Rafail Dvoinikov. In essa, un senso di attesa continuamente frustrata prende alla gola. È istruttivo paragonarla alla “Sinfonia n. 2” di Arthur Honegger che prevede lo stesso organico ed è dello stesso anno, il 1936; in questa, il compositore svizzero mantiene una bella tensione emotiva, che si libera solo nel movimento finale, quando il suono chiaro della tromba entra, lungamente sospirato, per la prima volta. Dvoinikov, pur operando con gli stessi mezzi, stravolge – anzi capovolge – l’efficace ma prevedibile climax espressivo di Honegger, facendo intervenire da subito la tromba, con un canto bellissimo e dolente che si dipana su un tappeto accordale degli archi, per farla poi tacere per sempre. Chi ascolta la “Rapsodia” è costretto a provare la straziante sensazione di un’attesa vana, e l’ultimo accordo, un re maggiore sussurrato dalle sole viole divise, sancisce definitivamente la perdita di una voce che abbiamo aspettato prima con impazienza, in seguito con un sempre più profondo senso di precarietà. Dvoinikov ha scritto per quella tromba il tema più dolce, incantevole e triste che si sia mai scritto, almeno nel Novecento, e per torturare il nostro animo lo fa suonare una volta sola, all’inizio; ce ne fa sentire subito la nostalgia, sembra citarlo con alcune figurazioni degli archi, pare prepararne l’evocazione in più momenti, ma ci lascia sempre delusi. Il supplizio di questa attesa tradita, misteriosamente, suona dolcissimo, irresistibile. È come addormentarsi desiderando di morire.
    Assistere a una esecuzione dal vivo della “Rapsodia su un solo tema” amplifica e radicalizza questo sentimento. Scorgere, seduto tra le file dell’orchestra popolata di archi, il suonatore di tromba, vederlo fisicamente presente, con lo strumento in mano, impassibile, e immaginarlo in attesa di un cenno del direttore, sperare che sia in procinto di riprendere quel tema che – giuro – non ci stancheremmo mai di udir ripetere, e continuare a vederlo impassibile, e sentirlo muto, fino alla fine, fino a che non si alza a ricevere gli applausi (mai troppo convinti, questi, soprattutto all’inizio, ma poi scroscianti come crisi di pianto), vederlo e non sentirlo più dà la misura di una rivelazione divina poi smentita, di una profezia prima ispirata poi dimenticata da Dio. Dio ci ha donato un frammento di verità, di bellezza assoluta, poi si è allontanato, o si è distratto per sempre, e ci ha lasciati soli con un rimpianto intollerabile. Forse, sembra dire Dvoinikov, non era nemmeno Dio, forse è stato solo un sogno. Forse quella tromba, penserà dopo un po’ qualcuno del pubblico, non ha mai suonato davvero: mi sono appisolato, subito all’inizio, e ho fatto un sogno magnifico, tutto qui. Solo nei sogni accade di immaginare melodie così mortalmente amabili, che nessuno potrebbe mai riprodurre una volta sveglio, perché non esistono davvero, sono solo impressioni oniriche, desideri delle cose più belle.
    L’ho voluta dirigere, stasera, con l’orchestra di alunni e docenti della Drexel University, nel grande auditorium della U Penn. Sono bastate tre prove: non è musica complicata, le parti sono accessibili anche a dei discreti dilettanti, e nemmeno l’esecuzione più approssimativa ne potrebbe intaccare la grazia sovrumana. Con l’economia di mezzi più grande, Dvoinikov scatena le emozioni più intense. Ho visto occhi lucidi di lacrime tra gli stessi esecutori: e la tromba, un mio allievo di talento, ha provato una tensione quasi palpabile per tutto il tempo del suo silenzio. Mi ha confidato più tardi che a stento ha tenuto a bada la tentazione di suonare di nuovo quel tema, nel corso dell’esecuzione, in barba alla partitura.
    Questa sua confessione mi ha insospettito: la notte, ripresa in mano la partitura, ho velocemente constatato che vi sono almeno sei momenti precisi, nelle tre sezioni della “Rapsodia”, in cui il canto della tromba potrebbe risuonare, perfettamente incastonato nel tessuto orchestrale. Dvoinikov forse ha proceduto proprio in questo modo: avrà scritto più volte la melodia nello spartito, per poi cancellarla e farne così sentire in modo bruciante la mancanza. Non si è limitato a costringerci ad attenderla: ce l’ha negata, almeno sei volte.

  81. Inserisco la mia recensione a “LA nota segreta”.

    “Così, quando il giorno della Madonna, alla messa solenne, con le monache cantò lo Stabat mater, buttò la sua bellissima voce di contralto oltre la grata come un ciottolo che rimbalza sull’acqua. Dall’altra parte qualcuno più di altri avrebbe sentito”.

    La voce di Paola Pietra, giovanissima contessina costretta dalla famiglia a diventare monaca, “una voce strana e scura…(…) … di rara potenza. Una qualità virile appena ammorbidita da un’inflessione più dolce. (…)… solida e definitiva” aveva già colpito fortemente il diplomatico inglese John Durant Breval, anglicano, sposato e padre che, a Milano per compiti relativi al suo lavoro, nel giugno del 1736 aveva cominciato a recarsi, per diletto, ad ascoltare il famoso coro delle monache che, nella chiesa di Santa Redegonda, cantavano, al di là delle grate della clausura, guidate da suor Rosalba Guenzani.

    Se sempre, “quando capita di sentire un’aria sostenuta da una corretta impostazione e le note escono rotonde e tornite dall’ugola, il piacere va dall’orecchio all’anima e dall’anima torna ai cinque sensi per affondarli in una vigile estasi. Nessun’altra forma d’arte, davvero nessuna, può arrivare a tanto”, le due voci, del soprano e del contralto che, accompagnate dall’organo, cantano lo spartito di Pergolesi, scuotono e commuovono l’uditorio. “L’inglese ne fu in modo particolare agitato ed inquietato. (…) Lo Stabat mater finì che sir John era perso in una fantasia erotica conturbante”: “La chimica delle voci (…) l’avrà studiata qualcuno? Sir John Breval non ne sapeva nulla, ma la sentiva corrergli sulla pelle ed era una carezza urgente che chiedeva di essere ricambiata”. E suor Paola “fu immensamente stupita di sé e dalla tensione che dalla pancia saliva al diaframma e si oggettivava nelle note giuste”: “Era il suo corpo che produceva la melodia e la alzava, la smorzava, vibrava di una passione che lei stessa non si sarebbe altrimenti mai riconosciuta”.

    La passione che nasce tra i due conduce Paola alla fuga dal convento e a una serie di avventure, compreso un attacco dei pirati berberi alla nave in cui viaggia travestita da mozzo, e sir John al divorzio e all’abbandono delle sue cariche pubbliche e ad una vita comune in Inghilterra, nella casa delle sorelle di lui, fino alla nascita di un figlio e alla coraggiosa richiesta di lei, pure inseguita da chi vorrebbe riportarla per sempre in convento, di essere sciolta da voti contratti senza volontà alla Sacra penitenzieria di Roma. E viene “assolta da ogni peccato, sciolta dal voto e mandata libera” da un consesso di cardinali presieduto dal cardinale Petra: “Nella mente del cardinale (…) Quei sacrifici umani che vedeva rappresentati nelle tre velate sedute davanti a lui e all’illustre collegio della Penitenzieria potevano bastare ad appagare il simulacro di dio che loro adoravano. Quell’altro Dio, quello che sedeva imperturbato in un ovunque dell’universo (…) forse non godeva nemmeno dell’armonia della voce di quella monaca…. Non ne aveva bisogno, e nondimeno questo non toglieva una iota alla qualità e all’abilità di un canto che, a dire il vero, il cardinale Petra avrebbe anche ascoltato volentieri”.

    Gran bel libro, questo La nota segreta, edito da Longanesi, in cui Marta Morazzoni riprende la vicenda reale di Paola Teresa Pietra con “tutte le libertà dell’invenzione e delle suggestioni che il personaggio mi ha offerto”. Un romanzo storico, capace di tratteggiare uomini e donne di chiesa e, insieme, del potere politico e civile (il viceré milanese, il doge veneziano). La nota segreta, di respiro e stile manzoniani, trova i suoi punti di forza, soprattutto, in una lingua distesa e fluente, di rotonda ampiezza e nello sguardo “discreto” dell’autore, che si affaccia qui e là tra le pagine, personaggio tra i personaggi, e allarga l’obiettivo su alcuni momenti, e, in altri, salta passaggi, o rimane fuori da una camera chiusa.

  82. M’è capitato ultimamente di leggere un racconto di Cortázar, un racconto minore inserito in una raccolta minore, ch’è Clone e che si trova in Tanto amore per Glenda.
    In quel racconto Cortázar, che sempre s’è dedicato con entusiasta devozione ed intessere sottili rimandi tra il suo modus scribendi ed il jazz, tanto così, per dire quanto la letteratura spesso sia riuscita a catturare i moti ondulatori delle note che s’arrovellano negli spartiti, compie secondo me uno dei prodigi narrativi più riusciti: modula una storia sul modello dell’Offerta Musicale di Johan Sebastian Bach.
    Pensavo, subito dopo aver letto Clone, non tanto a Bach quanto ad una ròba letta nell’internètte, qualcosa sul Blues, dove si diceva che “i giovani non possono parlare di blues, perché il blues è adulto”, e allo stesso modo nemmeno di jazz, si può parlare sotto i trent’anni, perché pure il jazz è adulto, è cerebrale, è un vascello che beccheggia sotto le tormente dell’improvvisazione, ed allora solo Cortázar può parlarne, e bene, come di certo fa.

    Ardimentosa sfida, quella di descrivere come e in che modo la letteratura abbia saputo rappresentare la musica. Nondimeno, a partir proprio dal verbo utilizzato dal Maugeri, rap-presentare, non ho potuto fare a meno di pensare ad un libro, chiamiamolo solo “libro”, per ora, nome ed autore ve li svelo in chiusura, che solo a parlar di quel libro vien da sé rispondere a tutti i maugeriani quesiti.

    Quanti di voi conoscono l’hiphop?
    Una delle ròbe più misconosciute, malintese, sottovalutate nell’intero (pressapochista) panorama culturale (sì, proprio così: culturale, laddove ancora questo termine possa esser significativo) italiota.
    Eppure, forse il genere musicale più letterario in assoluto. Dicon: ru-mo-re. Dicon: noioso, semplicistico, borioso, violento e pericoloso, sostanzialmente insulso, eccessivamente autoreferenziale, in ultima istanza: vuoto. (cito, a memoria, da “Il rap spiegato ai bianchi” della premiata accoppiata Costello-D.F.Wallace).
    Il libro che ho in mente, che non è un dizionario enciclopedico dell’hiphop come tanti ce ne sono in circolazione, trasuda hiphop da ogni pagina.
    Racconta una storia, che non sto qua a svelarvi, e quella storia rimbalza sui quattro quarti, sul bumcha, snocciolando il vissuto borderline d’un trio di ragazzetti borderline che vive sulla sua pelle la formazione deformata nei cromosomi d’una generazione degenere.

    Cos’hanno in comune, musica e letteratura?
    Contestualizziamo.
    Musica rap e letteratura rap?
    L’affondare a piene mani in un codice linguistico mistico e secretato, alla stregua del lunfardo bonaerense, fatto all’uopo per non farsi intendere, per veicolare messaggi incomprensibili a chi non ne detiene le chiavi d’interpretazione, ad esempio.
    Lo sperticarsi in acrobazie sintattiche, tripli salti carpiati lessicali, neologizzazioni spericolate ma nondimeno coscienziose, votate al sensazionalismo eppure portatrici sane di serendipità: punchline, come si chiamano in slang.

    Capita così che la musica c’entri eccome, nella letteratura, e non solo contingentemente, non solo perché il romanzo sia incentrato su un genere musicale, sarebbe fin troppo facile, ma piuttosto perché QUELLA storia non potrebbe essere narrata SENZA QUEL GENERE MUSICALE a far da sottofondo, che poi sottofondo: sottofondo un bel niente, è krushgroove potente, giri di basso cattivi e cassa-rullante. Bum. Cha. Bumcha.

    Sottocultura, la definiscono, quella hiphop, e dessimo retta starei qui a parlarvi d’un sottoromanzo, scritto da un sottoscrittore, che narra una sottostoria con dei sottopersonaggi ai quali magari un lettore s’affeziona, e quel lettore cosa sarebbe, mutatis mutandis? Un sottolettore?

    Quel libro, insomma, per chiudere, quel libro che parla d’hiphop, è un romanzo che – non foss’altro per la scena hiphop italica – è necessario: perché la sdogana, laddove ce ne fosse bisogno più. Perché ne fissa indelebilmente l’epica, i personaggi, le urban legends e le realtà sottaciute. Perché ne fotografa la golden age, gl’anni in cui il messaggio di peace, unity love and havin’ fun non s’era ancora incattivito nei retaggi gangsta, non risentiva troppo delle sfumature politicheggianti e niente: era un modo di viversi l’esser borderline in allegria e con “coscienza di classe (musicale, s’intende)”.

    Non c’è differenziazione alcuna tra letteratura e musica, se per letteratura s’intende il groviglio d’esperienze che si fanno inchiostro su carta, e per musica l’insieme dei suoni che quelle esperienze accompagnano.

    Quel libro là, quello che parla d’hiphop senza arrogarsi il diritto di spiegare COSA SIA, l’hiphop, si chiama Katacrash, e l’ha edito (coraggiosamente) Prospettiva Editrice, nella collana BrainGnu.
    Ed ecco, se il fatto poi che l’abbia scritto io vi suona troppo autoreferenziale, fate finta di non interessarvi al nome dell’autore.

    bellalà, come si dice noialtri sottolettori.

    fg

  83. fabrizio gabrielli, ho trovato il tuo intervento molto interessante. e di certo lo sarà anche il tuo libro. vedrò di leggerti. 🙂

  84. molto bella la pagina del libro di claudio morandini. grazie claudio, scrivi davvero bene.
    ciao a tutti.

  85. SEcondo me il romanzo più significativo per il rapporto letteratura-musica è “Il soccombente” di Thomas Bernard

  86. la musica è universale ,suscita emozioni e immagini,ricordi e sogni senza parole,è un colloquio diretto da anima ad anima

  87. La ‘musicalità’ della poesia comincia a essere al centro della riflessione nel XIX secolo. È la lirica simbolista francese – in particolare con Mallarmé – a individuare in essa l’essenza della poesia, ciò che la distingue dalla prosa e dalla comunicazione ordinaria. Da qui discende il ‘primato del significante’ che caratterizza molta poesia del Novecento.

    * Umberto Fiori è critico, poeta e romanziere, insegna Materie letterarie negli Istituti Superiori. *

    Fonte: Treccani scuola
    http://62.77.55.137/site/Scuola/scuola.htm

  88. Modernità e ‘musicalità’
    L’idea che la ‘musicalità’ sia una qualità essenziale della poesia è relativamente recente. Fin dai tempi più remoti, certo, si è ritenuto che suono e ritmo avessero un peso importante nell’arte della parola, ma solo nel XIX secolo questi aspetti assumono una rilevanza primaria, e si pongono al centro della riflessione.
    Uno dei più influenti teorici della ‘musicalità’ come essenza della poesia è Edgar Allan Poe, che nel 1846 scrive: “La musica è come l’idea della poesia. L’indeterminatezza della sensazione suscitata da una dolce aria, che dev’essere rigorosamente indefinita, è precisamente quello a cui dobbiamo mirare in poesia”. La dimensione sonora della lingua, che in passato aveva una funzione accessoria, quella di rendere gradevole e armonioso il testo, è indicata come il cuore stesso della parola poetica, la quale deve essere il più possibile ‘indefinita’, cioè lontana dalla univocità del linguaggio ordinario, e suscitare sensazioni ‘indeterminate’, prendendo a modello l’arte dei suoni. Senza teorizzarlo esplicitamente, Poe sta mettendo in discussione la tradizionale gerarchia delle arti.
    Quanto questa gerarchia sia radicata, ancora a metà Ottocento, possiamo comprenderlo da un intervento di Charles Baudelaire su Wagner, del 1861: “Anche senza testo – scrive l’autore delle Fleurs du mal – la musica di Wagner resterebbe ugualmente opera poetica, essendo dotata di tutte le qualità costitutive di una poesia ben fatta, e di per sé esplicita, tanto i suoi elementi sono ben correlati tra loro, congiunti, adattati reciprocamente, (…) prudentemente concatenati”. Mentre elogia Wagner, come si vede, Baudelaire dà per scontato il primato della poesia sulla musica. Proprio in quegli anni, tuttavia, un ‘nuovo ordine’ nei rapporti tra le arti comincia ad affermarsi; già all’inizio del secolo Arthur Schopenhauer (Il mondo come volontà e rappresentazione, 1819) aveva collocato la musica al vertice dell’espressione artistica, come rappresentazione diretta della volontà; in La nascita della tragedia (1872) Friedrich Nietzsche vede in essa – in contrapposizione alle arti della parola- l’intuizione ‘dionisiaca’ della cosa-in-sé. A questo inedito primato dell’arte dei suoni corrisponde una profonda crisi della poesia.

    * Umberto Fiori è critico, poeta e romanziere, insegna Materie letterarie negli Istituti Superiori. *

    Fonte: Treccani scuola
    http://62.77.55.137/site/Scuola/scuola.htm

  89. L’invidia di Mallarmé
    Paul Valéry racconta che Stéphane Mallarmé “usciva dai concerti pieno di sublime gelosia”. Ciò che il grande lirico ‘invidiava’ alla musica era l’indeterminatezza dei suoi contenuti, la sua mancanza di legami con il discorso comune, ordinario. Confrontata con una composizione musicale, anche la poesia più rarefatta rischiava di suonare come un piatto resoconto intorno alla realtà. Contro la zavorra prosastica andava ricercata la ‘musicalità’ (“De la musique avant toute chose”, scrive Verlaine in Art poétique) non come ornamento esteriore, ma come ciò che è più proprio della poesia. Nello sforzo di distinguersi dalla prosa e dal linguaggio della comunicazione, l’arte della parola incontra la musica e la elegge a modello. Mallarmé è il primo ad avvertire la trappola che una tale emulazione cela: potrà mai la poesia essere musicale quanto lo è la musica stessa? Egli aggira la contraddizione e passa per così dire al contrattacco, sostenendo che la poesia è musica più di quanto lo sia l’arte comunemente nota con questo nome. “Quello che io faccio è Musica. – scrive in una lettera del 1893 – Chiamo così non quella che si può ricavare dall’accostamento eufonico delle parole (…) ma l’al di là magicamente prodotto da certe disposizioni della parola (…). Il termine Musica va inteso qui nel senso greco, che in sostanza significa Idea o ritmo tra dei rapporti; più divina in questa accezione che non nella sua espressione pubblica o sinfonica”. La realizzazione di una tale ‘musica’ comporta la sistematica rimozione dal testo di ogni troppo esplicita referenzialità, di ogni ‘contenuto’ troppo chiaro e determinato. Ciò che conta non è quello che la poesia ‘dice’, ma la suggestione derivante dalla trama dei suoni.

    * Umberto Fiori è critico, poeta e romanziere, insegna Materie letterarie negli Istituti Superiori. *

    Fonte: Treccani scuola
    http://62.77.55.137/site/Scuola/scuola.htm

  90. Musica e significato
    Con Mallarmé, la ricerca della ‘musicalità’ in poesia approda a un primato del significante (della parola stessa, della sua sonorità) a spese del significato. È una tendenza che avrà un seguito nella cosiddetta ‘poesia pura’ e – in Italia – nell’Ermetismo, ma anche (con valenze diverse) nelle avanguardie (Futurismo, Surrealismo, Dadaismo) e nelle neoavanguardie degli anni Sessanta (in Italia, il ‘Gruppo ‘63’). Nel Novecento, l’enfatizzazione della ‘musicalità’ in poesia è tale che T. S. Eliot sente il dovere di fare qualche precisazione: “La musica della poesia – scrive nel 1942 – non esiste indipendentemente dal significato; altrimenti potrebbe esservi una poesia di grande bellezza musicale ma priva di senso, come non mi è mai accaduto di leggere (…). Una poesia è ‘musicale’ quando ha una duplice struttura, l’una di suono, l’altra di significati secondari nelle parole che la compongono; queste due strutture musicali sono indissolubili e fanno tutt’uno”. Una ulteriore precisazione ci viene da un grande critico russo, Michail Bachtin. “L’aspetto puramente acustico della parola – scrive in Estetica e romanzo – ha, in poesia, un significato relativamente piccolo; il movimento che genera il suono acustico, e che è più attivo negli organi articolativi, ma che si estende anche a tutto l’organismo, sia che si attui effettivamente in una recitazione, sia che sia vissuto per simpatia nell’audizione, sia che sia vissuto soltanto come possibile, è infinitamente più importante della stessa cosa sentita”. In poesia, secondo Bachtin, “a ordinarsi, propriamente parlando, non è l’aspetto acustico delle parole, bensì quello articolatorio e motorio”. Essenziale nella ‘musicalità’ di un testo è “il sentimento della generazione di una parola significante”, il sentimento “di un’attività di scelta del significato (…), di un’iniziativa semantica del soggetto-creatore”. La ‘musica’ della poesia – che in Mallarmé era la qualità di una parola pura, ‘sola’, senza locatore – con Bachtin recupera i suoi aspetti semantici, e il suo radicamento in un corpo vivo che si rivolge a un altro.

    * Umberto Fiori è critico, poeta e romanziere, insegna Materie letterarie negli Istituti Superiori. *

    Fonte: Treccani scuola
    http://62.77.55.137/site/Scuola/scuola.htm

  91. Credo sia errato definire la musica classica “colta” dividendola dal pop. La musica è musica. Ma poi se consideriamo vecchietti un po’ rinco e soprattutto i figli di papà spocchiosi che si occupano di musica classica e che fanno libri in italia o occupano posti nelle case editrici allora è un altro discorso. C’è da mettersi le dita in gola. Personalmente conosco svariati e stimati autori di libri che suonano “rock” pur avendo fatto studi musicali classici. La musica classica è vecchia e morta come chi pubblica certi libri, e solo per darvi un’idea quando Mozart scriveva la sua musica, ai suoi tempi, la sua musica era considerata pop. Quindi giù la testa e un po’ di umiltà.

  92. filippo, io apprezzo sia la musica classica sia la musica pop.
    secondo me è sbagliato dire che la musica classica sia vecchia e morta. o meglio, forse sarà giusto per te ma non è detto che lo sia per gli altri.
    io ascolto da mozart ai led zeppelin. mi piacciono entrambi. non vedi problemi in tal senso.
    semmai può essere utile in questo dibattito distinguere musica classica e musica pop nella letteratura per evitare confusione, mica per questioni di ghettizzazione.
    ciao filippo.

  93. aggiungo che claudio morandini mi pare persona umile e garbatissima. e che in un commento precedente ha detto che non vede l’ora di leggere il libro michele ,mari, “rosso floyd”, che parla dei pink floyd.
    e massimo maugeri ha espresso l’intenzione di invitare michele mari in questa discussione.

  94. p.s. adoro i pink floyd. secondo me ‘the wall’ è un’opera rock di altissimo livello, dove alcuni testi equivalgono a poesie.
    ciao a tutti.

  95. Mi pare che il ragionamento di Manuela nei post qui sopra non facciano una piega.
    Aderisco in pieno.

  96. Aggiungo questo. Suono in una band (il basso elettrico) dove facciamo rock progressive (cover e musica di nostra produzione), ma questo non mi impedisce di amare la musica classica (che secondo me è alla base).
    Anzi, bisognerebbe fare il più possibile per contribuire a far conoscere ai giovani ( che conoscono meglio la musica pop/rock) la musica sinfonica, per es.
    La musica classica ha una valenza eterna, come i versi di Dante.

  97. Dunque, caro Massimo, veniamo alle risposte alle domande che mi hai posto ieri.

    Cosa (o chi) ti ha ispirato (o spinto) a scrivere “Rapsodia su un solo tema”?

    Il riferimento iniziale sta nei “Colloqui con Stravinsky”, che possiedo nell’edizione Einaudi del 1977: un testo su cui ho fantasticato a lungo, e che mi è sempre sembrato il modello per eccellenza dell’intervista culturale. Robert Craft riesce, senza darlo a vedere, a tirar fuori dal vecchio maestro russo ricordi sorprendenti, divagazioni teoriche, affetti, tenerezze, ammissioni e una discreta dose di malignità, e Stravinsky sta al gioco. Un’arte, quella dell’intervista culturale, che en passant ritrovo oggi nei libri di Paolo Di Paolo e di Sergio Sozi (o in questo blog, caro Massimo!), che hanno un alto potere rievocativo.
    Ma prima ancora ci sono stati altri piccoli fatti: la scoperta della “Sinfonia di Salmi” di Stravinsky tra i dischi di mio padre; la visione, divenuta con gli anni un’ossessione, di “Fantasia” di Disney; la collana della Fratelli Fabbri di lp dedicati alla Musica Moderna (colta!); “C’è musica e musica” di Berio in prima serata in RAI; il terzo canale radio, che ho imposto tirannicamente per anni a tutta la famiglia; l’approccio, ahimè tardivo e svogliato, allo studio del pianoforte; le lezioni sulla musica (storia, filologia, filosofia) all’Università di Torino, con Fubini, Pestelli, Tammaro; la tesi su “Stravinsky trascrittore e revisore di se stesso”; il collezionismo musicale, vissuto in certe fasi in modo compulsivo e ossessivo; un tentativo di accostarmi al jazz suonato; la riscoperta del piacere di suonare con amici che benevolmente sorvolavano sulle mie magagne tecniche (Naif, il duo di funk sperimentale con Momò Riva “The Commandmentz”). Tutto questo ha alimentato il libro, in un certo senso ha premuto perché trovassi le parole per raccontarlo.
    Ho citato più volte Stravinsky (con diverse traslitterazioni, oltretutto), ma il mio Dvoinikov non gli assomiglia quasi per niente. il primo era un compositore di successo incline al cosmopolitismo, il secondo è uno scorbutico e isolato musicista che ha vissuto sulla propria pelle le contraddizioni drammatiche della storia dell’Unione Sovietica.
    La musica è insomma una parte importante della mia vita, alimenta pensieri, accompagna azioni, impone concentrazione, ispira (l’ho detto!), commuove anche (le forme contrappuntistiche mi commuovono. Reazione di abbandono smarrito e fiducioso dinanzi alle grandezze dell’ingegno umano, quando ci si mette. Il caro vecchio senso del sublime, temo). E ho voluto provare a condividere un po’ di tutto questo, scrivendo “Rapsodia”. Poi ho sentito il bisogno di allontanare un po’ lo sguardo, parlando sì di musica, ma attraverso personaggi che non fossero me e storie che non fossero la mia, se non in qualche dettaglio.

  98. Come è nata l’idea?
    Il tema che scorre lungo tutto il romanzo (i condizionamenti della musica da parte di diverse forme di potere) si è formato un po’ alla volta. All’inizio non era certo una tesi, era una sorta di intuizione di Prescott: le musiche di Broadway e quelle di un’opera del realismo socialista suonano intercambiabili. Da premesse diverse, si arriva a risultati compatibili: “un desiderio di piacere e di professarsi ottimista, un sentimentalismo aperto e plateale, un dinamismo tutto saltelli e piroette e passo di marcia”. Sto citando Ethan Prescott, che più avanti scrive con una certa enfasi: “Mette i brividi pensarlo – fa sentire di colpo meno liberi sapere che il mondo del libero mercato vuole da noi, sia pure attraverso metodi assai meno inquisitori delle censure e delle purghe sovietiche, i medesimi risultati: ottimismo, sentimento, afflato eroico, marcette e valzer. È ciò che Dvoinikov, con un’allegra perfidia, mi ha suggerito”.
    Ora, questa non è una tesi – non amo i romanzi a tesi, e a dire il vero non saprei sostenere una tesi così – ma certo è il collante che mi ha permesso di mettere insieme gli spunti fornitimi dalle fonti che ho citato prima in una storia che è anche la storia di una presa di coscienza (di Prescott).
    A questo punto, mettere a confronto due personaggi molto diversi all’inizio (il giovane brillante americano, il vecchio scontroso affaticato russo) e via via più vicini, e fingere che ciò avvenga in una sorta di saggio in progress, mi è sembrata la forma più adatta.

  99. Questo tuo romanzo è piuttosto corposo… quanto tempo hai impiegato a scriverlo?

    Ho cominciato a raccogliere pagine attorno al 2005, ai tempi degli ultimi ritocchi su “Le larve”: e qualcosa di quell’altro romanzo deve essere rimasto in “Rapsodia” – sto pensando alle pagine in cui Dvoinikov rievoca la sua infanzia nel grande palazzo signorile in campagna e l’adolescenza da inquieto dongiovanni a Mosca…
    Poi ho preso gusto a immaginare le pagine di analisi di composizioni immaginarie (di Dvoinikov e di Prescott): lo so, altri illustri autori, immensi anzi, lo hanno già fatto (li abbiamo ricordati a più riprese in questo forum), ma ho cercato di non lasciarmi intimidire da loro, e di conservare il piacere di comporre musiche con le parole.
    Poi ho lasciato che i personaggi prendessero corpo, e si muovessero, e si incontrassero. Sono cose che richiedono tempo e spazio.
    Poi è toccato al pamphlet settecentesco, in cui si immagina un viaggio del tempo in un Novecento musicale folle ma anche profetico: puro divertimento (a cui è seguito un paziente lavoro di asciugatura, viste le prime reazioni degli amici che si sono prestati alla lettura).
    Infine, è arrivata l’esasperante fase della sistemazione, della combinazione, dell’amalgama, della ricerca del tono giusto, del controllo, del ricontrollo. Alla fine del 2008 il libro poteva dirsi concluso, nelle linee generali.

  100. Che tipo di riscontri hai avuto (fino a questo momento) dai lettori?
    Rassicuranti. I musicisti di impostazione classica mi hanno confermato di aver trovato nelle pagine di “Rapsodia” molto della loro vita e dei loro pensieri, e non hanno storto il naso di fronte alle pagine di maggiore impronta musicale. Chi ama il rock o il pop o la techno si è divertito a leggere le pagine in cui Prescott esprime tutto il suo disappunto e rimugina su come salvarsi da un lavoro che gli è stato commissionato e che dovrebbe contaminare stilemi colti con ritmi da discoteca… E anche chi ama e pratica il jazz mi ha confidato che sì, è proprio così, il jazz soffre oggi delle stesse magagne che Ethan Prescott individua nella musica del suo compagno Carl Thalberg – l’approvazione del cultore di jazz mi interessa molto, proprio perché il jazz nel mio romanzo sembra fare una figura un po’ barbina…
    Ma anche chi non sa nulla di musica (la musica! Classica! Del Novecento!) è riuscito a superare le pagine più ardue e a interessarsi alla storia dei personaggi – con qualche fatica, magari, ma spero ripagato con un sovrappiù di emozioni e di gratificazioni.

  101. Ma di cosa , Claudio. Ti faccio tanti auguri per il tuo romanzo.
    Aggiungo anche questo. Sulla questione La musica è musica, sono d’accordo. Però secondo me bisogna distinguere tra buona e cattiva musica. C’è buona e cattiva musica all’interno della musica rock e pop, c’è buona e cattiva musica all’interno della musica sinfonica. Se parliamo di classica, significa che ha resistito al decorso del tempo e che generazioni di critici musicale e fruitori di musica l’hanno resa duratura, eterna. Però mi è capitato di ascoltare musica sinfonica contemporanea scadente.

  102. Dimenticavo. Quando distinguiamo tra buona e cattiva musica, lo facciamo sempre seguendo il nostro gusto personale ed è meglio evitare di dare giudizi definitivi.
    Per es., tra Beatles e Rolling Stones preferisco di gran lunga gli Stones. Ma mi guarderei bene dal considerare i fab four come quattro brocchi.

  103. Scusate se sono uscito fuori tema, non ho parlato granché ( proprio nulla ) di letteratura.

  104. si, mi scuso sinceramente con lei, avevo interpretato male. Comunque la musica classica è morta, infatti non esistono più compositori ma solo esecutori.

  105. a ridaje, filippoooooooooooooooo 🙂
    secondo me ti contraddici. la musica classica, come diceva angelo sopra ( Se parliamo di classica, significa che ha resistito al decorso del tempo e che generazioni di critici musicale e fruitori di musica l’hanno resa duratura, eterna ) è immortale. dunque non può morire. dunque non è morta.
    🙂

  106. il 1° gennaio di ogni anno il concerto sinfonico su rai uno ( in genere in diretta da vienna ) è un must per molti di noi.
    mica trasmettono un concerto dei miei adorati pink floyd (managgia a loro). 🙂
    e se i compositori odierni di musica sinfonica (magari meno noti delle spice girls…. ma esistono ancora le spice girls?) verranno ricordati tra duecento anni, lo sapranno solo i nostri discendenti.

  107. ragazzi ve sto a pijà per… non ho nemmeno letto cosa ha detto morandini, che per me, lo dico chiaro, è e resterà sempre quello del dizionario dei film. Per il resto musica e letteratura, pizza e letteratura, tonno e letteratura saranno sempre uniti o disgiunti, dipende di chi li guarda e da come li guarda… però se li guarda un cieco… capisco… o se ascolta un sordo… in ogni caso la musica classica pur nel suo splendore, son diplomato nello strumento più bello al mondo, rimane un’arte reazionaria e snob, tale e quale a certi palloni gonfiati delle case editrici che hanno fatto la permanente pure là sotto… e vi posso garantire che fanno bene a chiudere i conservatori… chiudessero pure le case editrici… e i panifici

  108. filippo, se commenti i commenti altrui senza nemmeno averli letti, non so che dirti.
    non so in che strumento sei diplomato, ma ti prego, non mi chiudere anche i panifici. vabbè che non si vive di solo pane, ma anche di libri ( dunque è bene che le case editrici rimangano aperte ). tuttavia pane ed acqua li danno anche ai carcerati.
    salutami il tuo strumento. 🙂

  109. Anche la prosa ha un suono, non solo metaforico ma in qualche modo strutturato. Però, bisogna mettersi d’accordo: altra è la struttura (forse spontanea) del discorso consueto; altra è la struttura che valorizza il confronto verso-prosa. In questo secondo caso, il non-verso aiuta ad arrivare al verso. E a una diversa musicalità.

    Paolo Giovannetti insegna Letteratura Italiana allo IULM di Milano

    Fonte: Treccani scuola
    http://62.77.55.137/site/Scuola/scuola.htm

  110. La prosa e il suo rovescio
    Non è un’osservazione particolarmente geniale: quello del verso e quello della prosa sono due sistemi nettamente distinti. Del resto, anche se in modo impreciso, a prosa viene spesso associata la nozione di narrativa; e a verso viene associata l’idea di poesia lirica. La stessa etimologia lo dichiara a chiare lettere: se versus sta a indicare qualcosa che si piega su se stesso, che torna indietro, pro(r)sa (oratio) sottolinea l’andare avanti del discorso, il suo procedere linearmente.
    Tuttavia, è altrettanto certo che da circa centocinquant’anni a questa parte nella cultura occidentale abbiamo assistito a una serie di tentativi che mirano a contestare l’opposizione in oggetto, a ridiscuterla. Varie poetiche hanno cioè proclamato che la prosa e il verso non dovrebbero essere tenuti separati. Non a caso, sia il simbolismo francese sia per esempio l’opera dell’americano Walt Whitman hanno suggerito che si possa scrivere poesia in prosa, cioè praticare il genere lirico senza lo strumento tradizionale della sua manifestazione. In particolare, si è cercato di scoprire (o riscoprire) la ritmicità, e quindi in senso lato la musicalità, anche della prosa, a partire da una sua contaminazione con il verso.
    Ed è probabile che tale sia la vera differenza fra la musica di una certa prosa moderna, più artificiosa, e il suono della prosa tradizionale. Insomma, se questa manifestava e manifesta sonorità ad essa specifiche, quella si confronta assiduamente con il mondo del verso. Un confronto che peraltro – come vedremo – può avvenire anche in negativo.
    In sintesi, allora, sono possibili per lo meno tre modi di concepire la musicalità della prosa:
    a. una musicalità in qualche modo naturale,
    b. una musicalità “in positivo”, nata dall’impiego di forme versali,
    c. una musicalità “in negativo”, nata dal tentativo di scrivere poesia senza il verso.

    Paolo Giovannetti insegna Letteratura Italiana allo IULM di Milano

    Fonte: Treccani scuola
    http://62.77.55.137/site/Scuola/scuola.htm

  111. Un suono ambiguamente naturale
    È probabile che anche il più innocente periodo prosastico sia portatore di un sistema di sonorità, di un’intonazione e di un ritmo. In particolare, si è parlato di vere e proprie ‘unità melodiche’ che strutturano qualsiasi discorso prosastico.

    Se, per esempio, riscrivo l’inizio del presente saggio, posso agevolmente riconosce i seguenti tre gruppi melodici:
    1. Non è un’osservazione particolarmente geniale:
    2. quello del verso e quello della prosa
    3. sono due sistemi nettamente distinti.
    Nell’esecuzione di questo testo qualsiasi locutore sottolinea, con un’inflessione della voce, ascendente oppure discendente, la conclusione di ognuna di queste tre unità: che perciò si caratterizzano anche in senso musicale come veri e propri segmenti autonomi. Non solo. Il rapporto fra le lunghezze dei membri consente di svolgere considerazioni ritmiche anche piuttosto raffinate: in questo caso, per esempio, a un’unità lunga succedono due unità più brevi e di estensione quasi eguale, secondo lo schema ABB.

    Esaminiamo un altro passo della prosa che state leggendo:
    1. Tuttavia, è altrettanto certo
    2. che da circa centocinquant’anni a questa parte
    3. nella cultura occidentale abbiamo assistito a una serie di tentativi
    4. che mirano a contestare l’opposizione in oggetto,
    5. a ridiscuterla.
    Dapprima è realizzato un ampliamento progressivo delle parti, poi un loro restringimento. Ne discende un organismo, bilanciato e simmetrico, che potremmo schematizzare con la formula ABCBA.

    Certo, è difficile dire quanto sia davvero ‘naturale’ questo tipo di sonorità. Anche se in modo inconsapevole, è assai probabile che persino nelle scritture più rilassate agiscano convenzioni implicite, vale a dire sia attiva una retorica musicale della prosa. Curiosamente, però, questo tema è stato studiato quasi soltanto nel mondo antico, mentre oggi c’è scarsa attenzione nei suoi confronti.

    Paolo Giovannetti insegna Letteratura Italiana allo IULM di Milano

    Fonte: Treccani scuola
    http://62.77.55.137/site/Scuola/scuola.htm

  112. Il verso nella prosa
    I due modi di concepire la musicalità della prosa nati dopo il simbolismo sono riconducibili a un denominatore comune: il confronto con la realtà del verso. La prosa in questi casi allude ad altro da sé, a qualcosa che vive al suo esterno e che nondimeno penetra in essa sino a trasformarla.
    Facilissimo è spiegare in che cosa consista la musicalità di un brano come questo (si cita dai Frantumi di Giovanni Boine, il testo è del 1915):
    ”- Quando gioca lento con gli accordi, fa cento fuggitive meraviglie che nessuno più le udrà: nenia di su l’armonio all’impensata la bizzarria malata della sua lauta malinconia: proprio una malia […]”.

    Versi regolari, vere proprie rime permettono di cogliere una forma che potremmo rendere nel seguente modo (tra parentesi quadre, le lunghezze sillabiche):
    – Quando gioca lento con gli accordi, [10]
    fa cento fuggitive meraviglie [11]
    che nessuno più le udrà: [8tr]
    nenia di su l’armonio all’impensata [11]
    la bizzarria malata [7]
    della sua lauta malinconia: [10]
    proprio una malia [6]

    Sensibilmente più complesso è individuare l’altra faccia di questo tipo di procedimento: quella che si confronta con il verso sì, ma soloin negativo. Non è del resto casuale che il vero e proprio inventore della poesia in prosa moderna, Charles Baudelaire, nella prefazione a Lo spleen di Parigi abbia dichiarato di voler fare poesia “senza ritmo”. I suoi testi agiscono per sottrazione: la loro forza espressiva è tanto maggiore, poeticamente parlando, quanto meno presente in essi è il riferimento ai modi tradizionali di fare poesia.
    Ne discende una musicalità anomala, ‘di testa’, che chiede al lettore la sintonia anche ideologica con chi scrive. Per esempio, se leggo l’attacco dei Trucioli di Camillo Sbarbaro (un libro del 1920):

    ”La mia anima d’ora somiglia ad una vite guardata un giorno con meraviglia. Nasceva da un muro di casa su una piazza lastricata. Trapiantata in piena terra sarebbe intristita, io credo”.

    Le eventuali sonorità o ricorrenze ritmiche passano in secondo piano di fronte all’intenzione dell’autore, e del testo, di fare poesia contro le convenzioni generalmente accettate. Il suono, qui, è il suono che non c’è; un suono negato, che però deve accompagnare quasi ossessivamente il lettore. La convenzione roboante si strozza nel silenzio polemico di un poeta che esibisce soprattutto la propria umiltà.

    Paolo Giovannetti insegna Letteratura Italiana allo IULM di Milano

    Fonte: Treccani scuola
    http://62.77.55.137/site/Scuola/scuola.htm

  113. Angelo, quello che dici sulla qualità della musica indipendentemente dal genere mi trova d’accordo. E uso il termine “genere” per pura comodità e senza voler fare gerarchie, perché so bene, ma l’ho già scritto, mi pare, che tutte le etichette sono insoddisfacenti. C’è buona o cattiva musica. Il tempo, di solito, aiuta a distinguere: ciò che è buono sopravvive, o prima o poi viene riscoperto. (Ma non mi addentro nel discorso sui parametri con cui giudicare la bontà o meno, non ne uscirei vivo.)
    Aggiungo che per un narratore anche la cattiva musica ha un suo fascino: una musica che fallisce lo scopo, che arranca dietro a modelli troppo alti, che ha il fiato corto, o che è fatta di gesti retorici e non di vere idee, che pecca in prolissità, o è aridamente scolastica, o insulsamente ribelle – una musica così, che mostra la fatica del vivere e il dolore del confronto con il genio altrui e l’illusione di una impossibile immortalità attraverso l’arte, è uno splendido soggetto.

  114. Ancora una volta perfettamente d’accordo con te, Claudio.
    Quello che dici è vero. Un musicista “inetto” potrebbe essere un soggetto molto interessante per un romanzo.
    Complimenti anche per le tue risposte a Maugeri, che ho letto sopra.

  115. Salve è tanto tempo che non partecipo più ad un Vs. dibattito, ma purtroppo con il passare del tempo sto diventando sempre meno lettore, nel senso che non leggo quanto vorrei e quindi spesso proponete cose alle quali non ho titoli per partecipare. Ho deciso di rimettermi in gioco con questo blog, vi chiedo però di essere comprensivi se scriverò delle corbellerie; purtroppo la mia formazione scolastica è dovuta ad un istituto tecnico! La letteratura e la musica hanno molte cose in comune: il ritmo perchè anche la scrittura deve avere un rtmo, la capacità di stimolare i sensi e di produrre suggesstioni e sensanzioni, la capacità di decrivere sensazioni e situazioni, stati d’animo e riflessioni.
    La musica e la letteratura si differenziano nettamente per il fatto che la musica è più eterea, spirituale mentre la letteratura è più concreta; la parola scritta ha un percorso di assimilazione mentale diverso dalla nota musicale ( il vecchio detto Verbum volant) il che rende le due diversamente fungibili, cosicchè si può essere buoni lettori, ma pessimi ascoltatori di musica e viceversa, mentre secondo me la musica è assai più legata alla pittura, raramente dei cattivi fruitori di musica apprezzano un quadro, una statua od una cupola.
    La musica entra sempre nella letteratura, le due cose sono speculari e si possono fare tanti esempi, Shakespeare, Cervantes sono musica di piazza; Monteverdi e Palestrina sono la musica di piazza che diventa colta; Goethe è strattamente legato a Wagner che ha poi ispirato tanta letteratura d’avventura ( Moby Dick e tutto Salgari sembrano Parsifal)Il Jazz ha ispirato tanta letteratura americana (Scott Fitzgerald) la letteratura sudamerica sembra tutta un grande tango ( Edoardo Soriano o Galeano, Sepulveda) e così via. Nell’opera lirica si ha la perfetta rappresentazione musicale della letteratura Puccini esaltava i romanzi d’appendice tanto in voga ad inizio novecento ( vedi Fogazzaro) Mascagni ed il verismo ( Cavalleria rusticana) Rossini che sembra musichi Goldoni Rachmaninoff e Dostoyevsky Tolstoj e Wagner Garcia Lorca e Rafael Alberti.
    Concludo questo sproloquio con quello che per me è il romanzo che più rappresenta la commistione tra musica e letteratura; non ho dubbi è il Grande Gatsby pregno di atmosfere Ragtime a leggerlo sembra di essere ad una festa da ballo.
    Saluti

  116. @ Filippo
    Hai fatto bene a scusarti con Claudio. Ti ringrazio molto.
    Come è stato evidenziato da altri, Claudio (oltre a essere davvero competente) è una persona molto garbata (e che non cede alle provocazioni). Mica l’ho scelto per caso come animatore di questo post!
    Grazie, comunque, per i tuoi interventi.

  117. So che Achille Maccapani ha qualche difficoltà a intervenire.
    Nei commenti a seguire, inserirò alcune sue (corpose) dichiarazioni rilasciatemi in precedenza sul suo romanzo “Bacchetta in levare”

  118. Per meglio raccontare come è nato questo romanzo, visto che tu, Massimo, lo hai introdotto, proporrò nei successivi post il backstage (già uscito sul mio blog), nel quale ho cercato di spiegare una serie di particolari utili a capire perchè ho scelto di raccontare una storia alquanto strana.

  119. Ricordo ancora adesso quella sera di fine agosto del 2006, quando scrissi di getto il prologo di Bacchetta in levare. Con il libretto di Francesco Maria Piave sulla parte sinistra del tavolo, e il file video del terzo atto della Traviata nell’interpretazione di Angela Gheorghiu, diretta da Sir Georg Solti al Covent Garden di Londra, sul pc portatile. Tutto venne giù diretto, come una colata lavica, come qualcosa che avevo maturato dentro di me, e che teneva dentro i primi germi di una trama che avrebbe poi dovuto svilupparsi nel corso della narrazione. Di solito la prima stesura non è mai quella buona, ma in quell’occasione si era talmente accumulata una tensione forte in me, al punto tale da buttare giù l’ossatura di un racconto che, per il 70 %, era già pronto.
    A quel punto, dovevo mettermi al lavoro attraverso una scaletta. Che scrissi in un paio di serate nel settembre 2006. Proprio durante quelle settimane venni a conoscenza che la fondazione Ambrosianeum di Milano aveva indetto un concorso letterario per la ricerca di romanzi inediti, aperti al dramma esistenziale umano: ricordo anche le parole di incoraggiamento di Ferruccio Parazzoli riportate in un articolo pubblicato su Vita e Pensiero, e ripreso anche sul sito di Giuseppe Genna, e le sue forti provocazioni rivolte a dare voce a romanzi che uscissero dai confini angusti delle piccole storie personali, e che dessero voce ai problemi dell’esistenza, alle vere inquietudini di questa società contemporanea. Di tempo a disposizione ce n’era, eccome. Decisi così di mettermi al lavoro.
    In realtà il dettaglio della scaletta era tutto concentrato attorno alla prima parte. L’idea di base era quella di raccontare la solitudine dell’io narrante tra le colline liguri, che conoscevo bene per più di una ragione. I luoghi di Brunetti li avevo frequentati ripetutamente, dunque potevo illustrarli con dovuta cognizione di causa, soffermarmi su particolari che ricordavo bene.
    Il fatto di contare su una buona memoria visiva dei luoghi mi aveva favorito nel provare a soffermarmi su colori, atmosfere, tensioni, prendendo spunto da quegli incredibili strapiombi che i panorami delle colline che si dispiegano sotto la frazione Brunetti si dipanano con un senso dello stupore visuale, tale da lasciarmi ogni volta stupito. Ecco, era proprio quella specie di vertigine che provavo, mentre camminavo lungo quella strada discendente e che, di colpo, oltrepassata la curva estrema, l’ultima dopo la piccola chiesa, si immerge in una radura verde che abbraccia e sommerge la strada asfaltata, poco più di una corsia, nonostante sia una provinciale, e si diriga addirittura verso due confini di Stato: quello autostradale verso Menton e quello verso Breil.
    Cominciai a scrivere seguendo queste coordinate. Sapevo che l’idea di rinunciare, almeno per una prima fase della narrazione, ai dialoghi non era affatto semplice da realizzare, da mettere su carta. Ricorrere allo strumento dei dialoghi, ho sempre letto dalle testimonianze di vari scrittori famosi, era sempre un espediente riposante. Per me non lo era.
    Preferivo far parlare la voce del narratore, dell’io narrante, di quest’uomo stanco di 70 anni che aveva svuotato la sua casa di Bordighera per destinarla agli affitti per vacanze dei turisti, preferendo nascondersi tra le colline, ritrovare una nuova dimensione di serenità, e non rendendosi conto di trovarsi di fronte a tanti, troppi dilemmi, ad un vero e proprio domandare a se stesso quale fosse il destino futuro della sua vita, di fronte ad una tragedia familiare con la quale non riusciva a fare i conti, di fronte ad un lutto che non voleva elaborare.

  120. Durante la stesura del romanzo, avevo in mente l’idea di raccontare la fase cruciale dell’esistenza di un uomo che aveva visto scorrere le tappe fondamentali della storia italiana, passando dagli anni Cinquanta della Scala di Visconti, De Sabata, Giulini e Karajan, e che non si era reso conto di trovarsi, unico testimone, dentro un’altra epoca, fatta di multimedialità, email, telecamere digitali, pay tv, e tante di quelle diavolerie che, nel periodo della narrazione (tra il 2004 e il 2005), si erano già affermate, ma non ancora in quel modo dirompente come adesso (mi riferisco, ad esempio, a quella diavoleria che è il Digital Concert Hall, creato dall’Orchestra Filarmonica di Berlino, e che permette a chiunque, con un pc ultimo modello collegato a Internet, di abbonarsi ad una stagione sinfonica e di vedersi tutti i concerti a casa).
    Volevo provare a mostrare – attraverso la personalità di un uomo affascinante, che aveva vissuto profondamente queste epoche, susseguitesi una dopo l’altra – il mondo contemporaneo, fatto di tante, troppe precarietà, troppe solitudini, troppe variabili dipendenti tra loro.
    Mi ero dunque reso conto che la trama si stava sviluppando in modo coinvolgente nella fase in cui la scaletta si era resa sempre più stringata. Mentre la prima parte era decisamente più dettagliata, ed ero riuscito a svilupparla con maggiore dovizia, salvo poi accorgermi (poi dirò come) che avevo un po’ esagerato, in quella successiva mi ero trovato con le briglie più sciolte, al punto tale dal decidere di divertirmi nel dare voce a più io narranti. È vero, questa tecnica era già stata utilizzata nel romanzo Confessioni di un evirato cantore, anche se la stesura di Bacchetta in levare era stata completata prima: ma l’idea che avevo in mente era quella di creare la coralità dell’azione, di far vedere uno stesso episodio da più visuali, quasi contemporanee tra loro, un po’ come avviene in un film, il flusso si sviluppa, va avanti, e di volta in volta interagiscono i vari personaggi.
    Mi piaceva l’idea di una trama in movimento, dove non ci dovesse essere la solita narrazione in terza persona, bensì una selva di vari soggetti che, uno dopo l’altro, saltano fuori sulla scena, e si trovano coinvolti nel percorso della storia. Un po’ come durante una ripresa cinematografica o televisiva fatta in diretta, quando prima c’è una telecamera in funzione, poi un’altra ancora, e così via, con la differenza che qui c’era solo il fatidico e maledetto foglio di carta, o meglio, lo schermo bianco del pc portatile. Non disponevo di consigli per la scrittura, di manuali vari, a parte le solite letture fatte a spizzichi e bocconi, tra una pausa e l’altra della vita familiare. Però sentivo il desiderio di sperimentare qualcosa di diverso e nuovo. Ma ero consapevole che la parte più difficile doveva ancora arrivare: la terza parte.
    Mi ero messo in testa, pazzo come un cavallo, l’idea di raccontare dal di dentro l’evoluzione di un concerto sinfonico. Sì, di tutto quello che accade quando il direttore d’orchestra entra sulla scena, sale sul podio, e inizia a dirigere. Un rituale, in apparenza, sempre uguale. Ma che ogni volta è diverso, affascina. E crea una tensione difficile da descrivere, da rendere su carta, da immortalare. Avevo un precedente, in proposito, nella recente narrativa italiana: Hotel Borg, il romanzo di Nicola Lecca, che puntualmente avevo divorato, curioso di verificare come diavolo fosse riuscito a cimentarsi nella storia affascinante di un direttore d’orchestra, Alexander Norberg, che decide di tenere un ultimo concerto con i Berliner Philharmoniker dedicato allo Stabat Mater di Pergolesi, in una piccola chiesa di Reykjavik. Ebbene, quando mi sono accorto che nel momento fatidico, in quel maledetto momento, il narratore cede il passo, e non prova a descrivere la musica, ma si limita a riproporre il testo di Jacopone da Todi, mi sono sentito male. E mi sono detto che quella era un’occasione perduta.
    Insomma, il fatto di raccontare l’evoluzione di un concerto, attraverso l’io narrante del direttore, rappresentava per me una grande possibilità. Oserei dire anche: irrinunciabile. Ma non sapevo come e in che modo uscirne fuori.
    Ho dunque interrotto la lavorazione del romanzo. E ho ripreso a leggere: stavolta nessun romanzo, bensì un manuale di direzione d’orchestra (quello di Hermann Scherchen) e uno di teoria musicale. Insomma, ho ricominciato a studiare musica. Poi, dato che avevo già individuato la struttura del programma del concerto ipotetico del protagonista, ho iniziato a cercare la partitura giusta della sinfonia n. 8 di Anton Bruckner. Solo che… non sapevo che Leopold Nowak avesse realizzato due edizioni critiche della stessa sinfonia, basate però su altrettante stesure.
    All’inizio, infatti, avevo ordinato presso l’editore tedesco Schott l’edizione sbagliata. Me ne sono accorto tuttavia dopo aver esaminato la partitura orchestrale, passo dopo passo, essendomi reso conto che diverse parti strumentali erano profondamente diverse, rispetto a come suonavano nei file audio della revisione prescelta, quella del 1890. Ho dunque ordinato l’altra partitura, rivelatasi quella giusta. Poi, non contento, ho fotocopiato la partitura tascabile in un formato di carta A4, provando ad identificare le varie pagine in coincidenza con i relativi minutaggi.
    Mi sono immerso dunque in un linguaggio, in una scrittura diversa dalle solite. Quella delle partiture sinfoniche, fatta di righi musicali che vanno avanti insieme e creano un unico flusso sonoro, quello dell’orchestra. Una scrittura strana, fatta di saliscendi, pause, flussi nervosi che fanno capire quanta sofferenza ci fosse dietro quelle pagine intense, tese, estreme fino allo spasimo, che non aveva nulla a che vedere con quella narrativa, eppure mi affascinava, mi colpiva, e a mano a mano che leggevo le pagine della sinfonia, mi immergevo sempre di più nel dramma interiore di Enrico Liverani, come se fosse mio, come se io fossi Liverani, come se io fossi di fronte a questa orchestra di giovani musicisti in quella sala da concerto dall’acustica incredibilmente unica e perfetta. E mi sono reso conto, notte dopo notte, coinvolto nella fase preparatoria della stesura della parte terza, di quanta veridicità potesse esserci in una semplice trama di finzione.
    Era molto strano, il modo di lavorare sviluppato in quel periodo. Dovevo infatti basarmi sulle sensazioni che si sprigionavano, oltre che dall’ascolto della musica, dalle dinamiche provenienti da tutti quei segni scritti, da tutte le sfumature concentrate nelle varie battute, una per una.
    Il fatto di scandagliare l’intera partitura, per me che fino a quel periodo non avevo mai toccato una pagina di musica dai tempi in cui avevo provato, in età preadolescenziale, ad imparare a suonare il pianoforte, rappresentava una sfida immane. Ma era l’unico modo per cercare di entrare ulteriormente dentro la musica, per provare, non dico a capire, ma a cercare di afferrare anche una benché minima componente dei risvolti e dei flussi di comunicazione che il compositore intendeva esprimere all’atto della sua scrittura.
    E, di conseguenza, di cercare di mutuare questi suoi gesti, questi suoi tic, queste sue estensioni della propria personalità, del proprio vissuto e del suo essere più intimo, coniugandole a mia volta all’immaginaria personalità del direttore d’orchestra, che vive la musica, la fa ricreare dal nulla, trasforma col suo gesto i segni della partitura in suoni vivi che vibrano nella sala da concerto, e crea una tensione vitale in grado di coinvolgere, emozionare, commuovere lo spettatore.
    Durante quella strana fase di stesura, non potevo contare su una scaletta, ma sul lavoro tecnico sviluppato precedentemente, sull’analisi della partitura, che poi era di un profano come me, del tutto avulso dall’abitudine di maneggiare fascicoli complessi come quelli di sinfonie o poemi sinfonici. Come se non bastasse, avevo avuto il folle coraggio di ricominciare a leggere la musica, non partendo da qualcosa di apparentemente facile, come potrebbe sembrare, tanto per fare un esempio superficiale, una sinfonia di Haydn.
    No, assolutamente! Avevo scelto di buttarmi su Bruckner, sulla sua sinfonia più complessa e nel contempo più appagante. Forse perché, inconsciamente, conoscevo quelle musiche dall’età dell’adolescenza, quando mi era capitato di ascoltare, per la prima volta alla radio, l’Ottava sinfonia durante un concerto a Salisburgo del 1975 con i Berliner Philharmoniker diretti da Herbert Von Karajan.
    Quelle musiche mi erano rimaste nella testa, anche negli anni successivi. Al punto tale da sentirne l’eco, d’estate, quando camminavo lungo la strada di Brunetti. Di riconoscere questo o quel passaggio strumentale, identificandolo a questo o quello squarcio collinare.

  121. Da “Bacchetta in levare” di Achille Maccapani

    Sir Edward Elgar, dalle Enigma Variations op. 36: variazione n. 9, Nimrod

    La prima nota, dilatata fino all’estremo, che nasce dal silenzio non proviene dall’inizio del brano. Bensì dalla fine di quello precedente che si conclude in un modo quasi sospeso. Etereo. Aperto ad una dimensione nuova. Così ho scelto di iniziare a dirigere, proprio a partire dall’ultima battuta dell’ottava variazione W.N. (Winifred Norbury).
    Questo prolungamento, affidato ai primi violini, è la netta e vigorosa cesura da una stanca e sempre uguale quotidianità. L’azzeramento mentale di tutti i confini e gli orizzonti materiali. Lo squarcio aperto verso un universo dal quale mi sono distolto, solo temporaneamente. Ma verso il quale il ricordo non è agevolmente rimuovibile. Soprattutto quando il dolore di una perdita così forte come quella di mia moglie si fa sentire.
    Questo lunghissimo sol dei primi violini, linea di unione tra il nulla e l’assoluto. Fonte abbeveratrice per il giusto ristoro spirituale. L’apertura dell’intreccio polifonico di tutti gli archi.
    Un lieve ondeggiare in pianissimo, affidato al canto dei primi violini. L’immagine di un mare calmo, largo, infinito. La luce lunare che illumina con evidenza uno spicchio dello specchio acqueo.
    Una luna piena. Splende.
    La osserviamo io e Giuliana.
    Abbracciati. Senza parlarci più. Non c’è bisogno. Le parole non aggiungerebbero nulla in più di quanto viviamo. La sua lontananza è ora una presenza. Vicina a me.
    Non è più viva. Ma è come se lo fosse.
    Se n’è andata. Ma è come se non fosse mai partita.
    Intanto il mare avanza, come gli archi che procedono con una dolce discrezione. Un susseguirsi di carezze, di espressioni d’affetto. Il crescendo alla quarta battuta rende più intense le emozioni. Accentuate dal vibrato dei primi e dei secondi violini.
    Creano una tensione liberatoria. Da farmi star male. Da farmi capire quanto sia difficile. Quanto resti difficile. Continuare a vivere. Resistere. Restare in questo mondo terreno. Nonostante tutto.
    È proprio quando la melodia si trasforma, si evolve, si ritorce che fa affiorare dal profondo della mia mente i ricordi.
    Quelli di un passato che non tornerà più.
    Quelli di una vita insieme, la nostra, che non potrò più condividere con te.
    Il diminuendo progressivo, un canto accorato. Un dolore espresso con dignità e contegno. Una ferita che deve essere rimarginata. Ammesso che ciò sia possibile. Altrimenti non resterebbe che il difficile attenuamento del dolore. Conviverci ogni giorno.
    Ci avviamo verso la ripresa.
    Il tema melodico abbraccia pure flauti, oboi, clarinetti, fagotti e corni. Si espande. Esprime una dimensione più raccolta. Un volume sonoro denso e pastoso. Un corale funebre privo di parole. Ma aperto alla speranza verso il futuro.
    Sembra di vedere riassunto in pochi istanti il lento passaggio dalla notte all’alba. Dal buio delle ultime ore notturne ai primi bagliori di una luce diurna. Gli squarci del primo chiarore del giorno, sottolineati dal timbro accorato dei corni, mi appaiono davanti. In tutta la loro pienezza. L’aria fresca e un sottile filo di vento mi fanno sentire più sveglio.
    Il tema musicale avanza. Sottolinea la molteplicità delle sensazioni suscitate. Cresce di intensità. Le lunghe e intense arcate dei violini sprigionano un’energia impetuosa. Aumentano sempre di più. Non accelerano. Ma si fanno più possenti e nel contempo più fragili.
    Lo sviluppo discendente suscita sensazioni opposte. Contrastanti. Una cellula melodica che si concentra sotto forma di domanda. Si trasfigura. Lascia le porte aperte. Nella ricerca di una risposta.
    Questo ritrarsi.
    Questo indietreggiare dei violini.
    Questo canto, condotto dagli oboi e dai clarinetti: con poche note lunghe lasciano affiorare le voci, di poco lontane, delle viole e soprattutto dei violoncelli.
    Sembrano durare un’eternità, tanta è la dilatazione del tempo mentale che lascia le sue tracce nella mente.
    Invece si apre subito dopo questo breve attimo di respiro, dopo questo sguardo rivolto verso altri lidi, un ritorno all’orizzonte originario. Violoncelli e contrabbassi fanno ben presto dimenticare questo limbo. Questa temporanea attesa.
    Poche, incisive, arcate discendenti.
    Crescendo molto.
    Adesso i primi e i secondi violini. Prima sullo sfondo. Poi anch’essi in crescendo. No, proprio non riesco a distogliere il mio sguardo da te. Lo so che questa sarà l’ultima volta per chissà quanto tempo mi rimane da vivere, ma non ho altra scelta.
    Il battito del cuore cresce. Cresce ancora di più. Arcate ancor più intense. Vigorose. Cariche di un calore totalizzante. Ma devo mantenere i nervi saldi. Ci provo.
    Scattano i timpani. Un rullo continuo in mezzoforte. Tutta l’orchestra si trova unita. Mi si stringe vicino. Distendo le braccia. Mi viene spontaneo rallentare in questo punto. Non è scritto nella partitura: ma è necessario, me lo sento.
    Ora mi ritrovo il tema iniziale. Stavolta non più tenue. Non più discreto. Ma reso in piena evidenza. Vigoroso. Energico. La prima voce è espressa con un incedere largo e sereno dai violini e dai flauti.
    Eppure tutta l’orchestra partecipa a questa ripresa. A questa condivisione di una maturazione sofferta. Ma determinata. Il transito delle note e degli accordi acquista una forma intensa. Il rullo dei timpani nei punti chiave dell’intreccio melodico conferisce un tono di solennità inusuale.
    Questo non è più un corale funebre, è un inno di libertà!
    È un inno di liberazione dai fantasmi della morte!
    È un inno di liberazione da tutte le paure e i demoni che si aggirano ogni giorno attorno a me, senza ch’io me ne accorga!
    È un inno di liberazione in termini di accettazione, di rielaborazione della tua perdita!
    Non posso crollare, in questo momento, no! Devo reagire!
    Il tema avanza, pur trasferendosi dall’ottava superiore a quella inferiore. Ma non perde un grammo di intensità. Non diminuisce la gradazione di tensione interiore che si sprigiona da queste poche pagine di partiture musicale. E mentre sale il percorso degli archi, condiviso dagli altri strumenti, sento maturare ancora di più quanto stia davvero reagendo con il conforto di questa musica.
    Ma quando si giunge al punto di svolta del tema, il ritmo cadenzato preannuncia una scelta diversa. Non più dunque il rifugiarsi nel tenue intermezzo degli oboi e dei flauti. Non di certo altre soluzioni. La chiusa conduce dritti alla fonte originaria, al tema stesso.
    Non basta dirlo una sola volta.
    No, le nostre orecchie sono troppo incredule per accontentarsi di ciò.
    Allora nella partitura questo inciso si ripete. Poi, una breve pausa di respiro. E l’ultima ripetizione dell’inciso, di poco variata: la domanda si trasforma in perorazione, la discesa si fa più sofferta.
    Il crescendo accumula un’energia inusuale, i timpani rullano con una virulenza decisiva. È proprio il momento giusto. Quello conclusivo.
    Avanti!
    Di nuovo allargo le braccia.
    Eccolo, il tema. Ma è solo l’inizio.
    Lo dilato, per lasciarlo cantare a tutta l’orchestra.
    Poi smorzo improvvisamente il volume, da molto forte a molto piano.
    Non ci resta che terminare con una quiete raggiunta.
    Una serenità tanto agognata. Tanto desiderata. E finalmente conseguita.
    Un mare infinito, che non conosce confini.
    Un mare che si allunga fino ad un orizzonte finale non visibile ad occhio nudo.
    Un mare quasi immobile, una tavola composta di acque che non sono in preda dei moti ondosi provenienti dalle più disparate direzioni.
    Un mare largo e calmo che mi osserva, sullo sfondo di un cielo limpido in una giornata estiva immune dalle brezze e dal caldo alquanto afoso.
    È l’ultima nota, con la quale si spegne la variazione Nimrod, si allontana nel buio, nel silenzio, si ritrae.
    Ma con una dolcezza sorprendente.
    Lascia dentro di me la forza di continuare a camminare.
    La forza di continuare a vivere.
    La forza di continuare a fare musica insieme.

    Bene.

    Ora è tornato il silenzio.
    Posso abbassare le braccia.

    Mi concedo un lungo respiro.
    Guardo questi fantastici ragazzi.
    Non posso che esserne orgoglioso.

    Ancora un attimo di silenzio.
    Poi di nuovo gli applausi.

  122. Grazie, Massimo. In effetti, la vita lavorativa (e in parte quella familiare) mi ha travolto non poco. Soprattutto negli ultimi giorni. Conto di riprendere ad intervenire da domani, anche sulla base delle riflessioni che scaturiranno dalla riproposizione delle mie note di backstage.
    A presto e buonanotte a tutti.

  123. Ho letto con grande interesse il backstage di Achille Maccapani (il romanzo di un romanzo, verrebbe da dire). Maccapani ricostruisce con grande precisione ogni passaggio dal desiderio (o bisogno) iniziale allo sbocco finale, passando per gli intoppi, le difficoltà, la focalizzazione via via più precisa di uno schema, la scoperta dell’intonazione giusta; e dà la misura anche di quanto la pazienza sia una virtù importante (nel lavoro di documentazione, nella ricerca, nella scrittura).

  124. Bravo, Achille Maccapani. Ancora una volta faccio mia l’opinione di Claudio Morandini.

  125. ho letto con piacere tutti i post. si impara molto da queste discussioni.
    grazie a tutti.

  126. x massimo maugeri
    se possibile a me piacerebbe che si aprisse una parte del dibattito pure sui collegamenti tra letteratura e musica pop-rock. in parte è stato fatto, ma forse si potrebbe dire ancora tanto.

  127. tanti auguri e complimenti ai bravi scrittori Marta Morazzoni, Claudio Morandini, Achille Maccapani.

  128. Lo faremo senz’altro, Giovanna, questa inricata discussione durerà a lungo. E, come già ha scritto Massimo Maugeri, l’ultimo romanzo di Michele Mari potrebbe essere l’occasione buona per partire da un esempio “alto” di come si possa coniugare letteratura e musica rock.
    Continua a seguirci, i tuoi suggerimenti sono i benvenuti!

  129. Gentile Massimo Maugeri, la ringrazio molto. Lo so, sono stato scorretto e di questo chiedo scusa a tutti i convenuti, in primis a morandini, ma deve ammettere che un po’ di pepe fintamente burbero e fintamente alla deriva, portava l’attenzione oltre che sul dibattito in questione, anche su alcuni temi che, se vuole “avvolgono”il tema da lei proposto. Ovvero quella separazione tra alto e basso che oggi è davvero obsoleta e soprattutto di matrice settaria. E credo mi possa capire. Ringrazio ancora una volta tutti e mi scuso con tutti nuovamente.
    filippo
    ps: lo strumento più bello al mondo è universalmente riconosciuto come il pianoforte, ma dovete ammettere che non esista nulla al mondo di più vitale di una chitarra elettrica distorta e di un tamburo percosso selvaggiamente.
    chiudo dicendo: Michele Mari è un grande.

  130. Dibattito di altissimo livello. Davvero complimenti.
    Forse posso dare un piccolo contributo alla parte della discussione al rapporto tra letteratura e musica popolare. Tempo fa avevo letto un articolo interessante di Giancarlo Susanna sul sito rai libro.
    Il titolo dell’articolo è ‘Letteratura e popular music: Un excursus su nomi, testi, canzoni del fecondissimo intreccio tra musica e letteratura’.
    Lo propongo in pezzi, come hanno fatti altri con altri articoli.

  131. Letteratura e popular music: Un excursus su nomi, testi, canzoni del fecondissimo intreccio tra musica e letteratura (parte prima)
    di Giancarlo Susanna

    Non saremo certo i primi a ricordare che la musica – da molti considerata la più libera e pura tra le forme di espressione artistica – ha sempre avuto un legame molto stretto con la parola. Le storie più fantastiche, tramandate di padre in figlio per via orale, erano affidate al suono e al ritmo delle parole. Era più facile impararle. Era più facile mandarle a memoria. Soltanto quando la scrittura ha affiancato e poi sostituito completamente l’oralità – creando anche, fra le molte conseguenze, una divaricazione tra cultura “alta” e cultura “bassa” – la narrativa e la poesia hanno potuto vivere senza la musica. Quando si dice che la poesia fissata sulla pagina si muove secondo regole diverse da quelle che governano le parole di un’aria d’opera, di un recitativo o di una canzone, lo si fa quasi sempre lasciando trapelare che è in qualche modo “migliore” o “superiore”.
    In questo numero di Rai Libro ci occuperemo di come la narrativa e la poesia scritte si siano incrociate con la popular music, quella “musica di larga diffusione che circola attraverso media come il disco, la radio, la televisione” (Franco Fabbri, Il suono in cui viviamo, Arcana). E anche di come certe distinzioni siano state superate con il passare del tempo e il fondersi di vari linguaggi.

  132. Letteratura e popular music: Un excursus su nomi, testi, canzoni del fecondissimo intreccio tra musica e letteratura (parte seconda)
    di Giancarlo Susanna

    Se è vero quello che sostiene Alessandro Carrera nell’intervista realizzata da Andrea Monda e cioè che negli Stati Uniti “la poesia scritta, pur con le eccezioni della Beat poetry, si è ormai radicalmente allontanata da ogni cantabilità” e che “la forma di recitazione rituale che Ginsberg e gli altri beat poets cercavano nel loro lavoro è ormai scomparsa dall’orizzonte della poesia americana”, è altrettanto vero che chi scrive canzoni ha spesso nel suo bagaglio di artigiano della parola qualche raccolta di versi del passato e che la Beat poetry non ha ancora esaurito la sua forza propulsiva… Tracce di grandi poeti come William Blake, Arthur Rimbaud, François Villon o William Shakespeare emergono nei songbook dei migliori cantautori di lingua inglese, mentre Eric Andersen, protagonista di alcune fra le più importanti opere della canzone d’autore americana degli anni ’60 e ’70 ha recentemente reso un sentito tributo agli anni d’oro di Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti e Gregory Corso con Beat Avenue, un lungo poema letto sul ritmo di una musica ipnotica e inquietante… La stessa cosa potremmo dirla per l’Italia: anche da noi la poesia scritta contemporanea ha pochissimo a che fare con la canzone, ma i nostri migliori cantautori conoscono bene Giacomo Leopardi, Giovanni Pascoli, Guido Gozzano
    e perfino Ugo Foscolo e Giosuè Carducci.

  133. Letteratura e popular music: Un excursus su nomi, testi, canzoni del fecondissimo intreccio tra musica e letteratura (parte terza)
    di Giancarlo Susanna

    E la narrativa? Provate a confrontare una di quelle “strane” canzoni che scrive Lou Reed – Street Hassle, per esempio – con una pagina di Ultima fermata a Brooklyn di Hubert Selby Jr. o un testo di Steve Wynn con un frammento di un romanzo di James Ellroy. E le influenze sono reciproche.
    Quasi tutti gli scrittori americani e inglesi nati nei primi anni del secolo scorso hanno la popular music come un elemento ineludibile del loro paesaggio culturale e sonoro. Valgano per tutti gli esempi de I sotterranei di Jack Kerouac (uno dei suoi libri più intensi e febbrili) o di Sulla mia testa di James Baldwin, imperniato sulla vicenda tormentata del divo del gospel Arthur Montana e di suo fratello Hall, mentre ai nostri giorni appartengono Great Jones Street di Don DeLillo (il cui protagonista, Bucky Wunderlick sembra una sintesi tra Bob Dylan e David Bowie), Alta fedeltà di Nick Hornby, il misconosciuto Visioni rock di Lewis Shiner o Il Buddha delle periferie di Hanif Kureishi.
    In Italia un vero e proprio giro di boa lo hanno segnato Pier Vittorio Tondelli, Enrico Palandri e Andrea De Carlo intorno al principio degli anni ’80. Nei loro libri non c’erano soltanto dei riferimenti espliciti alla cultura rock, ma anche un ritmo e un incedere che rimandava evidentemente alla musica che ascoltavano più volentieri. Enrico Brizzi, Giuseppe Culicchia, Andrea Demarchi, Marco Mancassola o Andrea Mancinelli – per citare i più amati dai giovani lettori del nostro paese – non fanno eccezione alla regola che vuole la popular music come un elemento essenziale della narrativa emergente degli ultimi vent’anni. De Carlo ha addirittura voluto aggiungere al suo ultimo romanzo, I veri nomi, un cd con dei brani composti ed eseguiti da lui stesso alla chitarra.

  134. Letteratura e popular music: Un excursus su nomi, testi, canzoni del fecondissimo intreccio tra musica e letteratura (parte quarta)
    di Giancarlo Susanna

    Spinti soprattutto dall’industria culturale, non sono poi pochi i musicisti che hanno accettato di misurarsi con la scrittura. La qualità dei risultati è ovviamente legata al talento dei vari personaggi coinvolti in queste operazioni di marketing culturale.
    Uno dei casi più clamorosi è quello di John Lennon, indicato fin dai primi passi dei Beatles nel mondo dello spettacolo britannico, come il leader e l’intellettuale del gruppo. In His Own Write fu pubblicato nel 1964, andò molto al di là delle più rosee speranze degli editori – Jonathan Cape in Gran Bretagna, Simon & Schuster negli Stati Uniti e in Francia (En flagrant delire), Longanesi in Italia (Vivendo cantando) – e ottenne ottime critiche. I racconti surreali e nonsense di Lennon – alcuni dei erano già stati pubblicati sulla rivista “Mersey Beat” a partire dal 1961 – spinsero i recensori a scomodare Lewis Carroll, Edward Lear (il maestro dei limericks) e perfino James Joyce. Il riscontro positivo fece sì che Lennon – e i soprattutto i suoi editori – tentassero di ripetere il colpo e già nel 1965 veniva dato alle stampe il suo secondo libro, A Spaniard In The Works, che riprendeva gli spunti felici dell’esordio. Elementi di questo approccio alla scrittura – rimasti curiosamente estranei ai testi delle canzoni – emergeranno alla fine nelle composizioni del periodo psichedelico dei Beatles e in vedi e propri capolavori pop come “Strawberry Fields Forever”, “A Day In The Life” o “I Am The Walrus”.
    Altrettanto emblematico dell’interesse degli editori americani e inglesi (ma non solo, come dimostrano le spericolate traduzioni in francese e in italiano) per gli esponenti di spicco della popular music è Tarantula di Bob Dylan.
    Se fosse indispensabile individuare un solo artista tra quelli che hanno modificato profondamente la scrittura delle canzoni pop e rock, non si potrebbe fare a meno di scegliere Bob Dylan. E’ vero che legami tra poesia, narrativa e canzoni erano già parte essenziale della storia della canzone francese – per non parlare della raffinatezza e dell’eleganza dei testi di Cole Porter o di Ira Gershwin o dei primi segnali provenienti dall’Italia – ma è con Dylan che, come scrisse Allen Ginsberg, la poesia fece il suo ingresso nei juke-box.
    Tarantula ebbe una gestione lunga e complessa (Dylan resisteva alle pressioni degli editori, che volevano sfruttare il momento positivo di Like A Rolling Stone e Blonde On Blonde ): fu scritto nel convulso biennio ’65/’66, ma venne pubblicato soltanto nel 1971, quando il suo autore sembrava essersi allontanato definitivamente da certe influenze (scrittura automatica, flusso di coscienza, Beat poetry, psichedelia). La prima edizione italiana è addirittura del 1973 ed è veramente strano che, riprendendo il libro nel 1996, Mondadori non abbia sentito la necessità di aggiungere un minimo di apparato critico, riproponendo il libro nello stesso modo e cambiando soltanto la foto di Dylan in copertina (risalente al 1969/70 e non al 1965/66: chi conosce un poco l’iconografia dylaniana sa che sembrano i ritratti di due persone diverse). Vista e considerata la posizione marginale di questo libro nella cospicua opera dylaniana, è comprensibile che ci sia una certa attesa per la più volte annunciata autobiografia del maestro di Duluth.

  135. Letteratura e popular music: Un excursus su nomi, testi, canzoni del fecondissimo intreccio tra musica e letteratura (parte quinta)
    di Giancarlo Susanna

    Sulla strada aperta da Lennon e Dylan troviamo dopo appena qualche anno Jim Morrison con le raccolte di poesie An American Prayer (stampata privatamente) e The Lords And The New Creatures (Simon & Schuster, 1971). Morrison aveva registrato dei reading senza riuscire a pubblicarli su disco. Furono i Doors a farlo, aggiungendo la musica alle sue letture e realizzando con il postumo An American Prayer (Elektra, 1978) uno dei dischi di rock poetry più celebrati e venduti nella storia della popular music.
    Morrison, che aveva una concezione del testo e del suono strettamente legata alla teatralità dei gesti, alla sensualità della sua voce e alla fisicità della sua presenza fu tra i punti di riferimenti di Patti Smith, forse la più celebre tra i “poeti del rock”. La sua produzione letteraria – in raccolte come Witt (Gotham Book Mart, 1973) o The Night, scritta a quattro mani con il chitarrista e leader dei Television Tom Verlaine (significativo nome d’arte di Tom Miller) – anticipa l’esordio discografico di Horses, vero e proprio manifesto della poesia rock. Nel convulso stile di Patti Smith si incrociano riferimenti tra i più disparati, che abbattono gli steccati tra cultura “alta” e “bassa” per creare un nuovo linguaggio. Tra i suoi libri pubblicati in Italia segnaliamo almeno Il sogno di Rimbaud e le prose di Mar dei coralli, dedicate al grande fotografo Robert Mapplethorpe.

  136. Letteratura e popular music: Un excursus su nomi, testi, canzoni del fecondissimo intreccio tra musica e letteratura (parte sesta)
    di Giancarlo Susanna

    Considerato un enfant prodige per i suoi Basketball Diaries, un vero caso letterario negli Stati Uniti nel 1970, Carroll ha esordito su disco come cantante e leader di un gruppo rock soltanto nel 1980 con Catholic Boy , un album da molti considerato all’altezza delle cose migliori di Patti Smith. Ricordiamo ancora i racconti di Pete Townshend nella raccolta Horse’s Neck (Faber And Faber, 1985), pubblicata in Italia da Minimum Fax; le liriche e i racconti di Steve Kilbey (leader degli australiani Church): Earthed (stampato privatamente, 1987); Book Store di Lee Ranaldo (dei Sonic Youth) (Hozomeen Press, 1995) e The Haiku Year (Soft Skull Press, 1998), un’antologia di haiku realizzata fra gli altri da Michael Stipe (dei R.E.M.) e Grant Lee Phillips (dei Grant Lee Buffalo) .
    Un discorso più approfondito – che ci riserviamo di fare in una serie di monografie dedicate da RaiLibro a questi personaggi “trasversali” – meriterebbe Nick Cave, di cui ricordiamo And The Ass Saw The Angel (Black Spring Press, 1989), pubblicato in italiano da Arcana e Mondadori.

  137. Letteratura e popular music: Un excursus su nomi, testi, canzoni del fecondissimo intreccio tra musica e letteratura (parte settima)
    di Giancarlo Susanna

    Fra i molti musicisti italiani – soprattutto cantautori – che si sono cimentati nella scrittura di prose, racconti e romanzi vorremmo segnalare quelli che ci sono sembrati i più motivati e interessati alla scrittura in tutti i suoi aspetti, a partire da Enzo Jannacci, che nel lontano 1974 ha pubblicato con il grande giornalista Beppe Viola L’incompiuter: “testi, annotazioni di viaggi impossibili, rivelazioni di una città incredibile, storie di personaggi improbabili” (dalla quarta di copertina).
    Da un’altra collaborazione – quella tra Fabrizio De André e Alessandro Gennari – è nato Un destino ridicolo, recentemente ristampato da Einaudi in edizione tascabile, ma uscito originariamente nel 1996.
    Molto interessante la scelta di Ivano Fossati di pubblicare Il giullare – un apologo sulla condizione dell’artista nella cultura occidentale – nei Millelire di Stampa Alternativa, e di Claudio Lolli di esordire nella narrativa con Transeuropa, mentre è stata condizionata dalle logiche commerciali di cui abbiamo parlato la decisione di Sergio Endrigo di dare alle stampe il suo Quanto mi dai se mi sparo? con un piccolo editore svizzero. Del suo romanzo, ironico e amaro ma anche divertente, abbiamo parlato con l’autore in una delle interviste che corredano questo articolo.

    I libri di Francesco Guccini, Luciano Ligabue e Roberto Vecchioni hanno avuto un’ottima esposizione grazie all’interessamento degli editori e dei media e RaiLibro cercherà di approfondire con gli autori in uno dei prossimi numeri.
    Anche alcuni i protagonisti della stagione più recente del nuovo rock italiano hanno tentato la via della narrativa e se per Emidio Clementi, fondatore e leader dei Massimo Volume, si è trattato di un passaggio in un certo senso naturale e prevedibile, per altri – da Manuel Agnelli a Cristina Donà, da Morgan (Bluvertigo) a Stefano Sardo (Mambassa) – di una piacevole sorpresa.

  138. Letteratura e popular music: Un excursus su nomi, testi, canzoni del fecondissimo intreccio tra musica e letteratura (parte ottava)
    di Giancarlo Susanna

    Last but not least è l’omaggio che molti artisti dell’area della popular music hanno reso e rendono a poeti e scrittori. Andiamo a memoria, perdonateci possibili dimenticanze… Donovan si è misurato con William Shakespeare, Lewis Carroll e con il repertorio delle nursery rhymes britanniche; John Cale, ha messo in musica due liriche di Dylan Thomas; il folksinger inglese Peter Bellamy ha dedicato uno dei suoi dischi migliori a Rudyard Kipling; i Blue Aeroplanes (e il loro poeta/cantante Gerard Langley) hanno affrontato con successo liriche di W. H. Auden e Sylvia Plath; il folksinger scozzese Dick Gaughan, da sempre innamorato del poeta Robert Burns; Lou Reed ha sempre citato tra i suoi ispiratori Delmore Schwartz (suo insegnante all’università), ha intervistato Hubert Selby Jr. e ha reso un omaggio a Edgar Allan Poe con il recente album The Raven; la cantautrice scozzese Eddi Reader ha appena fatto uscire un album tutto dedicato a Robert Burns…
    A proposito di “dischi tributo”, non possiamo dimenticare il doppio cd “Closed On Account Of Rabies – Poems And Tales Of Edgar Allan Poe” (Mercury, 1997), ideato e prodotto da Hal Willner, con la partecipazione, tra gli altri, di Marianne Faithfull, Iggy Pop, Gavin Friday e Jeff Buckley.
    Tra gli artisti italiani segnaliamo almeno Fabrizio De André (con l’album dedicato all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters) e ancora Sergio Endrigo (con le sue collaborazioni con Vinicius De Moraes, autore fra l’altro dei testi delle più belle canzoni di Antonio Carlos Jobim, e Gianni Rodari)…

  139. Letteratura e popular music: Un excursus su nomi, testi, canzoni del fecondissimo intreccio tra musica e letteratura (parte nona)
    di Giancarlo Susanna

    Un caso del tutto atipico è quello di Leonard Cohen, che – essendo un poeta e un romanziere prima che un cantautore – è riuscito a eccellere in ogni cosa che ha realizzato nella sua lunga vicenda artistica. il suo Beautiful Losers sta finalmente per essere ripubblicato ed è già sugli scaffali delle nostre librerie la raccolta di versi L’energia degli schiavi.

    E se abbiamo in qualche modo privilegiato nella nostra sintetica analisi l’Italia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti – Allen Ginsberg ha collaborato con Bob Dylan e con i Clash; William Burroughs con Kurt Cobain – un richiamo alla Francia e ad artisti come George Brassens, Léo Ferré, Jacques Brel (che era belga, ma scriveva in francese) o Serge Gainsbourg non vi appaia marginale. Una delle canzoni più belle della popular music, quella in cui l’equilibrio fra musica e versi raggiunge un livello pressoché inimitabile, è pur sempre Les feuilles mortes, firmata dal poeta Jacques Prévert e dal compositore Joseph Kosma. Il panorama editoriale italiano è straordinariamente povero nei confronti dei “cugini” d’oltralpe, ma faremo un tentativo di analisi della grande canzone francese in uno dei prossimi numeri.

  140. grazie luigi calandri. mi sembrano contributi utilissimi questi di giancarlo susanna. li ho letti con gusto.

  141. @Caro Massimo, non ho ancora letto i pregevoli libri e quindi, mi limiterò a segnalare alcuni brani di un interessante articolo del giugno 2008,
    n. 35 della Rivista ” Feeria”. Il breve saggio dal titolo: “Puccini e il posmoderno”, fu scritto da Renzo Cresti. Ormai avrai capito tutta la mia fedele ammirazione, per il celebre compositore lucchese, M° Giacomo Puccini….
    *********
    ” ……La musica più ancora delle altre arti, possiede la capacità di comunicare l’Unbedingte ( il senso dell’illimitato e dell’indeterminato) e il
    musicista, più ancora degli altri artisti, deve fare i conti con la passione che quest’arte misteriosa produce, deve concedersi alla sua natura religiosa (da relegare, mettere in contatto): la musica è l’arte privilegiata per la preghiera (laica), per mettersi in contatto con tutto ciò che oltrepassa l’uomo ( Dio, la natura, l’umanità.)
    Le diversità fra l’astrazione della musica e la concretezza del reale vengono mediate in Puccini, dalla scena teatrale, dalla storia e dalla parola, ma anche dal ricorso a ritmi e melodie della musica di consumo,
    in un eclettismo drammaturgico e musicale del tutto postmoderno, nel
    quale convivono le forme vive.
    E’ vero che la soglia dell’invenzione, sulla quale il musicista soggiorna,
    è un confine u-topico, un non luogo che non appartiene alla quotidianità,
    ma è altrettanto vero che la creazione artistica ha molto a che vedere
    col senso comune.
    Le opere di Puccini mostrano la scena sulla quale il quotiiano e l’universale camminano a braccetto verso il senso dell’avvenire.
    Puccini è ovviamente figlio del proprio tempo, ma riesce a conquistare per il suo operare artistico uno spazio di libertà storica che gli consente una certa indipendenza dalle coordinate sociali e culturali dell’epoca e dai codici drammaturgici e musicali allora in vigore.
    La creatività individuale del maestro è in grado di superare le strutture
    significanti dell’opera teatrale fra fine Ottocento e inizio Novecento, in
    quanto Puccini non accetta i limiti dei materiali (forme, tecniche, soluzioni,
    espressive) a sua disposizione, supera il proprio tempo inserendo l’individuale nell’universale, organizzando una narrazione musicale che
    diventa un paradigma dell’efficacia espressiva e intuendo come la forma di comunicazione ( post)moderna debba passare per la spettacolarizzazione dei sentimenti. (continua…)
    ****
    Tessy

  142. Salve,
    consiglio vivamente “Jazz” di Toni Morrison per il rapporto tra letteratura e musica.
    E magari la lettura della mia tesi di laurea ;-D
    Loredana

  143. Intanto, segnalo un altro romanzo che pesca a piene mani nella musica. Si tratta di “Quello che brucia non ritorna” di Matteo Di Giulio (Agenzia X), un noir teso e appassionato e ottimamente documentato sull’ambiente punk hardcore soprattutto milanese dei primi anni novanta. Matteo ricostruisce quel mondo con la competenza di chi lo ha vissuto dall’interno, del musicista e del collezionista.
    Matteo ed io abbiamo presentato insieme i nostri romanzi, tempo fa, divertendoci a scoprire numerose analogie di approccio alla materia (sorpresi, vero?). Se ne trova traccia nei nostri rispettivi blog. Mi piacerebbe che Matteo Di Giulio si lasciasse coinvolgere in questa nostra polifonica discussione.

  144. Scusate la mia voce fuori dal coro. Non credo che stiamo centrando l’obiettivo. Si sta disquisendo molto sull’incontro tra musica e letteratura, ma solo laddove l’una si “mette al servizio dell’altra”. Musica e parole sono state “sposate” da sempre, dagli aedi ai trovatori, dalla tradizione dei cantastorie, dalla musica gregoriana ai lied ottocenteschi, dalla lirica alla moderna canzone folk, pop, rock, o dei cantautori.
    Ma esiste un modo di isolare l’aspetto puramente musicale, e confrontare pentagrammi e spartiti per metterli a confronto con versi, rime, racconti, poemi e romanzi? Csa hanno in comune queste due diverse modalità espressive, e cosa li accomuna?
    Questo mi pare il vero senso della domanda di Massimo, o almeno così mi pare, e se così non fosse questo è comunque quello che a me interessa.
    Si è parlato di ritmo, di ritmo musicale e di ritmo dei versi, dei periodi, e delle intere narrazioni. Ed è un ottimo punto di partenza. Ma ci si è fermati lì. Io parlerei anche di tono, di colore, di atmosfera (sempre tra le cose in comune). L’indefinibilità dell’una rispetto alla maggiore descrittività dell’altra sono forse invece nette differenziazioni: la prima porta a una maggiore discrezionalità nell’interpretazione dell’esecutore (intermediario tra autore e fruitore, e anche di questo qualcuno ha già brevemente accennato) e del destinatario (l’ascoltatore, il lettore).
    In ogni caso esistono ovvie corrispondenze all’interno di momenti e correnti culturali, che investono ogni forma d’arte (quelle figurative naturalmente comprese), come già notava Rossella in uno dei primi interventi. Non ci può essere Stavinskij senza Picasso, non c’è Debussy senza Manet e Monet (e forese Turner, prima di loro), non c’è Beethoveen senza Goethe, e così via.
    Ma a me pare che alcuni movimenti trovino maggiori corrispondenze tra alcune forme d’arte piuttosto che con altre: penso agli intrecci musicali -letterari del romanticismo o a quelli pittorico- musicali dell’impressionismo. Anche il futurismo (penso così, all’istante, e forse sbaglio) ha dato frutti migliori in pittura e letteratura che non in musica.
    Penso anche alla pop art: per quanto non ami molto nè Warhol nè Lichteinstein (maglio Basquiat allora), nella musica (la pop music) ha dominato per alcuni decenni (con qualche risultato molto apprezzabile -ma i Beatles facevano pop-music? E Pet Sounds dei Beach Boys è comunque un capolavoro del pop?- e molto ciarpame); ma cosa ci ha dato a livello letterario?
    Ritmo allora, si è detto. E colore, tono, atmosfera, aggiungo io (che quello vado a cercare maggiormente nei romanzi, o nelle composizioni musicali). Ma non le storie, o i personaggi. Che anche se in musica possono essere pur presenti con la parola (a volte solo con un titolo) ne sono solo un accessorio. A volte indissolubile. Ma non è musica.

  145. Io sono colpito dalla figura del direttore d’orchestra così come viene fuori dalle parole di Maccapani: più che un esecutore, un interiorizzatore, un creatore della musica che dirige, un esploratore dei paesaggi sonori ogni volta nuovi…

  146. Ciao Claudio, grazie per l’invito. Il mio contributo al binomio letteratura/musica è molto di nicchia. Il mio romanzo parla del punk/hardcore italiano degli anni ’90, anche se poi, come accade spesso con ogni genere di forma di comunicazione, oltre a voler raccontare una memoria orale (per l’80% realmente esistita) ha la pretesa di provare a fotografare uno spaccato socio-politico, tracciando un solco immaginario (la fuga del protagonista dall’Italia in Olanda, e ritorno) che evidenzi i cambiamenti quotidiani di una pausa temporale piuttosto breve, dodici anni. Un romanzo musicale e generazionale, in qualche modo; ispirato da quello che è e resta, ai miei occhi, il vero maestro del genere (nonché mio editore in Agenzia X), ossia Marco Philopat: Costretti a sanguinare è il manifesto della musica underground narrato con un linguaggio che più moderno non si può, ed è al tempo stesso sociologico, dinamico e un documento storico.

  147. Scusate (computer rinnovato- non registrato). L’anonimo didelle 5.59 ero io. Saluti a tutti. Carlo S. (o carloesse in altri blog)

  148. @ Anonimo
    Grazie mille per il tuo intervento. In effetti uno degli obiettivi della discussione è mettere in evidenza non solo i punti in comune tra letteratura e musica, ma anche le diversità…

  149. Marta Morazzoni e l’ufficio diritti della Longanesi mi hanno autorizzato a pubblicare l’incipit del romanzo “La nota segreta”… giusto per farvelo assaggiare.
    (commento a seguire… )

  150. L’incipit del romanzo LA NOTA SEGRETA di Marta Morazzoni (ed. Longanesi, 2010)



    Nel monastero di Santa Radegonda in Milano visse e opero`,
    all’incirca dalla prima meta` del 1700, tale Rosalba Guenzani,
    monaca benedettina. Il nome talvolta appare con una diversa
    grafia, Guanzani, Quinzana, Ganzati, ma io qui adotto
    Guenzani senza dubbio. Ho le mie buone ragioni. Suor Rosalba
    fu per un certo tempo il vanto del monastero, nota in
    tutta Milano e forse anche fuori dal confine della citta` e dello
    stato che era gia` nelle mani degli Asburgo. Era nota, la monaca,
    per avere una dote, la voce, e un talento musicale raro.
    Cantava benissimo, una meravigliosa ugola di soprano di
    grande estensione, saliva alle vette degli acuti, ma toccava anche
    le zone scure del pentagramma, quelle che, piu` del trillo
    e del gorgheggio, muovono le viscere. La musica ha una sublime
    sensualita` e suor Rosalba ne era consapevole e la riconosceva
    ovunque, persino nel reiterarsi monodico del canto
    gregoriano, e ne godeva con la piu` grande pienezza. Ma poiche´
    il piacere e` meno fecondo se e` solitario, la monaca, dentro
    il convento di Santa Radegonda, aveva scovato, snidato,
    stanato le potenzialita` canore delle sue compagne di vocazione:
    chiamate dalla voce di Dio alla consacrazione, perche´
    non dovevano rispondere con chiarezza e bel timbro all’appello?
    Per alcune dovette accontentarsi della buona volonta`
    di un sı` detto a mezza voce, di altre scoprı` invece variazioni
    timbriche affascinanti, che sarebbe stato un delitto chiudere
    nel segreto del monastero; che cantassero in lode di Dio e
    per Dio era bello e giusto, ma che anche i comuni mortali
    sentissero il miracolo della loro armonia era un atto di carita`
    che il Padreterno avrebbe di certo approvato. Suor Rosalba
    era due volte brava, perche´ alla qualita` della sua voce aggiungeva
    un vero talento da maestra: una volta riconosciuta la
    cantante in potenza, quando la voce e` ancora avvolta nel
    mallo acerbo, la sbozzava con esperta sagacia, la curava e
    la costruiva con metodo. C’e` un’enorme differenza tra un
    canto allo stato di natura e uno impostato, credo mi sia
    gia` capitato altrove di farne cenno, ma qui ci torno sopra
    perche´ mi preme sottolineare il lavoro che conduce alla formazione
    di un cantante: quando capita di sentire un’aria sostenuta
    da una corretta impostazione e le note escono rotonde
    e tornite dall’ugola, il piacere va dall’orecchio all’anima e
    dall’anima torna ai cinque sensi per affondarli in una vigile
    estasi. Nessun’altra forma di arte, davvero nessuna, puo` arrivare
    a tanto. Cosı` le messe cantate di Santa Radegonda diventarono
    in un tempo relativamente breve un’attrazione
    per la Milano sensibile e colta: andavano in chiesa anche
    gli atei la cui spiritualita`, non avendo dove appigliarsi in
    una fede trascendente, si trovava bene, a suo agio, nella forza
    e nella grazia della musica e in quelle voci cosı` curate.
    A suor Rosalba una mattina di febbraio consegnarono,
    con tutte le raccomandazioni per la sua alta provenienza,
    ma soprattutto con la preghiera che la seguisse a vista perche´
    era vivace, una tredicenne di aspetto gradevole ma non ancora
    definito. Poteva farsi una meraviglia di donna o non
    sbocciare affatto; al momento pareva niente piu` di un grumo
    ombroso e scontento di essere stato traslocato dalla contrada
    santa Margherita al monastero di Santa Radegonda: contessina
    Paola Teresa Pietra, ben nota a suor Rosalba perche´ di
    illustre famiglia cittadina e perche´ rimasta orfana da due an-
    ni e, vox populi, passata nelle mani di una poco amabile matrigna.
    Nei conventi si sa tutto ed e` raro che una monaca,
    soprattutto una badessa capace sia colta di sorpresa. La nuova
    venuta era attesa da qualche tempo e gia` destinata, il suo
    ricco bagaglio trovo` posto in una stanza tra le migliori dell’edificio,
    dove la madre superiora aveva provveduto a darle
    una generosa condizione di riservatezza almeno per il primo
    mese: che si abituasse per gradi e senza durezze alla nuova
    storia in cui, non per volonta` sua, si trovava incardinata. Il
    passo poi le sarebbe parso piu` lieve. L’affidarla a suor Rosalba,
    per esempio, era un modo per non inasprire subito la sua
    condizione.
    In quanti, a questo punto, staranno pensando che mi
    aleggia attorno un tale illustre precedente, che farei meglio
    a demordere per evitare un confronto a me fatale! Ma ho
    il vantaggio di sentirmi tanto al disotto del termine di paragone,
    da non avere remore a espormi. Come dire? perso per
    perso, tant’e` giocare la partita fino in fondo. E poi questa
    storia ha una evoluzione del tutto diversa: un secolo non
    era passato per niente sulle ragazze di Milano.
    Dunque, all’epoca la monaca cantante aveva da un po’ superato
    la soglia della quarantina d’anni e per quel tempo
    avrebbe potuto essere piu` nonna che madre della contessina
    Pietra, ma aveva una fisionomia ancora giovane, una pelle
    levigata e chiara e gli occhi vivaci di chi ha un’idea in testa
    e la convinzione di poterla attuare. Avvicinare la diffidente
    Paolina non le fu facile; per quanto piccola ancora, era di
    temperamento rancoroso, coltivava delle sue oscure vendette
    attorno a cui fantasticare e aveva la convinzione, in qualche
    modo giustificata, che il mondo non le fosse favorevole.
    *******************
    *******************

    P R O P R I E T A ` L E T T E R A R I A R I S E R V A T A
    Longanesi & C. F 2010 – Milano
    Gruppo editoriale Mauri Spagnol

  151. Ne approfitto per inserire la minibiografia di Marta Morazzoni.

    Marta Morazzoni è nata a Milano e vive a Gallarate, dove insegna lettere in una scuola superiore. Il suo primo libro, “La ragazza col turbante” (1986), ha avuto uno straordinario successo critico in Italia e all’estero, dove è stato tradotto in nove lingue. “L’invenzione della verità” è stato premio selezione Campiello nel 1988, “Casa materna” nel 1992 e “Il caso Courrier” premio Campiello nel 1997 e Independent Foreign Fiction Award 2001. Fra i suoi libri anche “La città del desiderio. Amsterdam” (Guanda, 2006) e “Trentasette libri e un cane” (Filema, 2008).

  152. @ Carlo S., in effetti sì, stiamo procedendo rapsodicamente, divagando come è inevitabile in una discussione su un argomento vasto come questo, fatta di tanti cori e di varie voci soliste. Il confronto che tu vedi come obiettivo è ambizioso, e tutti i contributi che fanno fare passi avanti in quella direzione sono importanti (siamo appena agli inizi, in effetti).
    Ma non mi pare che si sia parlato di musica e letteratura “l’una al servizio dell’altra”. Piuttosto, abbiamo cercato di vedere come la letteratura ha raccontato e può raccontare la musica (e un po’ anche come la musica possa far suonare la letteratura). Arti diverse, dalle origini comuni, che continuano a guardarsi con interesse e anche con golosità. Che si sia partiti dalla letteratura (dalla narrativa) è dovuto alla natura dei tre libri proposti come punto di partenza e dalla presenza di una lunga tradizione di letteratura sulla musica.
    Poi c’è un aspetto se vogliamo più soggettivo: più che dall’approccio teorico o analitico, è sembrato giusto (e più facile, ma anche più stimolante, almeno per me) partire dall’esperienza di chi ha provato a scrivere sulla musica o a combinare (come? con quali intenti? con quali mezzi?) l’una con l’altra.
    Io, insomma, vedo più di un obiettivo in questa nostra discussione. Prima o poi arriveremo a centrarne qualcuno – ma è tutto così piacevole, qui dentro, che non ho molta fretta…
    Un saluto

  153. A proposito di procedura rapsodica…
    E a proposito del rapporto tra letteratura e musica pop/rock (e delle differenze che esistono anche tra pop e rock)…
    L’ufficio stampa della “Fanucci” mi ha segnalato il nuovo libro di Francesco Marchetti (già autore di saggi su Lucio Battisti). Si tratta di un romanzo, intitolato “Perdonami“, i cui protagonisti sono (musicalmente parlando) agli antipodi: Carlo è un giovane rockettaro (amante dei Deep Purple, degli AC/DC e dei Led Zeppelin); Marta, invece, stravede per Tiziano Ferro.
    Ho aggiornato il post, inserendo la scheda del libro.

  154. @ Francesco Marchetti
    Ti riporto le domande con cui è partita la discussione…

    Che cosa hanno in comune letteratura e musica?
    In cosa si differenziano nettamente?

    In quali occasioni la musica è “entrata” nella letteratura (con particolare riferimento alla narrativa)?
    Quali titoli di romanzi vi vengono in mente?

    E in quali occasioni, viceversa, la musica ha “rappresentato” la letteratura?

    Quale romanzo eleggereste come il più rappresentativo del rapporto tra musica e letteratura?


    Invito Francesco (se possibile) a rispondere…

  155. Caro Morandini, che tutto sia piacevole qui da Massimo, non lo discuto. Così lo è anche questa chiacchierata a più voci, come sempre.
    Tengo a precisare che quando parlavo di “una al servizio dell’altra” non intendevo sminuire alcunchè: è solo il mio modo per distinguere la musica “dotata di parola” (opera lirica, lied, cantate e canzoni, ecc.) dalla musica pura, fatta di solo suono, come la sinfonica. E’ su questo terreno, come dicevo, che mi interessa maggiormente il confronto con la parola scritta. E nei tuoi primi interventi, ed in quelli di Elisabetta Pani, si era incanalata con mia grande curiosità e soddisfazione questa conversazione, prendendo poi altre e diverse pieghe (legittime, per carità, forse solo per me meno interessanti).
    Comunque hai ragione: forse non ci sono particolari obiettivi da centrare, ma solo tante sfaccettature su cui discutere quanti sono i diversi angoli nei quali musica e narrazione possono incontrarsi.
    Molti auguri per il tuo romanzo, che non ho ancora letto ma che mi incuriosisce (confesso: così come quello di Mari sui Pink Floyd).

  156. Bel dibattito . Si trovano tanti spunti di riflessioni e informazioni utili leggendolo.
    Leggerlo equivale a leggere un minisaggio su letteratura e musica.

  157. Ciao Massimo, grazie per la segnalazione e per l’ospitalità. Rifletto sulle tue domande. a presto.

  158. Caro Carlo,
    grazie per gli auguri e per la curiosità! E grazie anche per le puntualizzazioni. Cercheremo, insieme, di tornare, tassello dopo tassello, anche sui temi che ti interessano di più.
    Mi torna in mente uno di questi tasselli, l'”Oedipus Rex” di Stravinskij (tanto per cambiare, direte), uno dei casi più interessanti e problematici di rapporto tra parola, suono sillabico anzi, e musica (una musica che, pur usando la parola, resta “pura”, almeno nelle intenzioni del compositore): ma non voglio improvvisare ora, e tornerò a parlarne con qualche dato in più, a meno che tra i visitatori di questo forum non ci sia qualcuno disposto a farlo al posto mio.
    Buona giornata a tutti, intanto.

  159. x francesco marchetti
    vorrei saperne un po’ di più sul tuo romanzo. perché non ce ne parli un po’?

  160. magari potresti farci leggere qualche pagina, come è stato fatto con gli altri.

  161. pura curiosità la mia;, non voglio sostituirmi nè a massimo maugeri nè a nessun altro 🙂

  162. Stravinskji è uno dei miei autori preferiti. L’Oedipus Rex una delle sue composizioni da me preferite. Ma non dimenticherei La carriera di un libertino (Rake’s Progress) che oltre alle liriche di Auden sposa la magnifica serie di illustrazioni settecentesche (e omonime) di Hogarth, per calarsi nel settecento hogartiano (e mozartiano) pur mantenendo la sua modernità.
    Poi mi viene in mente anche Theillim del contemporaneo Steve Reich, nel quale si riprende il testo ebraico dei Salmi per evidenziarne la musicalità e sottolinearne i ritmi (in grande evidenza).

  163. Stravinskij è uno dei miei autori preferiti, e l’Oedipus Rex una composizione magnifica, ma non dimenticherei La carriera di un liberino (Rake’s Progress) dove la sua musica sposa le liriche di Auden, ma anche le immagini di Hogarth del l’omonimo ciclo (stampe e quadri), calandosi perfettamente nel settecento Hogartiano (e mozartiano) mantenendo la sua connotazione a un tempo classica e moderna.
    E mi viene in mente Tehillim del più contemporaneo Steve Reich, opera in cui si rende la musicalità dei Salmi (in ebraico) sottolineandone il ritmo, fortemente marcato e complesso.

  164. Stranissimo: è la terza volta che provo a postare qui e non compare nulla (il bello è che ho appena postato, regolarmente, in altra pagina di questo blog!) Ma ci riprovo.
    Stravinskij è uno dei miei compositori preferiti, e l’Oedipus Rex una composizione affascinante.
    Ma non dimenticherei La carriera di un libertino (Rake’s Progress) dove la sua musica sposa le liriche di Auden e le illustrazioni di Hogarth dell’omonimo ciclo (stampe e quadri) , calandosi perfettamente in un settecento Hogartiano (e Mozartiano) pur mantenendo la sua personale cifra e la sua modernità.
    Poi mi viene in mente Tehillim, del più contemporaneo Steve Reich, dove viene resa la musicalità dei Salmi (in ebraico) sottolineandone il ritmo, complesso e fortemente marcato.

  165. Anzitutto un caloroso saluto (nonostante il caldo esploso in riviera, dopo tanti temporali e nuvole). Purtroppo questo affascinante dibattito è partito nel pieno di una vita lavorativa giunta, proprio in questi giorni, a livelli elevati.
    Ma non mi sottraggo al dibattito e affronto le domande poste.

    1) Che cosa hanno in comune letteratura e musica?
    In cosa si differenziano nettamente?
    R. Questo è un tema annoso, dibattuto da tantissimo tempo, già avete menzionato (grazie a Morandini) numerosissimi esempi. Potrei dire che l’influsso tra letteratura e musica è sempre stato reciproco: da “Le roi s’amuse” di Victor Hugo è stato tratto il “Rigoletto” di Verdi, come “La Traviata” è scaturita da “La dame aux camelias” di Alexandre Dumas, ma si potrebbe andare avanti all’infinito. Ciò che cambia è lo sviluppo delle tecniche narrative che può influenzare la struttura e la corposità, da una parte, del romanzo, e dall’altra, dell’opera. Sono due linguaggi radicalmente diversi, unificati da un lato simbolico ma essenziale:il segno scritto della partitura / del libro. Sono che mentre le pagine musicali restano segni scritti, fino a che non li si rappresenta, e non acquisiscono voluminosità nell’aria, esistono, si espandono, acquisiscono una forma immateriale che nasce vive e muore al momento dell’esecuzione dal vivo, il testo narrativo scritto è lì, pronto per essere letto, per suscitare un’emozione diretta sul lettore, per conquistarlo, per coinvolgerlo,commuoverlo, farlo divertire, riflettere, ecc.. Si tratta di un rapporto non enucleabile in una definizione restrittiva, ma che si va ad esplicare in una dinamica più ampia, fatta di influssi, atmosfere, sensazioni, e che confluiscono in una storia, in una narrazione, in un vissuto vero/finto/a metà tra vero e finto, e comunque in un romanzo che vive di quegli input, una sinfonia, una canzone, un disco chiave, un concerto, ma come può essere un evento extramusicale (pensate all’evocazione del derby Genoa-Samp nella “Ballata dell’amore salato” di Roberto Perrone, ad esempio!) che però assume un ruolo chiave nella storia, rendendo verosimile, capace di illudere il lettore, facendogli credere che sia vera, o che un fondo di verità ci sia. E allora gli influssi della musica, di certa musica, possono servire a dare un colore,un’emozione, un tono. Un quid che rende la storia coinvolgente.
    Ma ciò che conta di più, e mi pare di averlo già scritto,è il senso di musicalità nel fraseggio della storia. Una musicalità diversa rispetto a quella attuale, ma che vive di luce propria.

    2) In quali occasioni la musica è “entrata” nella letteratura (con particolare riferimento alla narrativa)?

    Tantissime, ne avete citate diverse. A me viene in mente l’influsso di certo pop anni ’80 in “Camere separate” di Tondelli, ma pure certe atmosfere rollingstoniane in “Underworld” di De Lillo. Ma allora spunterebbero fuori altri casi, penso a Lucarelli o – stando ad un recente titolo – al già citato Perrone (intriso di echi di De André). L’elenco si allungherebbe, e ciascuno può portare qualcosa di reperito.

    3) E in quali occasioni, viceversa, la musica ha “rappresentato” la letteratura?

    Sicuramente (e su ciò concordo con Morandini) il “Dottor Faustus” di Thomas Mann, di cui auspico fortemente una nuova traduzione italiana.

    4) Quale romanzo eleggereste come il più rappresentativo del rapporto tra musica e letteratura?

    L’ultimo citato, senza dubbio.

    Per il resto, ci risentiamo. Io ci sono, anche per parlare di “Bacchetta in levare”, soprattutto per fornire ulteriori chiarimenti rispetto a quanto già scritto nel mio backstage (che, come ho notato,sta circolando parecchio sulla rete). E ringrazio fortemente Massimo Maugeri per l’ospitalità. E tutti voi che state intervenendo.

  166. Questo post e’ ”musica per le mie orecchie”!
    Allora.
    La Vera Letteratura e’ una scultura composta di suoni, sentimenti e colori. Le lettere alfabetiche si vestono di una sublime bellezza che ce le presenta come dee pagane. Per l’appunto la Vera Letteratura e’ solo quella pagana, grecoromana: Omero, Orazio, Virgilio, Ovidio. I loro traduttori italiani – non quelli contemporanei, per carita’, eccetto l’ottimo Piero Bernardini Marzolla (Einaudi) – sono riusciti a recepire questi incanti, almeno fino all’Ottocento: sto parlando degli ottimi Monti, Caro, Foscolo e Pindemonte. Dopo di loro e’ finito il sogno di riportare le sculture sonore antiche dentro la nostra sensibilita’ italiana.

  167. Gia’, carissimo… e addirittura la metto in pratica quando scolp… ehm quando scrivo (vedi il mio primo libro del 2007 ”Il maniaco e altri racconti”)! Poveri tre lettori miei, che turpe cacofonia si devono sorbettare…

  168. Strano: è la quarta volta che provo a postare qui e non compare nulla (il bello è che fra la seconda e la terza ho postato, regolarmente, in altra pagina di questo blog!) Ma ci riprovo.
    Stravinskij è uno dei miei compositori preferiti, e l’Oedipus Rex una composizione affascinante.
    Ma non dimenticherei La carriera di un libertino (Rake’s Progress) dove la sua musica sposa le liriche di Auden e le illustrazioni di Hogarth dell’omonimo ciclo (stampe e quadri) , calandosi perfettamente in un settecento Hogartiano (e Mozartiano) pur mantenendo la sua personale cifra e la sua modernità.
    Poi mi viene in mente Tehillim, del più contemporaneo Steve Reich, dove viene resa la musicalità dei Salmi (in ebraico) sottolineandone il ritmo, complesso e fortemente marcato.

  169. caro Massimo sono letteralmente s b a l o r d i t a dagli interventi di alto contenuto specialistico dei partecipanti …
    concordo con il SIGNOR ANONIMO, egli ha un pensiero lucido e chiarificatore.
    Adesso scusatemi se non ho le competenze necessarie per fare citazioni colte e di settore, ma trovo gradevole il parallelo fra alcuni cantautori ed il l linguaggio estetico, trovando molto interessante la propensione che il musicista (testo e musica) ha verso un arte piuttosto che un altra: qualcuno usa i pennelli, qualcun’ altro la penna, qualcun’altro
    la cinepresa. Esempi concreti. Francesco De Gregori con la sua “Donna Cannone” non è forse un pò Botero? Rimmel è un bel ritratto di donna, ma Buonanotte Fiorellino ha tinte tenui che ricordano Cascella. Ma poi anche il nostro Vasco Rossi con l’asciugamano passata da Tofì’ e la sua Vita Spericolata gira brevi scene scatenate . . . il cantastorie Branduardi mostra i suoi arazzi alla Fiera dell’Est, Guccini scrive e scrive ma, siamo seri, di atmosfere politiche se ne intende; in alcune canzoni come “Napuli è” o “Quannu chiovi” Pino Daniele diventa fotoreporter, e non posso non ricordare Fabrizio De Andrè con i suoi poetici racconti di Marinella, la Storia di Piero, Boccadirosa, conosco bene il ventre di Genova ed a volte lo ha descritto con cenni alla Rouault. Interessante conoscere gli “inediti” di Franco Battiato come “Il mantello e la Spiga” o quella canzone(forse si intitola la Preda) dove uomo e donna innamorati, si lasciano avvolgere dalle lenzuola – e poi trasformano la rabbia in tenerezza, insomma lui è un pò astruso, ma alcune canzoni sono immagini indimenticabili.
    Siete d’accordo con me?

  170. Caro Massimo,
    la letteratura e la musica sono dei linguaggi, che traducono stati d’animo, pensieri, idee, parole. Quindi hanno molto in comune, come dimostra l’intervento appropriato di Rossella.
    Molte volte, ascoltando una musica, immaginiamo profumi, colori, volti, ambienti. Esattamente come quando leggiamo qualcosa. Il romanzo sulla musica, che mi ha emozionato di più è stato “Canone inverso” non per la trama, ma proprio per le sensazioni forti, che l’autore è riuscito ad esprimere e a far arrivare ai lettori, attraverso quelle note non traducibili in parole.
    Sono del parere che i romanzi in cui si parla di musica e pittura abbiano un fascino particolare, che probabilmente deriva da questa commistione. Dopo tutto, per non andare molto lontano, i Futuristi ribadivano l’importanza dell’interartisticità.
    Ciao.
    Maria Rita Pennisi

  171. Caro Massimo,
    ci siamo visti da poco a Siracusa, per la presentazione del libro “Roma per le strade 2” che hai curato personalmente e in cui è presente anche il tuo bellissimo racconto “Incontro a Porta Pia”. Però non ci sentiamo da un po’. Non perdiamo questa bella abitudine.
    Un saluto affettuoso
    Maria Rita

  172. Mi intriga il pessimismo di Sergio Sozi sull’oggi che ha sgretolato, appiattito, scolorito, opacizzato e reso sorda e stonata la parola e non sa far più risuonare e svettare le parole della poesia antica. Che cosa è capitato, Sergio? Chi è il colpevole?

  173. Cerco di rispondere alle domande (mi scuso se ho perso la lettura di qualche commento ma sono moltissimi e la giornata è frenetica, siamo nel post Strega). Grazie a Massimo per l’ospitalità.

    – Che cosa hanno in comune letteratura e musica? In cosa si differenziano nettamente?

    Quando ascolto una canzone, o un aria, qualcosa mi trapassa l’anima da una parte all’altra, come la spada di un prestigiatore. Un su e giù del pensiero, quasi fulmineo, come il decollo di un aereo. E quello che resta è simile al post orgasmo. La musica mi raggiunge, mi aggredisce, mi trova in situazioni che spesso non ho programmato. Invece scelgo sempre quando aprire un romanzo, la lettura di un libro non mi piomba addosso dentro un bar o un supermercato. Per la musica è come se mi innamorassi a prima vista di una passeggera che viaggia sul mio stesso treno, mai vista prima. Per la letteratura coltivo un amore lungo, ci vuole impegno, ci vuole curiosità, a volte viene voglia di chiudere il libro, ma quasi sempre si mette un segno, per sapere da dove ricominciare.

    – In quali occasioni la musica è “entrata” nella letteratura (con particolare riferimento alla narrativa)? Quali titoli di romanzi vi vengono in mente?

    Il mio romanzo “Perdonami”? Scherzo… Mi vengono in mente subito i romanzi di Nick Hornby (“Alta fedeltà”, “Un ragazzo”, “Tutta un’altra musica”) e poi quel gioiellino di “Tokio Blues Norwegian Wood” di Murakami.

    – E in quali occasioni, viceversa, la musica ha “rappresentato” la letteratura?

    Qui invece di titoli mi vengono in mente dei nomi. Ovvero cantautori che con i loro versi hanno “fatto letteratura”. Bob Dylan e Leonard Cohen, Fabrizio De André, Francesco De Gregori (leggetevi Pratolini dopo aver ascoltato De Gregori), Gaber, Ivano Fossati…

    Quale romanzo eleggereste come il più rappresentativo del rapporto tra musica e letteratura?

    Uhm… mi verrebbe da scrivere il titolo di un romanzo nella cui trama la musica sia molto presente, magari la storia di un musicista. Invece opto per “Belli e dannati” di Francis Scott Fitzgerald. Perché scelgo questo romanzo? Perché quando l’ho letto sono rimasto a bocca aperta. Fitzgerald è un musicista della parola, ti viene voglia di prendere in mano una chitarra e scrivere un accompagnamento di accordi sopra la sua scrittura. La melodia è già racchiusa nella tecnica di Fitzgerald.

  174. Provo a fare il punto su alcuni aspetti del rapporto letteratura-musica, così come sono emersi fino ad ora, partendo dalla prima:
    – la letteratura parla della musica: racconta o descrive la musica, la percezione della musica, il gusto musicale, la creazione della musica, il mondo della musica, e la vita e i pensieri di chi si occupa di musica;
    – la letteratura si appropria, a modo suo e con una certa dose di inevitabile approssimazione, degli elementi costitutivi del linguaggio musicale: fraseggio, ritmo, cellule motiviche…
    – la letteratura collabora con la musica, offrendo parole alla musica, mettendosi al servizio della musica, oppure prevalendo su di essa; due linguaggi diversi si incontrano comunque in un medesimo progetto, che sia “Il combattimento di Tancredi e Clorida”, “La traviata”, “Funny Face” o “Tommy”: spesso questa collaborazione avviene nella mente e nelle dita del medesimo artista…
    – la letteratura “allude” semplicemente alla musica, nell’inseguire un’idea suggestiva ma vaga (in ogni caso perfettamente legittima) di armonia, di atmosfere sonore, di sviluppo; questo “alludere” in certi casi sembra scaturire, più che dalle intenzioni dell’autore, dalla percezione del lettore.
    Mi pare che si possa rovesciare il rapporto e dire la stessa cosa partendo dalla musica. Ma lo lascio implicito. E chissà quanto altro ci sarebbe da dire…

  175. Buon giorno eccomi di nuovo, ho visto che nel proseguo il dibattito sta occupandosi ancjhe del rapporto tra letteratura e musica pop-rock e quindi voglio anch’io alimentare la discussione.
    Nella musica “leggera” e quindi anche nella musica pop rockin in diversi pezzi si trovano testi che sono degli autentici capolavori, cito un pò alla rinfusa : Malafemmina, Il vecchio ed il bambino, Amerigo, Luci a San Siro, Anche per te, Emozioni, Blowing in the wind, knoking on the heavens’s door, Father and sons, Imagine, Fragile, Il cielo in una stanza, vedrai, vedrai, generale, Buonanotte fiorellino, Caruso, Anna e Marco, Eppure soffia, Il pescatore.
    A parte andrebbero pio citati Leonard Cohen, De’ Andre’, Conte e Brel per il complesso della loro opera , poesia allo stato puro messa in musica.
    Vorrei anche proprorre un confronto tra la poesia del “crepuscolare” Mogol e quella del Crepuscolare Gozzano ( la signorina felicita e la luce dell’est.)
    Mi scuso per gli autori non presenti, ma quelli citati sono:
    Totò, Guccini, Vecchioni, Mogol, Dylan, Cat Stevens, Lennon, Sting, Paoli, Tenco, Dalla e Bertoli.

  176. Rime di Angelo Poliziano, XIII
    “le bionde trecce e i dorati confini”

    La canzone del sole, Mogol-Battisti
    “le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi”

  177. Rieccomi. Ecco un altro tassello, piccolo ma curioso e intrigante. L’ho trovato nell’intervista di Anna Bandettini a Franca Valeri comparsa oggi su “Repubblica” in occasione dei novanta anni dell’attrice.
    Rievocando incontri passati, la Valeri racconta: “Anche con Arturo Benedetti Michelangeli ci unì il silenzio. Sapevo che ai suoi allievi faceva sentire pezzi miei perché capissero il valore della pausa, volli conoscerlo, ma lui stava zitto, io pure…”
    Silenzio. Pausa. Valore della pausa, anzi. Spazi bianchi, aggiungo io. Respiri. Attese. Ne dovremmo parlare, prima o poi…

  178. Altro tassellino: il critico letterario come “esecutore”, o interprete di quella partitura che è il libro: ritrovo questa analogia in una risposta che Gian Paolo Serino ha dato a Liberidiscrivere
    (cfr. http://liberidiscrivere.splinder.com).
    Scrive Serino: “Amo che i miei articoli siano più lontano possibile dall’accademia, che trasmettano il suono dell’inchiostro che il libro di cui parlo mi ha trasmesso. Io credo che ogni libro contenga uno spartito che sta a noi eseguire.”

  179. Magicamente è ricomparso il mio commento di ieri, e per ben quattro volte (e me ne scuso): tanti erano stati i miei tentativi di inserimento, senza vedere mai comparire nulla. Massimo mi ha spiegato che per qualche arcano motivo erano finiti fra gli SPAM. Lo ringrazio qui per averli recuperati.

  180. Cito il caro Claudio Morandini per rispondergli con la necessaria acribia:

    ”Mi intriga il pessimismo di Sergio Sozi sull’oggi che ha sgretolato, appiattito, scolorito, opacizzato e reso sorda e stonata la parola e non sa far più risuonare e svettare le parole della poesia antica. Che cosa è capitato, Sergio? Chi è il colpevole?”

    Risposta:
    Io direi che si tratti di diversi ”colpevoli”, i quali, come da ben organizzata banda di malfattori, hanno congiurato contro la bellezza della parola antica e anche contro quella dell’italiano. Questa ghenga di sabotatori della qualita’ letteraria, a mio personale avviso, sono i seguenti:
    1) La trasformazione socio-economico avvenuta in Italia nel corso dell’Ottocento e del Novecento, trasformazione che ha introdotto nel Paese solo i lati peggiori della modernita’, scartando come se fossero peste le tradizioni millenarie delle quali, invece, sarebbe stato intelligente esser fieri portatori;
    2) L’esterofilia, spinta a degli eccessi veramente privi di dignita’ civile e culturale – per non dir ”nazionale”;
    3) La supremazia della politica e dell’economia, le quali, usando una certa arrogante superbia ”aritmetico-economica”, hanno convinto la maggioranza assoluta dei cittadini che la cultura e’ un bisogno indotto fra i minori, anzi e’ un accessorio da mostrare come un abito di marca e non un diritto-dovere da sentire nel cuore e nella mente, da studiare, sul quale si DEVE lavorare. A mio avviso solo un uomo di cultura ha diritto alla cittadinanza, dunque non chi e’ NATO E VISSUTO in Italia, ma chi E’ ITALIANO. E sono italiani solo gli italiani che conoscono il proprio passato letterario, gli altri fanno numero per i politici, gli industriali e i commercianti.
    4) La pigrizia mentale del mio popolo, che per evitare di sentirsi massa cerca (in massa) modi da snob e vestiti unici, telefonini unici, cibi esotici e vacanze costose, invece che cercare di creare con le proprie fatiche una quotidianita’ piu’ tranquilla, armonica ed amorevole, nonche’ vissuta con dei libri di qualita’, dei figli di qualita’, dei coniugi di qualita’, degli amici di qualita’. Gli italiani sono una massa di individualisti: cioe’ insieme una vera massa e dei veri individualisti (paradosso perfetto).
    5) L’ossequio e il servilismo che si hanno per il delinquente faccia di palta, per lo sfacciato bandito e spudorato, per l’irriverente violento, per l’avventuriero senza scrupoli. Purche’ siano ricchi e famosi, ovviamente. In poche parole l’innamoramento degli italiani per gli imitatori (molto bravi) di Don Rodrigo e di Azzeccagarbugli, Griso & Compagnia Bella.

    Forse ci sarebbe altro da dire, ma per ora mi fermo, causa calura.
    Saluti Cari
    Sergio Sozi

  181. A Carlo S.: Vero, verissimo, su Strav. e il rapporto con la parola poetica ci sarebbe da riempire centinaia di pagine, ma per fortuna qualcuno lo ha già fatto! E mi fa molto piacere sapere che condividiamo la passione per questo grandissimo dongiovanni della musica.
    Nell’Oedipus è ricorso al brillante Cocteau tradotto però in latino (una lingua “pietrificata”, da usare come puro materiale sillabico, e pazienza se con qualche forzatura nell’accentazione), e in lingua moderna ha lasciato, senza esserne troppo convinto, solo la parte dello speaker; in “Perséphone” ha tentato il binomio musica-parola recitata (coro a parte) facendo affidamento a Gide… Il rapporto di Strav. con il latino meriterebbe davvero un capitolo a parte. Così come il suo personalissimo appropriarsi dell’inglese. E qui l’esempio che hai citato tu è perfetto.
    Mi hai fatto venire in mente anche “The cave”, di Reich: ambizioso e riuscito esempio di opera multipmediale in cui l’inflessione parlata degli inserti video diventa linea melodica e, opportunamente armonizzata, diventa, o si scopre, musica (secondo il modello di Janacék).

  182. A Sergio Sozi: ritrovo, nelle tue amare riflessioni, molto dei miei rimuginii (da insegnante, da cittadino, un po’ anche da autore in lingua italiana…).
    E ritrovo anche l’indignazione (vera, forte) alla base di quella fantasticheria cupa e dolorosa (e atrocemente divertente) che è “Il menu”.

  183. Caro Claudio,
    ”Il menu” e’ un romanzo – definiamolo cosi’ per semplificare la categoria cui appartiene agli occhi di chi non l’abbia letto – scaturito per magia dalla mia penna: il frutto di un’illuminazione proveniente da liti remoti e a me ignoti. Io l’ho soltanto messa in atto, questa illuminazione. E son contento che essa abbia ora ricevuto anche il tuo apprezzamento. Ti sembrera’ strano, ma su quel libro non mi sento di aver faticato troppo – come invece su altri lavori. Ed ora mi/ti chiedo: le illuminazioni inibiscono la percezione individuale del sacrificio? (Scherzo, eh…)

  184. SONETO DO AMOR TOTAL

    Amo-te tanto, meu amor… não cante,

    O humano coração com mais verdade…

    Amo-te como amigo e como amante,

    Numa sempre diversa realidade.

    Amo-te afim, de um calmo amor prestante,

    E te amo além, presente na saudade.

    Amo-te, enfim, com grande liberdade,

    Dentro da eternidade e a cada instante.

    Amo-te como um bicho, simplesmente,

    De um amor sem mistério e sem virtude,

    Com um desejo maciço e permanente.

    E de te amar assim, muito e amiúde,

    É que um dia em teu corpo de repente,

    Hei de morrer de amar mais do que pude.

    (Vinícius de Moraes)

    SONETTO DELL’AMORE TOTALE

    Ti amo tanto, amore mio… non canta

    Il cuore umano con più verità…

    Amo te come amico e come amante

    In una sempre diversa realtà.

    Ti amo affine, di calmo amore pronto,

    E da oltre ti amo, presente in nostalgia.

    Ti amo, insomma, con grande libertà

    Dentro l’eterno ed in ogni momento.

    Come ama l’animale ti amo semplicemente,

    D’amore privo di mistero e privo di virtù

    Con un desiderio massiccio e permanente.

    E di amarti talmente e di frequente,

    Un giorno nel corpo tuo di repente

    Avrò da morire di amare più che uno possa.

    (Vinícius de Moraes – Traduzione di Giuseppe Ungaretti)

    Per quanto riguarda i legami tra letteratura e musica (nella fattispecie il Samba e la Bossa-Nova), credo che il grande poeta brasiliano Vinícius de Moraes (Rio de Janeiro, 1913-1980) non abbia bisogno di alcuna presentazione (così come Giuseppe Ungaretti, che dal 1937 fu suo fraterno amico e fedele traduttore…).

  185. Per restare in Brasile (appena estromesso dal mundiàl, poveretto!) accomunerei a Vinicius il grandissimo Chico Barque De Hollanda.
    Nel suo “Construcao” trovo un esempio lampante di corrispondenza tra i versi (frasi, costruzioni verbali e parole stesse che si fanno via via più confuse mano a mano che il suicida, protagonista della canzone, sale nella costruzione dalla quale si butterà nel vuoto, e la musica stessa, via via più dissonante e caotica).
    Di Chico Barque (musicista, poeta, scrittore) si possono trovare anche buoni romanzi, tra i quali il recente “Latte versato” (Feltrinelli).

  186. Entro con ritardo nella bellissima discussione, facci prima i complimenti a Claudio Morandini per come sta conducendo il dibattito e agli autori menzionati, nonchè a tutti gli intervenuti. Ho cercato di leggere la maggior parte dei commenti, ma mi scuso se dirò cose già dette, perchè qualcosa di certo mi sarà sfuggito nelle letture.
    Sento moltissimo il legame musica e letteratura, spesso se ascolto una musica immagino la storia che potrebbe essere sottolineata da essa, e se leggo una storia vorrei applicargli una colonna sonora di accompagnamento.Credo che sia un legame fortissimo che risalga alla notte dei tempi quando le storie si raccontavano cantate.Senza dimenticare l’importanza dell’opera, del melodamma in qusto legame- come alcuni di voi hanno già sottolineato. A tal proposito ho letto alcune pagine interessanti che mettono in relazione la poesia di Montale con il melodramma da cui lui fu profondamente influenzata per la sua poetica. Fra l’altro il poeta stesso studiò canto e desiderava diventare un cantante lirico.In molti suoi versi nel linguaggio utilizzato è forte l’influenza del linguaggio del melodramma, se volete ne cerco qualcuno in merito.
    Devo dissentire sul fatto che qualcuno più sopra diceva che la musica classica è morta perchè non esistono più compositori.E’ naturale che un periodo storico come quello del ‘700 e dell’800 abbia prodotto opere immortali ed autori che rappresentano la pietra miliare della storia della musica, ma ogni arte è figlia del proprio tempo. Ascolto musica classica con grande piacere e sono una amante del pianoforte, che suonicchio anche, ma per tornare all’epoca odierna ho molto apprezzato le composizioni e le esecuzioni del compositore Sakamoto. Nulla muore secondo me, tutto cambia e si ripresenta in nuove forme, io provo ad accoglierle con curiosità e senza troppo confronto con il passato.
    Mi è venuto in mente anche il bravissino Milan Kundera che diceva di scrivere i suoi libri come se fossero stati una partitura musicale, seguendo un perfetto e archittettato ordine fra un capitolo e l’altro, come si alterna un adagio e un allegretto.
    La poesia è infine l’esempio più grande di come la musicalità dei versi e l’andare a capo come se fossimo all’interno di una battuta che però deve far parte amonica di un insieme sia forte il legame di cui parliamo.E di quanto per la bellezza di ascolta e di chi legge siano importanti il non detto, il respiro fra una parola e l’altra, lo spazio bianco come la pausa musicale.
    un caro saluto a tutti e perdonate se ho messo giù pensieri in disordine.

  187. Ryuichi Sakamoto, dici, Francesca Giulia? Un grande contemporaneo, si’… ma parlando di musica classica italiana… ehm…
    Per tornare a bomba sull’argomento letteratura-musica: qualcuno ha citato ”Novecento” di Baricco? Se non e’ stato fatto, ci siamo persi l’occasione di ricordare il miglior disco-libro di jazz-blues italiano degli ultimi cinquant’anni…

  188. Brava FG! Che nota “la musicalità dei versi e l’andare a capo come se fossimo all’interno di una battuta ” come forte legame tra poesia e musica. Ma estenderei lo stesso concetto anche alla prosa: lei stessa ricorda Kundera e i suoi romanzi scritti “come se fossero stati una partitura musicale, seguendo un perfetto e archittettato ordine fra un capitolo e l’altro, come si alterna un adagio e un allegretto” e ancora “lo spazio bianco come la pausa musicale”.
    Kundera d’altronde è notoriamente uno scrittore misicofilo, come lo è anche Baricco (“Le micche del Wisconsin”…), ed anche diverse sue pagine sembrano alternare con senso musicale “allegri” e “adagi” (penso soprattutto a Oceano mare).
    I grandi artisti d’altronde sono stati sempre molto attenti alle altre forme d’arte della loro epoca e di quelle loro precedenti. Credo fortemente che la sensibilità non possa essere unidirezionale (sarebbe solo un limite). Credo alle contaminazioni (e mi viene in menteBuzzati, e non solo il suo Orfeo, ma , già prima, la sua Fantastica storia degli orsi in Sicilia). Credo alle possibilità che la tecnologia può offrire oggi: penso ad un e-book non come sostitutivo del libro tradizionale, ma come a possibile veicolo di opere multimediali dove le parole si integrino (anche attraverso link) con musiche ed immagini, dello stesso autore o di altri.
    Anche FG (che immagina colonne sonore ai libri che legge, e lo faccio anche io), dovrebbe esserne soddisfatta.

  189. Ciao, carissimo Carlo S.,
    io invece credo che le possibilita’ tecnologiche piu’ che aiutare la creativita’ la impigriscano: per essere creativi, come dimostra il sullodato ”La fantastica invasione degli orsi in Sicilia” di Buzzati, basta avere qualche matita colorata o pennello e della carta bianca. Questo lo dimostra il fatto che, nonostante i mille ausili tecnologici, oggi di capolavori della fantasia non ce ne sono molti. Ce ne sono molti di meno rispetto a cinquant’anni fa. E questo perche’ l’artista di oggi fa affidamento alla tecnologia, non la usa per mettere in pratica quel che progetta e sente. La tecnologia non e’ un mezzo, e’ un dittatore che guida e mai e’ guidato. Inoltre, ovviamente, c’e’ da sottolineare la scarsita’ di fantasia di questi ultimi decenni. Ed il quadro e’ completo: i risultati sono sotto gli occhi di tutti noi, purtroppo.

  190. A me piace la visione aperta di Carlo S. e la condivido, ma comprendo la posizione tua Sergio, sei un “purista” molto legato al significato dei classici, però nel panorama odierno fra tante cose bruttine e sciatte dove la tecnologia è un dittatore solitario esistono anche felici esperienze artistiche in cui attraverso lavoce teconologica è pur sempre il cuore dell’arte che parla. Basta che ci siano cose da dire e il desiderio di darne forma qualitativamente superiore.
    Sì, mi riferivo a Ryuichi Sakamoto, ma come dicevo è chiaro che non faccio paragoni con Bach, ma del resto pur amandoli entrambi non posso farne neppure fra Bach e Debussy, meravigliosi ma figli di epoche e espressioni musicali differenti, no?
    Certo anche Baricco di Novecento, è apprezzabilissimo e di Oceano Mare come ricordi tu, Carlo, ma Kundera lo ritengo superiore per costruzione dlla storia e per sapere raccontare mescolando con grande maestria psicologia e filosofia dei personaggi con una trama vera.
    E Proust? Alla ricerca del tempo perduto potrebbe il disperato richiamo di un musicista che non suona più a tempo o perchè non lo sente più come una volta o perchè ne cerca uno nuovo.
    Il Proust poeata dedica alcuni delicati ritratti ai suoi musicisti preferiti: Chopin,Schumann, e Mozart. Sono molto belli, li consiglio.
    Inoltre ,poichè egli stesso aveva una passione per il Pelléas et Mélisande di Debussy, improvvisò un duetto fra Markel e Pélleas molto divertente,dove forse il poeata stemperava un pò della sua malinconia.

  191. …chiedo scusa per gli innumerevoli errori di battitura: Tecnologia traditrice 🙂

  192. Chopin di Marcel Proust
    …………………………………………………..
    Mare di sospiri, di lacrime, di singhiozzi
    attraversato da un volo di farfalle
    che non si posano, sulla tristezza giocando
    o danzando sulle onde. Sogna, ama.
    soffri, grida, placa, incanta o culla,
    sempre lasci fluire in mezzo a ogni dolore,
    vertiginoso e dolce l’oblio del tuo capriccio
    simile a un volteggiare di farfalla
    di fiore in fiore: dunque la gioia è complice
    della tua pena: l’ardore del vortice accresce
    la sete di lacrime.
    Pallido e dolce compagno
    della luna e dell’acqua, principe della disperazione
    o nobile signore tradito,
    anche ti esalti, più bello nel pallore,
    del sole invadente la tua stanza di malato
    che piange di sorridergli e più soffre a vederlo…
    Sorriso del rimpianto e Speranza che piange!
    ……………………………………..
    Io leggo questi versi e sento musica, in particolare”
    Mare di sospiri, di lacrime, di singhiozzi
    attraversato da un volo di farfalle
    che non si posano, sulla tristezza giocando
    o danzando sulle onde.”
    Lo sentite uno studio di Chopin in cui le mani del pianista volteggiano da un tasto all’altro come farfalle?

  193. Splendidi i suggerimenti di Francesca Giulia (e graditissimi i suoi complimenti…): Montale-Kundera-Proust…
    E Grazie anche a Sergio per avere tirato in ballo Baricco (il suo “Novecento” non si merita davvero l’ostracismo che ha colpito il suo autore in questi ultimi anni…).
    E a Carlo S. per le sue puntualizzazioni.
    A proposito di Buzzati, chi si ricorda più delle sue collaborazioni con un compositore che al teatro musicale come Luciano Chailly aveva dedicato le sue migliori energie? Nessuno, ahimè, nemmeno l’industria discografica…
    Curiosate su http://www.lucianochailly.eu/ .

  194. Grazie Claudio, è stato per me molto interessante leggere i vostri contributi.
    Bello il sito di Chailly.Ma è il padre della musicista Cecilia Chailly?
    Pensando a Buzzati mi hai fatto venire in mente i suoi racconti perfetti, in particolare, visto che siamo in tema, “Paura alla scala”, lo avet letto? Lo ricordate?
    un caro saluto

  195. Detto tra noi, Francesca Giulia, nemmeno per me è morta la musica classica (oggi la chiamo così, perché a chiamarla “colta” attiro fulmini, e a chiamarla “accademica” mi sento a disagio io).
    Ma il tenore di quell’intervento e la perentorietà di quell’affermazione mi avevano convinto che era meglio soprassedere…
    Quella musica è viva invece. E non solo perché il repertorio della musica inequivocabilmente classica (fino a tutto il Novecento storico) continua a vivere nelle sale da concerto e nelle registrazioni discografiche (meno, ahimè, nella pratica domestica del suonare o suonacchiare, ed è un vero peccato): ma anche perché esiste una vita musicale nuova, fertile, fertilissima anzi, fatta di compositori allievi dei grandi esploratori di suoni (e rumori) del secondo Novecento (Berio, Donatoni, quei nomi lì). Sono compositori di ricerca che non hanno rinunciato a cercare un contatto, a condividere un’esperienza: non si sono relegati in una torre d’avorio, ma certo non godono di grande esposizione mediatica. Bisogna andare a cercarli, nei cataloghi delle etichette specializzate (Stradivarius, che so, Taukay, Edipan…), nelle rassegne specializzate, non lasciarseli sfuggire quando i programmi delle sale da concerto dedicano loro (con il contagocce, ahimè) qualche spazio, o quando rassegne come “Settembre musica” (o Mi-To, come credo si chiami adesso) commissionano pezzi nuovi da proporre in prima esecuzione assoluta.
    Io amo cercare o inseguire questa musica. La sento viva, tesa a esplorare le vie di un linguaggio in cui sento la continuità con la musica “classica” già acquisita. Fa parte della biodiversità musicale di oggi, e il fatto che la si conosca poco non implica che quello sia un ramo morto.
    Quindi hai fatto bene a tornare su quella drastica condanna a morte per metterla in discussione!

  196. Altra suggestione, altro connubio parola-musica che sarebbe bello indagare: la collaborazione tra Carmelo Bene e il compositore Gaetano Giani-Luporini.
    Ma in generale la figura gigantesca di Carmelo Bene e il suo rapporto con la musica (con il melodramma, con Schumann…) meriterebbero ben più di questa postilla…

  197. Due rapide osservazioni, in linea con l’ultimo intervento di Claudio Morandini.
    1) A essere morta (anzi: nemmeno nata) non è la musica “classica”, ma una sua dignitosa veicolazione nelle scuole del regno.
    2) (Conseguenza del punto precedente) Chi nega cittadinanza alla musica “seria” nel nostro tempo lo fa (talvolta) tutto sommato incolpevolmente, non avendo mai avuto nonché occasioni di ascolto nemmeno contezza della sua tutt’altro che residuale esistenza.
    (Ah, ritiro quel “seria” prima di suscitare un vespaio)
    Un caro saluto.

  198. Ciao Sergio, mi fa sempre piacere ritrovarti qui, anche se spesso non siamo d’accordo. Ma fa lo stesso (le polemiche, se condotte senz’astio e con buona creanza, sono spesso il sale della vita). Capisco la tua posizione “purista”, anche se non la condivido (e non condivido il tuo pessimismo). Tengo a sottolineare che non vedo assolutamente i libri elettronici e le possibilità tecnologiche “multimediali” andare ad insidiare il posto che i libri di carta , quelli con la copertina e l’odore degli inchiostri tipografici, occupano nelle nostre menti e cuori.
    Vedo la possibilità di sorgere di nuove forme d’arte che possono affiancare quelle tradizionali, senza sostituirle.
    Il cinema ha forse “ucciso” il teatro? O la fotografia la pittura? Oppure quelle nuove forme (che anche qui di arte si tratta, e oggi ciò è riconosciuto da tutti, anche se non lo era all’epoca) hanno meglio precisato i confini entro i quali ognuna poteva esprimere le sue migliori possibilità o addirittura stimolato nuovi stili, nuove forme (penso all’impressionismo, sorto forse nel momento in cui alla neonata fotografia veniva spontaneo lasciare il campo aperto alla ricostruzione in immagine del vero; e poi dall’impressionismo alla nascita di tutta l’arte moderna)?
    Capisco il tuo amore per i classici, Sergio, e il tuo spaesamento di fronte all’apparente imbarbarimento della cultura e della lingua.
    Ma le nuove culture sono sempre nate attraverso fasi di distruzione (anche barbarica). Ma anche in queste fasi nulla del passato viene dimenticato (forse proprio grazie a posizioni di “resistenza” come la tua), fino al loro recupero in forme però nuove, nelle quali non si può non tenere conto di quanto di buono apporti anche la modernità dei più freschi “barbari”: questo in fondo fu anche il Rinascimento, che credo anche tu ami profondamente.
    La modernità di oggi è anche (soprattutto?) nella tecnologia. Ridurla solo ad essa lo trovo stupido, ma trovo altrettanto stolto ignorarla o rinunciare alle possibilità che essa offre. Per questo non posso condividere la tua affermazione “La tecnologia non e’ un mezzo, e’ un dittatore che guida e mai e’ guidato”. Guidarla e non farsi guidare è un rischio (odio chi sperpera tempo e danaro inseguendo le ultime novità degli iPod, iPad, iPud, iPid e chi più ne ha più ne metta; e che si fa quando finisconoi le vocali, che sono poche?), ma un rischio non è un assunto. Sta all’uomo guidare e non farsi trainare.
    Scusate gli errori di digitazione (rileggo nel mio precedente un misicofilo invece di musicofilo, e micche al posto di mucche del Wisconsin, e inorridisco), spero di non averne fatti anche qua.

  199. Beh, anche qua rileggendomi trovo l’errore. “Guidarla e non farsi guodare è un rischio…” naturalmente va letto al contrario: “Farsi guidare e non riuscire a guidarla è un rischio…”.

  200. Chiedo venia anche per qualche commento finito nello spam (e poi recuperato) e per qualche spam (poi cancellato) che – viceversa – è riuscito a superare i filtri.
    Ahimé, a volte la tecnologia è fallace!

  201. @ Francesca Giulia
    Sì, Fran… Cecilia Chailly è figlia di Luciano. Siccome la conosco, magari (se non è in giro per l’Italia a fare concerti) potrei invitarla a partecipare alla discussione…

  202. Domani sera (in tarda serata) pubblicherò un nuovo post.
    Ma spero che qui il dibattito possa continuare.
    L’idea, appunto, è di fare di questo spazio una sorta di forum permanente.

  203. Ciao Massi,spero che tu stia bene! Che bello Cecilia Chailly, è un personaggio che mi ha sempre intrigata, spesso leggevo alcuni suoi articoli su un giornale femminile, bella persona se la inviti farai cosa graditissima a me, ma anche a tutti gli altri.
    Grazie sempre per i tuoi spunti che sono una vera carezza per l’animo curioso e sensibile!
    a tutti una buonanotte

  204. Ciao, Massimo, lieto del nuovo post con la sig.ra Chailly, che non conosco ma che promette molto bene! Ciao, Francesca Giulia!

    Prima di salutarvi vorrei rispondere brevemente al caro ”vecchio” Carlo S., col quale come tre anni fa discorro sempre molto piacevolmente.

    Allora, Carlo, i problemi dell’arte nel suo insieme, oggi e in Italia, sono per me sintetizzabili in pochi punti:
    1) Mancanza di ”botteghe artigiane”, cioe’ di ritrovi per artisti – nel Rinascimento esse e i cenacoli hanno creato quella stupenda sintesi di tradizione classica ed innovazione ”volgare” che tutti sappiamo. Il Rinascimento infatti non e’ stato, come sostieni tu, una rottura col passato, ma una sintesi dell’esperienza millenaria degli italiani. Oggi invece la tradizione viene trascurata da quasi tutti gli artisti, letterati compresi (prova a vedere quanti autori italiani di oggi leggano quotidianamente la Divina Commedia, Monti o Ariosto, studino la grammatica e la Storia della Letteratura Italiana, e lo potrai constatare di persona: gli artisti di oggi del passato sanno molto poco, eccetto eccezioni).
    2) Mancanza di idee – personali, originali; di quelle scopiazzate ce ne sono invece tante in giro. Questo e’ fenomeno ovvio, in un’Italia del tutto asservita al dovere sociale della ”comunicazione”: chi pensa solo a comunicare non crea arte di nessun tipo, anzi si presta a far da clone, da numero. Guardandoci attorno lo dobbiamo ammettere, credo.
    3) Mancanza di passione per l’arte. Chi ha passione non si mette a gingillarsi con i mezzi tecnici – Michelangelo con lo scalpello attendendo ispirazione o Petrarca col calamaio mentre ha la testa vuota di emozioni? – no, no: l’appassionato crea con mezzi semplici ed immediati dei capolavori. Ne vedi molti, tu, di artisti fatti cosi’ oggi? Anzi e’ il contrario: l’artista italiano di oggi prima cerca qualcuno o qualche opera gia’ fatta a cui ispirarsi e insieme cerca la tecnologia, poi DOPO pensa a COSA VUOL DIRE. Dopo il mezzo oggi viene il motivo. Modus operandi ben poco rinascimentale, direi.
    4) Confusione oltre il limite della tollerabilita’. Una confusione, quella dell’Italia di oggi, che tutto contamina, sporca e disturba: guai ad essere una persona che pensi solo a due tre cose nella propria vita, no, devi (DEVI non puoi) considerare tutto e il contrario di tutto, senza sicurezze e principi d’alcun tipo. Un artista, appunto, DEVE avere il cellulare, DEVE avere mille contatti inutili, DEVE pensare al posto dell’idraulico che chiama per il rubinetto che perde, e DEVE esser cosi’ perche’ nessuno ha la liberta’ di essere SOLO e SEMPLICEMENTE un artista che fa l’artista ed eventualmente il padre di famiglia. No: tutti tuttologi: ognuno di noi un burocrate, un politologo, un elettricista, un autista, un dietologo, un medico, eccetera. Sono certo che questa tuttologia sia dannosa per qualsiasi artista. Fino a cent’anni fa, un artista pensava a tre cose: creare quel che voleva lui, sopravvivere con lavoretti da tenere solo per comodo (senza investirci troppe energie mentali) e far sopravvivere la propria famiglia. Stop.
    5) Assoluta mancanza di riflessione e di concentrazione da parte della gente su cose d’arte. Vedo bene? Vedo gente concentrata su telefonini, ipod opod apod, computer, videogiochi, guida di auto, lavori tecnici, eccetera, ma pochi che girino con un libro o un pennello in mano. Vorra’ dire forse che il centro della nostra societa’ sta nel microchip, non nel carattere a stampa.
    6) Istituzioni scolastiche pessime. Studiare letteratura ed arti non e’ un piacere per milionissimi di giovani italiani, ma una tortura: l’opera di cento duecento anni fa e’ roba ”vecchia”, scritta con una lingua ”vecchia” da gente morta anni annorum or sono… questo pensa il novanta per cento dei giovani. E forse l’ottanta per cento dei non giovani.
    7) Isolamento dei cittadini. In Italia la gente e’ sola dovunque. Cosi’ non si crea coraggio, entusiasmo, arte, allegria, gioia di vivere. Cosi’ si subisce il microchip. Cosi’ e’, appunto.
    8) Nichilismo, rassegnazione e pessimismo di moda. Altra cecita’ che tarpa le ali. Non e’, questo di cui parlo, il mio pessimismo – che e’ un pessimismo di analisi della realta’ e che propone alternative – ma e’ un pessimismo esistenziale ed assoluto. Un pessimismo che chiude prospettive. Il mio pessimismo invece crea, e’ motivato dalla Storia e lotta per costruire un’Italia migliore.
    Ciao, Carlo
    Sergio

  205. P.S.
    La faccia gialla scema sopra era un ”8” che questa stupida macchina mi ha trasformato in un tondo colorato affetto da itterizia.

  206. Nessuno ha nominato “La dura Spina” dello scomparso Renzo Rosso , unico vero romanzo musicale

  207. Caro Massimo,
    sarebbe bellissimo sentire la voce di Cecilia Chailly, musicista e scrittrice, in questa discussione! Oltretutto la memoria di quel finissimo compositore che è stato Luciano Chailly è tenuta desta con devozione soprattutto da Cecilia, la figlia.

  208. A Tetide: “La dura spina” è un eccellente romanzo intriso di musica, e scritto da un musicista vero, Renzo Rosso. Lo ha ristampato proprio quest’anno ISBN. Grazie quindi per la puntualizzazione, che colma una nostra lacuna.
    Ma la tua definizione di “unico vero romanzo musicale” meriterebbe un approfondimento. Perché lo consideri tale? Che cosa ha in più rispetto agli altri romanzi incentrati sulla musica?

  209. Ho tra le mani un libro nato dalla collaborazione tra una poetessa, Norma Stramucci, e una compositrice, Paola Ciarlantini. Si intitola “Il cielo leggero” e lo ha pubblicato Azimut nel 2008. La musica vi compare accanto alla poesia, nella composizione del testo, nei valori poetici, ma anche, concretamente, con la partitura della “Piccola sonata per violino solo” della Ciarlantini.
    Mi piacerebbe invitare Norma Stramucci o Paola Ciarlantini a raccontare qui la genesi di quest’opera.

  210. Marta Morazzoni non è riuscita a intervenire direttamente nella discussione. Mi ha inviato le sue risposte via mail (e vi saluta tutti).
    Le riporto di seguito a suo nome.

  211. Cos’hanno in comune letteratura e musica?

    le regole. Mi sembra che entrambe vivano di regole e di codici fermi. Senza voler paragonare il pentagramma all’alfabeto e alla grammatica, non in un paragone stretto e assoluto, trovo che comunque le due forme si giochino su dei parametri di linguaggio codificato e che tale codice sia strumento non di costrizione, ma di libertà, perché è un veicolo espressivo. Poi, accanto a quella che chiamerei la grammatica di entrambe, metto l’elemento del ritmo, della melodia e dell’armonia. Il ritmo soprattutto è un elemento imprescindibile dalla narrazione. Segna e determina la struttura di una pagina, fatta di punteggiatura, scelte di vocaboli, organizzazione su una sorta di piano sonoro degli stessi vocaboli e del tempo della frase, è determinante a darne non solo e non tanto un aspetto esteticamente gradevole, o magari a rimarcare una dissonanza, ma è una vera e propria cadenza che segna e determina il senso e la valenza del contenuto

  212. In cosa si differenziano nettamente?

    Credo che la differenza stia nella maggiore immediatezza e direi istintività della percezione della musica, che crediamo di cogliere senza aggiustamenti logici, assorbendone subito il piacere e la dimensione emotiva. È un linguaggio universale, almeno dal punto di vista della cultura occidentale. (Ricordo che, per esempio, Beethoven proposto agli Inuit di un villaggio in Groenlandia risultava ostico e quasi di disturbo!) La pagina letteraria invece non può prescindere dalla comprensione del senso razionale, non ci basta il suono, non ci basta la misura armonica. In altri termini, la musica ha bisogno di un interprete ma non di un traduttore. La letteratura, per uscire dai suoi confini linguistici, ha bisogno del traduttore.

  213. In quali occasioni la musica è “entrata” nella letteratura (con particolare riferimento alla narrativa)?

    Se d’acchito penso ai romanzi in cui la musica abbia avuto un ruolo, e allora mi viene in mente “Il doctor Faustus” di Mann, o “La sonata a Kreutzer” di Tolstoi o “Il soccombente” di Bernahard, mi rendo poi conto che non è nel soggetto che devo cercare. Piuttosto invece là dove la musica è entrata non per argomento, ma per struttura narrativa. E allora mi viene in mente un caso quasi inatteso, a metà tra il teatro e la lettura, ed è Adelchi di Manzoni, che percorre struttura ‘sonore’ molto prossime al melodramma verdiano, penso a Don Carlos. E comunque certe pagine di Manzoni accennano a una musicalità belliniana.

  214. Quali altri titoli ti vengono in mente?

    Mi viene in mente un autore che ha un caratteraccio narrativo, apparentemente lontano dalle armonie della musica per l’asprezza dei suoi toni, ma che ha appunto una tonalità così definita e strutturata da portarmi dentro la composizione musicale ed è certo Thomas Bernardt, non, appunto “Il soccombente”, ma “Perturbamento” o la raccolta di racconti “Ja” , opere serrate come brani di Alban Berg.

  215. In quali occasioni, viceversa, la musica ha “rappresentato” la letteratura?

    Subito mi viene in mente “Billy Budd marinaio” di Melville nell’opera di Britten. Non è solo un soggetto usato in musica, ma una specie di appartenenza del tema di Billy Budd nelle note di Britten.

  216. Quale romanzo eleggeresti come il più rappresentativo del rapporto tra musica e letteratura?

    Ne eleggerei uno la cui musicalità è intrinseca nell’uso della lingua, del ‘tempo’ narrativo, del ritmo che a volte è sottilmente raveliano, a volte ha la potenza di Wagner: “La ricerca del tempo perduto”, soprattutto se letto in originale!.

  217. Cosa (o chi) ti ha ispirato (o spinto) a scrivere “La nota segreta”? Come è nata l’idea?

    La voglia di raccontare una storia, di dare corpo a un personaggio, che per altro è realmente vissuto e a cui Rovani, nei suoi Cent’anni, aveva già dato vita. La scoperta poi che, nella realtà, questa donna fosse stata una brava cantante e soprattutto una voce di contralto, mi ha particolarmente coinvolto. È la voce che amo di più e il personaggio si è costruito attorno alla voce. L’ho in qualche modo adottata da Rovani, poi l’ho composta a mio modo.

  218. Quanto tempo hai impiegato a scrivere questo romanzo?

    Direi un anno, che per me è un tempo relativamente breve.

  219. Che tipo di riscontri hai avuto (fino a questo momento) dai lettori?

    In genere molto positivi e interessati alla storia nel suo insieme, credo che la curiosità su un fatto a suo modo anomalo come la storia di Paola Pietra attiri un po’. In molti ho notato l’attenzione peculiare al tema del canto e al valore per così dire sensuale della musica.

  220. Ieri Claudio mi ha invitata a raccontare la genesi del mio quarto libro: Il cielo leggero, Azimut, 2008. E dunque eccomi. Lo faccio brevemente, tranquilli! Anche perché, per ora il libro non è in commercio, e dunque le mie parole non hanno, purtroppo, la possibilità di essere verificate.
    Innanzi tutto il libro è una sonata per violino, in tre tempi. E’ la storia, sono le parole ad esserlo; in più però c’è anche una partitura vera e propria. Il primo tempo racconta una situazione di noia, di voglia di qualcosa ed è articolato a “temi”, “sviluppo”, “transizioni”. Nello Sviluppo c’è l’accadimento: un incidente stradale che cambia le cose, soprattutto perché il mio bambino, che allora aveva 8 anni, ne esce -come se un’angelo lo avesse protetto- illeso!!
    Il secondo tempo vede la lotta in due temi e rispettive variazioni tra un senso della vita ritrovato (L’angelo) e il rancore verso chi ha procurato irresponsabilmente il mio incidente (La bestia sanza pace). Nel terzo tempo, un rondò, la “bestia” è stata sconfitta e, serenamente, me ne vado a vivere, quando ne ho voglia, sulle sponde di un fiume, ricamato a paillette su una magliettina estiva…
    Certo detto così, è molto riduttivo… magari, se vi interessa, potete farmi direttamente qualche domanda.
    Comunque, pare che un’associazione di danza sia interessata a farne un balletto…
    Vi farò sapere.
    Ah, Paola, per il momento, è fuori e non può intervenire. E’ però felice di questa discussione!!

  221. Molto interessante (e condivisibile) ciò che dice Marta Morazzoni riguardo alle cose in comune e a quelle che distinguono letteratura e musica. Le regole comuni (di quelle del ritmo si era già parlato, ma anche quelle di grammatica e sintassi per il conseguimento dell’ “armonia”, aggiuge ora lei). Naturalmente vanno incluse nel discorso le modalità di ricerca di nuove regole, o della necessità di infrangerle, e la stessa Marta cita poi Thomas Bernhard e Alban Berg (ah, questo “Perturbamento, che da anni giace intonso sul mio comodino e non mi decido mai a leggere…! Sarà la volta buona?).
    Ma è nel notare le differenze che a mio parere trova la quadra, quando afferma ” In altri termini, la musica ha bisogno di un interprete ma non di un traduttore. La letteratura, per uscire dai suoi confini linguistici, ha bisogno del traduttore”. E questo conferma quanto io mi sforzavo di dire (senza riuscire ad essere così lucidamente chiaro): non è discettendo di musica al servizio delle parole (o parole al servizio della musica), che si possono trovare riscontri o differenziazioni tra l’una e l’altra (felici matrimoni sì, tanto nei madrigali quanto nella lirica, nella musica cantata in genere o nelle moderne canzoni, ma non riscontri per capire bene regole comuni e differenze profonde), ma confrontando parole (da una parte) e suoni (dall’altra).
    Da piccolo mi innamorai delle canzoni dei Beatles pur senza capire una parola di inglese. Il suono di quella lingua veniva inglobato nella mia percezione della musica senza sentire alcun bisogno di comprenderla.
    Le “traduzioni” in italiano di successi internazionali all’epoca erano cosa pittosto comune, ma (diffatti) le detestavo.
    Poi cominciai a sentire il bisogno di dare un senso anche a quei testi. L’inglese lo imparai più dalla musica angloamericana che sui banchi di scuola. A volte però lo scoprire che tali testi spesso erano banalotti, quanto quelli di molte canzoni italiane (che allora disprezzavo) o delle “traduzioni” di cui sopra, mi fece a volte disamorare di diverse canzoni che mi erano piaciute molto.
    Con questo ribadisco (e concludo) che di felicissimi “matrimoni” fra testi è musiche è comunque piena la storia (e penso ai già citati Stravin../ Auden e Stravin,,,/Cocteau, ed anche a Vinicius/Toquinho, Chico Barque, Dylan, Cohen, Bressanes, Ferrè, Brel, De Andrè, Fossati, Conte…e chi più ne ha…), ma è già un terreno diverso, qualcosa che non è più musica O poesia, ma indissolubile unione tra di esse, con altre regole e altre percezioni, legate alla somma tra le due, ma anche a qualcos’altro
    (così come nella lirica entra fortemente anche l’elemento “teatro”).

  222. RISPONDO ALLE DOMANDE DI MASSIMO
    A proposito del tuo romanzo, ti andrebbe di dirci qualcosa in più?
    Come nasce? Da quale idea? (Quale, la fonte di ispirazione?)

    Desideravo da tempo scrivere qualcosa su Tiziano Ferro. Perché lo considero il miglior esempio di cantautore pop italiano degli ultimi anni. La scelta più ovvia sarebbe stata una biografia, un saggio, insomma un titolo per la Varia. Poi ho spostato il tiro. La cosa che mi interessava di più non era svelare particolari inediti su Ferro, anche per le mie due monografie su Battisti non ho mai rincorso il gossip, ma invece mettere in luce la contrapposizione tra gusti musicali. La storia di Tiziano Ferro la scriverà Tiziano Ferro. Non io. Io ho voluto raccontare la storia di chi lo ama e di chi invece non si è mai sognato di ascoltarlo. Il protagonista di PERDONAMI si trova costretto (per amore) a rinnegare il suo snobismo musicale per trasformarsi in un esperto del cantante italiano. Vedi, potrebbe succedere la stessa cosa a un lettore di noir. Un giorno sul tram si innamora a prima vista di una donna e scopre solo in seguito che questa donna ama i romanzi di Federico Moccia. Cosa farà? Chiuderà le porte alla possibile storia? Si inventerà un sacco di bugie come il protagonista di PERDONAMI, fingendosi un amante dei lucchetti? Oppure sarà così maturo da svelarsi per come è veramente, per accettare il fatto che le divisioni ideologiche non sono barriere invalicabili? Il protagonista di PERDONAMI non si fida del prossimo e quindi si finge un fan di Tiziano Ferro, omettendo i suoi veri gusti (Led Zeppelin e Ac/Dc). Se vuoi, è un attacco allo snobismo di certa critica italiana. Quella che vuole ghettizzare la massa, il popolino, considerandolo un gregge di pecoroni mai in grado di comprendere qual è la vera letteratura, la vera musica, la vera arte. Loro invece, gli eletti, si sentono investiti da una missione, quella di dirottare interi equipaggi di lettori, ascoltatori, telespettatori, verso la scelta giusta. Che non è mai quella commerciale, popolare, da top 10. Ma così si rischiano errori, sottovalutazioni, e si perde la curiosità.

  223. Carlo S.,
    ciao, se guardi sopra il primo commento del 5 luglio, trovi la risposta che ti ho scritto sulle questioni che stavamo dibattendo. Salutoni Cari.

  224. Caro Sergio, sì, l’ho visto, ma le nostre posizioni su questo argomento da sempre sono diverse. E non ho la pretesa di volerti convincere nelle mie.
    Condivido in massima parte la tua approfondita analisi della situazione, ma non la tua demonizzazione della tecnologia (certo, oggi è pericolosamente al centro dell’economia, del pensiero, del potere: di tutto) nè la tua fosca visione del futuro (intendiamoci: del presente forse sì). Io però credo ancora nella possibilità di un “neo-umanesimo a venire” (che forse non avrà botteghe dell’arte, e ben poco a spartire col passato Rinascimento, ma nella forma, forse qualcosa sì nella sostanza). E credo che la tecnologia (guidata dall’uomo e non guidante) possa avere parte (deve avere parte) in ciò. Se così non fosse sarebbe un puro ritorno al passato, resuscitazione di cadaveri, non qualcosa di nuovo, che invece attendo, e sarei curioso di vedere proprio (e che forse invece nè tu nè io vedremo, ma lo auguro almeno ai nostri figli) .
    So che tu non lo credi, io si. Tutto qui.
    Comunque è sempre un piacere discorrere con te.
    Un caro saluto, a tutta la tua famiglia.

  225. Carlo S.,
    condividendo o non condividendo, ti ringrazio comunque per la speranza: ”una speranza in piu’ e’ un giorno in piu’ che vivi tu”, diceva Renato Zero, ehm… sto celiando bonariamente, come sempre mi capita nelle pause in cui azzero il cervello e lascio libero il cuore… dunque Grazie di cuore, caro!

  226. Buongiorno a tutti! Oggi sono reduce da qualche acciacco, quindi volerò basso, portate pazienza.
    Le vicende del protagonista di “Perdonami” di Francesco Marchetti mi hanno riportato alla mente un vecchio ricordo: da giovanotto m’ero preso una cotta per una tipa che andava matta per Liò (“Amoureux solitaires”, chi si ricorda?). All’epoca io ascoltavo solo il terzo canale radio. Per trovare la quadra ho dovuto scrivere una fuga a tre voci sulla canzoncina di Liò.
    Sul momento mi è sembrato un dignitoso compromesso.

  227. Eccellenti le risposte di Marta Morazzoni.
    Sottolineerei un aspetto che mi sembra interessante: la musica è un linguaggio “universale, almeno dal punto di vista della cultura occidentale”.
    Un linguaggio, verrebbe da dire, “relativamente” universale.
    Sull’universalità della musica sono stato sempre scettico, e mi fa piacere ritrovare qualcuno dei miei dubbi nelle parole della Morazzoni: ma oggi non ce la faccio ad affrontare discorsi troppo complicati, scusate.

  228. Vorrei solamente fare i miei complimenti a Claudio Morandini per il modo in cui sta conducendo il dibattito: bravo, Claudio! Qualche anno fa e tocco’ a me, in un altro post e me la cavai ”benaccio”, ma tu sei veramente eccellente…

  229. Sergio, mi fai arrossire… Thanx!
    Ti assicuro, è divertente, anche se impegnativo. E soprattutto imparo un sacco di cose.
    E grazie anche per i tuoi interventi, che attraversano tutte queste discussioni con eleganza e coerenza.

  230. Arrivo in ritardo in questa discussione. Spero di recuperare leggendo i commenti, anche se sono tanti.

  231. Massimo e Claudio,
    no, stavolta l’Anonimo che ha scritto qua sopra ”Indaghero”’ non ero io: il computer mi ha scritto nome e cognome regolarmente. I miei interventi inoltre si riconoscono per gli apostrofi al posto degli accenti – ho una tastiera slovena priva di accenti. Chi sara’ allora? Indaghiamo!

  232. Caro Sergio, tra me e me sospettavo che non fossi tu: propendo invece per Francesco Marchetti, a cui avevo chiesto se fosse a conoscenza di reazioni di puristi del rock…

  233. Piccolo consiglio del giorno (visto che oggi il dibattito un po’ langue, et pour cause, visto che si è aperto un nuovo interessante fronte di discussione dedicato a Rosario Palazzolo e ci siamo un po’ tutti buttati lì):
    piccolo consiglio del giorno, dicevo:
    “Carta per musica” di Enzo Siciliano (Oscar Mondadori), una raccolta di “carte” scritte per Repubblica e il Venerdì di Repubblica nel corso di vari anni. Ritratti acuti, fatti di poche pennellate. Analisi di ingegnosa sintesi. Musiche parafrasate in pagine intrise di poesia. A tenere insieme il tutto, la curiosità intellettuale e la coerenza del gusto.

  234. E rilancio con un nome che mi pare non sia ancora venuto in mente a nessuno (ah, il piacere sottile di arrivare primi!): Alberto Savinio.
    Bella forza, direte. Ma io vi consiglio non le celebrate opere letterarie, o l’attività di critico musicale (e nemmeno i dipinti e i disegni), ma la meno praticata produzione musicale. Se ne trova qualche esempio in un CD della Stradivarius, “Les chants de la Mi-mort”, che contiene anche l'”Album 1914″. Vi si può leggere anche un breve e denso saggio di Emilio Jona su “Savinio e la Non Mai Conoscibile”.
    Ecco. Ora tocca a voi.

  235. Ah, Savinio! Uno dei miei pochi ”compagni di cordata” antirealisti, in questa Italia letteraria di realisti manifesti o sottintesi… Siciliano, poi… non ho letto la raccolta che citi tu, Claudio, ma ”I bei momenti” e’ musica pura – e mozartiana.

  236. E su “I bei momenti”: splendido libro che racconta musicalmente di musica e mozartianamente di Mozart e del suo mondo. Purtroppo l’ho solo piluccato per qualche giorno, poi l’ho lasciato da parte per sciocca impazienza. Dovremmo tornarci su, che dici? Nel frattempo ne riprendo la lettura.

  237. Ah, o ostinati sbirri della Buoncostume Telematica, volete proprio indagare? Allora fatelo professionalmente, ispirandovi a mio fratello Euterpe, che s’e’ anche messo un ”cognome d’arte” per non farsi collegare a me: Santonastasio. Se volete ve ne parlo… e’ uno smidollato di carab… ma non posso dire tutto, pardon, pardon…

  238. Stamattina sto riascoltando “Les Chants de la Mi-Morts” di Alberto Savinio, su cui ho lasciato un appunto ieri in questo forum. Il titolo citato si riferisce a una suite per pianoforte del 1914, costituita di brani spesso brevi e contrassegnati da bruschi cambi di tempo.
    Savinio, che a Monaco ha studiato pianoforte e composizione con Max Reger, e dal 1910 è a Parigi, si muove come se volesse buttare all’aria tutto quanto aveva imparato in termini di galateo musicale. Non era certo l’unico, da quelle parti, nel brulichio di rottura e rinnovamento di quegli anni.
    Ascolto. In Savinio c’è una tendenza al rimescolamento di incompatibilità, all’accumulo sgarbato di suggestioni contrastanti. Dopo avere assorbito negli anni parigini (dal 1910) ogni stimolo sonoro, Savinio frulla incastra ricombina il tutto con la fantasia di un trovarobe impazzito. Ogni frammento stride, è un colpo di martello sulla tastiera, uno scimmiottamento sarcastico, una parodia teatrale. La mancanza di sviluppo in senso tradizionale (ah, il povero Reger, fatto fuori per la strada come Laio, e con lui la nobile tradizione colta occidentale, i parrucconi dei secoli andati!), la mancanza di sviluppo delle composizioni di Savinio, dicevo, rende imprevedibile ogni passaggio, dense di tensione le ellissi tra un frammento e l’altro. Si resta in attesa della “chose curieuse” (questo è Apollinaire). E si ride – si sorride, almeno – quando arriva la citazione bassa, lo sberleffo dadaista, la marcetta sbilenca, e si annuisce (ecco, lo sapevo che si finiva lì!) quando l’omaggio a Satie si fa esplicito, o quando affiorano, decantate, reminiscenze impressioniste, o il lavorio sul ritmo avvicina all’inevitabile père Igor (Stravinsky).
    (Piccola precisazione: il bel saggetto sull’edizione Stradivarius de “Les Chants de la Mi-Mort” non è di Emilio Jona, come ho scritto ieri, ma di Alberto Jona. Qualche spunto l’ho preso da lì, lo ammetto.)

  239. Salve, ho letto il commento del Sig. Sozi, quello sul pessimismo, e devo dire di condividerlo in pieno, perchè in Italia scrivono tutti su tutto, ma francamente tanti hanno poco da dire e qualcuno quel poco che dice lo dice pure male! Spesso si confonde lo stile con un’ ortografia approssimativa, Gadda aveva uno stile personalissimo, ma dal punto di vista ortografico era ineccepibile. Attualmente degli scrittori che conosco (da lettore appassionato, ma non colto quale sono) che scrivono in buon italiano posso citare Saviano, Baricco e Veronesi. Proseguendo nel discorso sulla mancanza di una cultura diffusa, sempre più evidente in Italia e originata dalle varie riforme della scuola succedutesi dal 1968 in poi ieri ho ascoltato su rai tre un interessante trasmissione condatta da Loredana Lipperini dove l’autrice che credo si chiamasse Tonia Mastronardi ( mi scuso se non è così) parlava del suo libro che analizza proprio la perdita di cultura e di occasioni di crescita che affligge i trentenni italiani ed anche lei dichiarava che gran parte di questi problemi sono originati dalla sempre meno qualificante scuola italiana.
    A tal proposito vorrei indagare sull’età media dei fequentaori di questo post, quasi certamente sarà intorno ai quaranta.
    Saluti

  240. Salve, Luca, bentornato da queste parti. Non credo che la scuola sia all’origine del decadimento culturale che tu dici. Anzi, vedo nella scuola una vittima, piuttosto che un colpevole. Pur tra molti errori, la scuola è una delle poche istituzioni culturali che prova ancora a fare cultura, o almeno a trasmetterla, in Italia – lo dico da insegnante, e lo dico perché ci credo, e ci provo. Il guaio è che siamo, noi gente di scuola, sempre più soli in quest’opera di trasmissione.
    Bisognerebbe poi intendersi su cosa si intende per “scuola”: se si parla di ministero, be’, potrei anche darti ragione; se si parla invece del corpo vivo della scuola, di chi ci lavora, come insegnante o anche come studente, non mi pare che sia così come dici.
    Vedo altri colpevoli dell’imbarbarimento. Lo stesso Sozi ha indicato altre responsabilità, più diffuse, che in parte possono avere coinvolto anche la scuola, ma che sono espressione di un atteggiamento più generale. Il che rende il problema certamente più grave, e condivisibile il pessimismo (combattivo, non rassegnato) di Sergio Sozi.

  241. @ Luca: passo di palo in frasca: in un tuo commento precedente hai ricordato “il Grande Gatsby”, come esempio per eccellenza di romanzo musicale, e hai scritto che “a leggerlo sembra di essere ad una festa da ballo”.
    Suggerimento brillante: l’ho letto troppi anni fa, è davvero il caso di tornarci sopra per sentir risuonare ancora la musica del primo jazz!

  242. Rispondo a Claudio Morandini. Io intendevo dire che la scuola come percorso formativo, è stata via via svilita negli anni dalle varie riforme che si sono succedute dal 68 in poi e questa è una responsabilità politica non dei docenti che anzi credo che ogni giorno vedano il loro ruolo sempre più vilipeso dai fruitori del loro lavoro.

    Probabilmente le riforme fatte negli tendevano a far fruire la scuola a sempre più persone, operazione nobilissima, ma per far questo si è sempre abbassato il livello qualitativo dell’insegnamento e non migliorato quello dei cervelli!
    Quando io ho comiciato, il percorso scolastico obbligatorio prevedeva 3 esami: seconda elementare, quinta e terza media, i primi due costituivano delle tappe fondamentali nella formazione scolastica e l’ultimo la conclusione del percorso; adesso esiste un solo esame in tutta la scuola dell’obbligo e ci arrivano tutti anche se spesso qualcuno non sa leggere o non sa dove sia Udine.

    Questo intendo dire.

    Chiaro che il discorso sarebbe molto più lungo ed articolato, ma per ora mi fermo qui.

    Saluti e grazie per il Grande Gatsby. Pensi comunque che io prima ho visto il film (brutto) eppoi ho letto il libro.

  243. Vi porto i saluti di Cecilia Chailly. In questo momento è in giro per l’Italia impegnata con il tour, ma quando le sarà possibile interverrà con piacere…

  244. Quando mi interrogo sulla possibile associazione tra le arti, penso subito ai punti in comune tra poesia e musica. Penso soprattutto all’opera di Arthur Rimbaud. Anche Paul Verlaine ha una “musicalità” del verso, qualcosa che si afferra anche a prescindere dall’approccio razionale. Ma Rimbaud è scardinante rispetto ai canoni della tradizione poetica, apre la mente e certa musica è così. Più difficile se si parla di romanzo. Perché l’aderenza ad un senso, ad una trama possono condizionare. Tuttavia, è anche vero che la scrittura è innanzitutto ritmo. E ogni scrittore imprime il proprio nella pagina. E’ il respiro dell’autore, è il suo modo, rapido o lento, dolente o spumeggiante, di sentire il tempo che scorre, di reagire alla realtà. E’ quello che si percepisce al di là del significato delle parole. Ma la musica, forse, ha un’immediatezza che la parola scritta non ha. Restituisce perfettamente conservati lo stato d’animo o la serie di immagini che hanno ispirato l’autore. Marcel Proust lo descrive nei minimi dettagli quando parla della piccola frase musicale di Vinteuil, che cristallizza l’emozione di Swann. Ma anche Jean Paul Sartre fa capire qualcosa di simile nelle ultime pagine de La Nausea, riguardo le note di sassofono di “Some of these days”, che sembrano soffrire a tempo, mentre quella melodia, pur nel consumarsi dei giorni e delle persone che l’hanno suonata e cantata, resta “giovane e ferma, come un testimone spietato”.
    Tutta l’opera di Javier Marìas ha una struttura che potrebbe essere associata ad una partitura. Ha una prosa complessa, basata sulla reiterazione di alcuni temi, di alcune frasi, dei refrain potremmo dire, che tuttavia, nel corso della narrazione si modificano leggermente o si arricchiscono. La prosa di Jack Kerouac, il suo stream of consciousness, le sue divagazioni sul tema, che sembrano una serie di improvvisazioni, mi ricordano il jazz. Le Voci del mondo, di Schneider, è un romanzo pervaso di musica, di doloroso amore per la musica. Virginia Woolf ha avuto più di ogni altro la capacità di sondare l’attimo in profondità e di riportarne il dato ineffabile in superficie, cosa che secondo me è peculiare talento del musicista. Ma il suo modo di tradurlo in parole è cerebrale. E, per quanto eccelsa, non raggiunge l’efficacia immediata di un brano musicale. Se Orfeo si volta a guardare, il suo canto non riporta alla luce Euridice.
    A parte l’opera lirica e la musica colta che hanno attinto al patrimonio di saghe, miti e drammi teatrali, mi viene subito in mente la tradizione della musica cantautorale. Soprattutto americana. Lo stile e il genere del racconto alla Steinbeck o alla Faulkner entrano in molti testi. O è poesia pura il recitato in alcune canzoni di Jim Morrison. Ma penso anche a De André con l’Antologia di Spoon River. L’opera di Serge Gainsbourg e i suoi riferimenti poetici e letterari. I Beatles hanno saputo giocare bene con le parole, in modo surreale. Ma mi rendo conto che, non avendo io una conoscenza completa, le mie risposte possono risultare parziali o lacunose. E poi sto parlando unicamente dei testi. Non della struttura musicale. A mio parere, purtroppo, la cultura approssimativa e le scarse letture di molti autori, pur bravi, di musica extracolta, hanno impedito che ci fossero contaminazioni più produttive, sviluppi più interessanti. Forse, anche i condizionamenti del mercato hanno imposto una maggiore omologazione.
    Penso all’opera e personalità di Boris Vian. Un titolo? La schiuma dei giorni.

  245. Grazie, Paola!
    (Paola Baratto è una scrittrice veramente sensibile ai valori musicali della scrittura. E nei suoi romanzi la musica e i musicisti sono molto più di una presenza sullo sfondo. Penso in particolare a “Solo pioggia e jazz” e all’ultimo “Saluti dall’esilio”, entrambi pubblicati da Manni.)

  246. Caro Massimo, il discorso sulla scuola merita davvero di essere approfondito altrove, e il forum “Letteratitudine chiama scuola” sembra il luogo ideale. Anch’io invito Luca Nencioni a partecipare a quella discussione.

  247. Tirando in ballo le mie presunte competenze come “minologo” – nel senso di conoscitore del mondo musicale di Mina, della quale curo da decenni la rivista del fan club ufficiale – l’amico Claudio mi ha chiesto di intervenire in questo dibattito sul rapporto su musica (canzoni, nel mio caso) e letteratura. Lo farò scomodando un musicologo e saggista padovano, Roberto Favaro, docente di storia dello spettacolo in diverse università italiane, che all’argomento in oggetto ha dedicato un capitolo in “Mina, una forza incantatrice” (Euresis, 1998), libro-saggio firmato a più mani con nomi illustri quali Adriano Guarnieri, Edoardo Sanguineti, Luigi Pestalozza, Roberto Leydi e altri. Nel suo scritto, Favaro azzarda una serie di audaci parallelismi tra alcuni classici del repertorio di Mina e pagine famose della tradizione letteraria. Per vostra curiosità, se mai ve ne fosse, vi propongo un frammento della parte riguardante “Bugiardo e incosciente” di Limiti-Serrat:

    “… Nel testo, Mina canta parole rivolte non ad amante astratto e generico, ma ad un individuo lì presente in carne ed ossa, anche se addormentato. Questa presenza silenziosa cambia la forma di ricezione del canto, mostra Mina, ovvero la donna che lei interpreta, in un momento di crisi concreta, in un frammento di vita reale. La presenza maschile che si intuisce dal discorso, dà alle parole cantate il peso di un monologo interiore, o di una confessione cruda della donna che denuncia tutte le proprie insoddisfazioni. E’ un momento di intimità alla quale Mina ci introduce, una sorta di “Voix Humaine” della canzone leggera, dove al telefono di Francis Poulenc e di Jean Cocteau si sostituisce, a mascherarne l’identità, l’incoscienza dell’uomo addormentato. Ma il tutto, confessione e denuncia, avviene all’insaputa dell’amante che non sa di essere osservato e mal giudicato da lei che canta e da noi che la ascoltiamo…”.

  248. Ti ringrazio, Claudio. In effetti, quando scrivo un romanzo, l’elemento musicale è fondamentale. Scrivo ascoltando musica. Ogni romanzo ha avuto una colonna sonora ben definita, a seconda dell’ambientazione, dell’atmosfera… Posso dire che fa parte di un mio personale “cerimoniale” per rientrare ogni giorno nel “mood” del libro che sto scrivendo. Per riappropriarmene quando qualcosa di molto diverso mi ha allontanata o distratta. Mi aiuta a concentrarmi, a trovare le stesse suggestioni. Tuttavia, non so dire se questo, poi, abbia anche un effetto sul ritmo, sull’andamento delle mie pagine.

  249. @ Paola: E qual è stata la colonna sonora (per noi implicita) di “Saluti dall’esilio”?
    E la figura di Oreste, vecchio maetrso di musica presente nello stesso romanzo, da chi o da che cosa ti è stata ispirata?

  250. Loris, grazie per l’intervento dotto e brillante! Però, però… un esegeta di Mina, che su Mina riflette da una vita, chissà che avrebbe da aggiungere DI SUO alle parole di Favaro…

  251. Per la prima parte, gli aphrodite’s child. E non solo per l’ambientazione greca. Li ho usati per rappresentare un’epoca idealista, in cui si credeva che le cose potessero cambiare in meglio. E, forse, si era davvero ancora in tempo. Per la seconda, invece, una discreta selezione di tanghi.
    Per quanto riguarda Oreste, ho avuto solo dei vaghi spunti. Non posso dire di aver ritratto qualcuno in particolare. I soliti frammenti della realtà che poi rimetto insieme e completo. E’ una figura molto simbolica. Una metafora della letteratura (e, volendo, anche della musica) vista come ancora di salvezza.

  252. Sì, Claudio. Tu che dici? Non rischieremo il naufragio?
    non mi faccio grandi illusioni. non credo in assoluto al potere salvifico dell’arte in termini collettivi, ma relativamente parlando… aiuta a rendere tollerabili alcune realtà.

  253. Cari Luca Nencioni e Claudio Morandini,
    fa piacere ogni tanto sentirsi in armonia intellettual-spirituale con qualcuno. Per ulteriori approfondimenti sul mio modesto pensiero sull’Italia contemporaneo, rimanderei al mio romanzo ”Il menu”, uscito nel 2009 per i tipi di Castelvecchi…
    Salutoni Cari
    Sergio

  254. @ Paola: meglio non illudersi, già.
    Però, però… concede lampi di beatitudine e sussulti di conoscenza… e, più abbondantemente, carezze di consolazione. E, quando ci vuole, qualche strattone salutare.

  255. A tutti,
    sarei curioso di sapere cosa ne pensate del mio punto terzo del ”pessimismo creativo” che stava nell’intervento di sopra:
    ”3) Mancanza di passione per l’arte. Chi ha passione non si mette a gingillarsi con i mezzi tecnici – Michelangelo con lo scalpello attendendo ispirazione o Petrarca col calamaio mentre ha la testa vuota di emozioni? – no, no: l’appassionato crea con mezzi semplici ed immediati dei capolavori. Ne vedi molti, tu, di artisti fatti cosi’ oggi? Anzi e’ il contrario: l’artista italiano di oggi prima cerca qualcuno o qualche opera gia’ fatta a cui ispirarsi e insieme cerca la tecnologia, poi DOPO pensa a COSA VUOL DIRE. Dopo il mezzo oggi viene il motivo. Modus operandi ben poco rinascimentale, direi”.

  256. A Paola Baratto,
    ah, Lei mentre scrive ascolta della musica? Beata Lei! Io neanche quando avevo quindici anni riuscivo a conciliare note e studio di qualcosa, applicazione seria su qualcosa. Pero’, per spirito di contraddizione con mia madre che mi diceva appunto ”Sergio, spegni la musica, ma come fai a studiare il Greco soci’?!”, io la musica la tenevo accesa. Sempre accesa. E rock. Risultato: quattro a Greco e cinque a Latino. E recupero a fine anno sull’orlo del rinvio a settembre. Beata Lei, dunque!
    Salutoni
    Sozi

  257. In attesa che Paola Baratto risponda alla curiosità di Sergio Sozi, confesso io: ascolto spesso musica mentre scrivo. Anche mentre lavoro per la scuola. A volte ascolto musica mentre ascolto musica (altra musica, intendo: che dite, è preoccupante?).
    Anche Marta Morazzoni, nell’intervista iniziale di Nicolò Carnimeo, confidava di scrivere ascoltando musica.
    Sull’effetto che questo ascolto ha su ciò che facciamo (e scriviamo) e sulla qualità della nostra attenzione all’ascolto sarebbe interessante confrontarsi, vero?

  258. Il piccolo consiglio del giorno è un saggio che per me è stato fondamentale: “Il paesaggio sonoro” di R. Murray Schafer. Il libro, pubblicato una prima volta nel 1977 e tradotto in Italia per Unicopli/Ricordi nel 1985, traccia una storia del paesaggio sonoro (dai primordi al mondo post-industriale), delinea una teoria della percezione, pone le premesse di un’estetica acustica.
    Certo, la rapidissima evoluzione tecnologica degli ultimissimi decenni ha reso superate alcune parti, ma non la solidità teorica generale (e non è improbabile che siano uscite edizioni aggiornate di cui non ho notizia).

  259. Non credo di essere così fortunata. E’ solo uno dei molteplici modi in cui ritrovare la concentrazione. Niente di trascendentale. Quello che vale per me non deve valere necessariamente per tutti gli altri. Per carità… odio l’omologazione.
    Sarà che a me beatles e rolling stones hanno sempre portato buoni voti…
    saluti a Lei.

  260. Murray Shafer da qualche parte del suo saggio “Il paesaggio sonoro” parla proprio di questo, Paola: l’ascolto che favorisce la concentrazione su altro (lettura, studio), invece di distrarla o reclamarla tutta per sé. Ma, accidenti, non trovo più quella pagina che avrei citato dottamente facendo un figurone.

  261. Ha scritto Sergio Sozi dell’oggi nel già citato Terzo Punto: “Mancanza di passione per l’arte. Chi ha passione non si mette a gingillarsi con i mezzi tecnici – Michelangelo con lo scalpello attendendo ispirazione o Petrarca col calamaio mentre ha la testa vuota di emozioni? – no, no: l’appassionato crea con mezzi semplici ed immediati dei capolavori. Ne vedi molti, tu, di artisti fatti così oggi? Anzi è il contrario: l’artista italiano di oggi prima cerca qualcuno o qualche opera già fatta a cui ispirarsi e insieme cerca la tecnologia, poi DOPO pensa a COSA VUOL DIRE. Dopo il mezzo oggi viene il motivo. Modus operandi ben poco rinascimentale, direi”.
    La mia posizione sulla tecnologia al servizio dell’opera è più morbida. Il vero artista di sicuro non solo è a suo agio con i mezzi più umili (anzi a volte li ricerca, quadernetto e penna biro), perché con essi il pensiero si dipana megliodai suoi viluppi; ma sa anche godere dei vantaggi dei mezzi più sofisticati – e sa usarli senza esserne condizionato, perché, che so, a scrivere con il pc le dita seguono con minore affanno le correnti del pensiero.
    (Ma forse questo esempio non c’entra più, scrivere al pc è già diventato da anni un altro mezzo umile, come lo è stato la macchina per scrivere un po’ di decenni fa.)
    Il rischio che Sergio Sozi ha evidenziato sta nel ricorso a una tecnologia invasiva da parte di artisti che difettano di personalità. Anche qui mi pongo in una posizione più sfumata. Nel senso che vedo nella tecnologia (o semplicemente nella tecnica) una potente suggeritrice – nel migliore dei casi, una efficace levatrice di idee, a patto che queste ci siano.
    L’arte (e quindi anche la letteratura, la musica) di oggi raccontata da Sozi è fatta di epigoni scalpitanti, manieristi all’ultima moda che solo a posteriori attribuiscono o si fanno attribuire un senso ai loro prodottini: ho l’impressione che sia stato così sempre, e che solo la selezione impietosa operata dal Tempo (permettetemi la maiuscola, perché ho in mente i Trionfi di Petrarca) ci abbia conservato i migliori, e i decenti, e nemmeno tutti.
    Sul pensare “dopo” al significato di ciò che si è fatto scritto composto o dipinto, aggiungo una postilla. Sozi intende senza dubbio condannare il vuoto di idee, a cui si supplisce con giustificazioni posticce, a seconda del risultato ottenuto. E va bene, sono d’accordo. Il significato (Sozi lo chiama “motivo”) è bello invece vederlo formarsi con l’opera, chiarirsi pagina dopo pagina. È bello sorprendersi a lavorarlo via via. Meno interessante, credo – ma qui parlo per me –, è assumerlo come tesi precostituita, e partire da lì, e forzare l’opera ad adattarvisi.

  262. Sono pienamente d’accordo con quanto hai scritto, Claudio. Anche la precisazione della postilla è importante. Nella mia, seppur modesta, esperienza l’ho verificato spesso. Devo avere un “progetto” da cui partire, naturalmente, non mi affido all’estro del momento, ma non voglio che risulti vincolante. E soffochi sul nascere i possibili cambiamenti di rotta che la riflessione, la vita stessa o il caso ci suggeriscono. Sarà perché temo le certezze monilitiche. Ma trovo che il significato aprioristico e inappellabile rischi di condurre ad uno sgradevole dogmatismo, che tenda a piegare ai suoi fini qualunque decisione si debba prendere. Cancellando sfumature e ambiguità. E non è detto che questo chiarirsi pagina dopo pagina, come dici tu, porti necessariamente verso una verità univoca. A volte ti induce a correggere l’idea iniziale o a dare ad essa una maggiore profondità. Fa parte anche questo del piacere di scrivere. Il grande Saramago diceva che si scrive per capire. Non sarà, forse, l’unica motivazione, ma per quanto mi riguarda la sottoscrivo.

  263. Il consiglio del giorno è…
    il ponderoso “Canti di viaggio” di Hans Werner Henze, pubblicato da Il Saggiatore nel 2005 a cura di Lidia Bramani, un’autobiografia esuberante, dettagliatissima, scritta con lo spirito del poligrafo d’altri tempi, del viaggiatore da Grand Tour, dell’esploratore (di luoghi e di sé), del moralista (nel senso classico) e dell’ironista, oltre che del compositore. Musicista insieme eclettico e rigoroso, Henze rinuncia ben presto all’edificazione di una torre d’avorio attorno a sé e scende nel mondo a vivere e condividere e “combattere”.
    “Imparai a rinunciare a tutto ciò che era superfluo e a portare rigore e purezza nella mia vita. Tra me e la mia musica non vi era più difficoltà di identificazione. Avevo ben chiaro, ormai, come per tutta la vita avrei perseguito un ideale di bellezza in qualche modo legato a un principio di verità: una verità personale, interiore, che non avrebbe obbedito a nessun altro pensiero se non il mio e che avrebbe quindi abbracciato anche la disobbedienza sociale – che io rivendico per me stesso.”

  264. Ciao, Claudio e ciao Paola Baratto,
    interessante dibattito, il nostro.
    Cito Claudio e poi esprimo qualcosa a proposito:
    ”L’arte (e quindi anche la letteratura, la musica) di oggi raccontata da Sozi è fatta di epigoni scalpitanti, manieristi all’ultima moda che solo a posteriori attribuiscono o si fanno attribuire un senso ai loro prodottini: ho l’impressione che sia stato così sempre, e che solo la selezione impietosa operata dal Tempo (permettetemi la maiuscola, perché ho in mente i Trionfi di Petrarca) ci abbia conservato i migliori, e i decenti, e nemmeno tutti.
    Sul pensare “dopo” al significato di ciò che si è fatto scritto composto o dipinto, aggiungo una postilla. Sozi intende senza dubbio condannare il vuoto di idee, a cui si supplisce con giustificazioni posticce, a seconda del risultato ottenuto. E va bene, sono d’accordo. Il significato (Sozi lo chiama “motivo”) è bello invece vederlo formarsi con l’opera, chiarirsi pagina dopo pagina. È bello sorprendersi a lavorarlo via via. Meno interessante, credo – ma qui parlo per me –, è assumerlo come tesi precostituita, e partire da lì, e forzare l’opera ad adattarvisi”.

    Allora.
    Sugli ”epigoni scalpitanti” e i ”manieristi all’ultima moda”, ohibo’, va purtroppo notato che sono proprio questi gli autori che assorbono le piu’ ampie fette del mercato librario. Ed essere ”manierista”, poi, oggi vuol dire che per far successo si deve scrivere in ”maniera” semplice, scorrevole, efficace e soprattutto riproducendo i film e la lingua parlata… si tratta insomma dello strapotere del libro superficiale o almeno scritto seguendo l’egemonia delle storie per immagini (cioe’ il cinema) e della realta’ sociale quotidiana: una forma di neo-manierismo al contrario, rispetto a quella storica, cioe’ pittorica, che elaborava all’eccesso il soggetto da ritrarre. Il manierismo (letterario) di oggi e’ la moda imperante della superficialita’ e della parolaccia obbligatoria, e’ la dipendenza dall’immagine e dalla tivu’. Dimostrazione di questo: a confrontare un libro popolare di un secolo fa ed uno di oggi, e’ impossibile non notare che oggi l’uso letterario della parola ha subito un grande ridimensionamento: sono pochissimi gli scrittori in grado di sfruttare al massimo le potenzialita’ della lingua letteraria, senza dover ricorrere a contaminazioni con altri mezzi espressivi. Insomma, la letteratura si e’, nel suo insieme, immiserita e semplificata, nonche’ curvata a far da cavalier servente, da cicisbeo, della pellicola e della tecnologia – invece uno come Manzoni di tecnologia non sapeva magari nulla, ma di tecnica scrittoria era un maestro (cosa ammessa dal popolo ottocentesco, perche’ i ”Promessi sposi” furono un grandissimo successo popolare).
    —-
    Sui rapporti fra significato e genesi e svolgimento dell’opera narrativa, sono in parte d’accordo con te, Claudio, purche’ un senso profondo di partenza sia gia’ presente prima di metter penna sul foglio, per poi ampliarsi in itinere a seconda dell’ispirazione dei vari momenti di svolgimento del lavoro scrittorio. Penso, appunto, che si possa anche partire dalla descrizione di una mollica di pane sulla tovaglia per sviluppare un racconto superbo e grandiosamente latore di opinioni, sentimenti e concetti profondi pur senza mai uscire da quel tavolo da pranzo. L’opera a tesi, pero’, d’altro canto, se non realizzata freddamente, puo’ anche ben riuscire a comunicare quella tesi, quel preciso significato sotto il cappello del quale l’autore ha inquadrato e realizzato l’intero libro.

  265. Per quanto mi riguarda, non posso che condividere parola per parola con quanto scritto con grande precisione e lucidità da Sozi. Purtroppo. E dico purtroppo perché proprio a causa di questo panorama (per me desolante) ho sempre fatto molta fatica a trovare uno spazio. perchè se non ti adegui, sei fuori. A questo proposito segnalo due libri interessanti che ho letto in questi giorni: Le vie del vino di Jonathan Nossiter (autore del documentario mondovino) e Fare scene di Domenico Starnone. Quest’ultimo ci mostra come l’immagine cinematografica e il linguaggio delle sceneggiature (soprattutto americane) abbiano tragicamente modificato anche il nostro modo di guardare la realtà, anche la più terribile, e, quindi di raccontarla.
    Ma cosa c’entra il vino con la letteratura? c’entra… perché il processo di omologazione che è in corso in ambiente enologico (per avere vini dolci come bibite, facili al palato, che non disturbino, e che piacciano a tutti) si può estendere ad ogni ambito artistico (e l’autore Nossiter ne è ben consapevole). Si pubblicano libri che “devono” piacere a tutti. So che questo può sembrare un discorso elitario, ma per me il segno distintivo di un’opera d’arte è che possa “non piacere”. E, soprattutto, non compiacere…
    saluti a tutti
    paola

  266. Paola,
    libri che possano non piacere? Allora tu sei la mia lettrice ideale!
    (Scherzi a parte, stasera vi riscrivo con piu’ calma, ora ho un pochino da fare in famiglia).
    Ciao
    Sergio

  267. Claudio,
    aforismi, eh? Allora: ”Il peggio che puo’ capitare a un genio e’ di essere compreso” (Ennio Flaiano). Frasetta che cade a fagiuolo, perfetta perfetta per noi tre…? Ah ah ah! Meglio riderci sopra. E ricordarci le lacrime e il sangue gettati dagli scrittori di ogni epoca e lingua – compreso quel satiro del Foscolo, che comunque mori’ da esule. Ma dopo aver godu… ehm… aver creato molto!

    Paola,
    la tua similitudine vino-libro e’ proprio adatta, direi, e sarebbe addirittura sublime se non fosse purtroppo eguagliabile ad altre analogie: viviamo nell’era dei ”piacioni” privi di ”centro”, insomma ”eccentrici” in senso psicoanaliticamente negativo, spersonalizzati a dirla in breve, eccentrici, dicevo, tutti, ma anche convinti di dover impostare la propria vita all’americana: con la faccia da passaporto (direbbe De Gregori) sempre in linea con i gusti del poliziotto che la dovra’ verificare. Edonismo da catena di montaggio – montaggio dei conti in banca e smontaggio delle coscienze individuali e nazionali. Globalismo. Follia import-export e dopotutto omologata sia per l’importazione che per l’esportazione. ”Glocalismo”, anzi, forse… si’ si’… proprio quello. Glocalismo letterario ed artistico, cara Paola. Ed io che, fesso, ancora vado in giro con sentimentalismi alla Enea maniera: ”Italia! Italia! Italia!” Ma… ma dov’e’? Sono appena sbarcato che gia’ mi scompare davanti agli occhi. Meglio chiuderli e continuare a sognarla, l’Italia: magari vedi pure i capitelli compositi o qualche sesterzio con la faccia di Adriano. E buona scrittura, cara: com’e’ Manni come editore? Paga bene? Tre noccioline e due leccalecca? Se si’, il mio mi deve un leccalecca per contratto sindacale. Ehm.
    Ciao
    Sergio

  268. Dimenticavo la musica: Claudio si domanda cosa c’entra. Secondo me centra. Centra il bersaglio. Se il bersaglio e’ quello di riprodurre il ritmo della prima musica che le nostre orecchie, in genere, abbiano ascoltato: quello interno, magnifico, divino, della pancia della madre. Finalita’ esaustiva di qualsiasi scrittore e scrittrice, scrittura. Ma purtroppo inarrivabile.

  269. Torniamo a parlare di musica, che ne dite?
    Caro Sergio, ti andrebbe di illustrare il tuo rapporto con la musica (l’ascolto, la pratica…)?
    (Ti ho visto citare Renato Zero, e questo mi inquieta un po’…)
    La domanda – generale, riassuntiva, vaga se volete – ci permetterà di tornare sul punto da cui è partita questa lunga discussione. Ed è una domanda a cui potremmo rispondere tutti.

  270. Piccole annotazioni mattutine: su “Pulp” di luglio-agosto compare una bella intervista a Michele Mari di Umberto Rossi a proposito di “Rosso Floyd”; e Claudia Bonadonna si occupa de “I diari della bicicletta” di David Byrne.
    A proposito di Byrne e del suo libro: abbiamo parlato poco, in questo forum, dei musicisti che si danno alla letteratura. Qualcuno ha letto “I diari” di Byrne o altro che potrebbe contribuire a sviluppare il tema?

  271. Tranquillo, Claudio: da vent’anni ascolto solo musica classica e popolare (folcloristica intendo) italiana di ogni regione. Zero era una reminescenza adolescenziale… eh eh eh…

  272. Parlando seriamente, Claudio: secondo me l’importante e’ che uno scrittore abbia dentro di se’ la musica delle parole, che non e’ automatica ne’ intrinseca – infatti oggi molta letteratura e’ cacofonia pura – ma va posta in essere affinando la sensibilita’ per le parole stesse, pertanto capendo quali parole si legano bene fra loro e quali maluccio o male o malissimo. E’ un esercizio individuale, questo, che pero’ alla fine scaturisce in un’opera letteraria che, ovviamente, e’ pubblica. E se il ”pubblico” che la accoglie e’ un pubblico cacofonico, l’opera viene rifiutata, se e’ un un pubblico armonico e melodico, l’opera entra in sintonia con quel pubblico e riesce. Riesce almeno per coloro che ne sono affini interiormente. Unisono.

  273. Grazie, Sergio e Paola. In questi giorni d’estate siamo rimasti in pochi…
    In attesa di nuove voci, butto lì un altro consiglio.
    C’è un saggio, insieme documentatissimo e appassionato e divertente, che illumina molti lati inaspettati del rapporto tra pubblico e musica, dal collezionismo all’influsso che i mezzi di riproduzione hanno avuto (stanno avendo) sulla nostra percezione e la nostra fruizione della musica: è “L’angelo del fonografo”, di Evan Eisenberg, in Italia pubblicato da Instar nel 1997.

  274. Un ringraziamento a Claudio Morandini per l’animazione di questo spazio permanente dedicato al rapporto tra “letteratura e musica”.
    E grazie anche a tutti i nuovi intervenuti…

  275. Se si pensa che, oggi, molta musica viene scritta in maniera tale che sia ben riproducibile come suoneria dei cellulari…
    Che tristezza. Eppure è così… Certo, musica commerciale. Ma è quella che alla fine trova più spazio e possibilità di essere prodotta. Anche le radio private hanno il loro carico di responsabilità nell’aver affossato il rock.
    ma, a parte questo, che è segno dei tempi… secondo voi è vero che la musica si stia “esaurendo”? Ovvero, è credibile che le possibilità di comporre melodie nuove abbiano ormai raggiunto il limite?

  276. Già, Paola. Né Eisenberg né tanto meno Murray Shafer avevano previsto questa degenerazione nella riproduzione del suono e soprattutto nella capacità di ascolto.
    La musica si sta esaurendo? chiedi. Le possibilità combinatorie di suoni stanno raggiungendo il limite?
    Interessante questione, che deve avere già tolto il sonno a molti, negli ultimi due secoli. Ci devo pensare, però – e forse cercare qualche auctoritas a cui appoggiarmi.

  277. Il rapporto tra letteratura e musica … penso che non ci sia tema più affascinante.
    Proverò a rispondere a qualcuna delle tue domande, caro Massimo.

    Che cosa hanno in comune letteratura e musica? Secondo me, molto poco. Sostanzialmente, penso che abbiano in comune solo l’origine. Che è la sillaba, il fonema.
    Da questo comune punto d’origine, la sillaba, dove convergono suono, immagine, significato – la sillaba è il simbolo per eccellenza – si sono sviluppati due cammini sempre più divergenti, quello della musica e quello della letteratura.
    Che differiscono perciò in molti aspetti. Il più eclatante riguarda la semanticità. Mentre la letteratura agisce sostanzialmente attraverso i significati, dunque si rivolge alla mente concettuale per produrre i suoi effetti, la musica si rivolge direttamente alla mente emozionale, producendo effetti ben più diretti e profondi. La letteratura è un’arte molto mediata e simbolica, la musica molto più immediata, perciò anche più universale e comprensibile da tutti.
    Avrai già capito da quanto ho detto che io concordo con la celebre affermazione secondo cui “tutte le arti tendono alla condizione della musica”. Perciò io prediligo la letteratura che si sforza di imitare la musica. Quanto più un testo riesce ad essere musicale, tanto più ha valore per me. Un testo musicale, anche quando non è compreso dalla mente discorsiva, concettuale (ad esempio perchè scritto in una lingua sconosciuta), la mente emozionale, inconscia, sottile – chiamatela come volete – lo comprende. E di questa comprensione anche la mente concettuale beneficerà.
    Tuttavia, questa mancanza di significato è anche un limite della musica rispetto alla letteratura. Anche la mente concettuale ha bisogno di essere nutrita, e solo la letteratura può darle questo nutrimento. A volte la mente inconscia non può essere penetrata, se non attraverso quella concettuale, e qui si rivela il grande valore della letteratura. Ma di quella musicale, perchè se non si arriva alla mente sottile, ogni risultato è superficiale ed effimero, quando non ingannevole.
    Mi spingerei ad affermare che, nella letteratura, la parte concettuale può essere inganevole e menzognera – come lo è la mente cui si rivolge – ma la musica è sempre veritiera, perchè la mente cui si rivolge – perdonatemi questo gioco di parole, oltretutto non mio – non mente.
    La musica non può rappresentare propriamente nulla, secondo me, al di fuori di se stessa. La musica non è simbolo, non è rappresentazione, ma è un’azione, uno stimolo diretto e immediato, per quanto in certi casi estremamente sofisticato e complesso (si pensi a una sinfonia di Mahler). La musica è uno strumento per agire sulla mente e sulle emozioni. Non rappresenta le emozioni, le suscita. Quindi la letteratura non può in nessun caso, sempre secondo la mia visione, essere rappresentata nella musica.
    La letteratura invece può ben rappresentare la musica. Ma in quanti modi possa farlo, è una questione talmente complessa che non ho il coraggio neppure di addentrarmici. Sicuramente il più diretto ed efficace è quello di essere musicale, di pensarsi come musica. In questa ottica uno dei romanzi più musicali che abbia letto è senza dubbio Le onde di Virginia Woolf. Ancora mi emoziona ripensarci. Forse è proprio quel romanzo che mi ha fatto capire come dietro ogni pensiero si celi sempre la musica.

  278. @ Paola: be’, comincio a rispondere con le parole di Rafail Dvoinikov, che sull’argomento ha divagato per un po’ conversando con Ethan Prescott.
    «Ho una paura» racconta Dvoinikov, finito il piccolo concerto privato, «che condivido (l’ho scoperto da qualche anno) con alcuni amici scrittori. Più che una paura per qualcosa di reale, di concreto, è una forma sottile e scoraggiante di angoscia, che mi coglieva già anni fa, ogni volta che varcavo la soglia di una biblioteca musicale, mettevo le mani su una raccolta di spartiti e partiture o sfogliavo un’enciclopedia o un repertorio. È la percezione, opprimente, avviluppante come una bronza, che tutto sia stato già scritto – e suonato – almeno una volta, e che non vi sia nulla di quel che facciamo o scriviamo che sia davvero indispensabile.
    Pensi alle musiche d’occasione che onesti mestieranti hanno prodotto per secoli, e che sono vissute nel tempo esatto di una sola esecuzione, ascoltate distrattamente e dimenticate all’istante. Le possibilità combinatorie delle note sono davvero così vaste da permetterci di scrivere ancora musiche che aspirino a un minimo di originalità? Ogni volta che prendo coscienza della vastità confusa e litigiosa di quanto è stato scritto prima di me, dubito che sia così. So che non dovrebbe costituire un problema per un compositore di un secolo in cui l’arte vive di strappi dalla tradizione e ritorni ironicamente pentiti ad essa, e infatti
    non è mai un problema nel momento in cui compongo – ma, come dicevo, lo sgomento mi coglie in altre occasioni. Non penso solo ai minori, ai minimi: ma anche i grandi, anche i sommi geni non dovrebbero essere esclusi dal novero di chi ha scritto note vane, e non mi riferisco solo alle operine d’occasione che tutti, anche i massimi autori, si
    rassegnano a compilare.
    C’è un carattere transitorio, fragile, provvisorio, nell’arte, che se non soccombe al tempo e all’oblio o all’incuria finisce per soccombere all’incomprensione, al fraintendimento, al mutare del gusto, all’errore interpretativo. In sostanza, tutto ciò che scriviamo è destinato per sua natura a svanire nel nulla, ad essere sviato o storpiato o che so io – il che per fortuna stempera l’effetto negativo di quell’altro aspetto da cui ero partito e di cui, divagando come è proprio dei vecchi, mi stavo già dimenticando, cioè l’impossibilità di scrivere qualcosa che non sia già stato scritto. Dal suo sospiro di pazienza intuisco che cosa sta pensando, amico mio: che altri, e già da un pezzo, hanno detto questa cosa, e altri ancora hanno detto di averla sentita dire. So di arrivare
    ultimo, ma questo non rende meno vero il mio smarrimento ogni volta che torno a pensarci. Lei, che è un brillante figlio del suo tempo, sembra invece non provare alcun turbamento: lei, anzi, appartiene a un ambito della ricerca musicale che ha dato una solidità teorica all’assenza di originalità, e ne ha ricavato un’estetica che tutto sommato mi diverte, e che in parte ammiro, anche se non posso dire di condividerla. Se tutto è già stato scritto, reagisce lei, allora riscriviamolo, godendo delle piccole varianti che ancora possiamo introdurre nel combinare e ricombinare le note. Il suo approccio sorridente a tutta la faccenda è apprezzabile,
    ma forse, se io mi trovassi nei suoi panni, non mi sentirei esentato dal provare quell’angoscia che nasce dal sospetto che tutto sia ormai vano, in ciò che facciamo noi uomini d’intelletto.»

  279. Vorrei dire qualcosa a Claudio sulla questione dell’originalità: no, io non penso affatto che le possibilità combinatorie della musica si siano esaurite, per la semplice ragione che sono infinite.
    Ogni esecuzione musicale è unica e irripetibile. Anche se esistesse per paradosso un solo brano musicale, una sola combinazione di note possibile, una sola samba su una sola nota, ciò non toglierebbe nulla all’infinità delle combinazioni possibili: infatti, gli esecutori muterebbero, muterebbero gli ascoltatori, muterebbe lo stato mentale degli uni e degli altri nel momento in cui eseguono o ascoltano. Da quel che ho detto, intuirai che l’infinità rimarrebbe, imperturbabile, anche se per paradosso esistessero solo due intelletti su tutto il pianeta.
    La ripetizione è un rischio che si avvererebbe in un solo caso: se la mente umana si trasformasse in un disco magnetico, riproducibile in un numero a piacere di copie identiche. Ma una tale metamorfosi della mente, se pure l’era della prodzione seriale ce ne incute la paura, è ben lontana dal poter essere realizzata, almeno a mio parere.
    E pensare che per alcuni sarebbe proprio questa la soluzione a tutti i problemi! Omologare le menti, farne copie di un’unica matrice.
    Ma, oltre a non essere affatto la soluzione, è anche irrealizzabile.
    Un saluto!
    paolo

  280. Hai ragione anche in questo caso, Paolo: ma (il mio) Dvoinikov esprimeva un’angoscia tutta legata alla scrittura della musica, mentre tu metti in luce come siano altri elementi a rendere sempre diversa la (stessa) musica: esecuzione, ascolto, approccio (e memoria).
    In ogni caso, lo sgomento di Dvoinikov è anche il mio (con le parole, più che con le note). E rimuginare sul rischio di un esaurimento delle possibilità combinatorie mi sembra (lo è per me, almeno) un esercizio salutare in un’epoca di imitazioni, rifacimenti, manierismi, parafrasi, parodie e déjà-vu.

  281. Volevo aggiungere qualche osservazione sulla degenerazione dell’ascolto musicale.
    Ecco un pericolo reale: non saper più ascoltare la musica. Io sono un ottimista, ma non me la sento di sorvolare tranquillamente su questo problema.
    Il fatto è che oggi c’è troppa musica. E soprattutto, la musica ha invaso la nostra vita quotidiana, uscendo da un suo contesto specifico: una chiesa, una sala da concerto, una piazza anche. La musica ha bisogno di un luogo, uno spazio dove vivere.
    Ascoltando musica mentre facciamo la spesa al supermercato, o mentre disinfettiamo casa con la tv accesa, ci abituiamo a considerarla come un sottofondo. Ciò diminuisce la nostra attenzione, impedisce alla musica di trovare quello spazio dentro di noi dove essa vive e agisce. Senza quello spazio, l’effetto della musica si riduce praticamente a nulla.
    Per questo io raccomando sempre l’ascolto della musica in un contesto, in un luogo ben definito. Non è snobismo, ma un antidoto alla superficializzazione della musica.
    Ma soprattutto io raccomando l’esercizio della concentrazione come antidoto alla sovraesposizione mediatica che ci affligge e ci confonde, rendendoci incapaci di ascoltare – e non mi riferisco solo alla musica.
    La concentrazione è l’antidoto a quella che si potrebbe chiamare – non so se qualcuno l’abbia già fatto – la civiltà della distrazione.
    E la pratica della scrittura, letteraria o musicale, è uno dei mezzi più efficaci che io conosca per svilupparla. Ma soprattutto la pratica dell’esecuzione musicale.
    Se sviluppiamo questa capacità di ascolto concentrato, allora potremo ascoltare musica nella nostra casa senza pericolo di distrazione. E persino – difficilissimo! – con il PC.
    Ciao a tutti!
    Paolo

  282. Paolo, mi unisco al tuo elogio della concentrazione. Verissimo, la musica è usata ovunque e a sproposito, come carta da parati, come complemento d’arredo. Nelle mani e nelle intenzioni di Satie, e più tardi di Cage, la musica che si fa da parte, che arreda, poteva avere un suo spessore anche teorico, un valore nella reazione a certo accademismo. Ma non credo che chi oggi usa la musica come sfondo sonoro negli ascensori, nei supermercati o nelle pizzerie lo faccia in omaggio a Satie o a Cage (e nemmeno, che so, a Brian Eno). Al tuo breve elenco aggiungerei appunto anche i ristoranti (musica a volume troppo alto, musica che non ascolteresti mai, e che mette di malumore, e costringe a parlare a voce alta, o a tacere), le sale d’aspetto degli studi medici (dove però la musica “copre” parole e suoni che ci rimanderebbero alle intimità altrui) e i film (invasi da colonne sonore sempre più tronfie, rozze e indistinguibili le une dalle altre).

  283. La civiltà della distrazione, secondo la definizione di Paolo, ha questa specie di paura del vuoto, o del silenzio. Horror vacui, appunto. Intasa di stimoli gli spazi visivi, uditivi, sensoriali in genere. Impedisce di soffermarsi sul dettaglio, di scendere a scandagliare in profondità, anche di avere una visione di insieme.
    Il silenzio ci impressiona – e ci sgomenta. In montagna, se ci troviamo avvolti dal silenzio, cerchiamo di riempirlo subito concentrandoci su rumori lontani e familiari (passaggi di aerei, l’incessante brusio di auto e camion dalle strade del fondovalle…)
    L’ascolto concentrato (per tornare alla musica e all’intervento di Paolo) ce lo dobbiamo costruire attorno, con pazienza. La sala da concerto, certo. Ma quanti spazi nati per ospitare avvenimenti musicali in realtà sembrano fatti per distrarre dalla musica, per opprimere il suono con un’acustica mal studiata, ostacolare la postura, infastidire con rumori estranei…
    (Lo scrivo perché di recente mi sono trovato in uno spazio così, generatore di interferenze di ogni tipo, e la sofferenza di vedere la musica – un Mozart, uno Schubert – umiliata da ogni tipo di tonfo, boato, scroscio, schianto, mi ha fatto scappare – in punta di piedi – all’intervallo).

  284. Ricordo di aver visto più di una volta, da ragazzo, il buon Massimo Mila a concerto: arrivava con le partiture dei brani in programma, soprattutto dei brani più recenti e meno familiari, e il suo sguardo guizzava dall’orchestra alle pagine, dai gesti del direttore alle note. Ho sempre ammirato quel suo scrupolo, e ho sempre pensato che quello fosse l’ascolto più profondo e ricco. Quando potevo, e riuscivo a procurarmi qualche partitura, provavo a imitarlo – girando le pagine pian piano, per non disturbare con il fruscio.

  285. Però, caro Paolo, è anche vero che accanto a questo tipo di ascolto, un ascolto che esclude ogni altra attività e reclama ogni attenzione, può esserci anche un uso meno esclusivo della musica.
    La musica, quella che amiamo di più, che già conosciamo, ci erige attorno un paravento di bellezza dalle brutture (o più semplicemente dalle distrazioni). Se scriviamo, ci accompagna, ci suggerisce (sembra suggerici, d’accordo), ci impedisce di volare troppo basso… Il nostro ascolto in tal caso non è del tutto cosciente, e chissà quanto ci perdiamo di quella musica che sembra guidarci la mano: ma è una forma di conforto e di soccorso a cui non vorrei rinunciare.

  286. Caro Claudio,

    E’ vero quello che dici rigardo ai diversi tipi di ascolto della musica. Anche un ascolto meno consapevole può produrre effetti positivi.
    Quante volte ho ricorso a questa forma di conforto e di soccorso!
    E anch’io, che pure non sono uno scrittore di professione, chiedo sempre aiuto alla musica quando ho bisogno di scrivere.
    Hai nominato Brian Eno: penso che alludessi al suo Music for airports, ecco un’opera che davvero mi ha aiutato moltissimo.
    Certo che quella musica, che pure “si fa da parte”, ha valore! Questa musica è pensata per abbellire uno spazio, proprio nel senso che intendi tu. “Abbellire” uno spazio significa trasformarlo, ordinarlo e pacificarlo. Uno spazio esteriore, certo, ma anche e soprattutto uno spazio interiore.
    Senza rinunciare a contrapporsi all’horror vacui della civiltà della distrazione.
    Davvero, musica di grandissimo valore, che non ha nulla da spartire con le canzoni commerciali che abitualmente arredano quegli spazi, anzi, si pone come antidoto alla loro anarchica confusione, che si aggiunge a quella dei luoghi dove sono diffuse.
    E’ musica che conduce al silenzio, alla quiete, quegli spazi inquinati.
    Ecco, la musica che conduce al silenzio, che col silenzio confina, è un tesoro prezioso in questi tempi così rumorosi.
    Rumore che ha contagiato anche la musica: certe forme estreme di musica techno e metal sono insieme prodotto e denuncia di questo rumore che contagia le nostre menti. L’esatto contrario della musica di cui parlavo prima, dell’ambient, del chill out. Ma che nasce dallo stesso disagio.
    Come tutti sanno, gli estremi sempre si toccano.

  287. La musica (il suono pensato e organizzato) che interagisce con lo spazio (interiore o esterno), lo percorre, le saggia le dimensioni e le forme, lo dilata o lo restringe, lo organizza, lo abita come un organismo vivente, è un tema affascinante, Paolo. Siamo abituati a pensare la musica in relazione piuttosto con il tempo (anche qui, soggettivo e oggettivo). Le esperienze di Cage e Eno (e chissà quanti altri: la caccia è aperta!) meritano di trovare chi le racconti.
    (Io torno a raccomandare quel prezioso saggio di R. Murray Shafer su “Il paesaggio sonoro”, denso di intuizioni e spunti – ma chissà quanti contributi successivi esistono.)
    Buona giornata.

  288. A proposito di silenzio (a proposito, dico, di un accenno fatto qualche giorno fa)… C’è una miscellanea di saggi pubblicata da Interlinea (a cura di Fabrizio Filiberti) e intitolata non a caso “Il silenzio”, che indaga l’esperienza – appunto – del silenzio, con un taglio laicamente spirituale e sensibile ai valori poetici della parola.
    E ora taccio.
    (No, non ancora: devo prima salutare Massimo, Paolo, e ringraziare a mia volta.)

  289. Non posso non accennare, parlando di silenzio, al musicista che forse più di ogni altro lo ha esplorato, John Cage, e al suo brano più famoso, 4’33”. Su youtube si trovano alcune esecuzioni (non sono ironico, nell’usare questo termine) di 4’33”, estremamente significative. Quella che preferisco è http://www.youtube.com/watch?v=HypmW4Yd7SY&feature=related , con David Tudor al pianoforte. Guardate la lieve coreografia dei suoi gesti, come chiude, apre e richiude il coperchio della tastiera, come usa il cronometro, rendendolo strumento silente, come tocca e legge la partitura bianca.
    Una interpretazione impeccabile, la sua (ripeto, non sono ironico). Ci invita all’ascolto del silenzio, alla percezione di una dilatazione del tempo.
    Due esecuzioni strumentali degne di nota (dell’assenza di nota, va bene) si possono seguire in
    http://www.youtube.com/watch?v=hUJagb7hL0E
    e in http://www.youtube.com/watch?v=04F22C_u658&feature=related .
    Il gruppo strumentale “amplifica e radicalizza” l’effetto (mi sto citando, scusate; chissà che ne avrebbe pensato, il vecchio Dvoinikov di questa “Rapsodia senza temi”). Certo, l’effetto straniante è più evidente. Nel secondo caso, l’ensemble si accorda, in attesa del direttore. Nel primo caso, il direttore dotato di bacchetta è inappuntabile, ma non rinuncia alla piccola gag del detergersi il sudore dalla fronte: il pubblico, grato, si lascia andare a una risata liberatoria. Tra un movimento e l’altro (4’33” si compone, classicamente, di tre movimenti) il pubblico tossisce (un po’ troppo, come se anch’esso volesse lasciare testimonianza di una gag); e gli applausi finali, scroscianti, assieme ai ringraziamenti dei musicisti, coronano un’esecuzione un tantino sopra le righe.
    In ogni caso, un pubblico così, che sta al gioco, e applaude convinto, è espressione di una civiltà culturale che noi ci sogniamo.
    Ho pescato anche una curiosa lettura in duo, con Keith Jarrett e Chick Corea: i due si muovono, dondolano, ammiccano come se davvero suonassero, scrutano immaginari intrichi di note sulle pagine bianche. Jarrett però, a differenza di quello che fa quando davvero suona, non mugola. Anche in questo caso siamo dalle parti di una elegante interpretazione parodistica (anche Duffy Duck o Tom & Jerry eseguirebbero così 4’33”, non credete?). Guardatela su
    http://www.youtube.com/watch?v=i8IT0hSLkMI&feature=related .

  290. Si è discusso del romanzo di Michele Mari “Rosso Floyd” (Einaudi).
    Inserisco di seguito qualche notizia (in effetti questo libro è proprio in tema con la discussione).

  291. Su “Rosso Floyd” di Michel Mari (Einaudi)

    «Syd è impazzito perchè era sempre un passo più avanti, e non essere mai in sintonia con gli altri fa di te un naufrago su uno scoglio, o un astronauta perso nello spazio… Quasiasi cosa facesse o pensasse era sempre all’avanguardia, sempre: a un certo punto si trovò così in là che intorno a lui non c’era più nulla, e in quel vuoto precipitò».

    Un romanzo impetuoso e visionario, un viaggio nell’universo dei Pink Floyd, alla scoperta dell’«evento scarlatto» che ha fatto della band una leggenda. 30 confessioni, 53 testimonianze, 27 lamentazioni (di cui 11 oltremondane), 6 interrogazioni, 3 esortazioni, 15 referti, una rivelazione e una contemplazione. E al centro, la musica e l’estro creativo di un gruppo che ha rivoluzionato il rock.

    Dopo appena due album, Syd Barrett sprofonda in un delirio psichedelico che determinerà la rottura con Roger Waters e David Gilmour. Barrett perde il contatto con la realtà, non si presenta ai concerti, o decide di scordare la chitarra nel bel mezzo delle esibizioni e fissare il vuoto. Allontanato dai suoi stessi compagni, Barrett si rinchiuderà nello scantinato della casa di famiglia, a Cambridge, e rimarrà là sotto, con la sola compagnia dei suoi strumenti e delle sue visioni, mentre la musica che ha composto per i Pink Floyd continua a fare il giro del mondo. Nonostante non faccia più parte della band, le idee di Barrett e la sua inconfondibile impronta continueranno a influenzare i testi e il sound Pink Floyd in modo duraturo, in una sorta di collegamento onirico che non verrà mai interrotto.

    Michele Mari trasporta il lettore nel vortice del rock, riunendo tutti i personaggi che hanno incontrato Syd Barrett e anche quelli che hanno solo tangenzialmente avuto a che fare con i Pink Floyd, personaggi realmente esistiti – come Stanley Kubrick, David Bowie, Michelangelo Antonioni, i membri stessi della band, dalle coriste ai tecnici del suono – e personaggi immaginari – protagonisti delle canzoni o figure apparse nei film che hanno raccontato il gruppo. In un impareggiabile sforzo di catalogazione e documentazione, Michele Mari dà voce alla galassia Pink Floyd, in una sorta di tavola rotonda, di banco degli imputati in cui tutti raccontano un frammento della loro esperienza, in un puzzle di ricordi, testimonianze, fatti “storici” e invenzioni che si intrecciano o si perdono. A dirigere la requisitoria, sono «i siamesi»: due cervelli per un solo corpo, simbolo della parabola artistica del gruppo, uniti in un legame conflittuale come fu quello tra Roger Waters e David Gilmour.
    Rosso Floyd è un laboratorio narrativo che si spinge fino al cuore della musica dei Pink Floyd, una miniera di documenti e citazioni, un dialogo immaginario che è anche il racconto di un mito.


    Fonte: speciale sul sito della Einaudi

  292. Questa è la scheda del libro:
    «Mio padre si chiamava Eric Fletcher Waters. Morì ad Anzio il 18 febbraio 1944. Io sono nato 165 giorni prima della sua morte. La gente mi conosce come Roger Waters, voce, bassista e autore della maggior parte dei testi dei Pink Floyd». Inizia così una delle confessioni dell’immaginaria «istruttoria» che fa da spina dorsale a questo libro. Un romanzo che ricostruisce la parabola artistica dei Pink Floyd facendo coincidere i dati biografici con quelli fantastici, dando forma a un impasto unico modellato intorno a una delle band più celebrate del ventesimo secolo. A sovraintendere a questa febbrile requisitoria sono «i siamesi»: due cervelli per un solo corpo, un legame conflittuale come quello che unì Roger Waters e David Gilmour.
    Ma qual è stato l’originario «evento scarlatto» che ha fatto dei Pink Floyd la leggenda che sono diventati? Sappiamo che Syd «Diamante Pazzo» Barrett – dopo appena due dischi e un’esperienza psichedelica dalla quale non si riprenderà mai più – viene allontanato dai suoi stessi compagni. È allora che decide di rinchiudersi nello scantinato della casa di famiglia a Cambridge, in compagnia delle sue amate chitarre e di tutta la musica che ha in testa. La stessa musica che, grazie ai concerti tenuti dal gruppo, continua a fare il giro del mondo: come se il talento visionario di Barrett – tramite insondabili vie oniriche – avesse continuato a influenzare sotterraneamente ogni canzone composta dagli altri Pink Floyd dopo il suo esilio.
    L’estro catalogatore ed enciclopedico di Michele Mari si fa in questo libro vertiginoso: l’autore sembra schiudere le porte del suo laboratorio per interrogare in profondità la genesi del processo creativo. Il potere della letteratura si allea in queste pagine a quello della musica: solo così è possibile far dialogare i personaggi delle canzoni dei Pink Floyd con i membri stessi della band, Stanley Kubrick con le coriste, David Bowie con Michelangelo Antonioni… Come il prisma scompone un raggio di luce mostrando lo spettro di colori che lo costituisce, così l’autore disseziona il nucleo incandescente delle canzoni dei Pink Floyd fino a svelare come dietro ogni loro singolo verso si nasconda un messaggio rivolto all’altrove.

  293. Caro Claudio,

    anch’io ti ringrazio moltissimo per il tuo intervento su 4’33” e per le segnalazioni sulle sue esecuzioni.
    Certamente, l’ascolto del silenzio è il più difficile. Anche il silenzio ha un suono, un suono molto sottile e potente, che pochi riescono ad ascoltare per più di pochi secondi.
    La nostra civiltà ha infatti, tra i tanti terrori che la affliggono, anche quello del silenzio.
    Il brano di Cage è una sfida alla concentrazione dell’ascoltatore: e infatti, come tu hai squisistamente sottolineato, la tentazione della parodia è praticamente ineludibile, ma anch’essa liberatoria e dissacrante i monumenti sonori tardottocenteschi.
    Mi viene in mente la scena più geniale del film Amadeus di Milos Forman. L’imperatore Giuseppe II ha proibito i balletti nel suo teatro di corte. Per verificare che l’imperialregio ordine sia obbedito, si reca personalmente alle prove. Lì, vede i ballerini muoversi sulla scena come mimi, guidati solo dalle mani di Mozart, che disegnano la musica per loro. La musica non si sente, ma si vede. L’imperatore, terrorizzato dal fatto che possa esistere una musica non percepibile dalle orecchie, ma comunque presente (cos’è, dov’è questa musica? essa si beffa del mio ordine, come posso controllarla?), si affretta a revocare il divieto. Con gran suo sollievo, il balletto verrà eseguito con il sottofondo della musica galante di rito.
    Questa scena si appaia perfettamente con quest’altra. Shikaneder va a casa Mozart per sapere come procede la stesura della musica per il suo nuovo Singspiel. Mozart lo rassicura, il lavoro è quasi terminato. Il capocomico chiede allora di vedere le partiture, ma Mozart risponde che è impossibile. E ride. E alla domanda di Shikaneder, perchè sia impossibile vedere la musica, Mozart risponde, puntando il dito alla fronte: “Perchè è qui dentro”.
    Dunque, c’è una musica che non si può sentire, c’è una musica che non si può vedere, ma che comunque esiste. Ed è la musica più potente e sottile. Forse i teorici medievali non erano poi così gotici e astratti quando parlavano di musica delle sfere.
    Un caro saluto, e grazie per questo spazio!
    Paolo

  294. Paolo, mi hai fatto venire voglia di rivedere dopo tanti anni “Amadeus”, che non ricordo se non a grandi linee.
    Le teste dei musicisti devono essere piene di musiche che non sentiremo mai… Anche le nostre teste sono piene di musiche incredibilmente belle, quando le sogniamo…
    (Grazie, Paolo, per i tuoi contributi.)

  295. Ho finalmente iniziato la vera lettura di “Rosso Floyd”, con l’attenzione che ogni romanzo o racconto di Mari merita. Ritrovo da subito la voce che ho imparato ad amare (in “Tu, sanguinosa infanzia”, in “Verderame”, in “Filologia dell’anfibio”, in “Euridice aveva un cane”…). Il soggetto scelto questa volta, un soggetto che lo scrupolo catalogatorio e filologico di Mari rende con precisione maniacale di nomi e date, dà una piacevole coloritura vintage (come, che so, le copertine di “Urania”, o gli sceneggiati televisivi RAI degli anni sessanta-settanta in altre sue opere).
    Il tutto, curiosamente, mi ricorda certe vecchie cose di Ken Russell (“Lisztomania”, forse, più che “Tommy”); ma questa suggestione andrà verificata più avanti.
    Ammirevole la struttura polifonica del romanzo (“in 30 confessioni, 53 testimonianze, 27 lamentazioni di cui 11 oltremondane, 6 interrogazioni, 3 esortazioni, 15 referti, una rivelazione e una contemplazione”).
    Bene. Proseguo.

  296. (Mentre leggo, riporto due righe di Umberto Rossi dalla pluricitata – da me, et pour cause – conversazione con Mari su “Pulp”: “Come spesso accade in Mari… l’arte è stregoneria, è mistero, è un enigma minaccioso che può rivelarci cose discretamente spiacevoli se non paurose”. E più avanti: “Nella sua scrittura… il piacere della lettura sembra inseparabile dalla paura e dalla monomania. Per godere di un testo bisogna che ci spaventi e ci ossessioni”. Al che Mari risponde, tra l’altro: “Ossessione e paura sono per me inscindibili dall’esperienza estetica”. Bene, continuo.)

  297. Ecco gli appunti che sto prendendo mentre leggo “Rosso Floyd”(sono a pag. 65). Faccio copia-e-incolla senza articolarli secondo le buone regole dello stile, visto che siamo in piena estate…
    – Passione elencatoria, documentaristica.
    – Affollarsi di nomi, circostanze, date, dati, titoli, gesti.
    – Non sono un fan (cioè, lo sono di Mari, per così dire, mentre conosco poco i Pink Floyd) per cui non saprei quanti di questi dati corrispondono alla realtà e quanti sono nati da un’urgenza inventiva (non meno forte di quella filologica e storiografica). Ma non è importante.
    – La scrittura è piana, conversativa, quasi sempre beneducata e talvolta un po’ trasandata come nella trascrizione di testimonianze documentarie (abilissimo travestimento, mimesi studiatissima, in questo paragonabile allo stile leopardiano di “Io venìa” ecc.): e solo a volte, di striscio, l’autore si concede una deviazione verso la propria riconoscibilissima voce.

  298. Ancora impressioni (parziali) su “Rosso Floyd”.
    Mari dà voce a tutti coloro che si sono affaccendati attorno al progetto Pink Floyd: e in particolare tutti coloro che, in un modo o nell’altro, talvolta per caso o per equivoco, hanno avuto che fare con la figura inquietante di Syd Barrett. Barrett è un personaggio sfuggente, incatalogabile, episodico. Tutti ne parlano anche quando sembra che parlino d’altro – anche quando non vogliono proprio parlare di lui. Del suo genio (l’unico vero, disinteressato, inconsapevole anche) sembrano provare timore tutti. È una figura proteiforme: ora è un mingherlino, ora, per effetto di malattia e cure, un ciccione irriconoscibile. Le sue intuizioni restano impenetrabili, incidono segni fortissimi che si può solo tentare di imitare. L’origine della sua follia e dei suoi deliri rimane misteriosa (ma si sente che la sua musica e la sua follia hanno sintonie comuni). Non ha una voce sua (nell’intricata polifonia del romanzo non compare il suo nome: il Sid Barrett della Lamentazione undecima è un quasi omonimo). Eppure tutte le voci di questa vasta e labirintica enciclopedia parlano di lui.

  299. Se non appare stonato,
    io vorrei parlarvi del rapporto continuo, del mutuo feed-back, tra musica e letteratura, non solo nell’ascolto, ma anche nella produzione (la linea si fa quadrato, insomma).
    Nel 2003 ho fatto la comparsa nel “Don Giovanni” di Da Ponte-Mozart, diretto da Andrea de Rosa su regia originale di Mario Martone. Ascoltare il DG da dentro e da fuori, più volte, nelle prove, nelle repliche, mi ha fatto entrare sotto pelle musica e testo, a punto da spingermi a scrivere su, per, di Don Giovanni. Ne sono sortite 5 “variazioni sul tema”, tra cui il «Processo a Don Giovanni»: un libro, ma anche una sceneggiatura teatrale-lirica, uscito nell’ottobre 2009 per i tipi di Guida, editore storico napoletano, in una collana intitolata “Autentici Falsi d’Autore”.
    L’ho presentato a Trento, Genova e Napoli, nei primi due casi con la partecipazione amichevole del noto basso lirico Nicola Ulivieri e, a Genova, con l’altrettanto celebre pianista Massimiliano Damerini.
    Si sono letti brani del libro e, quando previsto dal testo dell’interrogatorio a Don Giovanni, il cantante ha accennato un paio di recitativi e l’aria della “Serenata”.
    Per chi fosse interessato a maggiori dettagli sul testo, rinvio a questi siti:

    http://www.teatrodinessuno.it/processo-don-giovanni-articolo-di-vittorio-caratozzolo

    http://www.arterotica.eu/3704-dongiovanni-caratozzolo-mozart.htm

    http://www.mozartitalia.org/ita/news/news.php?ID=46

    Per dirlo in breve, contribuendo, spero, al fiorito, fiorente e lussureggiante dibattito in corso sul rapporto tra musica e letteratura, si tratta di una lettura creativa, ibrida, del libretto e della critica letteraria sul mito di Don Giovanni:
    «Di solito libretto e partitura sono sacri e intangibili, per cui i registi si scatenano con la drammaturgia (Sellars, Bieito, per es.). Io ho decostruito libretto e partitura, ricostruendoli in forma di dibattimento processuale. La vicenda non è più vissuta in diretta da personaggi e pubblico, ma è narrata alla sbarra, in base a una dialettica domanda-risposta (non di rado cantata) di tipo processuale. E’ un lavoro di tipo semiotico: l’intreccio viene smembrato nelle singole storie e suddiviso in base ai diversi punti di vista, tramite una narrazione e una disamina “burocratica” dei fatti, con un vero e proprio interrogatorio nei confronti del Testo. The People vs Don Giovanni, insomma: il Pubblico “sta in scena” e, talora morbosamente, delega i due magistrati nell’accusa e nella difesa del Libertino. […]
    Il Processo a Don Giovanni, come si può evincere dal materiale documentario presente sui siti segnalati qui sopra, consiste nella decostruzione del libretto di Da Ponte, e nella sua ricostruzione in forma processuale, con l’utilizzo, ove possibile, di brani originali del libretto d’opera, durante le deposizioni dei personaggi, chiamati alla sbarra secondo una procedura di tipo processuale, inseriti in una struttura dibattimentale in lingua comune.
    Il dibattimento verte sulla storia dell’archetipo letterario di Don Giovanni e sulla sua sorte critico-morale nel corso dei secoli. I due magistrati che si affrontano nel foro disquisiscono sulle diverse valutazioni di critica e pubblico riguardo alla figura del celebre Libertino, ripescando concetti e citazioni dall’immaginario collettivo.
    Si tratta di una proposta alquanto insolita, che peraltro non danneggia l’impianto drammaturgico dell’opera, ma semplicemente riordina i punti di vista dei personaggi riguardo alle vicende dell’intreccio narrativo, suggerendo un’interpretazione giuridico-morale dell’ opera tramite un’originale prospettiva di lettura». (Non è alieno al testo il tema della giustizia “ad personam”, molto attuale in questi nostri tempi…)

    Un altro esperimento che suggerisco ai rari lectores è quello di lasciarsi ispirare dalla musica per scrivere un racconto dedicato a quella stessa musica: l’ho sperimentato di persona, con il mio racconto per musica «Attraverso i “Quadri di un’esposizione”», dedicato al celebre poema sinfonico di Mussorgsky, pubblicato in audiolibro bilingue dall’Istituto di Cultura Ladina nell’ottobre 2008 (con cd audio, e, ora, dvd; recensito su “Amadeus”, genn. 2009, e “Musica Domani”, sett. 2009), e l’ho praticato a scuola, con i miei alunni, con buoni e talora ottimi risultati.

    Cimentarsi nella scrittura a partire dalla musica può inoltre aiutare a riflettere e a rilanciare, metapoeticamente, tale riflessione al lettore-ascoltatore: nel mio testo si narra la vicenda di un bambino che, recatosi con la madre in visita all’Ermitage, si perde in una sala e inizia una serie di avventure all’interno dei quadri, con l’aiuto dello Gnomo mussorgskiano. Al termine delle peripezie (carrolliane, kurosawane) “attraverso i Quadri”, il bambino comprende l’importanza della cooperazione immaginativa tra il fruitore e l’opera d’arte.
    Ora, naturalmente il discorso ascolto-composizione-lettura-scrittura non si impone sempre e comunque; al di là della qualità dei risultati, sono però certo che la pratica attiva di musica e scrittura, anche non pubblica, aiuta a comprendere meglio ciò che si ascolta e si legge.
    Faccio un altro esempio: insegnando educazione civica, la Costituzione Italiana si suol leggere in modo anche ispirato e appassionato, ma non sempre con una risposta di eguale e armonica intensità da parte degli ascoltatori. Mi è bastato pensare a una “veste nuova”, musicale, per alcuni articoli, per comprendere almeno due cose: 1) la lingua può essere esteticamente godibile qualora se ne riescano a individuare le basi ritmiche, una sorta di cantabilità, persino in un testo giuridico e, per estensione, in ogni testo;
    2) un testo non concepito per essere musicato-cantato può ricevere nuova linfa e accendere una miglior intuizione del senso, se, reso cantabile, può ritornare in mente di tanto in tanto come “quel motivetto che mi piace tanto”, fino a ispirare – vogliaiddio – anche i nostri comportamenti etici.
    Un paio di esempi si trovano su
    http://vids.myspace.com/index.cfm?fuseaction=vids.individual&VideoID=35607815
    insieme ad un’altra traccia di riflessione, dedicata al rapporto sotterraneo, ma vivo ed efficace tra la poesia “antica” la musica “moderna”: senza alcuno spirito goliardico, ho provato a musicare classici poetici /dante, Leopardi, ecc.), con risultati forse interessanti, malgrado la scarsa competenza del musicista-cantante.
    Spero infine di non aver interrotto a sproposito il dibattito su Mari e i Pink Floyd: ho scoperto il blog solo oggi, al ritorno dalla vacanze, e ho letto solo parte (inizio, fine) delle centinaia di contributi pubblicati.
    Scusate la prolissità.
    Un caro saluto a tutti/e voi.
    Vittorio

  300. Vittorio, sei il benvenuto!
    E non preoccuparti, a noi piace procedere rapsodicamente, visto che tanti sono gli spunti sui contatti (e gli attriti) tra letteratura e musica. Quindi non hai interrotto niente, anzi il tuo denso intervento si riallaccia opportunamente a qualcosa che avevamo già sfiorato. Il rapporto Mozart-Da Ponte (e il Don Giovanni in particolare) meritava quelle precisazioni – così come i suggerimenti operativi che hai inanellato di seguito.
    Aspettiamo altri tuoi interventi!

  301. Ancora su “Rosso Floyd”.
    Ecco dov’è la musica, nel romanzo di Mari. Me lo chiedevo leggendo il primo centinaio di pagine. Non le vite dei musicisti, dei fan, dei produttori, dei tecnici; non le ipertrofiche scenografie dei concerti; o i personaggi che popolano i testi delle canzoni; o le invenzioni grafiche delle copertine. La musica, dico, le note, la creazione musicale. Leggevo di sessioni in sala di registrazione, di strumenti, di accordi, ma mi restava la curiosità di sapere come Mari avrebbe raccontato il fare musica, o meglio come lo avrebbe fatto raccontare ai suoi testimoni. Ed eccola, finalmente, la musica: l’invenzione inaspettata, le quattro note rivelatrici, la soluzione strabiliante. In “Rosso Floyd” è raccontata come un lascito (di Syd Barrett agli altri componenti) o come un’ispirazione metapsichica, un dono ricevuto o estorto attraverso un contatto spiritistico o quasi, una “visitazione”. Barrett (da vivo, ma come fosse morto) torna da lontano a ispirare come fosse un demone le soluzioni più impervie, le idee più folli (ça va sans dire) agli altri, indecisi se rinnegare quella dipendenza o confessarla, se piangerlo o maledirlo. È un’idea suggestiva e inquietante, questa dell’ispirazione barrettiana, subitanea e imprevedibile, che convive con quell’altra, più fisica, fatta del lavorio delle prove, del perfezionismo delle lunghe sedute.

  302. Buongiorno! Esco un attimo dal lato oscuro della luna per comunicare che sul sito della Manni è scaricabile da qualche giorno l’e-book in pdf dell’antologia “Dylan revisited – Racconti su Mr. Tambourine” del 2008, a cura di Gianluca Morozzi e Marco Rossari.
    Vi compaiono racconti di Ivano Bariani, Daniele Benati, Francesca Bonafini, Alessandro Carrera, Gabriele Dadati, Carlo Feltrinelli, Teo Lorini, Marco Missiroli, Gianluca Morozzi, Livio Romano, Marco Rossari, Angelina Rotolo, Francesco Savio, Fiammetta Scharf, Alice Suella.

    Andate su http://www.mannieditori.it/index_x.asp?contenuto=dettaglio_libri&ID=1197

    Copio dalla scheda del libro:
    “Sedici scrittori si cimentano con il tema più difficile: scrivere qualcosa su un ghigno sardonico al quale faceva un baffo – à la Duchamp – perfino quello ineffabile della Gioconda e che ha dato luogo a molteplici variazioni.
    È il sorriso di Robert Allen Zimmerman. Già, perché Bob Dylan è molto più di un cantante. È icona, rockstar, poeta, cialtrone, ebreo, cattolico, visionario, narciso, misantropo. Un uomo che ha avuto come unico Dio – e come grandissimo dono – l’elusività. E siamo noi a farne le spese.
    Avendo attraversato le generazioni come un politico della Prima Repubblica – elettrico e sballato, va detto – Dylan si è rispecchiato tanto nei coetanei quanto in chi è nato quando la sua vena si stava già (momentaneamente) inaridendo. Ha ballato con i nonnini e bevuto con i pischelli, ripudiato la luce e trovato il folk, perso la voce e acceso l’elettricità, ha sparato versi meravigliosi e ingoiato sonore cantonate. Eppure ancora non ha trovato il suo cantore.
    Raccolta la sfida, sedici autori si sono lanciati nell’impresa di restituire narrativamente un personaggio tanto ambiguo, prendendolo di petto o sfruttandolo come colonna sonora epocale e personale, ripudiandolo o ricamando sulle infinite suggestioni dylaniate.
    Ne è uscito questo libro, un diamante pieno di sfaccettature in cui ogni luccichio differisce dall’altro, eppure tutti contribuiscono ad abbagliare.
    How does it feel? Bene”.

  303. Comincio la giornata segnalando un paio di titoli dalla sterminata bibliografia sul jazz.
    Per prima cosa ricordo i saggi di Davide Sparti, per esempio “Suoni inauditi” (Il Mulino), che indaga il concetto e la pratica dell’improvvisazione jazzistica come composizione istantanea, come risultato di un equilibrio tra creazione e grammatica, tra disciplina e trasgressione. Il tema ritorna anche nell’ultimo “L’ identità incompiuta. Paradossi dell’improvvisazione musicale”, sempre de Il Mulino.
    Tra gli studiosi italiani del jazz è doveroso segnalare anche Guido Michelone, che ha esplorato (sta esplorando, anzi) non solo la musica, ma anche la letteratura critica (e la letteratura tout court) sul jazz, in una nutrita serie di contributi, a partire da “Mi ricordo il jazz. Guida bibliografica per “sfogliare” la musica afroamericana” della Marcos y Marcos. Il più recente, “Sincopato tricolore. C’era una volta il jazz italiano 1900-1960” è stato pubblicato da poco dalla Effequ. Michelone ha anche collaborato con alcuni dei maggiori jazzisti italiani, componendo testi poetici o drammaturgici per le loro musiche. Tenete d’occhio anche i suoi pezzi su “Stilos”, sono una miniera di suggerimenti sul tema che anima questo forum.

  304. Terminata la lettura di “Rosso Floyd”, voglio sottolineare due aspetti che ricorrono lungo tutto il romanzo di Mari (e che ho sentito forti forse perché lo sono per me, se è vero che si va a cercare nelle opere altrui le affinità con il proprio modo di vedere e di pensare):
    – lo sviluppo delle tensioni interne (interne al gruppo dei Pink Floyd, prima di tutto, poi all’entourage, poi ai familiari, poi a tutti quelli che, magari episodicamente, hanno avuto a che fare con i Pink Floyd): il romanzo rivela dissidi e contrasti tra personalità, tra concezioni (dell’arte, della vita), è composto da continui distinguo, da puntualizzazioni, da correzioni e smentite (la forma documentaristica, fatta di testimonianze in prima persona, esalta questo aspetto); e non è certo il caso di decidere dove sia la verità, dal momento che tutte le verità hanno un loro senso;
    – il continuo gioco di mascheramenti e sdoppiamenti e travestimenti e scambio di ruoli (alla fine, tutti sono, vogliono essere o non possono fare altro che essere Syd Barrett, tutti tranne il vero Syd Barrett, verrebbe da dire): un gioco di travestimenti e sdoppiamenti ecc. che coinvolge tutti, compresi, che so, le coriste, gli animaletti dei testi delle canzoni, le vittime di omonimie, i colleghi, le band fantasma, e che in talune occasioni (il film “The Wall”, l’enfasi scenografica e teatrale dei concerti) diventa vertiginoso, inestricabile (chi è chi? chi è Pink? e insomma, chi è Syd?).

  305. Tra le tensioni più interessanti (mi riallaccio al primo punto dell’intervento precedente) c’è senz’altro quella tra una concezione della musica frutto di un guizzo estemporaneo dell’ispirazione, imprevedibile e non ingabbiabile, inquietante anche e oscura per certi versi, non risolta e non risolvibile, legata all’incompiutezza, al brogliaccio, all’abbozzo – e un’altra concezione, più professionale se vogliamo, fatta di lunghe prove, tecnica, esercizio, metodo. Mari racconta la storia dei Pink Floyd anche attraverso l’attrito tra queste due concezioni – l’onda lunga dell’influsso della prima, ovviamente legata all’estro di Barrett, continua a interferire con il gruppo ancora dopo anni e anni.

  306. Gentile Claudio Morandini, sto leggendo anch’io Rosso Floyd di Mari e concordo con quanto lei dice.

  307. Rileggo, a distanza di anni, il racconto “Il musicista invidioso” di Dino Buzzati (compreso nei “Sessanta racconti”, che possiedo nei “Meridiani Mondadori”, i quali contengono anche due libretti per Luciano Chailly, “Ferrovia soprelevata” – sic – e “Procedura penale”, giusto per rimanere in tema).
    Bene: “Il musicista invidioso” del titolo è il compositore Augusto Gorgia, artista “già al colmo della fama e dell’età”, il quale una sera ascolta per caso “uscire da un grande casamento” una musica mai sentita prima, inclassificabile, anche triviale, ma giovanile, atletica, superba. Sorprende poi la moglie che la ascolta alla radio – la donna sembra imbarazzata, colta in fallo, come per un tradimento. Indaga, ostinato, fa ipotesi, finché non scopre che l’autore di quella musica che butta all’aria tutte le convezioni, una musica “libera e orgogliosa… potente e di volgarità selvaggia”, la musica che tutti aspettano da mezzo secolo, il parto di un genio atteso come un messia – l’autore, dicevo, è un suo collega anch’egli anziano, mai tenuto in considerazione, o considerato finora come un grigio accademico (Ribbenz, Max Ribbenz, secondo la fantasiosa onomastica buzzatiana). Ad Augusto Gorgia moglie e amici hanno tenuto nascosto finché hanno potuto quella musica, “per la pietà che avevano di lui”.
    La chiusa del racconto è splendida: Gorgia esce sotto la pioggia, disperato, borbottante, barcollante, quasi in agonia spirituale: “Né poteva, come liberazione, offrire a Dio questo suo dolore; perché a questi dolori Dio si indigna”.

  308. Un altro dei “Sessanta racconti” buzzatiani di particolare interesse per noi che ci occupiamo dei rapporti tra musica e letteratura è “La notizia”. Qui, mentre il maestro Arturo Saracino dirige l’immaginaria ottava Sinfonia op. 137 di Brahms (in la maggiore), sente provenire un brusio di allarme dal pubblico, che comincia ad abbandonare la sala. Il maestro, senza smettere di dirigere, colto dall’angoscia prova a fare supposizioni sulle ragioni di quell’abbandono, finché non riesce miracolosamente a riavere l’attenzione, a riconquistare quel pubblico allarmato.
    A interessare è la narrazione della musica, in particolare dell'”allegro appassionato” con cui si conclude la (immaginaria, ripeto) ottava Sinfonia: “Egli dunque filava via sull’iniziale esposizione del tema, quella specie di monologo liscio, ostinato e in verità un po’ lungo, col quale tuttavia si concentra a poco a poco la carica potente di ispirazione che esploderà verso la fine, e chi ascolta non lo sa ma lui, Saracino, e tutti quelli dell’orchestra lo sapevano e perciò stavano godendo, cullati sull’onda dei violini, quella lieta e ingannevole vigilia del prodigio che fra poco avrebbe trascinato loro, esecutori, e l’intero teatro, in un meraviglioso vortice di gioia”.
    E verso la fine, al momento del recupero: “Un tipico arpeggio discendente del clarino lo avvertì che erano ormai vicini: stava per cominciare lo stacco, la selvaggia impennata con cui la ottava Sinfonia, dalla pianura della mediocrità scatta verso l’alto e con gli accavallamenti tipici di Brahms, a potenti folate, si leva verticalmente, fino a torreggiare vittoriosa in una suprema luce, come nuvola”.
    Trovo sia un bell’esempio di come la letteratura, oscillando tra parchi tecnicismi e abbondanti metafore, possa rendere l’idea dinamica di una musica complessa.

  309. molto bello il rifierimento a Dino Buzzati, che fra l’altro è un autore che amo tanto.

  310. Grazie, Beatrice.
    Continuo con Buzzati, e accenno a “Paura alla Scala”, che per ampiezza e complessità ho sempre considerato più un romanzo breve che un racconto lungo. Lasciamo da parte lo sviluppo della trama, le insolite connotazioni sociopolitiche (insolite in Buzzati, intendo) e concentriamoci sulle prime pagine, quelle in cui la presenza della musica è più forte. Ci sono un vecchio direttore d’orchestra, Claudio Cottes; una controversa opera, “La strage degli innocenti”, definita all’autore, l’alsaziano Pierre Grossgemüth, “oratorio popolare, per coro e voci, in dodici quadri” (me la immagino come un sublime pastiche, un ibrido impossibile di generi e scuole, insomma come certi oratori di Honegger); lo stesso Pierre Grossgemüth, non collocabile in uno stile o in un movimento, insieme di modernità sconcertante e di nostalgie ottocentesche – desideroso comunque di fare i conti con certe sue ambiguità del passato, e con gli orrori della guerra; e Arduino Cottes, il figlio del direttore, un giovane compositore intento a una ricerca intransigente e indifferente a ogni tipo di condivisione.
    Il rapporto tra Cottes padre e Cottes figlio è descritto in una delle pagine più belle: “Quando il figlio componeva, Claudio Cottes entrava in uno stato di estrema agitazione interna. Da quegli accordi apparentemente inesplicabili di momento in momento egli aspettava, con una speranza quasi viscerale, che uscisse infine qualche cosa di simile alla musica. Capiva che era una debolezza da sorpassato, che non si poteva battere di nuovo le antiche scale. Si ripeteva che proprio il gradevole doveva essere evitato quale segno di impotenza, decrepitezza, marcia nostalgia. Sapeva che la nuova arte doveva soprattutto far soffrire gli ascoltatori e qui era il segno, dicevano, della sua vitalità”. E a proposito del comporre di Arduino Cottes: “Le note, faticando, si aggrovigliavano sempre di più, gli accordi assumevano suoni ancor più ostili, tutto restava lì sospeso o addirittura si rovesciava a piombo in più caparbi attriti”. Nell’altra stanza, il padre, ascoltando, “talora intrecciava le dita delle mani così forte da farle scricchiolare, come se con questo aiutasse il figlio a liberarsi”.
    Raramente la difficile convivenza delle due tendenze maggiori del Novecento musicale (l’avanguardia intransigente, lo sguardo nostalgico rivolto al passato) è stata resa tanto efficacemente.

  311. Ancora un hors d’oeuvre dedicato a Buzzati: è inserito in “Solitudini”, che a sua volta compare ne “Le notti difficili” (l’edizione che ho spulciato questo pomeriggio alla ricerca della paginetta che mi interessava è un Oscar Mondadori del 1971 – a quegli anni risale la mia lettura; e non mi pare di aver più vista ristampata la paginetta in questione in successive antologie).
    Dunque, la premessa un po’ faticosa voleva portare a questo: “Il registratore”, brevissimo apologo che racconta quanto la musica sia la nostra percezione della musica. Siamo in un’epoca in cui, per registrare dalla radio, si accostava il microfono all’apparecchio, sperando che attorno nessuno facesse rumore. Lui (un Lui indeterminato) sta registrando appunto “Re Arturo” di Purcell (io invece mi ricordavo “King Roger di Szymanowski: ah, gli inganni della memoria!), e Lei “dispettosa menefreghista carogna” e “miserabile pulce pidocchio angustia della vita” “su e giù con i tacchi secchi per il solo gusto di farlo imbestialire e poi si schiariva la voce e poi tossiva e poi ridacchiava da sola” mentre “Purcell Mozart Bach Palestrina i puri e divini cantavano inutilmente”. Pausa.
    Dopo tanto tempo, egli torna ad ascoltare quel vecchio nastro. Nel frattempo lei lo ha lasciato, scomparendo nel nulla. Ed “ecco Purcell Mozart Bach Palestrina suonano suonano stupidissimi maledetti nauseabondi.
    Quel ticchettìo su e giù, quei tacchi, quelle risatine (la seconda specialmente), quel raschio in gola, la tosse. Questa sì, musica divina”.
    Lui “pietrificato… siede ascoltando: quei rumori, quei versi, quella tosse, quei suoni adorati, supremi. Che non esistono più, non esisteranno mai più”.

  312. (Va bene, “Il registratore” è davvero una paginetta occasionale, il Buzzati migliore sta altrove: ma avevo questo vecchio ricordo impreciso, e ho voluto chiarirlo e rinfrescarlo per condividerlo).

  313. Gentile Morandini, le faccio i miei complimenti per i suoi post. Non conoscevo questi scritti di Buzzati. Sono particolarmente incuriosito da “Paura alla Scala”, che cercherò da qualche parte.
    Grazie di tutto.

  314. Caro Aurelio, sto riscoprendo anch’io Buzzati in questi giorni. L’interesse di Buzzati per la musica era profondo, le sue conoscenze certo non superficiali, eppure ha sempre dosato il tema della musica (del mondo della musica) con una certa parsimonia nei suoi scritti, e quando lo ha fatto è ricorso con prudenza alla terminologia più propriamente musicologica. A me pare una bella lezione di understatement.
    Evidentemente, nelle sue pagine la musica diventa il tramite (la metafora, il paradigma) di altro, dei suoi pensieri ricorrenti cioè, che a volte abbandonano le tipiche ambientazioni fiabesche o le ricostruzioni cronachistiche per inscenare appunto il dramma dell’esistenza nell’ambito musicale.

  315. Cambiando discorso: ieri mi è capitato tra le mani un libretto affascinante e ricco di spunti (narrativi). Si intitola “La paura del pubblico, Cause e rimedi – con particolare riferimento ai violinisti”, è stato scritto dall violinista Katò Havas (ci vorrebbe l’accento acuto sulla o) ed è stato pubblicato in Italian da Cremona Books nel 2002. Si presenta come un manuale per professionisti dello strumento, parla della paura e della vergogna che colgono un artista il quale si esibisca di fronte a un pubblico e dei modi con cui controllare paura, vergogna, ansia. Il terzo capitolo (“Gli aspetti fisici della paura del pubblico”) elenca le angosce principali del violinista:
    – La paura di far cadere il violino
    – La paura di far tremare l’arco
    – La paura di essere stonati
    – La paura delle posizioni alte e dei cambi di posizione.
    Anche il quarto capitolo (“Gli aspetti mentali della paura del pubblico”) presenta vari motivi di interesse:
    – La paura di non suonare abbastanza forte
    – La paura di non suonare abbastanza veloce
    – La paura del vuoto di memoria…
    Nel quarto capitolo (“Gli aspetti sociali…”) si fa riferimento alla sola
    – Paura di non essere abbastanza bravi.
    Ogni paura, ripeto, ha i suoi rimedi – e ogni rimedio consiste in un certo tipo di esercizi, legati soprattutto alla corretta posizione, alla diteggiatura, alla postura generale, alla padronanza della tecnica, al raggiungimento di una disinvoltura che l’autrice vede rappresentata alla perfezione in Kreisler e nei musicisti zigani ungheresi. L’approccio del manuale è ottimisticamente pratico, e a mio parere ricco di suggerimenti anche per chi si esibisce dinanzi a un pubblico senza essere violinista.
    Ma ciò che mi preme sottolineare è questo: ognuna di quelle paure, per come è individuata e descritta, meriterebbe di essere raccontata in un racconto.

  316. Dino Buzzati è un autore che andrebbe riscoperto. Bravo Claudio Morandini per aver messo in luce questo rapporto con la musica nella sua scrittura.

  317. Grazie, Marco. Sto spulciando ancora il Buzzati che ho in libreria in cerca di altri riferimenti significativi alla musica. Nel frattempo ricambio (ricambiamo, via, sperando che non suoni come un plurale maiestatico) gli auguri di una piacevole estate.

  318. Grazie, Massimo (mi prendo i tuoi ringraziamenti, anche se mi chiamo Claudio…). E continuo con le spulciature buzzatiane.

    In “Un amore” il rapporto di Buzzati con la musica si fa più complesso, spiazzante (il romanzo del 1963 è spiazzante per altri motivi, d’accordo, ma ora ci stiamo occupando di musica). Le giornate di Antonio e della giovanissima Laide (cioè Adelaide) sono stranamente quasi vuote di musica – della musica che ci si aspetterebbe di veder descritta e raccontata visto che Laide, oltre che prostituta, è anche pur sempre ballerina alla Scala. Certo, ci sono le canzonette che gracchiano dalle radioline (cap. I), i boogie-woogie e i rock-and-roll, gli slow e i blues delle balere (al “Due” Laide si esibisce la notte, dopo la Scala), ci sono i dischi, le rastrelliere dei dischi, i grammofoni (cap. XV, in casa di un amico), il Musichiere in televisione (cap. XXIV): ma il balletto alle cui prove Antonio assiste nel cap. VIII ha appena un titolo, di convenzionalità ironicamente definitiva, “L’étoile du soir”, di tal Lachenard. Nessun accenno alla natura e alla qualità della musica turba la visione delle prove in calzamaglia; Antonio è colpito da altro, dai corpi delle ballerine, dai movimenti, dal sudore, dalla sessualità ritualizzata che si fa evidente (“la danza… non era altro che uno sfogo lirico del sesso: per il resto non poteva essere altro che decorazione e idiozia”). La musica, se si escludono i colpi ritmati del coreografo Vassilievski e la presenza di un pianista, resta inascoltata (ma la possiamo immaginare educata, decorativa, artificiosa, esattamente come è il mondo di convenzioni e travestimenti in cui Antonio è impaniato, e come le moine e i rituali degli ambienti che frequenta, bordelli compresi).
    Altri nomi di balletti appaiono fuggevoli nel cap. XXII: anche in questo caso sono appena titoli, “Vecchia Milano” (questo si riferisce a una vera realizzazione, frutto della collaborazione di Massine, Adami e Vittadini, v. “Danza e balletto” di Pasi, Rigotti, Turnbull) e “Stella della sera” (che invece credo sia inventato da Buzzati).
    In “Un amore” la vera musica, verrebbe da dire, sta altrove, è una musica volgare e vitale, esplosiva e conturbante, e coincide con la vera natura di Laide, che se ne fa strumento: è il cha-cha-cha “Los Carinosos”, che lei cita “con la sicurezza di chi nomina il Tristano o il Rigoletto” (cap. XV). Su questa musica, mentre Laide balla da sola, Buzzati riflette così: “C’è, nel motivo popolaresco… semplice come uno stecco eppure carico di secoli, qualcosa che precisamente diceva addio, con potenza d’amore per quello che fu e mai ritornerà e nello stesso tempo un confuso presentimento di cose che un giorno verranno, forse, perché la musica vera è tutta qui nel rimpianto del passato e nella speranza del domani, la quale è altrettanto dolorosa. Poi c’è la disperazione dell’oggi, fatta dell’uno e dell’altra. E fuori di qui altra poesia non esiste”.
    Nel cap. XXV Buzzati inscena una situazione analoga, in cui invece della danza istintiva su un motivetto leggero è il canto (cioè sempre Laide) a prevalere. Laide canta, ma non canzoni alla moda: “attaccò il repertorio delle canzoni uscite dalle lontanissime profondità del popolo rozze e volgari forse senza nostalgie e languori, storie da caserma e da osteria cariche di doppi sensi ma secche e autentiche”. In Antonio quel canto risveglia il ricordo della canzone dello spazzacamino, “una cosa bellissima e potente una ballata piena di rabbia e rimpianto che sorgeva dalle viscere di Milano”. Laide nella scena sta cantando allo stesso modo degli uomini di quel lontano ricordo, “ritmo a martello, l’uguale impeto” che faceva risalire al “senso genuino della vita”.

  319. Buzzati è uno tra i masimi scrittori del ‘900. Io lo amo immensamente, ma confesso di non averlo letto tutto, e di non avere mai colto i suoi rapporti con la musica (molti dei passi qui riportati da Claudio Morandini sono tratti da pagine a me in effetti sconosciute).
    Grande occasione quindi per andarle a cercare e leggerle: trovo magnifica la chiusa del “Musicista invidioso”, magistrale l’idea di racchiudere la crisi della musica del novecento nei rapporti tra Cottes padre e Cottes figlio di “Paura alla Scala”, e con tale efficace sintesi.
    Tuttociò merita letture e riletture. Un grazie a Morandini per gli spunti interessanti, le citazioni e i commenti.

  320. Torno, dopo qualche giorno di assenza, da una vacanza in Normandia. A Honfleur ho visitato la Maison Satie, il piccolo museo-teatro sorto nelle stanze della casa natale del compositore. E mi è venuta subito voglia di scrivere qualcosa dei rapporti tra Satie (la sua musica, la sua idea di musica) e la parola. Chiunque abbia sfogliato le sue partiture per pianoforte avrà intuito dove vorrei andare a parare: quelle didascalie bislacche che si dilatano fino a diventare aforismi, apologhi…
    Di quello appunto vorrei parlare: ma i postumi del rientro mi privano della necessaria lucidità. Ci tornerò su nei prossimi giorni.
    Per ora, a tutti, ben ritrovati.

  321. Chissà se Erik Satie ha scritto davvero che si sarebbe vendicato con chi avesse osato leggere, o peggio recitare, le sue indicazioni agogiche ed espressive durante le esecuzioni delle sue musiche. È quello che ricordo io, e si sa, i ricordi spesso sono reinvenzioni. Fatto sta. In passato, dico più di trent’anni fa, quando esplose (riesplose, meglio) una sorta di moda Satie (o è un ricordo inventato anche questo?), ci furono concerti con voce recitante (il primo, e il migliore, è possibile sia stato Paolo Poli). E ricordo che quelle esecuzioni-letture lasciavano sempre un po’ di amaro in bocca, perché quelle didascalie così teneramente bizzarre sulla pagina diventavano, se lette o peggio recitate, un tantino insulse, come barzellette senza il finale.
    Con understatement da vero dandy, Satie non avrebbe voluto dunque quelle letture, e avrebbe desiderato che quelle parole rimanessero soltanto negli occhi dell’interprete, come linee guida, come provocatorie parodie delle indicazioni agogiche tutte sentimento del secondo Ottocento.
    Cominciamo da qualcosa di facile (di vicino, cioè, a normali indicazioni espressive). La prima delle Gnossiennes (1890), un Lent, così recita: “Très luisant – Questionnez – Du bout de la pensée – Postulez en vous-même – Pas à pas – Sur la langue” ; siamo dalle parti di un invito (garbato, sempre : Satie è un impeccabile gentleman, anche quando infila un proiettile in un cannone), un invito a un trattenersi, a un guardarsi e a un sentirsi dentro. Non importa se la musica sembra andare da tutt’altra parte. Anche la seconda Gnossienne esorta allo stesso esame di coscienza, con in più una sfumatura iniziale di stupore forse infantile: “Avec étonnement – Ne sortez pas – Dans une grande bonté – Plus intimement – Avec une légère intimité – Sans orgueil”.
    La terza Gnossienne si spinge più in là: “Conseillez-vous soigneusement – Munissez-vous de clairvoyance – Seul, pendant un instant – De manière à obtenir un creux – Très perdu – Portez cela plus loin – Ouvrez la tète – Enfuissez le son”. A modo suo, è un percorso di intima ricerca (del suono? Di una purezza originaria? Di distacco? Di un possibile spiraglio di verità?).
    Più narrativamente dense di spunti le pagine di “Embrions desséchés”, una sorta di versione striminzita e irridente della musica a programma. Nel primo brano, “D’Olothurie”, dopo una introduzione pseudoscientifica sull’oloturia, parte la musichetta, di affilata inconsistenza: e parte la storia. “Allez un peu – Sortie du matin – Il pleut – Le soleil est dans les nuages – Assez froid – Bien – Petit ronron – Quel joli rocher! – Il fait bon vivre – Comme un rossignol qui aurait mal aux dents – Rentrée du soir – il pleut – Le soleil n’est plus là – Pourvu qu’il ne revienne jamais – Assez froid – Bien – Petit ronron moqueur – C’était un bien joli rocher ! bien gluant ! – Ne me faites pas rire, brin de mousse : Vous ne chatouillez – Je n’ai pas de tabac – Heureusement que je ne fume pas – Grandiose – De votre mieux “.
    Va bene, non è una grande storia, è un miscuglio di consigli e incoraggiamenti all’esecutore (“Meglio che potete”), richieste insensate (“Come un usignolo che abbia mal di denti!”) lepidezze e battutine. Più che queste ultime, mi piacciono quei riferimenti alla vita piacevolmente abitudinaria dell’oloturia – o del dandy in riva al mare, è quasi lo stesso.

  322. Il secondo “Embrion desséché” di Erik Satie, “d’Edriophtalma”, presenta un quadretto quasi lafontainiano. Nella didascalia iniziale, si legge che “ces crustacés vivent, retirés du monde, dans des trous percés à travers les falaises”. Di conseguenza le indicazioni prevedono « Sombre – Il sont tous réunis – Que c’est triste ! – Un père de famille prend la parole – Ils se mettent tous à pleurer (Citation de la célèbre mazurka de Schubert) – Pauvres bêtes ! – comme il a bien parlé ! – Grand gémissement ».
    (Il fatto che non esista nessuna celebre mazurka di Schubert, e che la presunta citazione sia tutto meno che una mazurka, rende definitivamente comico il patetismo del pezzo).
    PS: la nota precedente rischia di apparire enigmatica (letteratura critica? aggiornatissima? pardon?), ma si riferisce a un mio commentino per ora in attesa di approvazione in quanto contenente un paio di link. Pazientate.

  323. Nei ventuno aforismi di “Sports et divertissements” Satie va più in là: nell’edizione del 1914 mescola disegni, scrittura, musica. I disegni, essenzialissimi, sono suoi: e sua è la grafia precisa, con qualche tentazione di fioritura. E la musica ha ormai raggiunto un’olimpica inconsistenza, che talvolta gli interpreti delle incisioni discografiche si ostinano a riempire di senso, con il risultato di stravolgerla. « Scaramouche explique les beautés de l’état militaire – On y est fortement malin, dit-il – On fait peur aux civils – Et les galantes aventures! Et le reste ! – Quel beau métier ! » si legge in « La Comédie italienne ». E « Le Flirt » : « Ils se disent de jolies choses, des choses modernes – Comment allez-vous ? – Ne suis-je pas aimable ? – Vous avez de gros yeux – Je voudrais être dans la lune – Il soupire – Il hoche la tête ». Un altro bozzetto stralunato, in « Le pique-nique » : « Ils ont tous apporté du veau très froid – Vous avez une belle robe blanche – Tiens ! Un aéroplane – Mais non : c’est un orage ».
    È un umorismo contemplativo, attento alle minuzie, simile a che ritrovo nelle scenette dei film di Tati.
    Qui siamo ben oltre l’espansione delle indicazioni agogiche verso i territori di un’espressività ironicamente estrema. Qui note e parole contribuiscono a imbastire frammenti compiuti (lo so, suona come un ossimoro). E mi rendo conto che gli aforismi di Satie, privati delle striminzite musiche di cui sono il controcanto ironico, suonano insensati. Nel Satie aforistico di queste raccolte musiche e parole hanno bisogno di risuonare insieme, anche se solo nella mente di chi esegue. È musica che andrebbe letta (in silenzio), forse, più che eseguita; e seguita con gli occhi, certo non interpretata.

  324. Buongiorno!
    In attesa di conoscere i nuovi ospiti del forum, segnalo un blog che legge (cioè racconta e analizza) con passione e vera competenza le opere musicali del Novecento, e non solo dei grandi, o dei grandissimi, ma anche di quei minori che forse più dei grandi esprimono fino in fondo il loro tempo: si chiama http://kaleidofono.blogspot.com/ ed è curato nientemeno che da Ludwig Wittelsbach – o meglio da colui che si cela dietro questo nom de plume.
    Il motto del blog è una frase attribuibile al violoncellista Raphaël Sommer: “L’un des plus grands plaisirs de la musique, c’est de la faire aimer aux autres” – frase che faccio subito mia.
    Accanto al blog, che purtroppo pare essersi fermato al 26 febbraio 2010, segnalo anche su youtube il prolifico canale “Wellesz” (occhio a questo nome, la cui scelta è già un’indicazione di metodo e di gusto): http://www.youtube.com/user/Wellesz . Anche qui, voglio rispettare la riservatezza giocosa dei curatori (Wellesz appunto, e puncupallinus) e non aggiungo altro, se non che questo canale è fonte di continue scoperte (e di qualche riscoperta).

  325. … E continuando con i consigli, invito all’ascolto delle puntate de “Le musiche della vita”, una trasmissione su Radio3 curata da Diana Vinci e condotta da Giosuè Calaciura. Nell’archivio, http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/archivio/ContentSet-a4bc008f-9e5f-4373-9376-8381d69751e3.html , si trovano le conversazioni con Cesare Segre, Luca Canali, Edoardo Sanguineti, Raffaele La Capria, Rosetta Loy e molti altri. Il programma è presentato come “il racconto della propria vita professionale e privata di personaggi della cultura italiana ed europea attraverso le passioni musicali. Con aneddoti, riflessioni e pensieri”.

  326. Molto interessante (come al solito) il discorso su Satie di Morandini. In effetti Satie ebbe un momento di “riscoperta” negli anni 70, credo dovuto al fatto che una rock band (o Jazz-Rock band) di successo (i Blood Sweat & Tears, che amavo molto) riesumarono un paio di sue gimnopedie. Quelle stesse gimnopedie (la I e la III, se non ricordo male) furono poi usate anche più volte come musica da film (forse, ma dopo, anche in spot di pubblicità?). Io Satie non lo conoscevo, e fu allora che cominciai a scoprirlo. E ad apprezzare il suo umorismo, che (credo) dovesse qualcosa anche al tardo Rossini, quello parigino delle composizioni per piano (Ouf! Les petits poise, Mon prelude hygenique du matin, Prelude pretentieux, Prelude inoffensif, …)

  327. Vero, Carlo, i “Péchés de vieillesse” di Rossini, le sue “semplici senili debolezze” costituiscono un precedente curioso (e vasto, raramente esplorato nella sua interezza: per dire, il progetto dell’integrale della Naxos con il pianista Alessandro Marangoni prevede ben 15 CD) dell’umorismo spiazzante di Satie.

  328. Ieri, sul programma di un eccellente concerto dedicato alle musiche di Michele Dall’Ongaro (Piccolo Regio, con l’Ex Novo Ensemble diretto da Marco Angius), ho letto alcune considerazioni dello stesso Dell’Ongaro che voglio condividere con voi, perché contribuiscono a vedere il tema a cui ci dedichiamo (rapporto letteratura-musica, anzi narrativa-musica) dal punto di vista del musicista. Confida il compositore: è da “Danni collaterali”, brano del 2003 per violoncello solista, clarinetto, violino, viola e pianoforte, che “dal punto di vista formale… sono stato più consapevole del fatto che comporre per me è raccontare (entrambi i verbi andrebbero al corsivo, ndr). Le figure sono personaggi, con le loro storie, i loro incontri: dalla culla alla tomba, dal primo giorno di scuola al servizio militare. La partitura narra lo svolgimento degli eventi, il loro intrecciarsi, il flusso musicale diventa flusso drammaturgico”. È una confidenza affabile, che aiuta l’ascoltatore a muoversi nella struttura di “Danni collaterali” (titolo spavaldamente narrativo, en passant), nell’intreccio di linee e nel gioco di scambio di ruoli tra strumenti.
    Nel presentare di questa composizione, scrive ancora Dall’Ongaro: “Fingiamo che sia una piccola scena lirica. Una persona ha subito un danno grave (un lutto, un torto, una malattia: fate voi). Racconta le sue ragioni (un po’ ossessivamente, come a volte capita), ma nessuno sembra preoccuparsene (…). Un po’ alla volta, però, la comunità, prima ostile e lontana, si accorge di questa inquietudine, la percepisce e in qualche modo la condivide. I gesti, gli atteggiamenti, le posture cominciano a confondersi e mescolarsi. L’amarezza si stempera, il tessuto – a fatica – si ricompone intorno alle ferite”. La musica di “Danni collaterali”, insomma, si muove come la narrazione (come un racconto, diciamo): non la riproduce, soprattutto non “descrive”, e racconta, sì, ma racconta fatti puramente musicali, che per analogia si possono accostare al flusso di azioni che anima una pagina di letteratura. Ed ecco che la cordiale esposizione di Dell’Ongaro può farci scoprire la familiarità di una musica che comunque non rinuncia ad esprimersi in un linguaggio avanzato.

  329. Dimenticavo: il concerto su musiche di Dall’Ongaro di cui parlo nell’intervento precedente si è tenuto a Torino, nell’ambito di Settembre Musica; è stato registrato, perciò tenete d’occhio la programmazione di Radio3, ne vale la pena.

  330. C’è uno spettacolo che gira in Italia in queste settimane, si intitola “Sconcerto” ed è nato dalla collaborazione tra uno scrittore, Franco Marcoaldi, un compositore, Giorgio Battistelli, e un attore, Toni Servillo. Lo vedo in cartellone a Milano il 19 settembre, nell’ambito di Mi-To, al Piccolo Teatro Strehler (con l’Orchestra del Teatro San Carlo di Napoli e la direzione di Marco Lena).
    Ho anche visto in libreria l’esile libretto dell’opera, pubblicato da Bompiani. Certo, il monologo del direttore d’orchestra (che sulla scena è appunto interpretato da Servillo) sembra richiedere a gran voce la musica, ma l’introduzione del volumetto ai versi di Marcoaldi consente di approfondire il tema della collaborazione (della conversazione, verrebbe da dire) tra letteratura e musica, tra note e parole – e interpretazione, anche, visto che il ruolo di Servillo nella creazione dell’opera sembra avere lo stesso peso di quello degli altri due.
    Si legge nella scheda del libro: “La recita sociale, il consumismo compulsivo, le morti sul lavoro, la sete di potere della classe dirigente, gli oscuri meccanismi della finanza, l’immigrazione, una lingua sempre più astratta e irrelata… Com’è possibile orientarsi in un mondo così confuso? Dov’è il senso? Da queste domande è travolto un direttore d’orchestra, che quasi dimentica di dirigere i suoi strumentisti. Fra pause, dubbi, incertezze, interrogativi enormi e piccole verità, il musicista riscopre come proprio la musica possa essere il mezzo per passare dal caos al cosmo, per ritornare al cuore semplice della vita.”
    Un bell’articolo sullo spettacolo appare, firmato da Mirella Armiero, sul Corriere del Mezzogiorno, http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/spettacoli/2010/8-settembre-2010/sconcerto-tre-esperimento-firmato-servillo-marcoaldi-battistelli-1703720134557.shtml
    Nell’articolo viene evocato anche il fantasma della vecchia “Prova d’orchestra” di Fellini, riferimento inevitabile quando si parla di direttore e di orchestra come metafore o sintomi di qualcos’altro – ma il riferimento serve a smentire ogni somiglianza. “Sconcerto” è altro; accostarlo a “Prova d’orchestra” significa soprattutto mostrarne le profondissime differenze. Il direttore di Marcoaldi Servillo e Battistelli, più che a quello felliniano, fa pensare, sia pure alla lontana, al maestro Arturo Saracino, quello del già ricordato racconto buzzatiano de “La notizia”.
    Se potete, andate a vedere lo spettacolo – in attesa che esca in DVD o in CD. Potremmo riparlarne, che ne dite?

  331. Leggo anche, sullo stesso programma del già citato Mi-To, del “melologo” in prima esecuzione assoluta “D’un tratto nel folto del bosco”, su testo di Michele Serra e con musiche di Carlo Boccadoro (e con la presenza, ovviamente, di Sentieri Selvaggi). La voce recitante è quella di Moni Ovadia. Il 12 settembre (oggi!) al Teatro Franco Parenti.
    Interessanti questi ibridi. Dicono tante cose. Raccontano di una musica che è ancora viva, e che non ha smesso di tentare strade; di una musica che cerca un contatto, un’espansione comunicativa, e che per farlo si fa aiutare dalla parola, si contamina con il testo e con il teatro – cosa che ha sempre fatto, certo, tirare in ballo il termine “melologo”, magari con un filo di ironia molto postmoderna, significa comunque collocarsi nell’alveo di una tradizione gloriosa.

  332. Caro Massimo, è un piacere, come sempre. Adesso speriamo che qualcuno tra gli spettatori (e ascoltatori) di “D’un tratto nel folto del bosco” e “Sconcerto” senta l’irrefrenabile impulso di scriverci le sue impressioni…

  333. Intanto, caro Claudio, preannuncio che uno degli obiettivi di questo spazio è quello di ospitare autori (e libri) connessi al tema “letteratura e musica”.
    Il prossimo ospite sarà… Massimiliano Nuzzolo.

  334. Ciao a tutti
    è molto interessante questo argomento. Sono un cantante ed ho sempre studiato e prestato attenzione al rapporto tra musica e letteratura.
    Vorrei condividere l’impressione che ho avuto leggendo la prima pagina di “Opinioni di un Clown” di H. Boll.
    La prima frase è:
    Era già buio quando arrivai a Bonn.
    Prima di continuare feci partire la Patetica di Beethoven e quando si dissolse il primo accordo continuai a leggere ascoltando la musica in maniera attiva…. Sembra una sciocchezza ma vi assicuro che quell’incipit ha lo stesso impianto della sonata!

    Perdonate l’intrusione!
    Buona musica e letteratura a tutti!
    Fabio

  335. Ciao Fabio,
    anch’io amo le sintonie inaspettate come quella che tu descrivi (e che voglio sperimentare anch’io, e presto). Continua a seguirci, e se vuoi raccontaci la tua esperienza di cantante (musica, parole…).
    A presto e grazie!

  336. Ciao Claudio
    la mia esperienza di cantante è molto variegata. Io faccio musica antica prevalentemente con lo Studio di Musica Antica Antonio Il Verso di Palermo.
    Tra le esperienze più significative che ho avuto nella mia carriera da cantante è stata quella dei madrigali siciliani. Un connubio indissolubile tra musica e poesia straordinario, non avevamo bisogno di imparare le note il testo dettava l’altezza dei suoni. E’ stato una tournée meravigliosa.
    Vi mando il link di una recensione che abbiamo avuto in Francia:http://www.resmusica.com/article_1352_musique_d_ensemble_seduction_baroque_de_palerme_nice_ensemble_antonio_il_verso.html

  337. Caro Fabio,
    quello che scrivi dei madrigali è estremamente interessante. Musica che nasce dal testo, ne accompagna o asseconda il senso, ne diventa un’espansione, un’estensione. Tu lo hai sentito, questo “connubio indissolubile”, sin dal momento dello studio della parte, oltre che nell’esecuzione.
    Le tue parole mi hanno ricordato certe pagine de “La nota segreta” della Morazzoni, in cui la musica e la parola, unite nel canto, diventano una presenza quasi tangibile e visibile che percorre lo spazio e giunge fino ai sensi di chi ascolta.
    Ci dici qualcosa di più del tuo repertorio vocale e del tuo “vivere” la musica? Sarebbe magnifico poter approfondire questi temi.

  338. caro Claudio,
    io mi sono diplomato in canto al Conservatorio di Palermo ed ho sempre amato, studiato e lavorato con la musica antica, musica medioevale (colta e popolare), musica rinascimentale, e musica Barocca.

    L’anno scorso ho esaudito uno dei miei più grandi desideri, cantare Il Combattimento di Tancredi e Clorinda, tratto dalla Gerusalemme Liberata, messo in musica da Monteverdi. Ho replicato anche quest’anno al festival di Villa Adriana a Roma, certo io facevo Tancredi e non il testo, non mi sento ancora pronto per quello. Volevo dire che, per chi ama come me la poesia, è stata una esperienza…sublime!
    non so se qualcuno conosce l’opera, questa non ha arie, tranne per un arioso all’inizio del “testo” (il testo è il racconto una sorta di Historicus dell’oratorio musicale ma attenzione che il Combattimento non è oratorio anche se può trarre in inganno); dicevo che l’opera in questione non ha arie e Monteverdi ha scritto la musica sul testo senza disturbare, quest’ultimo, ma accentuando la musicalità del verso ma ancor più della parola. Monteverdi ha una straordinaria capacità di attribuire significato al significante attraverso il suono ma senza artifici compositivi o evoluzioni canore ma cercando all’interno stesso del significato (la parola) di restituire il significante (ciò che essa rappresenta).

    Sotto questo punto di vista e con questa consapevolezza vi assicuro che cantare, Monteverdi o altro, credo sia naturale così come naturale è parlare o scrivere!

    sono aperto a ogni domanda sul mio repertorio o su altro.

    a presto
    Fabio

  339. Fabio, hai descritto perfettamente il senso del “Combattimento” di Monteverdi. Ancora oggi, ascoltare quest’opera permette di cogliere la straordinaria novità rappresentata dalla musica di Monteverdi. Ma certo cantarne una parte significa “vivere” pienamente la miracolosa naturalezza di questa musica.

  340. “Quella musica invece non aveva nulla di umano, soggiogava la mente con violenza scacciandone ogni altro pensiero, e quando si era impadronita di te non potevi più chiacchierare con le colleghe, sfogliare tranquillamente la tua rivista, percorrere l’affabile labirinto di un cruciverba: qualunque cosa tu stessi facendo, dovevi smettere e asciarti sballottare su e giù, come sulle montagne russe, oppure sprofondare
    a poco a poco in certi languori dai quali ti sembrava di non poter mai più riemergere.”
    Scopro (con un colpevole ritardo) un altro romanzo che indaga la complessa fascinazione che la musica esercita su di noi: “Il pianista muto” di Paola Capriolo, Bompiani, 2009.
    Si legge ancora sulla scheda ufficiale del libro:
    “In un imprecisato paese sul mare, in Inghilterra, l’infermiera di colore Nadine trova un giovane sui vent’anni in stato confusionale e lo porta nell’ospedale psichiatrico in cui lavora, dove viene assistito. Il misterioso giovane non parla, non scrive, non ha un’identità riconoscibile, ma disegna un pianoforte, e quando viene messo di fronte allo strumento reale, nel “giardino d’inverno” dell’istituto, comincia a suonare meravigliosamente, come non avesse mai fatto altro in vita sua. Tutti i pazienti, i medici e gli infermieri che assistono alla sua esibizione ne restano profondamente colpiti, a partire dallo psichiatra che dirige il centro, il quale ne parla a un collega più anziano e in breve trasforma questo insolito caso clinico in un fenomeno mediatico di massa. La musica suonata dal giovane ha infatti uno straordinario effetto terapeutico, è in grado di “sbloccare” i pazienti dell’istituto, di metterli a confronto con il bene e il male delle loro esperienze vissute; e fra essi, soprattutto il signor Rosenthal, ex deportato nei lager nazisti, che narra la sua vicenda in cui la musica svolge un ruolo essenziale quanto ambiguo e inquietante. Mentre il mondo si interroga sul mistero dell’uomo sorto dal nulla, Nadine cerca in ogni modo di restituirgli il senso della propria esistenza. Ma il segreto che il pianista muto cela in sé è evanescente come la musica in cui egli esprime la realtà insondabile del suo inconscio.”

    Per saperne di più rimando al bell’articolo firmato da Mario Andrea Rigoni e apparso sul “Corriere” il 5 febbraio 2009, http://archiviostorico.corriere.it/2009/febbraio/05/Paola_Capriolo_musica_seduttrice_del_co_9_090205005.shtml .
    Significativa è anche l’intervista che l’autrice rilascia a Claudio Toscani per http://www.stpauls.it/letture/0904let/0904le70.htm .

  341. ciao Claudio,
    leggerò subito questo libro e poi ti dirò.
    scrivevo per dire che mi accingo a cantare De Andrè con una orchestra, era dai tempi del conservatorio che non succedeva!
    Io paragono De Andrè a Jauffrè Raudel, un trovatore, non credo che il paragone sia azzardato. Voi che ne pensate?
    a presto
    Fabio

  342. Da Monteverdi a De Andrè è un bel salto, Fabio! (Ma paragonandolo a Raudel hai già dato una chiave di lettura…)
    In bocca al lupo, raccontaci come procedono le prove e il concerto.
    E se ti viene in mente qualche buon consiglio di lettura o di ascolto, non esitare a condividerlo con noi!
    buona serata
    cl

  343. (Io intanto butto lì un altro titolo che mi ingolosisce: “Il principe dei musici”, di Giovanni Iudica, su Gesualdo da Venosa, Sellerio, 2008. Ma Iudica non è il solo a essere rimasto affascinato dalla musica e dalla vita di Gesualdo. Ecco una figura grandiosa su cui varrebbe la pena tornare.)

  344. Gesualdo fu musicalmente un grandissimo innovatore, e la sua vita ne fa un personaggio perfetto per la letteratura. Cercherò il libro di Iudica.

  345. E a proposito…
    Scopro “Diabolus in musica – Prose ed elzeviri musicali”, la raccolta di saggi e riflessioni che il poeta Giorgio Vigolo (1894-1983), poeta, sì, ma anche critico musicale, narratore, traduttore, ha raccolto negli anni e che l’editore Zandonai di Rovereto ha pubblicato nel 2008.
    Leggo nella scheda editoriale:
    “Il volume, pensato da Giorgio Vigolo già nel 1967, raccoglie una scelta di testi inediti, molti dei quali scritti per la trasmissione radiofonica Musica e Poesia. Vigolo non mira a tradurre i fatti musicali in un linguaggio didascalico e informativo, né si limita a indagarne il dato squisitamente tecnico: la sua prosa musicale racconta e genera storie, inseguendo – per dir così – il significato “diabolico” della musica, versatile musa capace di trasmigrare in altre forme artistiche, come l’architettura (che Goethe chiamava «musica ammutolita») e la poesia.
    … Vigolo apre, con i suoi atteggiamenti linguistici, le suggestioni letterarie e filosofiche, e la sua padronanza musicale frutto di estesi e meditati studi, un nuovo e illuminante spazio alla critica musicale. Brevi, veloci e di squisito gusto letterario, questi saggi restituiscono con maestria l’atmosfera poetica delle opere musicali e captano ciò che nella musica si nasconde: l’anelito di assoluto, la dimensione ritmica come memoria dei suoni e le inquietudini etiche, specie fra Barocco e Romanticismo, quando il suono – aereo e spirituale – convive con la pietra, il peccato e la morte.”
    Leggo ancora un breve stralcio della prosa di Vigolo:
    “Una frase unita e continua traversa la polvere dei ricordi come la corrente elettrica attraverso la limatura di ferro e vi disegna la linea della nostra vita. Tradotta in valori musicali essa può divenire ascoltabile in uno stato di particolare ricezione; possiamo udire il senso del nostro destino come il coro degli anni fuggiti. Certe vite suonano bene, altre vite suonano male o non suonano affatto.”

  346. Questo post dedicato a “letteratura e musica” è una vera miniera di informazioni in tema. Complimenti. L’ho letto quasi tutto e completerò nei prossimi giorni.

  347. “Lo conosci Gert Jonke?” mi scrive l’amico scrittore e videomaker Luca Dipierro dagli Stati Uniti. “Straordinario. Musicista e musicologo. Prosa che ricalca fughe, contrappunti ecc. Sperimentale e comico (alla Grosz). Incredibile. La cosa migliore che ho letto quest’anno”.
    Ecco uno spunto prezioso, da non lasciar cadere. Di Jonke avevo letto qualche anno fa “La morte di Anton Webern”, tradotto da Cristina Grazioli e pubblicato da Meridiano Zero, sulle cui pagine però avevo faticato senza divertirmi molto (la colpa, in questi casi, tendo a farla ricadere su me lettore, più che sull’autore). Ma l’entusiasmo di Luca mi ha fatto venire voglia di rileggere l’operina che credo sia l’unica cosa di Jonke disponibile in Italia.
    Per avere qualche idea in più, curiosate tra le recensioni su http://www.meridianozero.it/press/jonke1rec.htm .

  348. “La morte di Webern – mi scrive ancora Luca Dipierro dagli Stati Uniti – non è la cosa migliore di Jonke, né la piu’ rappresentativa. Che peccato che non lo traducano in Italia. Io ho letto alcune cose sue in tedesco e poi in inglese. Qui stanno traducendo tutto, piccoli editori animati da passione.
    C’è una sorta di trilogia di romanzi che sono uno più incredibile dell’altro. In inglese li hanno tradotti come “Homage to Czerny”: Studies in Virtuoso Technique, System of Vienna: From Heaven Street to Earth Mound Square, e The Distant Sound.
    Io lo trovo divertente, cerebralmente, visceralmente divertente, non lieve o piacevole, e non facile, di sicuro. I suoi incipit sono tra le prose più dense mai messe su carta, e scoraggiano la maggior parte dei lettori. Quello che fa con il linguaggio è senza pari. Se si cercano storie e personaggi, Jonke non ha nulla da offrire. Ma a livello di linguaggio, è importante quanto Beckett o Celine secondo me”.

  349. (En passant, Luca Dipierro è un eccellente esempio di artista dai molti interessi. Io l’ho definito “scrittore e videomaker”, ma questa definizione non contiene tutto: il suo amore per la letteratura e la musica si manifesta in molti modi, nella scrittura, certo, nella lettura vorace, in certi progetti editoriali, nei booktrailer che gli vengono commissionati o che realizza per passione e nei video dedicati agli scrittori; lo stesso si può dire dei suoi interessi musicali – difficile separare musica, immagini, parole nelle sue realizzazioni.
    Curiosate su http://blackbiscotti.blogspot.com/
    o su http://biscottineri.blogspot.com/ .)

  350. Ospite della puntata di Letteratitudine in Fm di venerdì, 8 ottobre, h. 12,30 è Michele Mari (Milano 1955) è uno degli scrittori italiani più stimati dalla critica.
    Massimo Maugeri discuterà con Michele Mari dei suoi nuovi libri: “I demoni e la pasta sfogli” (Cavallo di Ferro) e “Rosso Floyd” (Einaudi).

    http://www.radiohinterland.com/?q=node/6158

    Per ascoltare in streaming via Internet: http://www.radiohinterland.com/streaming/radiolimpia.asx

  351. Mari è grande, grande, grande.
    Un solo esempio: il suo racconto “Otto scrittori” che sta in “Tu, sanguinosa infanzia”.
    L’adolescente Michele Mari legge e ama otto scrittori d’avventura e di mare che è come se fossero uno solo: Conrad, Stevenson, Melville, Salgari, Verne, Poe, Defoe e London.
    Sandokan, Robinson Crusoe, l’Isola del tesoro, Lord Jim, Moby Dick, Capitano Nemo, Jack e Gordon Pym si mescolano gli uni agli altri, fra tempeste e arrembaggi, bompressi e bonacce, remi e fulmini, pirati e uragani. Ma Michele cresce e pian piano abbandonerà con malinconia uno scrittore alla volta. Fino alla scelta finale.
    E alla straordinaria conclusione che ancora una volta ribalta tutto.
    Non so se nell’intera narrativa italiana del Novecento vi sia un testo breve (trenta pagine) così bello: colto e raffinato ma leggibilissimo, perfetta sintesi di contenuto e forma, novella d’avventura ma anche riflessione sulla letteratura, incalzante e inesorabile tragedia con un lieto fine a sopresa, tristissimo e ilare, arioso e profumato di spuma di mare ma anche odoroso di ragnatelose soffitte e biblioteche dalla fragili ingiallite pagine. Un capolavoro piccolo (e l’aggettivo è usato solo per la quantità).
    Assieme al grande venesiàn Alberto Ongaro del 1925, nessuno in Italia scrive avventura come Michele Mari. Se per “avventura” intendiamo non solo suspense misteri viaggi delitti ma anche e soprattutto una letteratura davvero libera alla ricerca dei passaggi segreti che collegano tutte le nostre vite.

  352. (Ho tra le mani “Sinfonia” di Antonio Pizzuto, la versione del 1923 che Mesogea ha pubblicato nel 2005. Un testo straordinario, innervato di elementi musicali, di cui vorrei parlare tra un po’).

  353. La “Sinfonia” di Pizzuto nella stesura del 1923 (Mesogea, 2005) è introdotta da un denso saggetto di Antonio Pane, in cui si delineano i temi più propriamente filosofici, gli innesti che accomunano questa edizione con quella successiva, ampiamente rimaneggiata, del 1927 (l’ha pubblicata Lavieri giusto quest’anno), e soprattutto si dà conto della componente musicale, a cui Pizzuto conduce già dal titolo.
    Parliamo di struttura musicale, non di musica raccontata (le pagine di Pizzuto parlano di tutt’altro): la “Sinfonia” del 1923 è una vasta suite di quindici narrazioni indipendenti più una “Coda”, unite da rimandi e atmosfere. I titoli dei diversi capitoli (“I fantasmi parlanti”, “La morte del filosofo”, “La follia”, “Marinaresca”, “Le scintille”) mi ricordano certe composizioni di Gian Francesco Malipiero; anche quel divagare per analogie tematiche, quell’alludere a rimandi senza ricorrere a una vera idea di sviluppo tematico, quell’oscillare tra fantasticherie e momenti assorti, sembrano ricordare – mi ricordano – molte delle composizioni di Malipiero, e non dico quali, perché Malipiero è stato compositore fecondo, non sempre selettivo d’accordo.
    Pizzuto per la verità non aveva in mente Malipiero: piuttosto, Stravinsky, che nel capitolo “La follia” è omaggiato nel nome di uno dei personaggi, una donna chiamata Petrouchka (e Pane in una nota informa che Pizzuto aveva in mente di inviare il testo proprio a Stravinsky, con una dedica, cosa poi non realizzata). Lo stesso Malipiero avrebbe nel 1945 reso omaggio al russo con il saggio “Stravinsky” – ma sto divagando.
    (Continuo la lettura. Vi dirò poi.)

  354. Il titolo “Sinfonia” (mi riferisco ancora all’opera di Antonio Pizzuto pubblicata da Mesogea) è da intendersi come suite di riflessioni, concerto di concetti. Riflessioni, soprattutto, mai rimuginii: vi è sempre qualcosa di nobile, di compostamente maestoso in queste fantasticherie, anche nelle più bizzarre.
    Compare poca musica, nei primi capitoli di “Sinfonia”, giusto un accenno qua e là. Per esempio, per via di metafora: “la città rallenta il suo ritmo febbrile: la sua immensa orchestra allarga il tempo e gli strumenti smorzano le voci loro. Un adagio solenne, su poche corde, subentra al moto concitato di prima”. Musica vera e propria, ancora meno: solo una marcia funebre appena accennata ne “La morte del filosofo”. La fitta partitura del testo di Piazzuto è fatta più di colori e forme (e odori!) che di suoni (ma nella caverna de “L’accusato si difende” si odono urla, preghiere cantate in coro, vagiti…).
    Finalmente, ne “L’ora della sentenza”, il capitolo IX, in una digressione (ammesso che si possa parlare di digressioni in un testo così costruito) si racconta “una vecchia leggenda dimenticata”: un vecchio compositore di musica, sommerso da fasci di carte e circondato da ammiratori, che lo spiano, arrampicati fin sul tetto della casa dirimpetto, in attesa dell’Opera – di quella tale opera che sarà il suo capolavoro. Gli anni però passano, poi i lustri, le decadi: e l’opera “stava là, sotto il coltello paziente del grande artista, e si affinava, si abbelliva, si moltiplicava”. La folla di curiosi è tale che un’ordinanza della polizia proibisce di salire e assembrarsi sul tetto. Inconsapevole di tutto questo, chino sui suoi fogli, il compositore intanto lima, e Pizzuto non lo descrive come tormentato, angosciato, ma come estraniato in un suo totale esercizio di perfezione – che suona come una pratica amorosa, non un puntiglio da perfezionista.
    Quando il “vegliardo amoroso” (appunto) muore, lascia tutti nello sgomento: ma l’opera, a sorpresa, è compiuta. Si esumano le carte, un “comitato” lavora giorno e notte all’edizione. In segreto, per un pubblico febbrile, si prepara l’esecuzione. Essa avviene, entusiasma dapprima. Ma poi, a cose fatte, “un senso profondo agghiacciò i cuori. Non era delusione… era dolore, un dolore cocente, di cui pochi riuscivano a spiegarsi le cause…”. Quell’esecuzione sembra ad alcuni una profanazione.
    Il racconto è interrotto dallo sviluppo degli eventi.
    Ma io vado avanti.

  355. Un’altra descrizione che dimostra la parca ma acuta sensibilità musicale di Pizzuto la trovo nel lungo “Nei fianchi della montagna”: quasi all’inizio, il passaggio quotidiano dei carcerieri per il controllo delle sbarre di ferro delle finestre di una prigione viene descritto così: “Il controllo aveva un ritmo musicale, che faceva risuonare per i vasti cameroni un dolce tema pastorale, monotono, un po’ gaio, un po’ triste, simile alle note suscitate sul violino percuotendolo con l’archetto”.
    Ma è “Il Maestro di cappella” il racconto più fortemente incentrato sulla musica: dopo un sublime concerto di antica musica polifonica, il maestro, un Cardinale, un Generale e altri durante un banchetto discettano di musica antica e moderna – dei fondamenti filosofici e di aspetti tecnici. Ne parlerò ancora, portate pazienza, perché qui Pizzuto dimostra una grande curiosità per quanto di musicale gli avveniva attorno negli anni della stesura di “Sinfonia” – e finalmente Pizzuto “racconta” la musica, o meglio lascia che i suoi personaggi ci ragionino su.

  356. Caro Claudio, sono certo che da questi tuoi appunti (ed ottimi spunti) ne verrà fuori un bel saggio.
    In settimana, salvo imprevisti, ospiteremo Massimiliano Nuzzolo e il suo nuovo libro letterario/musicale.

  357. (Grazie, Massimo… Intanto, proseguo con Piazzuto e il suo “Sinfonia 1923”, ripubblicato nel 2005 da Mesogea).

    “Il maestro di cappella” si apre con un solenne concerto di musica polifonica in una “cattedrale normanna”. Pizzuto descrive il mistero di un linguaggio che percorre gli spazi vasti delle navate dopo essere nato quasi dal nulla. “Il coro, invisibile, diviso in due semicori di quattro parti ciascuno, intonava la magnifica polifonia del Cinquecento. Ai fedeli giungeva, attraverso il flusso lento delle brevi gregoriane, il contrappunto meraviglioso dei soprani, dei contralti, dei tenori. Poi, sull’arsi estrema, si destava l’altro semicoro e, mentre il primo taceva, il cantofermo tornava, fra nuove cantilene, ora di tutti, poi di parti isolate, poi di soli, poi di insieme ancora, e non era spenta una parte che l’altra si accendeva, improvvisa, dopo una pausa, e, dopo un’altra ancora, si svegliavano i contralti, e otto vene di canto, otto splendide vene, serpeggiavano, si incrociavano, talvolta, si respingevano l’una con l’altra nel giuoco iridescente delle pause e delle entrate inattese, degli inseguimenti inani o, improvvisamente, vittoriosi, quando il coro intero cantava tutto insieme, avvinto in unico palpito possente, e l’edificio appariva tutto intero e compatto, nella sua piena luce diatonica”.
    La lunga citazione serve a mostrare come Pizzuto descriva la musica: è una lingua misteriosa, governata da leggi che sfuggono ai più, dotata di una bellezza che si può definire solo per analogia, e di un fascino che solo per sinestesie si può spiegare, che attraversa gli spazi, gioca con il tempo, penetra la nostra percezione, fluisce a ondate, si muta in silenzio, ci trasforma – senza che sappiamo perché. Per ottenere questo effetto Pizzuto ricorre a qualche tecnicismo, a metafore organiche (le “vene di canto”), e appunto a sinestesie (l’ultima, la “piena luce diatonica”, ribalta il gioco, e definisce un elemento visivo con il ricorso a un termine musicale).
    Ma ecco che la suggestione di quel canto viene subito contraddetta da un passaggio che si colora di paradosso: “un intendente di finanza… mormorò a un suo vicino, un vice-intendente, di avere notato, dianzi, una falsa relazione, al che il vice-intendente rispose, confermando, di avere nettamente percepito il tritono e le quinte per moto retto. Un brivido di orrore serpeggiò allora per le vene di entrambi”. Questa scenetta caricaturale sembra fare a pugni con il passaggio precedente, tutto giocato sul fascino ineffabile della musica esercitato sui fedeli accorsi nella cattedrale. Ecco due esperti che hanno un approccio razionale, tecnico anzi, e sanno riconoscere ad orecchio quelle proibizioni che l’armonia e il contrappunto tradizionali hanno imposto. Il loro borbottio anticipa lo sviluppo successivo del racconto, la diatriba puntigliosa sui fondamenti della musica che coinvolgerà altri personaggi ben più titolati di loro assieme al maestro di cappella del titolo.
    Inconsapevoli del puntiglio con cui alcuni ascoltano, il coro continua a cantare “la polifonia grave e risplendente di tutti i bagliori”. Ecco un’altra immagine che sarebbe piaciuta a Malipiero e agli altri della generazione dell’Ottanta: “Era la nave al varo: libera di tutti i puntelli, scivolante sullo scalo, e poi sull’acqua, lontana, ormai, dal cantiere in cui fu costruita”.

  358. Il dibattito, si diceva (nei miei interventi precedenti). Un Generale sostiene la purezza dell’arte del Rinascimento, e cita il gusto della musica moderna solo per definirlo “melenso”. Per lui, quella purezza ha cominciato a incrinarsi già con Bach e Rameau, con l’arrivo di una sensibilità scientifica, che ha “mutilato l’organismo meraviglioso (la musica pura del Rinascimento, appunto, nrd.), costretto il suo largo e molteplice respiro a una cruda e sterile meccanica che l’ha intristito e rimpicciolito”. Il discorso reazionario del Generale ha un bersaglio in particolare, l’accordo di settima di dominante, “un colpo di vento che, invece di aprire le porte socchiuse, le ha asserragliate, sbatacchiando e chiudendo pure tutte le finestre” (to’, chi si vede, la settima di dominante: permettetemi un accenno vanitoso al ponderoso saggio sulla settima di dominante a cui, nel mio “Rapsodia su un solo tema”, lavora da anni il minuzioso Carl Thalberg…).
    Dà man forte al Generale un Cardinale (tutte queste maiuscole sono in Pizzuto) con un discorso di tronfia pregnanza filosofica. Sommessamente, il maestro di cappella (minuscolo, lui, e non a caso) continua a sostenere la necessità di uno sviluppo nel linguaggio, fino all’esplorazione della atonalità (“Dialettica” lo chiama con spregio il Cardinale, “quella dialettica che soffoca tutta l’arte”, lontana mille miglia dalla pura “sintesi” della polifonia prebachiana).
    Il maestro: l’atonalità “può essere semplice dialettica, ma ho fede che possa essere anche arte pura”. L’orecchio può seguire la musica in questo sviluppo verso regioni non ancora esplorate, e questa musica “potrebbe piacere, purché i pregiudizi e le tradizioni tacessero, purché la rieducazione fosse stata fatta per intero… e soprattutto, purché fosse un vero artista a produrre una vera sintesi nuova”. Il maestro man mano si scalda, prende coraggio, ipotizza una umanità che “tende irresistibilmente verso questa forma nuova”, e un’arte che di questa nuova umanità è specchio.
    Musica e filosofia (e una certa dose di retorica) di gusto primonovecentesco pervadono queste pagine intense e paradossali – alla fine, sentiamo che le riflessioni di Pizzuto ci sono molto meno lontane (nel tempo, nello spazio) di quanto l’indeterminatezza dell’apologo voglia farci credere.

  359. Come tutto questo materiale – assieme a molto altro – finisca nella “Sinfonia 1927-28” (quest’anno ripubblicata da Lavieri) lo chiarisce bene l’introduzione di Antonio Pane all’edizione ’23 di Mesogea. E a questa introduzione, a cui ho abbondantemente attinto, rimando per ogni ulteriore chiarimento. Ricordo solo che nel ’27 il richiamo del titolo si fa più letterale: obbedendo a una sorta di “retour à l’ordre” Pizzuto redige una vasta partitura di parole nei classici quattro “tempi” autonomi, riconducibili tutti alla “forma relativamente libera di una Sinfonia musicale”, più una Coda (la stessa che compariva nel ’23).
    “Sinfonia” è una parola potentemente suggeritrice, “una fiaccola che non si estingue” scrive Pane, per Pizzuto, che tornerà a usarla altre volte (l’ultima, leggo sempre in Pane, nel 1966).

  360. Caro Claudio,
    mi elencheresti (in uno dei prossimi commenti) tutti i libri a cui si è fatto cenno nell’ambito della discussione?
    Appena possibile aggiornerò il post inserendo l’immagine delle copertine (cliccabili) con link a schede sui libri.

  361. Grazie, Claudio.
    A me toccherà il lavoro “informatico” di aggiornamento del post. Ma in tal modo i libri citati godranno di maggiore visibilità.
    E potrebbe davvero essere, questo spazio, un punto di riferimento per appassionati.

  362. Caro Massimo, ora che il nostro provvisorio elenco di titoli è al suo posto, cominciamo subito a confondere le acque con qualche aggiunta…
    Per esempio. Bernard Lechevalier, neurologo, neuropsicologo, musicista, affronta la complessità del mondo musicale di Mozart ne “Il cervello di Mozart” (Bollati Boringhieri, 2006): indaga il mistero della prodigiosa memoria mozartiana, discetta sulla straordinaria sensibilità dell’orecchio (di Mozart in particolare, del musicista in generale), esplora il territorio della intelligenza musicale (o delle intelligenze musicali), suppone fobie e disturbi… La sua competenza musicale conferisce precisione al saggio; una bella capacità divulgativa (quasi narrativa) dona immediata leggibilità. Ecco perché gli perdoniamo attacchi come, che so, “Da dove derivava l’avversione del giovane Mozart per la tromba…? Si tratta di una paura fobica o di un’epilessia musicogenica?”
    Ho ripreso in mano Lechevalier perché l’uscita presso Adelphi di “Musicofilia” di Oliver Sacks me lo ha fatto tornare in mente. Riparleremo dell’ultimo Sacks più avanti, se volete.

  363. Intanto ho aggiornato il post inserendo notizie sul nuovo libro curato da Massimiliano Nuzzolo, che sarà ospite di questo luogo – dedicato al rapporto tra letteratura e musica – nei prossimi giorni.
    Inserisco le suddette informazioni anche nel commento a seguire.

  364. Il titolo di questo nuovo libro curato da Massimiliano Nuzzolo è “La musica è il mio radar“ (Mursia, 2010).
    Segue la scheda…

    Tra fiction e realtà, diciannove autori famosi e meno famosi, giovani e meno giovani, scrivono di se stessi per rendere omaggio alla musica. Ne emerge un incredibile e variegato universo sonoro, a volte quasi impercettibile, pacifico e di sottofondo, altre volte dirompente e rumoroso, altre ancora divertente, spiazzante, ma sempre lì, a meno di un passo da noi, ben presente come un abbraccio, come un singolare compagno di viaggio dell’esistenza.
    Dai dischi in vinile al mitico Walkman degli anni Ottanta, dalla musica come riscatto sociale e mezzo di comunicazione all’attuale processo di globalizzazione sonora e di saturazione del mercato, da Battisti, De Gregori e Tenco a Kurt Cobain e Bob Dylan, ricordi di infanzia, di tempi e luoghi lontani si mescolano in narrazioni oniriche e romantiche tra zarzuela e rock’n’roll.
    Diciannove racconti che parlano di musica e di vita e di come la prima sia importante per la seconda, perché capace di legare imprescindibilmente a sé i momenti più indimenticabili dell’esistenza di ogni essere umano
    .

  365. Nell’operazione musico-letteraria di Nuzzolo sono stati coinvolti: IVANO BARIANI – RICHARD BLANDFORD – FEDERICA DE PAOLIS – MARCO DI MARCO – RENZO DI RENZO – ELISA GENGHINI – TEO LORINI – ANDREA MALABAILA – IGNACIO MARTÍNEZ DE PISÓN – FEDERICO MOCCIA – RAUL MONTANARI – GIANLUCA MOROZZI – GIULIO MOZZI – PAOLO NORI – MASSIMILIANO NUZZOLO – TOMMASO PINCIO – MARCO ROSSARI – UGO SETTE – MAREK VAN DER JAGT

  366. http://www.ofalo.it – curiosità – satira e web
    è un portale che seleziona le notizie più curiose del web, un luogo virtuale in cui dare spazio ai gruppi musicali e alle attività della città di Foggia. Un monolocale con due finestre adiacenti, una sul cortile di casa, l’altra sul mondo

  367. Eccomi! L’antologia Mursia curata da Massimiliano Nuzzolo appare davvero interessante, per i nomi coinvolti e per i temi, oltre che per lo scopo. Spero di poterne parlare presto con Massimiliano, e magari con alcuni degli autori presenti.

  368. Buongiorno a tutti
    e grazie di cuore a Massimo e a Claudio per averne dato notizia.
    LA MUSICA E’ IL MIO RADAR uscito per Mursia qualche giorno fa con la partecipazione degli autori segnalati da Massimo nei post qui sopra.
    Mi scuso per il ritardo con cui intervengo, ma sono giorni parecchio stressanti (abbiamo appena chiuso Mestre per le strade, Massimo ne sa qualcosa, e va in stampa oggi) e mi scuso tantissimo sempre con Massimo per il ritardo nella spedizione del libro. Posso solo dire che non dipende da me e che mi auguro arrivi presto.
    Venendo al progetto LA MUSICA E’ IL MIO RADAR tengo in modo particolare a dire che tutto è nato da due mie sincere passioni: Letteratura e Musica. L’idea è stata quella di coinvolgere amici autori nei cui lbri avevo letto, tra le righe o più chiaramente, di Musica, e li ho invitati a intervenire nel progetto con testi nei quali si parlasse di un momento della loro vita in cui la Musica era stata importante. Sì, perchè in quei giorni ragionavo sul fatto che la musica (e per estensione l’arte tutta) è importante alla sopravvivenza intellettiva, anche se spesso passa in secondo, terzo, quarto piano, magari può appare come una banalità, tanto da dimenticarci di considerarlo però, e visti i giorni che viviamo con tagli alla Cultura, all’Università, ecc. sarebbe bene scriverlo su post it fluorescenti, da incollare ovunque…
    Da lì il passo per coinvolgere AMREF, l’associazione umanitaria che opera in Africa e che riceverà le royalties del libro, è stato brevissimo. La musica, da una parte, importante per la vita intellettiva, e l’acqua, dall’altra, come elemento indispensabile per la conservazione della vita biologica sul pianeta. Mi era capitato di vedere delle immagini girate in Africa ed ero rimasto sbalordito. Non riuscivo a capacitarmi che nel terzo millennio ci fossero intere popolazioni con difficoltà enormi per raggiungere l’acqua, semplicemente per bere, acqua alla quale io -noi- ogni giorno accedo semplicemente aprendo un rubinetto.
    Mi aveva colpito la frase di AMREF: “Portiamo l’acqua dove non c’è”.
    E per questo motivo con il ricavato del libro contribuiremo a finanziare i progetti idrici nei distretti di Kaijado, Kitui e Makueni in Kenia. Mi auguro possa essere soltanto l’inizio.
    Credo sinceramente sia un bel progetto, nato dal basso e non per volere di un editore, ospitato gentilmente da Mursia, un progetto al quale tutti gli autori hanno aderito con gioia e gratuitamente, partecipando con dei brani davvero notevoli che rendono questo libro un ottimo progetto letterario e che mi auguro possa avere dei buoni sviluppi proprio per ciò che si prefigge, il camusiano proposito di rendere la letteratura utile all’umanità.
    Inserisco qui il link di Amref dove potrete trovare informazioni dettagliate su ciò che l’onlus fa in Africa ormai da molti anni. http://www.amref.it
    Grazie a voi tutti
    Massimiliano
    ps: Confermo Mari è un grande, mi piacerebbe tantissimo averlo nella Musica è il mio radar n° 2 🙂

  369. Nelle parole di Massimiliano mi colpisce l’idea di condivisione (dell’importanza dell’esperienza musicale) attraverso la scrittura, prima all’interno di un gruppo di amici, poi della cerchia più larga dei lettori; poi mi colpisce la trasformazione di queste testimonianze di una passione in voci solidali attorno a un progetto di aiuto. La musica e la letteratura che si fanno acqua. La letteratura e la musica che provano a essere utili (immediatamente, concretamente, materialmente) all’umanità.
    Mi sembra una bella lezione per chi troppo spesso deliba la musica (e la letteratura) in un gioco solitario.

  370. Intervengo “fuori tempo” e forse anche un poco stonato. Pur avendo scritto e cantato molte canzoni e al contempo aver scritto romanzi, e pur essendo d’accordo con quanti hanno ricordato la musicalità delle parole e i ritmi di un scritto, ritengo che i due linguaggi non siano confrontabili, soprattutto se si parla non di canzoni, ma di musica pura. In una sua classifica delle arti, Oscar Wilde piazzava la musica al primo posto, seguita se non ricordo male dalle arti figurative, e solo dopo collocava la letteratura. Ciò in ragione di diversi fattori: 1. l’universalità della musica, che non richiede d’essere tradotta; 2. La permanente attualità sorgiva della musica che attraversa le barriere del tempo (storico) e dello spazio (geografico) in quanto esperienza sensoriale ; 3. l’astrattezza della musica in quanto metamatica sonora, o armonia delle sfere, come si diceva all’epoca; 3. La concretezza della musica, nel senso della sua assoluta trasparenza emotiva; 4. Il carattere occulto della musica che significa senza esprimere significati, nè univoci nè ambigui; 5. L’immediatezza apparente della musica che nasce però dalla mediazione dello strumentazione, una strumentazione assai diversa dagli strumenti che si usano per la scrittura e che richiede capacità esecutive che coinvolgono la manualità in modo direttamente espressivo. Potrei andare avanti, ma questi sono i punti essenziali. Aggiungo che d’altro canto la musica è anche linguaggio e che per compenderne il linguaggio non è sufficiente coglierne l’effetto emotivo. Per gli europei colonialisti, il suono dei tamburi africani era pura percussione selvaggia, semplicemente perché non erano in grado di comprenderne la natura di segnali e di comunicazione anche informativa. Per gli occidentali comuni , più utenti che conosctori di musica, la musica è linguaggio in quanto melodia, vedi i giudizi svalutativi e davvero allucinanti di un grandissimo intellettuale come Antonio Gramsci sul jazz da lui qualificato (in forza degli elementi ritmici e armonici) come linguaggio primitivo di selvaggi (lo so che è roba da non credere, ma proprio così scriveva, e anche di peggio, nei suoi Quaderni). Ultima, piccola notazione in proposito: l’ignoranza anche degli intellettuali, rispetto agli elementi linguistici della musica, degradata puramente a “sensitività”, è oggi percepibile su moltissime radio di impostazione giornalistica, parlo di quelle fitte di inchieste serie, dibattiti più o meno raffinati, rubriche su libri, scienza, cultura varia eccetera eccetera. Lo sentiamo tutti come si usa la musica in queste trasmissioni radiofoniche “colte”: la si usa come intermezzo rilassante tra diluvi di parole, la si usa anche come sottofondo, parlandoci sopra, o la si usa troncandola magari a metà o dopo poco, non appena esaurita la sua funzione di “pausa/passaggio”. Questa è una cosa che personalmente mi manda in bestia. La musica è anche linguaggio e comunicazione, non è una sguattera della parola. Ecco perché ho voluto ricordare l’opinione di Oscar Wilde, che scriveva romanzi e lavori teatrali, ma considerava la Musica come l’espressione artistica più alta e universale.

  371. Gianfranco Manfredi, a cui do il benvenuto, mette un bell’ordine nel materiale magmatico che si è accumulato fin qui in questo forum. E le sue puntualizzazioni giungono opportune. Le condivido nella sostanza tutte, a partire da quanto ha scritto Wilde. La musica è un linguaggio che parla di se stesso, che comunica solo se stesso. A questo proposito qualcuno – fior di musicisti, intendo – mette in dubbio che la musica si possa definire un linguaggio, in quanto essa prescinde proprio da alcuni aspetti più propriamente comunicativi.
    (Io, per parte mia, continuo a sospettare anche che parlare di universalità della musica sia ricorrere a una formula ambigua e insoddisfacente, oltre che legata a un certo eurocentrismo.)
    Ora, mi chiedo, dopo tutto questo: si può condividere la musica, la si può amare per quello che è, e non solo per quello che noi fingiamo che sia, o per quello che è per noi e noi soltanto? Se ne può parlare? La si può raccontare? Se ne può condividere l’esperienza? La si può “cantare”, la musica?
    Questo forum ha provato e prova a raccogliere spunti attorno a questo tema. Ma c’è ancora molto da dire.

  372. Sì, hai ragione Claudio. Purtroppo va detto che molti letterati e uomini di cultura (ho citato Gramsci, ma l’elenco sarebbe lungo) non conoscono la musica se non come ascoltatori. Ricordo vagamente un romanzo uscito anni fa di Roberto Cotroneo con al centro non so quale partitura. Ne lessi una recensione di un critico musicale che metteva in evidenza errori colossali. a partire dalla scuola, siamo condotti fin da piccoli a collocare la musica nella sezione del “diletto” . Ora, non dico che si debba per forza tornare a Pitagora, però è paradossale che nella cosiddetta “patria del bel canto”, che ha dato al mondo musicisti immensi, ci sia tanta ignoranza rispetto alla musica. Dunque ben vengano i romanzi che parlano di musica, ma bisogna augurarsi che chi li scrive si prepari adeguatamente. Ciò avviene assai di rado. In forza della falsa idea (hai perfettamente ragione) dell’universalità/sensoriale si suppone che la musica basti ascoltarla, che non sia fondamentale, ad esempio, saper leggere una partitura d’orchestra. Neppure si spiega perché certa musica (a dispetto della presunta universalità) ci risulti assai ostica, ad esempio la musica classica cinese, ma anche la nostra stessa musica, d’epoca romana o pre-rinascimentale. Ma avvengono cose ancor più sorprendenti. se leggete molti testi di storia della canzone italiana, vi renderete conto come la lettura critica delle canzoni sia spesso limitata al testo , al con-testo sociologico e al personaggio cantante, ma nulla si dica della composizione, quasi che la musica sia un tappeto su cui piazzare della mobilia e che di per sè (anche come musica scritta) sia esornativo analizzarla. Tutti si ritengono competenti nell’esprimere il proprio gusto musicale, ma le basi tecniche minime si continua ad ignorarle. Questo vale persino per i cantanti (anche d’opera, non solo di musica leggera) , la gran maggioranza dei quali non è assolutamente in grado di leggere uno spartito. Nella tanto vituperata America, che tanti nostri presunti intellettuali eurocentrici considerano la Patria dell’ignoranza, ciò non accade. L’educazione musicale è diffusissima. Scontiamo dunque un enorme ritardo storico e culturale. E spesso anche scrittori competenti, non se la sentono di affrontare il tema “musica”, perché temono (non a torto) che poi i lettori non ci capirebbero niente e dunque dovrebbero infarcire il romanzo di spiegazioni. Carmelo Bene propose un altro metodo e cioè quello di enfatizzare la sonorità del linguaggio mutandolo in musica… apriti cielo, perchè le sue letture, che parevano dissolvere il “significato” (nel senso di contenuto) parevano a molti anti-estetiche, quando invece dell’estetica erano il trionfo. Ciò illumina un effetto collaterale dell’ignoranza musicale: la sottovalutazione o addirittura il dispregio per lo stile, anche letterario. Si va, scrivendo, alla ricerca di parole “chiare” in riferimento al contenuto e si svaluta la musicalità del testo. Quando cominciavo a scrivere romanzi, la grandissima editor Grazia Cherchi, mi invitava sempre a rileggere ad alta voce quanto avevo scritto. E’ un’esperienza fondamentale, perché dicendo” un testo si impara quanto lo si può migliorare. Si impara a sentire se una battuta è impronunciabile, se “non sta in bocca”, se contiene assonanze fastidiose. E dunque si impara a lavorare sullo stile. Badare allo stile non significa affatto scrivere la “bella pagina” fine a se stessa, che magari lirizza un paesaggio, una nevicata (questa della nevicata è un classico) , con le cosiddette “immagini poetiche”. Non è questione di immagini descrittive, è questione di sonorità della parola. Una litigata è più espressiva se i due che litigano usano parole dal suo aspro (per dire). Invece, non so se ci avete fatto caso, soprattutto nei romanzi italiani, tutti i personaggi tendono a parlare nello stesso modo e non usano nemmeno varianti a seconda del “tono” della conversazione. Se si legge Dickens in originale si resta stupiti da quanta perizia musicale e sonora metta in campo nei dialoghi. Come mai l’Italia che è stata nei secoli la patria dell’estetica, ha così svalutato la lingua e la sua musicalità, avvilendo tutto al contenuto informativo ? Perché mai quando si recensisce un libro e anche quando l’autore spesso ne parla in una conferenza, si finisce sempre e soltanto per parlare degli argomenti proposti da quel libro e mai del suo stile, della qualità, anche sonora, della sua prosa? Ricordo quando ero bambino e la televisione era ancora in bianco e nero, l’effetto che mi fecero le letture che Ungaretti faceva delle sue stesse poesie. Non si trattava di una lettura da attore, né di una lettura che rimarcava il contenuto, ma di una lettura che enfatizzava le scelte sonore. Una lettura che poi si prestò anche alle parodie di Noschese. Una lettura tuttavia affascinante, perchè consentiva finalmente di intendere l’aspetto che il poeta riteneva più importante del suo lavoro.

  373. Come accade nelle jam session musicali, dove chi suona improvvisa e si aggancia a un tema lanciato dagli altri, io ti aggrappo a una suggestione avviata da Manfredi.
    E lo faccio da appassionato ascoltatore di musica (soprattutto rock, ma anche jazz, blues, classica…che senso hanno le etichette?) e da lettore-giornalista-scrittore.
    A volte, per evitare di scrivere un dialogo orribile (o per renderlo un po’ meno goffo), basta un semplicissimo accorgimento: rileggerlo ad alta voce.
    E, subito, ciò che nel silenzio della carta scritta poteva sembrare accettabile, ascoltato mediante il suono della voce appare impietosamente per ciò che è: uno schifo.
    Ecco allora che il primo rapporto tra letteratura e musica credo sia proprio questo: non le citazioni di canzoni o musicisti che fanno “atmosfera”, non l’evocazione di musiche per fungere da sottofondo alle parole, non il richiamo delle musiche dell’epoca o dell’anno giusto, bensì il puro e semplice suono delle nostre parole scritte.

  374. @ Massimiliano Nuzzolo
    Complimenti per lo scopo benefico di LA MUSICA E’ IL MIO RADAR.
    Aggiungo che l’altro volume a cui Massimiliano faceva riferimento (Mestre per le strade) rientra nel più ampio progetto letterario/editoriale portato avanti dalla casa editrice Azimut (anche questo è un progetto no profit) intitolato “Citta per le strade”.
    L’anni scorso ho avuto il piacere di curare il volume “Roma per le strade“.
    Ne abbiamo parlato anche qui: http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/10/26/citta-per-le-strade/

  375. Gianfranco, hai ragione a tua volta (mi riallaccio alla prima parte del tuo ultimo intervento): la musica è trattata maluccio (nella scuola, dai mezzi di informazione, nella vita quotidiana); e non sempre chi racconta la musica ha tutta la competenza per farlo. Quando ci imbattiamo in un romanzo scritto da un musicista vero (che so, “La dura spina” di Renzo Rosso), la competenza di scrittura e la familiarità con gli aspetti più formali del linguaggio musicale ci colpiscono profondamente. Rosso ha saputo mettere al servizio di una storia, di personaggi veri e complessi, la sua esperienza di musicista: e ha eletto la musica a personaggio principale, levandole quella funzione un tantino imbarazzante di mobilio e arredamento da salotto buono che essa rischia di avere in altri casi anche illustri.
    Ora, non credo che sia necessario essere musicisti patentati per poter scrivere di musica (mi tirerei la zappa sui piedi): ma sono convinto anch’io che, nel raccontare la musica (la vita dei musicisti, cioè, la gestazione delle opere, i dilemmi interpretativi, gli ambienti musicali, il pensiero della musica, la percezione di essa…), giovi un certo grado di competenza. Competenza unita a sensibilità, d’accordo; e a discrezione, nel senso di ricerca della giusta combinazione tra precisione tecnica e approssimazione figurata (“raccontare” la musica è sempre un’approssimazione, un esprimersi per figure, appunto, un alludere – il che ha la sua suggestione, certo, e può anche sortire effetti singolari).
    La musica “spaventa” i lettori? Be’, temo anch’io di sì. Molti che si dicono attratti dalla musica sono in realtà legati a un’idea ancora romantica di musica, tutta sentimenti e grandi gesti, a un intimismo eroico (o a un eroismo intimista): in sostanza, alla parte migliore di noi e al senso di mistero che la permea. Ma non appena un testo tenta di superare questa visione e scandaglia, pur con l’inevitabile approssimazione di cui sopra, la musica nelle sue componenti linguistiche, nella sua specificità, ecco che in molti lettori (mancati) sopravviene un sentimento di timidezza, di inadeguatezza, di frustrazione. Sto generalizzando, naturalmente: non per tutti i lettori questa inadeguatezza diventa rifiuto (l’ho verificato, per mia fortuna, di persona). Ma è sicuro che “raccontare” la musica in quanto musica, in Italia, è una bella scommessa.

  376. Mi è tornata alla mente una bizzarra antologia di racconti pubblicata a suo tempo da Leonardo Mondadori (1990), libro ormai introvabile e la cui ristampa credo sia più che improbabile, a causa delle complicazioni che ne seguirebbero per l’acquisizione diritti. Il libro era stato scritto a scopo benefico (Amnesty International) e si intitolava “Canzoni”. Ciascuno dei narratori ospitati prendeva le mosse da una canzone (o più) per scrivere un racconto. La squadra non era mica male: Marco Lodoli, il sottoscritto, Enrico Palandri, Pier Vittorio Tondelli, Giorgio van Straten. Scegliemmo queste canzoni : Like a rolling stone di Bob Dylan (Lodoli), Foxy Lady di Jimi Hendrix (io), Je t’aime moi non plus di Serge Gainsbourg (Palandri), Small town Boy dei Bronski Beat (Tondelli), brani di Sgt.Pepper dei Beatles (Van Straten). Curioso esperimento che aveva chiamato a raccolta autori allora intesi come “generazionali” ( pare che in Italia si entri in letteratura a blocchi) e che mise in luce oltre alla grande varietà espressiva (dal racconto autobiografico, prevalente, ma con diverse sfumature, dal cronachistico al favolistico, a quello visionario-horror , e di chi volete che si tratti?) anche un’evidente concordanza: nessuno di noi scelse una canzone italiana, e quando un editor della Leonardo propose come titolo quello di una canzone di Lucio Battisti, ci opponemmo all’unanimità (strani tempi, eh? Eppure erano i 90, non i 70!). Il mio racconto era una specie di gotico contemporaneo, ma anche in esso c’erano elementi di vissuto personale (dato che da ragazzo avevo passato diversi mesi a Londra, negli stessi quartieri che descrivevo nel racconto). Dunque si può dire che tutti quanti noi, scrivemmo sulla stessa cosa: l’intreccio tra una canzone in particolare o tra le canzoni in generale e la nostra esperienza di vita quotidiana. In questo caso dunque, il “senso” di una canzone, il suo “linguaggio” , esce dall’ambito della canzone stessa: si parla e si narra delle sue “ricadute” sulla vita. Cioè le canzoni sono una traccia di percorso tanto individuale, quanto di gruppo, e si iscrivono in una Storia (personale quanto collettiva). Mi pare che questo spontaneo approccio (non discusso prima tra gli autori) costituisse di per sè una differenza rispetto all’atteggiamento puramente “sentimental-romantico” nei confronti della musica, ma anche una totale contrapposizione all’idea della musica come “colonna sonora” , come mero “sfondo” , tanto essa era per noi intrecciata all’esperienza, al biografico. Sarebbe bello ripescare questo libro, anche se purtroppo come ho detto, credo sia tutt’altro che facile recuperarlo.

  377. Postilla. L’atteggiamento rispetto alla canzone proprio dell’antologia di cui sopra, a prima vista parrebbe essere parallelo e per molti versi anticipare un vezzo del cinema italiano attuale: usare le canzoni come titolo per dei film che spesso e volentieri (vedi l’appena uscito Figli delle Stelle) non hanno proprio nulla a che vedere con la storia narrata nel film stesso (magari nella scelta di Figli delle Stelle ci sono richiami ironici incrociati al terrorismo da poveracci, ma comunque del tutto estrinseci). Credo che invece questo parallelismo non ci sia affatto, anzi che si tratti nel caso del cinema “giovanilistico” attuale di una scelta di comodo: poiché gli attori non sono popolarissimi, i registi sono degli sconosciuti, il film al massimo è “carino” ma privo di una propria forza espressiva e di uno stile riconoscibile, ci si aggrappa al titolo di una canzone nota come “richiamo per le allodole”. Cioè: un nuovo uso bassamente strumentale della musica. In assoluta totale contrapposizione, resa più evidente dalla distanza storica e dall’altezza del riferimento, si può citare la Sonata a Kreutzer di Tolstoi. Il titolo non è stato scelto per “riconoscibilità”, né tantomeno per sfoggiare cultura musicale. Nel testo, la sonata di Beethoven, musica tipicamente romantica, viene eseguita in duetto e prelude a una storia di adulterio. In altre parole è una riproposizione della storia di Paolo e Francesca, nella quale però non è un libro (le lettere tra Abelardo ed Eloisa) a far da galeotto, ma una composizione musicale. E’ interessante questo spostamento. In qualche modo Tolstoi insinua che per la sensibilità moderna, il “luogo” del sentimentale, non è più il Romanzo, ma la Musica. Inoltre, Tolstoi sottolinea anche che nel nostro riferimento alla musica è centrale non il sentimento in generale, ma l’Amore. E anche questo è un fatto su cui meditare, al di là degli strumentalismi.

  378. Non posso che condividere ciò che scrive Gianfranco Manfredi.
    Oscar Wilde poi è stato una sorta di maestro a distanza…
    Massima stima per te e per i tuoi libri Gianfranco.
    “Canzoni” era un bellissimo tentativo di portare la musica sulla pagina, e mi auguro che anche “La musica è il mio radar” possa proseguire ciò che avete iniziato prima di me (ero piccino in quegli anni, eh…)

  379. Belli gli interventi di Gianfranco Manfredi! Ringrazio lui e Massimiliano Nuzzolo che hanno arricchito di spunti e riflessioni il forum in questi giorni. Presto finirà la mia latitanza, e potrò tornare a pontificare… Per il momento, un saluto a tutti.

  380. Però una segnalazione posso farla subito: Brahms, Schumann, Clara Schumann nata Wieck. E ho detto tutto. Attorno a questo trio di personalità fortissime Luigi Guarnieri ha scritto un romanzo appena pubblicato da Rizzoli, “Una strana storia d’amore”. Ne riparleremo di sicuro.

  381. (Nel frattempo…)
    Che godimento leggere le lievi pagine che Stendhal dedicò a Mozart in varie occasioni, e che vedo raccolte in un’edizione Passigli del 1998! Stendhal, è noto, nutriva per la musica una passione smisurata, e frequentava quanto più poteva e dove il bel mondo musicale, prendendo posizione con forza, esaltandosi per questo e per quello, polemizzando con quegli altri; certo, la sua passione non si reggeva su solide conoscenze teoriche o tecniche, ma appunto sul gusto, sull’intuito, e su una acuta capacità di cogliere la grandezza del genio e la novità di linguaggio – e di riconoscere in altri campi, insomma, dei fratelli o dei complici suoi pari.
    La patria della musica era per Stendhal l’Italia, almeno dal punto di vista della melodia, del canto, del bel canto anzi – era l’Italia della Scala, e di figure come Cimarosa prima e Rossini poi. Ma dell’Italia Stendhal sa cogliere anche i difetti, il provincialismo, l’incapacità di adeguarsi alle novità di linguaggio provenienti dal continente ed espresse da Mozart, la sordità nel cogliere la grandezza di quest’ultimo. Le pagine dedicate a Mozart ed estratte dalla “Vita di Rossini” del 1823 sono deliziosamente crudeli, quando descrivono il sottobosco di musicisti e personaggi da salotto che non si accorgono del giovane austriaco o ne deridono lo stile, le orchestre che non sanno suonarlo, ne storpiano la musica riducendola a una specie di sinfonia di Haydn eseguita da un branco di dilettanti, il formarsi di partiti pro e contro (in minoranza i primi, in decisa e roboante maggioranza i secondi). E certo il breve resoconto delle prove segrete e prolungate (sei mesi per i soli orchestrali!) dei principali pezzi d’assieme del “Don Giovanni” nel palazzo di un nobile appassionato di musica “ma un po’ scriteriato”, culminate infine nella prima seria esecuzione italiana, rivelatrice di ciò che era davvero (o avrebbe potuto essere) la musica di Mozart, meriterebbe da sola di essere raccontata di nuovo, e con dovizia di dettagli, magari in un romanzo storico (ma forse qualcuno ci ha già pensato, e io non lo so).
    Di Mozart Stendhal amava le avventure imprevedibili dello stile (lo stesso senso dell’“avventura” sonora che coglieva nelle improvvisazioni vocali del bel canto, negli equilibrismi delle arie di Rossini). A illuminare questo aspetto, e in generale la sensibilità stendhaliana, pensa la breve introduzione di Enzo Siciliano, intitolata, et pour cause, “Du côté de chez Stendhal”.

  382. Di Stendhal trovo sugli scaffali (quelli virtuali, se non altro) la “Vita di Haydn (1732-1809)”, Casagrande, 2006; le “Vite di Haydn, Mozart e Metastasio”, Studio Tesi, 1993 (ma anche Passigli ha pubblicato a suo tempo, e singolarmente, le vite di Haydn e Metastasio, oltre a quella già ricordata di Mozart); la “Vita di Rossini”, EDT, 1992; “Milano. Architettura e musica”, Guida, 1994…
    E chissà se è ancora reperibile “Stendhal e la musica” di Ottavio Matteini, EDA 1981.

  383. (Do il benvenuto a chi ha postato il precedente contributo, ma… ehm… con tutta la buona volontà non vedo come possa contribuire al dibattito sui rapporti tra musica e letteratura. A meno che non ci si metta d’impegno a collegare l’incollegabile, sulla falsariga del Campanile de “Gli asparagi e l’immortalità dell’anima”…)

  384. Il volume “Riflessioni, memorie, diari” che raccoglie scritti di diversa natura del pianista russo Heinrich Neuhaus, e che in Italia è stato pubblicato da Sellerio nel 2002, è un esuberante autoritratto di una personalità di straordinaria ricchezza. Pianista finissimo, ma soprattutto didatta eccellente, divulgatore di piacevolissima verve, Neuhaus lascia in queste pagine – alcune occasionali, altre più corpose; alcune di chiara impronta autobiografica, altre, più specialistiche, incentrate sull’arte dell’interpretazione pianistica – molto di sé, con sincerità disarmante – la stessa sincerità che nel 1941 lo ha cacciato nei guai, lo ha costretto a una penosa autocritica dopo le accuse di comportamento antisovietico e lo ha consegnato a una detenzione e poi a un esilio di qualche anno.
    Molte cose mi piacciono di queste pagine raccolte e curate da Valerij Voskoboinikov: il senso morale sempre all’erta, che spesso si esplica in una febbrile attività pedagogica oltre che didattica; la descrizione di una solidarietà profonda – e vitale – tra musicisti e artisti, in un periodo e in un contesto in cui si guardava con sospetto a ogni iniziativa individuale; la curiosità per le novità, i nuovi interpreti, la nuova musica, e una crescente insofferenza per gli accademismi, il conservatorismo; la totale assenza di boria.

  385. Tempo fa (a luglio!) si parlava del silenzio… John Cage, le diverse esecuzioni di 4’33″… A proposito di come si possa “ascoltare” il silenzio, trovo su youtube le riprese del “Concerto per direttore senza orchestra” di Francis Schwartz, dedicato a Roberto-Juan Gonzalez, che lo esegue al Napa Valley College Theater nel maggio 2006.
    http://www.youtube.com/watch?v=cY5ux_l2ZiI
    Va bene, avete ragione, è poco più che uno scherzo – ma anche gli scherzi possono essere molto seri, o almeno molto elaborati.
    Leggo nella breve presentazione sulla pagina youtube:
    “Composer Francis Schwartz has made the Maestro the sole and stellar figure in his latest work. The audience will have the privilege of witnessing the fascinating stick, hand and body movements of the conductor without the distraction or competition of the orchestra. This is the extreme deconstruction of the orchestral concert experience.”
    Senza che l’orchestra distragga o interferisca… Un ben curioso proposito, di sicuro espresso con ironia.
    I movimenti del direttore sono mutuati da alcuni dei più celebri direttori del passato (vengono citati Fritz Reiner, Bruno Walter, Pierre Monteux, Leopold Stokowski, Leonard Bernstein…): anzi, nella nota che accompagna il video si fa riferimento alle esecuzioni dirette da questi soloni della musica (faccio ancora copia-incolla, va’: Beethoven 5th Opening, Toscanini… Mahler 4th Scherzo, Walter… Mozart Marriage of Figaro Overture, Reiner… Stravinsky Rite of Spring, Danse des Adolescents, Bernstein… Debussy, La Mer, End of De laube au midi, Monteux… Schwartz, Papagenos Dream PAPAPAPA Section, with silent audience… Raksin, Laura… Cage, 4’33”, Boulez… Brown, Available Forms, Maderna… Revueltas, Sensemayá, opening… Wagner, Tristan, Liebestod climax, Von Karajan… Mussorgsky-Ravel Great Gate of Kiev, Rostropovich…)
    L’effetto è moderatamente umoristico – il pubblico, comunque, apprezza, perché riconosce qualcosa di familiare – non quelle fonti, ma i tic, i vezzi, i portamenti, gli abbandoni, i gesti retorici dei direttori d’orchestra. Sorridiamo, a veder dirigere il silenzio, come sorrideremmo, che so, a “vedere” in piena luce un tizio che brancola nel buio. Qualcuno di noi sorriderà con pieno compiacimento quando riconoscerà in quei gesti e in quella mimica la musica – raro, difficile, ma non impossibile.

  386. (Quante vite di musicisti meriterebbero di essere raccontate in un romanzo? Ci sto pensando… Nei prossimi giorni potremmo dare inizio a una rassegna delle figure più interessanti, anche se è vero che ogni vita merita di essere raccontata, anche la più grigia…)

  387. Bello l’accenno ai movimenti dei direttori d’orchestra che , è verissimo, hanno fatto spettacolo a sè e offerto lo spunto per indimenticabili parodie da Chaplin a Jerry Lewis. Nelle parodie comunque si nota spesso una differenza: i comici seguono la musica, non la guidano. Un musicista una volta mi ha educato ad osservare nei gesti del direttore i “battere” e i “levare” e così mi ha aiutato a percepirne il codice. Resta il fatto che i concerti in televisione , concentrandoci sulla figura del direttore-star, spesso ci distraggono dalla musica e allora ci viene di chiudere gli occhi. Questo effetto di sovrapposizione e di protagonismo del Direttore/Maestro ha anticipato certi “guasti” dei video-clip , all’origine mero supporto della musica, o sua illustrazione autonoma, ma poi gradatamente divenuti fruizione principale. Su questa differenza bisognerebbe riflettere : quando riascoltiamo un brano dei Beatles, di rado lo associamo con un clip d’epoca o con una “visualizzazione” del brano nei loro film, da Michael Jackson e Madonna in avanti, questa separazione è crollata. Non possiamo sentire un brano dei Bee Gees senza che ci venga in mente il grande Travolta e l’interpretazione fisica che ne ha dato. Il visuale ha preso a dominare, come in una sconcertante gerarchia dei sensi per cui la vista ha la prevalenza. Certi sensi come il tatto o l’odorato sembrano essersi degradati terribilmente nella nostra percezione delle cose. Questo lo si è molto avvertito in letteratura: pochissimi scrittori oggi sono in grado di evocare sensazioni tattili o olfattive o gustative. Sembrano averne smarrito il codice. Anche i suoni si sono degradati. Di recente ho cominciato a leggere i tomi di “Varney il vampiro” un romanzone pubblicato a puntate in epoca vittoriana. Il primo capitolo è tanto “uditivo” quanto “visionario”. Gli echi del temporale, il cigolìo degli infissi, gli echi profondi e improvvisi, scandiscono il tempo emotivo della narrazione. Così avviene anche nel musicalissimo “La Caduta della Casa Usher” di Edgar Allan Poe che ha per protagonista, non dimentichiamolo, l’ultimo erede di una schiatta di musicisti che soffre della sua acutissima percezione dei rumori anche minimi e inavvertibili. E’ una perdita per la letteratura un mondo ridotto a eventi freddi e oggettivi, vivificati soltanto dalla capacità dello scrittore di farceli apparire agli “occhi della mente”, ma che ne è degli altri sensi? Persino la letteratura erotica pare aver rinunciato alla descrizione delle sensazioni tattili, sostituendola con un descrittivismo minuto dei gesti per cui pare a volte di assistere a una messa in scena meccanico-ginnica. Riprendere dalla musica, significa se non altro, riattribuire all’ascolto ciò che all’ascolto è stato tolto.

  388. Caro Gianfranco, anche a me certi direttori d’orchestra danno fastidio: ricordo i vecchi video di Karajan, fondati su un vero e proprio culto della personalità, e sull’idea di un’orchestra come puro prolungamento non dei gesti, ma del pensiero del Maestro: lui ravvolto su se stesso, occhi chiusi, sembrava dirigere con le sopracciglia, a volte col ciuffo bianco; l’orchestra era un altare su cui celebrare un rito – e gli orchestrali complementi d’arredo di quell’altare (ma forse sto esagerando…). E anch’io preferivo ascoltarlo guardando altrove.
    Boulez è uno spettacolo: preciso, non un gesto che sia di troppo, nemmeno di fronte alle partiture più intricate; tra i russi, adoro Temirkanov (parlo sempre di gestualità misurata, di controllo rigoroso della materia orchestrale: ed è incredibile come da gesti così discreti possa scaturire una tale forza di colori e di timbri), e in questo lo preferisco a Gergiev.

  389. Quanto alla perdita di sensibilità della letteratura di oggi, che sembra ridotta alla sola descrizione di ciò che si vede, hai ragione da vendere, Gianfranco, ahimè: in questo la letteratura sembra andare a rimorchio delle nostre abitudini sociali (siamo ciò che sembriamo?). Copriamo i silenzi e i suoni naturali con un continuo tappeto sonoro e ci neghiamo il piacere (la sopresa, lo sgomento a volte) di ascoltare qualcosa di cui ci sfugge il controllo; alteriamo gli odori naturali (non sempre ci riusciamo, d’accordo) con additivi chimici; allo stesso tempo non percepiamo più gli odori innaturali della città, perché ne siamo saturati; alteriamo il gusto con altri additivi; abbiamo un approccio non più naturale con la sensibilità tattile. A molti sembra più comodo guardarsi attorno, e limitarsi a questo – a rischio di una perdita drammatica di sensi e in definitiva di senso.
    Il buono scrittore entra in un ambiente e si comporta come un cane: annusa in giro. Oppure si comporta come un bambino: allunga la mano e tocca tutto, e magari allunga pure la lingua. O come qualunque altra creatura che non abbia tagliato i ponti con la sua natura animalesca: drizza le orecchie, sta all’erta, non si sa mai.
    Poi, visto che è pure sempre uno che lavora con le parole, lavora di sinestesie.

  390. (Naturalmente, nell’intervento precedente, ispirato dalle giustissime osservazioni di Gianfranco Manfredi, ho generalizzato un tantino nell’enunciare i limiti sensoriali della letteratura di oggi: diciamo che questi limiti si avvertono in molta produzione mainstream, ma non dimentichiamo che esistono, per fortuna, splendide eccezioni).

  391. Scovo e acquisto “Profondo Porpora” di Mayra Montero, che Vertigo ha appena pubblicato nella traduzione di Maria Cristina Secci. Vi si racconta di musica, ça va sans dire. Di musica e erotismo, per la precisione. Passione per la musica (per le musiciste, soprattutto, e anche taluni musicisti) e fervore erotico: curiosa accoppiata, che ogni tanto fa capolino nella letteratura ispirata alla musica (anche in Renzo Rosso, nel suo Ermanno Cornelis de “La dura spina”; anche, si parva licet con quel che segue, nel mio “Rapsodia su un solo tema”, nel dongiovannismo disperato di Dvoinikov).
    Vi dirò come è venuto fuori l’Agustìn Cabàn (sul nome ci vorrebbero gli accenti acuti) della Montero, e come i pruriti di questo critico musicale in pensione, che a una prima sfogliata paiono frementi e umorosi quanto basta, si coniugano con l’arte dei suoni. Vi dirò soprattutto se quest’ultima non è un semplice orpello, ma qualcosa di sostanziale.

  392. Ho ricevuto, e segnalo volentieri, questo invito:

    domenica 28 novembre, nel Salone delle Feste (Palazzo di città) di Acquaviva delle Fonti, alle ore 19.00, si terrà l’Incontro “Letteratura e musica” con gli Autori

    – Francesco Minervini,
    Incanto classico. Autori latini e greci e cantautori d’oggi in concerto, Stilo editrice

    – Alessandro Zignani,
    Il richiamo dell’angelo. Cinque pezzi fantastici sulla follia di Robert Schumann, Florestano edizioni

    Modererà Cristò Chiapparino, scrittore e musicista.

    L’evento, a cura di Maria Grazia Bonavoglia e Carlotta Susca, è in collaborazione con il Comune di Acquaviva delle Fonti e i Presìdi del libro.

    Francesco Minervini Vive a Bari dove insegna lettere classiche nei licei e ha al suo attivo varie pubblicazioni scientifiche. Appassionato del mondo antico appartiene alla razza degli insegnanti per passione.

    Alessandro Zignani Nato a Rimini nel 1961, ha esordito come scrittore nel 1989 con I mondi paralleli (Nuova Compagnia Editrice)
    Come germanista, ha pubblicato una traduzione di Barbablù di Georg Trakl (Nuova Compagnia Editrice / Guaraldi, 1989), Al di là del bene e del male di Nietzsche (Guaraldi, 1996), Parsifal di Wolfram von Eschenbach e Tristan di Gottfried von Strasburg (Guaraldi, 1995). Insegna traduzione letteraria al corso di specializzazione ‘Tradurre la letteratura’.
    Oltre che alla Letteratura ed alla Germanistica, si dedica alla Musicologia. È redattore della rivista ‘Musica’. Ha collaborato con il Teatro alla Scala, il Teatro Massimo ‘Bellini’ di Catania ed i principali teatri italiani. Ha preso parte ai volumi Leonard Bernstein (Guerini, 1992) e Modest Musorsgki (Guerini, 1993) e curato il libro di Marino Sanarica Lorenzo Perosi: coscienza e tradizione in un’anima musicale (Guaraldi, 1999). Collabora con le etichette discografiche Phoenix e Fonè. Nel 1998, ha fondato la compagnia teatrale Le albe di Asrael, con la quale ha scritto e messo in scena un dramma sulla figura di Alexander Skrjabin, Il Sogno di Prometeo.

  393. Leggendo “Profondo porpora” di Mayra Montero, Vertigo 2010, noto che l’esperienza della musica vi è ostinatamente paragonata all’esperienza del sesso: ma anche che, allo stesso modo, per una sorta di proprietà transitiva, il sesso è ostinatamente paragonato alla musica. L’uno è metafora dell’altro, a piacere, in questo inseguimento di un’idea totale di fisicità. L’io narrante, critico musicale prossimo all’anzianità, confessa quasi subito: “Oltre ad ascoltare la loro musica, li annusavo, li ascoltavo parlare, auscultavo il rumore delle loro viscere. Forse può sembrare retorico, però l’anima musicale sta nelle interiora: ho potuto verificarlo attaccandoci l’orecchio e ascoltando con attenzione”. E poco più in là: “Guardo anche i polpacci e so che in qualche modo l’espressione nasce da lì, da un punto tra le caviglie e la parte posteriore delle ginocchia”. Viscere, o polpacci e ginocchia? Che importa se i due punti suonano poco coerenti, l’essenziale è che rimandino a una fisicità muscolare e umorosa, pure un po’ animalesca.
    Per Agustìn Cabàn l’approccio musicale (musicologico, anzi) ha la stessa concretezza della conquista amorosa – e non stiamo parlando di amore platonico. L’ascolto della musica per lui equivale al possesso fisico del corpo che la esegue, e della mente che ne organizza l’interpretazione. O meglio: senza possesso fisico non c’è analisi della sapienza musicale. Tutto è iperbolico, in questo gioco: l’ascolto si colora di sensazioni, piaceri, dolori, e dolori dolci come piaceri, e piaceri urtanti come dolori; l’esecuzione è un insieme di atti di fisicità estrema, una performance di body art quasi, in cui il corpo dell’esecutore e lo strumento si uniscono in una liaison feticistica; e assistere all’esecuzione ha un quid di voyeuristico, ma è tutt’altro che un atto passivo, è un’impaziente premessa a un approccio più intenso e a ogni genere di compenetrazione.
    Leggo, a proposito della relazione stretta tra musicista e il suo strumento: “Si stupirebbero molti appassionati se sapessero di certi termini carnali, o dovrei dire carnivori, con i quali si esprimono alcuni solisti rispetto ai loro strumenti, o rispetto alla musica che interpretano”.
    Si aggiunga un altro elemento chiave: la memoria (il narrante è vecchio, le sue conquiste sono passate, rivivono nei ricordi ossessivi, in un rimuginio eccitato e allo stesso tempo disincantato). Se ne aggiunga un altro: la scrittura, o la parola – non solo perché Agustìn è un critico musicale, ma soprattutto perché questo suo dongiovannismo anteriore può concretarsi solo attraverso la confessione, deve farsi frase, paragrafo, capitolo (i capitoli, a proposito, portano come titoli i nomi delle sue conquiste, di quelle che più lo hanno segnato): il disordine dei sensi deve ricomporsi in uno stile memorialistico, esplicito quanto si vuole, ma comunque “educato” nella forma.

  394. Caro Claudio, ti ringrazio moltissimo per i nuovi contributi a questo saggio on line sul rapporto tra letteratura e musica che continua a crescere giorno dopo giorno.

  395. Ad esempio, e sempre a proposito della liaison tra musica e dongiovannismo: ecco sir Charles Frieth, il “famoso compositore cinico e narcisista… dongiovanni compulsivo” (secondo la definizione di Alberto Mattioli su “La Stampa” di oggi) che Ian McEwan ha reso protagonista dell’opera “For You” scritta per Michael Berkelyey. Da giovedì al Teatro Olimpico di Roma. Il libretto di McEwan è pubblicato da Einaudi nella traduzione di Susanna Basso, e magari ci torneremo su, che dite?
    Pare che lo stesso Michael Berkeley (figlio di Lennox Berkeley, uno dei compositori più brillanti del secondo Novecento) stia lavorando anche a un’opera da “Espiazione”.
    Comunque, e in attesa di riferimenti un po’ più solidi all’opera (cioè al libretto e alla musica, intese come parti di un unico progetto), è istruttivo scorrere i titoli redazionali: a colpire taluni titolisti è proprio l’aspetto pruriginoso, la scoperta dell’erotismo nel melodramma (cioè di qualcosa che in realtà è vecchio come il cucco). “Sesso, bugie e video-opera” titola “La Stampa”; “Col porno-soft torna di moda l’opera da camera (da letto)” ammicca un tantino scompostamente “Il Velino.it”.
    Per consolarci, andiamo su http://www.youtube.com/user/musictheatrewales#p/a/u/2/FR5YdlcygDM, dove compositore e librettista conversano su “For You” in occasione della prima assoluta nel 2008.

  396. Mi interesserebbe sapere cosa ne pensa Claudio di For You, in quanto sto leggendo Solar di McEwan che trovo appassionante e dunque mi incuriosisce saperne di più sulla sua opera, ma non del libretto in sé, perché com’è noto, le opere si giudicano dalla musica. Se dovessimo giudicare Verdi dai libretti, saremmo rovinati, o sbaglio?

  397. Hai ragione, Gianfranco, e aspetto anch’io di procurarmi una registrazione dell’opera. E’ improbabile che “For You” arrivi fin quassù, ad Aosta, o almeno a Torino; più facile che la cerchi io (male che vada, ho adocchiato su itunes un “For you” diretto da Michael Rafferty con la Music Theatre Wales, Signum Records, 2010).
    Conosco un po’ la musica di Michael Berkeley (soprattutto quella orchestrale, a dire il vero, incisa per la Chandos assieme alle opere del padre, Lennox Berkeley): appartiene a quella corrente insieme avanzata e accattivante tipica del mondo anglosassone, solidamente brillante e in un certo senso tesa a raggiungere un’idea di cantabilità (di vocalità, ecco) anche quando è puramente strumentale, e insomma dotata di una sorta di sottinteso drammaturgico – il tutto riconducibile a quel sommo esploratore di ogni sfumatura della voce umana e dell’umanità di ogni strumento che era Britten.
    (Tra parentesi, ascoltare il trattamento dell’inglese operato da Britten nelle sue numerose opere vocali dà i brividi. Britten ci fa credere che la melodia non è altro che l’estensione naturale della prosodia dell’inglese, la spontanea intonazione di chi si sente in stato di grazia. Altri lo fanno, in molti campi musicali: ma Britten sembra farlo con un gusto unico.)

    Quanto a librettisti e musicisti: vero, Gianfranco, molti libretti di Verdi sono mediocri, quando va bene sono funzionali, e il fatto che la musica di Verdi valorizzi e esalti versicoli così modesti ha del miracoloso. Ma immagino che il rapporto tra McEwan e Berkeley sia stato (e sia ancora) diverso da quello tra Verdi e, che so, Solera, Romani e Cammarano (o anche Piave): paritario, o almeno equilibrato. Anche questo è un argomento da indagare: il libretto di McEwan sopravvive alla sola lettura? E la musica di Berkeley per “For You” sopravvivrebbe senza le parole?

  398. (Sto leggendo “For You”, il libretto di McEwan nell’edizione Einaudi con la traduzione di Susanna Basso. E ascolto nel frattempo la musica di Michael Berkeley nell’edizione Signum. Tra un po’ vi saprò dire qualcosa di più preciso.)

  399. Raccogliendo l’invito di Gianfranco Manfredi, ho ascoltato l’opera “For you” di McEwan-Berkeley, libretto in mano (l’edizione bilingue Einaudi già citata) e musica ad alto volume (la registrazione della direzione di Michael Rafferty). Se volessimo essere pignoli, mi manca ancora (ed è molto) tutto l’apparato scenico, regia costumi ecc.; e se volessimo essere pignolissimi non ci starebbe male neanche la partitura: ma tant’è, accontentiamoci.
    Una prima impressione: il “For You” di McEwan è un libretto da opera buffa. O meglio, con un piglio divertito molto post-moderno (pardon) mescola certi cliché della cara vecchia opera buffa con gli aggiornamenti della contemporaneità (compreso un finale quasi hitchkockiano). C’è in giro una cert’aria di già visto e già sentito, insomma, in questo gioco, a partire dalla figura di Charles Frieth, il compositore burbero e dongiovanni e ormai piuttosto in là con gli anni, che omaggia di composizioni o almeno di tirate solistiche le sue conquiste (tutte femminili, qui, a differenza di quanto si può dire dell’attempato protagonista del romanzo della Montero). Ma anche il contorno sembra rifarsi al mondo tutto battibecchi dell’operina settecentesca, dell’intermezzo buffo alla Pergolesi, che so, alla Casti-Salieri: Robin, il segretario rimasto all’ombra, indeciso tra ammirazione e livore; una domestica dalla forte personalità (no, non si chiama Serpina, ma più semplicemente Maria), animata da una passione totale per compositore; vari intrecci di relazioni che coinvolgono la moglie di Frieth, Joan, il suo medico, Simon… (Ma certo, quando dagli intrecci si passa al dunque, ai fatti insomma, al letto, ecco, dalle eleganti astrazioni petulanti dell’operina settecentesca si finisce in un territorio tra la pochade e la commedia erotica, con divertenti e spiazzanti scivoloni verso il basso, in particolare nella scena sesta con cui si conclude il primo atto, non a caso quella più citata dai titolisti nei giorni della première romana…)
    Il compositore di successo che si sente vecchio e non rinuncia a soddisfare ogni suo impulso sessuale con le strumentiste che gli capitano sott’occhio; non vi ricorda qualcosa, cioè molte cose? Il dongiovannismo praticato per combattere l’angoscia per l’approssimarsi della fine; un egoismo (o egotismo) come corollario del genio; un atteggiamento che oscilla tra l’arrogante e il seduttivo, tra l’insulto e la smanceria (sincera, magari, almeno in parte). Un compositore che inanella conquiste femminili come variazioni attorno a un unico tema (questa è una citazione), e che tende a confondere la propria vita con il mondo dell’arte e viceversa, e che sembra voler fare della propria vita una sinfonia (tirata per le lunghe, certo) o un’opera (che sia buffa non dipende però da lui) e delle sue composizioni l’estensione della sua vita, contraddizioni comprese (in “For You” torna più volte una composizione del nostro, dal titolo sublimemente kitsch, “Daemonic Aubade”).
    McEwan non rinuncia a inserire delle forme chiuse, nel flusso dei dialoghi: certo, non siamo dalle parti del modello per eccellenza di riesumazione dell’opera settecentesca nel Novecento, “The Rake’s Progress” di Auden-Stravinsky, che per l’ultima volta nella storia della musica tornava ad alternare recitativi secchi (con tanto di clavicembalo!), arie e pezzi d’assieme; ma insomma, qualche aria, qualche trio, qualche clin d’oeil alla tradizione c’è. Le care arie, i cari duetti in cui il tempo dell’azione rallenta fino a sospendersi, e si dà aria all’interiorità, si proclama, si rimpiange, si rimugina, ci si arrovella, si sogna… o, visto che qualcosa nel frattempo è accaduto dai tempi del melodramma, si sguinzaglia l’inconscio.
    Quanto alla musica, il discorso è più complesso. C’è quella di Charles Frieth, che è citata più volte nel corso dell’opera (un’opera giovanile è diretta con qualche perplessità dallo stesso Frieth all’inizio del primo atto; più avanti l’ultima, “Daemonic Aubade”, appunto, ancora fresca di inchiostro). Di essa i personaggi esprimono svariati giudizi: Simon, il dottore e amante della moglie, non ha dubbi: “I don’t pretend to like his music. / The notes seem plucked at random, / and what a din! A choir of tomcats!” (Ma Simon, vista la sua posizione all’interno del complesso intreccio di relazioni amorose, non ha forse un approccio del tutto sereno). Ci sono le parole di Charles Frieth: ed è interessante scoprire come questa figura di compositore cinico e sprezzante senta le proprie musiche come il più sentimentale degli abbonati: “Floating, tumbling, sweetly falling, / gently sustained by muted strings…” (Ma appunto, per lui la musica è uno strumento di seduzione, fruscia come lenzuola, bisbiglia e accarezza e inebria ecc.).
    Poi c’è la musica di Michael Berkeley, che appunto in certe scene si incrocia con quella di Frieth, e altrove segue e espande il flusso dei pensieri e di parole dei personaggi in scena. Ma di questa parleremo un’altra volta, che dite?

  400. La musica di Michael Berkeley, si diceva: ricca, esuberante, ha il pregio di non flirtare troppo platealmente con il pubblico. Non ammicca, non contamina nemmeno là dove potrebbe. Soffermiamoci su momento delicato come esempio, la già citata sesta scena del primo atto. Charles Frieth e Joan, la cornista prima umiliata durante le prove poi sedotta, sono a letto. Charles ha appena avuto dei problemi di erezione, si trova in difficoltà in mezzo a quell’intrico di lenzuola, non si capacita. Joan infierisce, forse senza volerlo, fino a imputare alla vecchiaia (orrenda parola) la défaillance. I due ritentano, si fanno forza con baci, sembra che tutto stia per ripartire, e un po’ meglio di prima, quando entrano prima Maria con un vassoio colmo di cibi e bevande, poi Robin con un problema di partitura (“Four bars missing from the strings”), poi Antonia, la moglie di Charles, con Simon, medico-amante al seguito, e valigia in mano – qui esplode un litigio con Joan (“Has he offered you yet your solo of thirty-two bars? / And promised a concerto?” sibila Antonia, e più avanti: “You are but one variation on a theme”). La scena movimentata, paradossale, farsesca come il finale di una sit-com (inglese) si conclude con un “tutti” di parodistica solennità: “Silence and deceit, / ambition and defeca, / love, music, loyalty, self-delusion – / these are the elements of deadly confusion”.
    Bene, dicevo: la musica di Berkeley non ammicca, non approfitta della situazione, non si riduce a pastiche o a colonna sonora da commedia o da farsa. Berkeley lavora piuttosto di fino (troppo di fino?), evita ogni compromesso, lavora su improvvisi guizzi sovreccitati e altrettanto improvvisi rallentamenti quasi onirici (nel battibecco tra le due donne appena citato, ad esempio, proprio là dove molti avrebbero giocato su una concitazione fatta di cliché), su un generale crescendo della materia orchestrale, o meglio su un aumento della densità armonica. Tutto questo “non fa ridere”, ed è un bene che sia così. È certo che una scena che sulla pagina, ad una prima lettura mentale sembrava sorprendentemente dotata di una sua verve comica anche un po’ volgare, una volta risolta in musica assume una colorazione nuova, una pensosità assai più familiare a chi ama i romanzi di McEwan.
    (Gli applausi perplessi del pubblico della première alla fine di questa scena, immortalati nella registrazione, fanno capire che il gioco paradossale dei due autori ha colto nel segno.)

  401. (Uff, per ben due volte ho reso ancora più kitsch il titolo della composizione di Charles Frieth, aggiungendo un dittongo là dove non ci vorrebbe, e facendo della “Demonic Aubade” una “Daemonic Aubade”. Scusate.)

  402. Quanto al libretto (al libretto, intendo, di McEwan per Michael Berkeley: siamo sempre lì), è un interessante utilizzo del registro discorsivo, fondamentalmente paratattico, talvolta sentenzioso. McEwan sostituisce ai versi e ai versicoli propri di un libretto d’opera (di un libretto d’opera inteso tradizionalmente, almeno) le frasi spicciole dell’inglese colloquiale, sempre oscillanti tra disinvoltura e mantenimento di una certa formalità. Sono piccole frasi esclamative, interrogative, enunciative, intrise di formule di cortesia, infiocchettate di battute o immagini da commedia brillante alla Coward, talvolta dotate di una loro regolarità metrica, e combinate in modo da rimare, qua e là, da suonare proprio come versi – l’effetto mimetico, al primo colpo d’occhio, sulla pagina stampata, è perfetto. “Prosa cadenzata” viene definito il tutto nella quarta di copertina dell’edizione Einaudi.
    Il melodramma, si sa, non ama le lunghe perifrasi, le tortuosità dell’ipotassi, il periodare dopato. Preferisce la linearità della coordinazione, assai più facile da domare, da modulare. Così è, in linea generale, per questo libretto. Certo, nelle vaste arie che sospendono il tempo e danno fiato ai pensieri e ai ricordi, sempre indecise tra monologo e soliloquio, un certo afflato lirico espande le frasi, le riempie di un gusto retorico che non sai se sincero o parodistico (propendo per entrambi insieme). E qui arriva il verso, con tanto di rima: “Make of love a gorgeous cage / where you, my sweet, can gently age”, canta Maria (il personaggio davvero più lirico di tutta la compagnia, e quindi, forse, anche il più esposto al tarlo della parodia) alla fine della scena seconda del secondo atto. Versi come questi invitano davvero al canto, anche se la cantabilità in Berkeley ha sempre un che di spinoso, o spigoloso, e certo non può essere definita “canticchiabilità”.

  403. Grazie per l’interessante analisi. Per quanto la pochade non sia esattamente il mio genere preferito ( e anche meno il tema ahimé così attuale di Susanna e il Vecchione) l’opera incuriosisce e certo varrebbe la pena di vedersela in teatro. L’allestimento sarà stato suppongo complesso: denudare le cantanti (almeno nell’opera classica) oltre ad essere impresa non facile, esaspererebbe certi elementi grottescamente implausibili (vidi una Mimì di cento chili, che per una tisica non è male). Poi dal commento di Claudio pare (ma se mi sbaglio correggi) che lo stile di canto sia sempre quel calare i versi un po’ dall’alto come nella tradizione britannica d’origine elisabettiana (perdona l’approssimazione) cosa che del resto si avverte anche nello stile di canto di Sting. Il testo pare prestarsi a questo stile “enunciato”. Anche più stravagante, a questo punto, la commistione con la pochade. Tra l’altro (ne ho accennato anche in un paio di capitoli del mio romanzo “Tecniche di resurrezione” sulle commedie rappresentate al Drury Lane) la farsa inglese , fin dall’epoca pre-Shakespeare, e poi clamorosamente nel settecento e fino all’ottocento inoltrato , è assai più “volgare” (proprio nel senso del sessualmente esplicito fino al pecoreccio) di quella francese. Viene dunque il dubbio che nella commistione, ci sia tanto sul versante del testo, quanto su quello musicale, più richiamo alla tradizione di quanto si possa sospettare. Persino nel teatro musicale leggero e comico, ricordo d’aver assistito da ragazzo (e non riuscivo a credere ai miei occhi) a una rappresentazione londinese di cui non ricordo più il titolo, a un’orgia in scena con tutti gli attori nudi bruchi (e non si trattava mica di Oh Calcutta!) . Il “niente sesso, siamo inglesi” andrebbe un tantino rivisto.

  404. Chissà com’è andata sulla scena, Gianfranco: sarebbe bello se uno spettatore della prima romana ci dicesse, uno di questi giorni, qualcosa a proposito del vedi-e-non-vedi (eventuali nudità in scena, atti sessuali, fremiti vari).
    Quanto al gusto inglese per lo sconveniente, in “For you” è ben rappresentato, anche nel paradossale intreccio con il sussiego che l’intervento di Gianfranco ha messo bene a fuoco. Nel caso del lavoro a quattro mani di McEwan+Berkeley, pare proprio che il tocco di pochade sia toccato allo scrittore (per accordo di entrambi, suppongo) e l’aggiustamento nobilitante (parodisticamente nobilitante, forse, anche) al compositore.
    Ho fatto una prova (una cosuccia da niente, con amici, e che forse non significa nulla): fatta ascoltare la musica senza alcuna spiegazione (e proprio della scena più movimentata, e già ripetutamente citata). Nulla in essa ha suggerito agli ascoltatori ignari non dico sconcezze da pochade, ma nemmeno un intento sorridente, parodistico, giocoso, che so. Trovo molto interessante questo aspetto (musica che pare mirare da una parte, testo che tira da un’altra). E trovo interessantissimo che questo aspetto sia nato da un accordo, da quello anzi che è diventato ormai un sodalizio complice.

  405. (A proposito di sconvenienze, noto con un brivido di avere scritto oggi, nel citare un verso di McEwan, “ambition and defeca”, invece di “ambition and defeat”. Scusate.)

  406. Leggo il fondamentale “Musica e letteratura in Italia tra Ottocento e Novecento” di Adriana Guarnieri Corazzol (l’edizione Sansoni che ho tra le mani è del 2000). È un testo che fa il punto con autorevolezza su molti aspetti del rapporto tra parola e musica, tra scrittore e libretto e tra librettista e compositore; esamina gli strascichi dell’influsso di Wagner sulla letteratura a cavallo delle due guerre; tocca Malipiero; affronta l’ingombrante presenza di D’annunzio e del dannunzianesimo nel teatro musicale; distingue tra opera e lirica da camera; e verso la fine mi fa tornare in mente, attraverso una disamina divertita, quel paio di racconti che C. E. Gadda ha dedicato alla musica (“Teatro” in “La Madonna dei filosofi”; “Un “concerto” di centoventi professori” ne “L’Adalgisa”).
    Attento al suono, maniacalmente come con ogni altro senso (alle voci, quindi, ai rumori, anche quelli sconvenienti, a tutti di “disturbi” provenienti da grammofoni, radio, vicini di casa, mendicanti di strada), assiduo e competente frequentatore di sale da concerto e teatri d’opera, Gadda si mostra però riluttante a “raccontare” la musica. Sarà che i suoi gusti sono irrimediabilmente superati (si addolcisce solo dinanzi a Beethoven, il resto gli suona come presuntuoso e vano chiacchiericcio) e che sente come estranea, disarmonica (lui, proprio lui!) la musica dei suoi contemporanei. Ma ecco che l’aspetto per me più divertente (per lo straziante sarcasmo) è la derisione delle mode musicali inseguite dal pubblico milanese nel “Concerto”, incapace (il pubblico) di distinguere la vera grandezza di compositori ostici come Stravinskij o Dallapiccola, ma pronto ad applaudire le loro opere nello sforzo di sentirsi à la page: e subito sollevato (il pubblico, sempre) dalla consolante moderazione di altri compositori di livello minore, ma più gradevoli, più sentimentali (la vittima, in questo caso, è il povero Alfano, sul quale Gadda dissemina sarcasmi visionari).

  407. Caro Claudio,
    incuriosito ho letto e ascoltato “For you” di Mc Ewan – Berkeley.
    Ottimi musica e libretto, squisito il connubio, eppure… a un certo punto mi appare lo spettro sornione di Schicchi, come a ristabilire le proporzioni.
    Sempre così, dannazione, con gli autori del nostro tempo (non solo nel teatro d’opera, temo). Non hai ancora finito di elogiare un lavoro azzeccato che subito ti assedia e un po’ raffredda l’antecedente ingombrante dei Maggiori…
    Un caro saluto, e complimenti a tutti per la ricca discussione.

  408. Guido, che piacere ritrovarti qui!
    L’osservazione di Guido Conterio riprende una nostra vecchia questione aperta: quanto si può godere dei minori (con la minuscola), o di quei contemporanei che ancora non sono assurti per comune decisione ai vertici nelle loro discipline, quando i Maggiori (con la maiuscola!) sono lì, ineludibili, asfissianti, ingombranti appunto, ancorché morti da un pezzo, e pronti a spazzare via emuli, epigoni, usurpatori?
    Guido sente sempre il peso di questi Maggiori, o meglio di questi pesi massimi, sempre lì a ricordargli la grandezza inarrivabile delle loro opere, e a guastargli almeno in parte il piacere dell’abbandono di fronte alle piccole gemme dei minori, o dei minimi, o degli indecisi… Io invece inseguo volentieri le volonterose opere di questi ultimi, a rischio di guastarmi il palato, e di perdere la cognizione di ciò che vale davvero e di ciò che non vale altrettanto, o vale solo per riflesso…
    L’opera di Michael Berkeley e McEwan, “For You” intendo, potrà sopravvivere a questa stagione? Chi lo sa. Per ora ha superato un paio di annetti dalla prima londinese. Da qui all’immortalità ce ne vuole, è vero. Per ora (dico io) godiamoci quella musica, e godiamoci anche quel costante senso di déjà-vu che la percorre, quel muoversi tutto sommato consolante dentro a una tradizione consolidata – e godiamoci anche le novità linguistiche che rompono qua e là quel guardarsi indietro.
    Guido tira in ballo Puccini (e non il suo amato Mascagni, che forse avrebbe prestato il fianco a qualche affondo…). Che Puccini sia tra i massimi è fuori di dubbio. Che lo si possa amare ancora oggi è certo. Che se ne possa ammirare la “modernità” idem. Ma proprio per questo il paragone con “For You” mi sembra un tantino fuorviante – Puccini parte avvantaggiato da molti punti di vista, non ultimo per il fatto che credeva davvero e fino in fondo nel melodramma, nonostante certi colleghi altrove avessero preso a smantellarne le fondamenta.
    Caro Guido, le mie punzecchiature sono un invito a proseguire questa chiacchierata!

  409. Caro Claudio,
    visto che, con audacia degna di WikiLeaks, hai rivelato al mondo il mio piccolo debole per Mascagni, vorrai certo consentirmi di spendere due parole a mia (e sua) difesa.
    Orbene, si sa che c’è “Cavalleria” e c’è – da parte, in castigo – tutto l’ “altro” Mascagni.
    Della prima si è detto e lodato tutto, e posso solo aggiungere che, presso il mio tribunale privato, l’opera non gode di un credito pari alla fama. Ma è su ciò che il Nostro ha composto dopo che io indirizzo una specie di solidarietà da bastian contrario: in quanto vi colgo ben più che tentativi, vieppiù imbarazzanti, di rinfocolare l’esordio “col botto”.
    Comunque, tornando a bomba, e cioè al piacevolissimo “For you” (che, sia chiaro, se già poco ha a da spartire coi climi pucciniani, ancor meno si collega ai bollori del Livornese – sebbene… ascoltare “Le maschere”), lasciami cavare un sassolino, in perfetto matematichese: “In ogni opera composta da Mascagni esiste almeno un momento, o frase, appartenente alla stessa, tale che, per ogni momento, o frase, appartenente a “For you”, risulta che il primo sovrasti, per invenzione, freschezza e forse modernità, persino, di alcune spanne il secondo”.
    Un’opinione – ma direi rigorosa.
    Cari saluti, e alla prossima.

  410. Caro Guido, è acuto quanto scrivi sugli spettri degli Antichi che si materializzano all’ascolto di ogni presunta o reale novità. Se ampliamo il raggio alla musica pop-rock attuale l’effetto è ancor più sensibile, e ben al di là dell’eco di fondo. C’è ad esempio un gruppo rock-a-billy tedesco, The Baseballs che compie una divertente operazione di smascheramento, con delle cover di brani attualmente in classifica ( Lady GaGa e Shakira incluse) riarrangiate in stile anni 60. Sembrano davvero canzoni prodotte nei 60, sembra che sottratti i mascheramenti del sound vengano in piena luce le strutture compositive base identiche in tutto a quelle del più tipico repertorio revivalistico. I Baseball svelano insomma la superiorità degli Antichi, la loro primogenitura rispetto ai Contemporanei, in modo piuttosto spiazzante se non altro perché di solito si compie l’operazione contraria cioè si fanno cover riarrangiate modernamente di brani classici. Discorso del genere solo in parte può essere riferito alla letteratura contemporanea che pare invece farsi un vanto (anche di mercato) del distacco assoluto dalla Grande Letteratura Classica, di cui si spregiano i Personaggi Emblematici, la coralità sociale, i colossali affreschi d’epoca, le divagazioni, lo stilismo ricercato. Eppure affiora egualmente nei lettori di romanzi sempre più simili a sceneggiature scritte con linguaggio basic , il rimpianto per la tessitura operistica del Romanzesco classico, in cui si torna a tuffarsi quando lo Spirito del lettore avverte prepotentemente il bisogno di rigenerarsi. Il richiamo agli Antichi si colora, è ben vero, di rimpianto, ma non è di per sè rifugio in un mondo perduto. La letteratura moderna, sia quella del settecento francese e tedesco, sia quella del secolo successivo, ha sprigionato la sua “novità” dando assolutamente per scontata la primazia dell’Antico sul Moderno. Sono state invece le età sicure di sè e del proprio primato a produrre opere che alla distanza di qualche decennio ci sembrano inesorabilmente datate. E non parliamo nemmeno (anzi sì) della scrittura critica. Le debolezze di analisi che giustamente rilevi in Gadda nel riferimento alla musica le si ritrovano ancor più fastidiosamente ad esempio nei brevi saggi di Cesare Pavese su alcuni autori classici come Dickens, Conrad, Defoe, tutti tacciati di “ingenuità” , come se la stagione dei Sessanta fosse invece stagione di massima consapevolezza e maturità, tale da poter autorizzare una fierezza di giudizio del Contemporaneo rispetto all’Antico. Eppure appare oggi chiarissimo al lettore moderno, come e quanto la letteratura degli anni sessanta si sia rinchiusa nel recinto di gusto della propria epoca , da un lato facendo da levatrice a una grande semplificazione del linguaggio letterario, dall’alto proponendo una funzione elitaria dell’intellettuale-guida che ha invece in ultima analisi (come aveva perfettamente intuito ed espresso Luciano Bianciardi) la fine dell’intellettuale sociale, a vantaggio dell’intellettuale singolo, narcistista, in sè ripiegato, autosacrificatosi a un culto dell’attualità che dalla Storia si è progressivamente ristretto a cronaca. Quanti romanzi degli anni 60, quanti giudizi lì espressi, ci sembrano oggi invecchiatissimi, parziali, persino ciechi nel loro riduttivismo. Ho preso a rileggere La sposa americana, di Mario Soldati (autore che apprezzavo moltissimo da ragazzo), e che indubbiamente resta un bellissimo romanzo. In una nota di copertina, Attilio Bertolucci ci presenta i due personaggi di Edith, la moglie de protagonista, e di Anna, la sua amante, con una metafora operistica: la prima “sarebbe” un soprano. la seconda un contralto. Però aggiunge: “Ma non di un’opera si tratta, bensì di un breve, intenso, straziante, romanzo d’amore (Le ingenue lettrici d’un tempo, in libreria o alla biblioteca circolante, chiedevano: Mi dà un bel romanzo d’amore?)”. Rieccolo, di nuovo, il vero spettro babau degli anni 60. Ha un nome: Ingenuità. Il passato, esattamente come il lettore popolare, viene qualificato come Ingenuo. Tutto ci si può permettere nei sessanta, tranne un’eccessiva Ingenuità. Ora il punto è: come mai negli anni 60, appariva ingenuo ciò che ingenuo non era affatto? Questa paura dell’Ingenuità non ha prodotto all’epoca molta letteratura davvero ingenua, nel considerarsi Superiore?

  411. Chiedo licenza di effettuare un classico intervento “cerchiobottistico”.
    Perché è ben vero quanto rammenta Gianfranco Manfredi. Il sacro timore di replicare la presunta ingenuità dei classici, o di chi comunque è venuto prima, è una patologia stagionale che affligge a ondate il buon corso di musica e letteratura, indebolendo anche autori e cenacoli di indubbio valore: sebbene i sommi – penso a Stravinskij, in particolare – si siano sempre impipati di un tal genere di complessi, senza patirne il minimo offuscamento (o vorremo liquidare “Jeu de cartes” e “Pulcinella” come civetterie accessorie?)
    E tuttavia…
    Viviamo tempi curiosi. Nei quali ad esempio, per fermare l’attenzione sui fatti della musica (chiedo venia) “colta”, un eccesso – per durata e quantità – di legittima difesa dal rigorismo darmstadtiano ha finito per produrre, nei decenni, una sorta di rassegnata acquiescenza a qualunque mezzo o ammicco speso in favore di un “recupero degli ascolti”.
    Di qui Glass, Nyman e presenze ancora più giù, ormai stabilmente “cooptati”. Sbornie neo e ultra-tonali, prurigini passatiste, queste sì ingenue: o forse fin troppo ben calcolate.

  412. Cari amici, butto lì un pensierino anch’io sulla Querelle, limitandomi al campo letterario.
    Credo che tornare al passato, riappropriarsene, scoprirne la complessità dello sguardo, farebbe un gran bene alla letteratura di oggi. Non voglio dire di mettersi la parrucca da damerino del Settecento, o fare lo sguardo tenebroso in posa per un dagherrotipo: non è di un ennesimo neo-neo-neo-classicismo (o di un post-post-post-anticlassicismo) che sento il bisogno. Ma certo, di un’idea più ambiziosa, più grandiosa di letteratura sì. Oggi mi pare che prevalga invece, pur con alcune splendide eccezioni, una tendenza semplificatoria, banalizzante. Dai classici (sto generalizzando, va bene) dovremmo recuperare l’ampiezza dello sguardo, la tensione delle strutture, la ricerca stilistica, l’incontentabilità – i classici “sperimentavano”, cavoli! Provate a incasellare le grandi opere in un genere: non ci stanno, non corrispondono, premono per uscire! Ecco, questo mi manca.

  413. Piccolo suggerimento su un romanzo che per ora ci è sfuggito e su cui varrebbe la pena tornare, anche se è una lettura che costa fatica, che mette alla prova, fa sanguinare: “La pianista” di Elfriede Jelinek (in Italia pubblicata da Einaudi).
    Le pagine in cui denuda i luoghi comuni della musica sono spietate. Feroce la descrizione del milieu musicale viennese, benpensante, melenso, sordido. La melomania vista come lugubre patologia.

  414. Grazie del suggerimento letterario… e delle riflessioni sulla musica. Un classico è sempre più grande del genere in cui nasce, lo trascende sempre.
    Interessante è il concetto di ingenuità: i Moderni vedono quella degli Antichi ma non vedono la propria, come le famose bisacce di Giove…

  415. Proprio così, Maria Lucia: ai grandi stanno stretti i generi, o i movimenti, che sono cosa per i minori, per i minimi. Il vero spirito di un’epoca andrebbe ricercato in questi, più che nei maggiori (e questo dovrebbe valere sia in ambito letterario sia in ambito musicale).

  416. Che la musica eserciti un’attrazione fortissima sulla letteratura, magari anche solo un’attrazione di pelle, è ampiamente dimostrato da questo forum. Che le forme musicali siano fonti a cui la narrativa in particolare attinge, e con insistenza, è confermato da molti titoli, che rimandano spesso quelle forme, in particolare quelle proprie della musica colta. Proviamo a fare qualche esempio, cominciando, e non a caso, perdonatemi, da “Rapsodia”.

    Curioso su Ibs e trovo (e riporto in ordine cronologico inverso):
    “Una dolce rapsodia. Bleach. Vol. 2” di Tite Kubo e Makoto Matsubara, 2010, Panini Comics (va bene, questo è un manga)
    “Rapsodia irachena” di Antoon Sinan, 2010, Feltrinelli
    “Rapsodia su un solo tema. Colloqui con Rafail Dvoinikov”, 2010, Manni (e questo è il mio…)
    “Rapsodia abruzzese” di Ettore Janni, 2009, Carabba
    “Rapsodia delle terre basse” di Massimo Bubola, 2009, Gallucci
    “Rapsodia fiorentina” di Alfredo Viscomi, 2009, Albatros
    “Rapsodia in rosa. Narrare se stesse per non svanire” a cura di C. Albolino 2009, UNI Service
    “Rapsodia selvaggia”, a cura di A. Marchetti, 2008, Marietti
    “Rapsodia paesana” di Michele A. Mancuso, 2006, Yorick
    “Rapsodia per sola voce” di Serena Savini, 2005, L’Autore Libri Firenze
    “La foiba dei merli. Rapsodia carsica” di Renato Ferrari, 2004, Mgs Press
    “Rapsodia a più voci” di Rina L. Caponetto, 2004, Claudiana
    “Rapsodia Brasil” di Piercarlo Sanna, 2004, Bandiera & Bandiera
    “Rapsodia ungherese. Una storia di Max Fridman” di Vittorio Giardino, 2004, Lizard (e questo è un fumetto)
    “Vuci di terra antica. Rapsodia cilentana” di Giovanni Marotta, Luigi De Filippi, Monica Sanfilippo, 2004, UPC
    “Rapsodia viennese” di Anacleto Verrecchia, 2003, Donzelli
    “Franco Venanti. Rapsodia di frammenti. Opere dal 1970 al 2002” a cura di E. Giannì, 2002, Guerra Edizioni
    “Rapsodia del picaro. Letteratura picaresca” di Aurora Dupré, 1996, Laterza Giuseppe Edizioni
    “Rapsodia siciliana” di Concetta e Giuseppe Candura, 1990, Papiro

    Il termine rapsodia sembra rimandare, in questi titoli, a silloge, a florilegio, a un modo non sistematico, libero, di accumulare pagine, pensieri; è probabile (ma andrebbe verificato) che in alcuni titoli di narrativa prevalga la suggestione di certe rapsodie (per esempio quelle ungheresi di Liszt), e quindi si voglia rimandare a un gioco di contrasti, a una certa spavalda danzabile nostalgia, a un’idea di virtuosismo e di velocità. Evidenti in vari titoli sono anche la connotazione geografica, il rimando alla memoria dei luoghi, un’intenzione etnologica – il che è perfettamente coerente con la forma musicale di cui stiamo parlando.

  417. Decisamente più inflazionato è il termine “Sinfonia”. A scorrere i titoli presenti su ibs si scoprono trattati, romanzi per ragazzi, sillogi poetiche, manuali – di giardinaggio, gastronomia, psicologia. Notevole l’uso di “sinfonia” nella titolazione di testi di argomento spirituale. Con alcune eccezioni (le due “Sinfonie” di Pizzuto, ad esempio), si direbbe che il termine rimandi, più che a una connessione stretta con l’illustre forma strumentale, a un’idea generale di complessità, di vasto affresco, di polifonia, di solennità pomposa, di superiore armonia celeste.
    Madamina, il catalogo è questo.

    “Cyrus Dikto. La sinfonia dell’immortale” di Lorenzo Amadio, Michelangelo La Neve, 2010, Mursia
    “Da Corot a Monet. La sinfonia della natura” a cura di Eisenman S. F. 2010, Skira
    “Mario Ferrante. Sinfonia di Berlino”, 2010, Gangemi
    “Sinfonia (1927)” di Antonio Pizzuto, 2010, Lavieri (ne sappiamo già qualcosa, vero?)
    “Sinfonia d’autunno. Storia di un violinista” di Paolo F. Steri, 2010, Mjm Editore
    “La sinfonia del cervello” di Elkhonon Goldberg, 2010, Ponte alle Grazie
    “Sinfonia del presepe. Lettere di Natale” di Dionigi Tettamanzi, 2010, San Paolo
    “La sinfonia del vento” di Aldo Morri, 2010, Il Ponte Vecchio
    “La sinfonia dell’assassino” di Jean-Baptiste Destremau, 2010, Lupetti
    “Calabash. Sinfonia d’altro” di Marica Saponaro, 2009, Laterza
    “La decima sinfonia” di Joseph Gelinek, 2009, Mondadori
    “Infinita sinfonia” di Paolo Moschini, 2009, Sometti
    “Lei e lui… una sinfonia? Verso nuove dimensioni di vita nuziale e familiare” di Christian M. Streiner, 2009, Marcianum Press
    “La musica dell’altro. Sinfonia delle differenze” di Andrea Gagliarducci, 2009, Pazzini
    “My four cities. Sinfonia biografica in quattro movimenti” di Antonio Braga, 2009, Iuppiter
    “La nona sinfonia di Dio. Dio è felice, Dio ci vuole felici” di Sabino Palumbieri, 2009, Effatà
    “La sinfonia del tempo breve” di Mattia Signorini, 2009, Salani
    “Sinfonia mariana. Armonie divine nel cuore di Roma” di M. Elisabetta Patrizi, 2009, Libreria Editrice Vaticana
    “L’ultima sinfonia pastorale” di G. Mauro Maritano, 2009, Piazza D.
    “La sinfonia pastorale” di André Gide, 2008, Garzanti Libri
    “Potente sinfonia” di Fulvio Uccella, 2008, Kimerik
    “Sinfonia cuneese. Una storia sessanta voci” di Donatella Signetti, 2008, Ass. Primalpe
    “La sinfonia degli inganni” di Danilo Prefumo, 2008, L’Epos
    “Sinfonia della parola verso una teologia della scrittura” di Frédéric Manns, 2008, Terra Santa
    “La sinfonia delle rane” di Stanislao M. Avanzo, 2008, Albatros
    “Sinfonia di Novembre e altre poesie” di Oscar V. Milosz, 2008, Adelphi
    “Sinfonia di pieni e di vuoti” di Stefania Vastano e Federica Sciandivasci, 2008, LAB
    “Sinfonia in bianco” di Adriana Lisboa, 2008, Angelica
    “Sinfonia in mnemonica maggiore” di Juan Tamariz, 2008, Florence Art
    “Sinfonia per un delitto” di Roberto Negro, 2008, Frilli
    “Sinfonia scandalosa” di Anna Giacomazzo, 2008, Borelli
    “Brividi gotici. Otto racconti per quattro movimenti in una sinfonia di orrore contemporaneo” di Paolo Mameli, 2007, Editoria Universitaria
    “Roccia di luce. Sinfonia di trent’anni di poesia” di Beniamino Mancuso, 2007, Appunti di Viaggio
    “Una sinfonia intellettuale: il teorema di Godel” di Bruno Spotorno, 2007, Natrusso Communication
    “Trento 1769. Sinfonia mozartiana” di Sandra Frizzera, 2007, Stella
    “Sinfonia d’amore, morte e libertà. Una storia di guerra” di Anna M. Comandù, 2006, L’Autore Libri Firenze
    “Sinfonia gastronomica. Musica, eros e cucina” di Roberto Iovino e Ileana Mattion, 2006, Viennepierre
    “Sinfonia prussiana” di Sergio Marano, 2006, Santi Quaranta
    “Nigredo: sinfonia dell’inconscio (anime gemelle)” di Silvia Piomboni, 2005, Edimond
    “Sinfonia (1923)” di Antonio Pizzuto, 2005, Mesogea (anche questa la conosciamo già…)
    “Sinfonia del terrore” di Frank Graegorius, 2005, Greco e Greco
    “Sinfonia dell’incompiuto” di Giovanna Scarsi, 2005, Guida
    “La nuova sinfonia dei molti sé” di Pio Scilligo, 2004, LAS
    “Andrej Belyj: la sinfonia dell’assoluto” di Ferruccio Martinetto, 2003, Prospettiva Editrice
    “Ecchime. Antologia sinfonia” di Victor Cavallo, 2003, Nuovi Equilibri
    “Lasciamo che sia l’autunno. Sinfonia di ricordi” di Ermanno Notari, 2003, Sovera Editore
    “Racconti felici-La lenta sinfonia del male” di Davide Bregola, 2003, Sironi
    “Sinfonia in giallo” di Marino Cassini, 2003, Campanotto
    “Sinfonia per una ed una sola anima” di Manuel Fornero, 2003, Sovera Editore
    “L’unico Cristo. La sinfonia differita” di Christian Duquoc, 2003, Queriniana
    “Sinfonia dell’ippopotamo. Versi & racconti” di Massimiliano Borelli, 2001, Montedit
    “Psicologia e vita spirituale. Sinfonia a due mani” di Benito Goya, 2000, EDB
    “La sinfonia dell’addio” di Edmund White, 2000, B.C. Dalai
    “Sinfonia di sogni” di Viola Muzio, 2000, Tabula Fati
    “Sinfonia dell’amore. Introduzione alla prima Lettera di Giovanni” di Orsatti Mauro, 1999, EDB
    “Sinfonia d’amore” di Matilde Andreucci, 1995, Nuovi Autori
    “Speriamo bene. Piccola sinfonia narrativa” di Gianluigi Peruggia, 1994, Marna
    “Sinfonia in do minore. Tre «Movimenti» per un cambio di rotta” di Paolo Pugni, 1991, Marna
    “La divina sinfonia” di Inayat Khan Hazrat, 1989, Edizioni Mediterranee
    “Madre Giovanna degli Angeli-Gli amanti di Marona-Quarta sinfonia” di Iwaszkiewicz Jaroslaw, 1979, Mursia.
    “Sinfonia” di (ehm) Rosa Alberoni, Rizzoli
    “La sinfonia dell’addio” di Edmund White, B.C. Dalai.

  418. (Mmm, il giochino, per la verità un po’ ozioso, sta prendendo uno spazio considerevole… Ma magari qualcuno si lascerà prendere dalla cosiddetta “vertigine della lista”… Quanto a me, ho l’intenzione di enumerare ancora soltanto i titoli ispirati al “Concerto” e alla “Sonata”, assai meno numerosi di quelli che tirano in ballo la “Sinfonia”… Ancora un filino di pazienza…)

  419. Ecco i titoli dei libri in commercio ispirati (da vicino, da lontano) alla forma della sonata, o almeno caratterizzati dalla presenza del termine “Sonata” nel titolo. Naturalmente la “Sonata a Kreutzer” di Tolstoj, che abbiamo già ricordato a più riprese in questo forum, ha dato l’imprinting a alcuni di questi titoli, che riprendono o comunque ammiccano al romanzo breve del russo (e ricordiamo, se mai ce ne fosse bisogno, che dietro, o meglio dentro, la vicenda raccontata da Tolstoj sta la beethoveniana Sonata per violino e pianoforte in La maggiore op. 47 “A Kreutzer” del 1803).
    Pare di scorgere, dietro a tutti questi titoli, un’intenzione contemplativa, intimistica, sentimentale. La “Sonata” a cui sembrano rifarsi questi titoli è ancora intrisa di romanticismo ottocentesco. Più che la forma-sonata, la potente struttura “narrativa” che è stata matrice di innumerevoli movimenti per qualunque organico strumentale, queste “Sonate” sembrano rimandare a un’occasione, a un momento di introspezione, più raramente a un dialogo sentimentale (forse, qua e là, a un’occasione salottiera). Io e il pianoforte. O, al più, io, lei e il pianoforte (e un altro strumento ad libitum).

    Vediamo un po’:
    “Sonata a Kreutzer” di Lev Tolstoj, Giunti, Garzanti, Mondadori, Einaudi, Feltrinelli, La Riflessione, B.C. Dalai, Rusconi, Passigli…
    “La sonata a Kreutzer. Versione teatrale di Leone Tolstoj” 2010, Il Papavero
    “Sonata a Tolstoj” di Barbara Alberti, 2010, B.C. Dalai
    “Sonata alla luna sul mare” di Martina Oddi, 2010, Albatros
    “Sonata d’autunno” di Inclán Ramón Valle del, 2010, Alia
    “Sonata per Miriam” di Linda Olsson, 2009, Corbaccio
    “Hahnemann. Vita del padre dell’omeopatia. Sonata in cinque movimenti” di Luigi Turinese, Riccardo De Torrebruna, 2007, E/O
    “Sonata di primavera” di Inclán Ramón Valle, 2007, La Vita Felice
    “Sonata in tre movimenti più uno” di Cristina Ferrario, M. Antonietta Garofalo, Daniela Lurà, 2007, Albatros
    “Sonata per i porci” di Giorgio D’Amato, 2007, Di Salvo
    “Sonata a Kreutzer. Una storia d’amore” di Margriet de Moor, 2004, Neri Pozza
    “Sonata per Giulia” di Paolo E. Traina, 2004, Oppure
    “Cose d’altri tempi. Sonata per la memoria” di Antonino Proto, 2003, Novagraf
    “Sonata per Louise e violino” di Tristan Egolf, 2003, Frassinelli.

  420. Durante queste vacanze ho visto (rivisto) due film: Amadeus di Forman (di cui avevo visto anche l’ottima edizione teatrale di Polanski con Luca Barbareschi) e il davvero splendido “Casa Ricordi” (1956) di Carmine Gallone. Quest’ultimo film, nel contesto di un cinema del dopoguerra che avvertiva il bisogno anche da parte di un ex-regista di regime come Gallone, di ricostruire un tessuto di cultura nazional-popolare, non nazionalista nè populista, ripercorre la storia della famiglia Ricordi per le prime tre generazioni ed episodicamente ricostruisce frammenti di vita di Rossini, Bellini, Donizetti (splendidamente interpretato da Marcello Mastroianni), Verdi, Toscanini, in continuo raccordo con lo sviluppo della società e della coscienza civile del nostro paese. Un film che andrebbe programmato nelle scuole, anche per ritrovare uno spirito risorgimentale e unitario piuttosto in crisi e oggi infestato da molteplici revisionismi. Ma ciò che mi ha colpito in questo film, essendo io cresciuto musicalmente con e grazie a Nanni Ricordi, ultimo esponente musicale della gloriosa dinastia, è stata l’incredibile somiglianza tra le vite di quegli artisti e quelle dei divi del rock della mia generazione. Il metodo da talent scout di Nanni Ricordi (cui ho accennato in una postfazione al libro di mio fratello Roberto, “Talent Shop” appena uscito per i tipi di Arcana, e stimolante confronto tra i talent-scout degli anni 60/70 e il Talent Show televisivo dei nostri tempi) il metodo di Nanni Ricordi, dicevo, non era diverso da quello dei suoi illustri antenati: i musicisti se li andava a cercare, non li aspettava in ufficio dietro la sua scrivania e la partecipazione alle loro vite, non solo professionali, era un tratto distintivo e vissuto con entusiasta disponibilità, non per mero calcolo commerciale. A parte questo aspetto particolare, credo che il cinema operistico in particolare italiano (molti i melodrammi portati sullo schermo da Gallone per primo) sia stato assai poco oggetto di studio da parte della critica cinematografica, il che rappresenta una lacuna piuttosto grave. Lacuna che oscura anche da parte nostra, la percezione di questo patrimonio all’estero e la sua profonda influenza sulla storia dello spettacolo e del divismo. Nanni Ricordi mi ricordò una volta di aver assistito come ospite d’onore in gioventù a una proiezione di gala del film “Casa Ricordi” in America, credo a New York, seduto tra Marilyn Monroe e Anthony Perkins. Quanta immagine dell’Italia all’estero non è più immagine d’Italia per gli italiani stessi? C’è da chiedersi: in quale specchio ci stiamo guardando?

  421. E veniamo al “Concerto”. Qui l’elenco torna a farsi fitto, visto che il termine può riferirsi a esperienze musicali molto diverse, dal mondo della musica colta al rock, ma anche, retoricamente, ad accordi, a sintesi, a confronti di opinioni, a condivisioni in contesti del tutto extramusicali (la scuola, la politica…) o, ancora più genericamente, all’interpretazione di una interiorità (e qui, sospetto, “concerto” vale “sinfonia”, “sonata”, “capriccio”, “serenata” o che so io). Vediamo…

    “Concerto d’estate” di Valeria Contessa, 2010, Macchione
    “Concerto di Natale” di Marcella Pera, 2010, Montedit
    “Concerto in memoria di un angelo” di Eric-Emmanuel Schmitt, 2010, E/O
    “Concerto per uomo” di Francesco Noia, 2010, Boopen
    “Concerto per violino solista “ di M. Pia Oelker, 2010, Silele
    “Concerto sconcerto. Danilo Maestosi” 2010, Gangemi
    “Il concerto” di Mihaileanu Radu , 2010, Feltrinelli
    “Solista senza spartito. Il mio concerto senza orchestra” di M. Dora Zanco, 2010, Albatros
    “Concerto a Berlino” di Francesca Viscone, 2009, Città del Sole
    “Concerto in Sol Levante. Musiche e identità in Giappone” di David Santoro, 2009, Casadeilibri
    “Il nostro concerto dei Metallica. Appunti di viaggio” di Mario Pellerito, 2009, Simple
    “Professione insegnante. Un concerto a più voci in onore di un mestiere difficile” a cura di F. Frabboni, M. L. Giovannini, 2009, Franco Angeli
    “Triplo concerto. Racconto lungo con qualche pennellata di giallo” di Giuliano Papini, 2009, Helicon
    “Il concerto dei pesci” di Halldór Laxness, 2008, Iperborea
    “Concerto per chihuahua… e frammenti di stelle… e altre code” di Valeria Taradash, 2008, Boopen
    “Concerto per poeta e orchestra” di Nicola De Cristofaro, 2008, Albatros
    “Concerto a sei voci. Roma 1944-1945: i primi governi dell’Italia liberata” di Giulio Andreotti (proprio lui), 2007, Boroli
    “Concerto pitagorico. Le basi matematiche della musica” di Ennio Peres, 2007, Iacobelli
    “Fatemi andare al concerto! Altrimenti come lo trovo il fidanzato?” di Grace Dent, Mondadori
    “Regina Poku. Concerto per un sacrificio. Leggenda” di Véronique Tadjo, 2007, Le Nuove Muse
    “Stasera concerto rock alla piola” di Gianpiero Madonna, 2007, Lampi di Stampa
    “Vita e sogni. Racconti in concerto” di Kossi Komla-Ebri, 2007, Ediarco
    “Il concerto” di Saverio Urciuoli, 2006, Sovera
    “Concerto in Dio maggiore. Partiture per una sintonia” di Luciano Sanvito, 2006, Stefanoni
    “Concerto in do maggiore. Racconto mantovano” di Giovanni Adinolfi, 2006, L’Autore Libri Firenze
    “Il concerto. Un incontro perfetto” di Aldo Police, 2006, L’Autore Libri Firenze
    “Concerto” di Enrico Brambilla, Adolfo Silveto, Antonietta Lestingi, 2005, Il Fauno
    “Concerto per flautino” di Ilaria Ludovici, 2005, Nuovi Autori
    “Delitto al concerto” di Cyril Hare, 2005, Polillo
    “Piccolo concerto metafisico. Con una lettera a Massimo Cacciari” di Antonio Luiso, 2000, D’Auria M.
    “Concerto di Natale. Racconti per venticinque notti di attesa” 1999, San Paolo Edizioni
    “Concerto in re maggiore” di Sharo Gambino, 1999, Edizioni Memoria
    “Il concerto mistico e l’estasi” di Al Ghazâlî, 1999, Il Leone Verde
    “Il concerto e la notte” di Sergio Grea, 1998, Marna
    “Concerto italiano” di Maurizio Coccia, 1998, Rubbettino
    “Corto Maltese. Concerto in O’ minore per arpa e nitroglicerina” di Hugo Pratt, 1998, Lizard
    “Il concerto” di Francesco Sabbadini, 1997, Mursia
    “Il concerto della vita” di Giovanna Zawadski, 1996, Nuovi Autori
    “Concerto di morte a villa Spina” di Giuliana Frandi Devoti, 1995, Nuovi Autori
    “Shots. Concerto per Kabul” di Michel Comte, 1995, Editoriale Giorgio Mondadori
    “Concerto barocco” di Alejo Carpentier, 1991, Einaudi
    “Cronistoria del concerto delle dame principalissime di Margherita Gonzaga d’Este” di Elio Durante, Anna Martellotti, 1989, SPES
    “Frammenti per un concerto” di Miriam Lippolis, 1980, Japadre.

    Alla fine di questa carrellata, sazi di questa interminabile stagione concertistica, probabilmente stiamo pensando: mai più un titolo che rimandi a una forma musicale, mai più! In effetti c’è una certa inflazione (penso soprattutto alle voci “Sinfonia” e “Concerto”) che diventerebbe ancora più preoccupante se aggiungessimo i titoli di opere cinematografiche (non lo farò, me ne mancano le forze, e poi andrei fuori tema).
    Si tratta comunque di titoli che giocano sulla suggestione, sull’evocazione, più che sulla riproduzione di una struttura musicale; e richiamano un’esperienza, un lavorio introspettivo, un mondo interiore che scalpita e sospira per farsi sentire (questo spiega la presenza di tanti titoli di esordienti, di tante opere prime). Ma è possibile che dietro al bisogno di intitolare musicalmente un’opera narrativa stia anche un’intenzione di ordine: un mettere ordine nei propri pensieri, o nelle proprie pagine, in una forma che non sia semplicemente quella narrativa del racconto dei fatti.

  422. @ Claudio. Nel tuo prezioso catalogo, è particolarmente interessante il rilievo sull’uso del termine rapsodia. Ora, citando dal dizionario Palazzi, il termine significa: “componimento musicale fatto su motivi altrui, ma specialmente su motivi popolari opportunamenti adattati e collegati”. Questa definizione non è impeccabile. Proviamone un’altra, dal Dizionario Musicale Garzanti: “composizione musicale libera da qualsiasi schema prestabilito e parafrasante melodie popolari nazionali, con carattere virtuosistico o coloristico.” Meglio, no? Adesso proviamo a vedere se i romanzi citati da Claudio hanno qualche attinenza. Nella maggior parte dei titoli che fanno riferimento a repertori locali pare di sì, seppure all’ingrosso. In cinema, un precedente interessante è costituito dal bellissimo film muto “Rapsodia satanica” (1915) di Nino Oxilia, recentemente restaurato dalla Cineteca di Bologna, la cui colonna sonora (originale) fu opera di Pietro Mascagni. Qui la commistione e la sintesi sta nell’aderenza (difficile a detta dello stesso Mascagni) con le diverse situazioni del film considerate non soltanto per argomento, ma dal punto di vista delle immagini e delle scelte stilistiche visive oltre che nell’interpretazione davvero sorprendente di Lyda Borelli, per varietà di sfumature e di toni, una serie ininterrotta di a solo virtuosistici che alterna realismo alla Duse (pre-Actor Studio), espressionismo divistico esasperato alla Theda Bara (in certo modo, “pop”), decadentismo melanconico visivamente ispirato al pittore Dante Gabriel Rossetti. Nel film si passa da feste alto-borghesi a feste popolari ( straordinaria la scena della festa campestre con altalene che dovette imprimersi indelebilmente nella mente di Fellini). Questa vorticosa unità di contrasti va ben al di là dell’uso del repertorio popolare, con la rapsodia si annunciano due elementi fondanti anche della letteratura novecentesca: la contaminazione tra generi e la frammentazione dell’unità di stile , che presumono per non scadere nel caotico, supremo virtuosismo stilistico. C’è da chiedersi se la struttura narrativa e le scelte stilistiche dei romanzi citati da Claudio sia consapevole e adeguata a questa visione estetica (lo chiedo a lui). Al di là di questo, è interessante l’elemento satanico che vive appunto di questi elementi: fusione e scissione, composizione per contrasti anche violenti, e virtuosismo tecnico (come nel racconto “Il Diavolo sul campanile” di Edgar Allan Poe). Dalla definizione stessa che si può leggere sul Dizionario si può rilevare come essa sia anche applicabile al jazz, altra musica ritualmente associata al diavolo. E’ diabolico cosa? L’intreccio tra tradizione popolare e suprema perizia intellettuale (espressa in assoluta padronanza stilistica). In letteratura viene in mente il romanzo sovversivo “La notte di Valpurga” di Gustav Meyrink. Ha ragione Claudio sottolineando la poca consapevolezza spesso rilevabile nell’uso letterario di termini musicali . Lo scopo pare essere sovente quello di collocare la propria opera nel Sublime, di nobilitarla accostandola alla “musica d’arte” classicamente intesa, cioè una sorta di travestimento promozionale.

  423. Caro Gianfranco, “rapsodia”, ma anche “sinfonia”, “variazioni sul tema” (ecco un’altra ricerca, che lascio volentieri a qualcun altro, ma che potrebbe dare interessanti spunti), sembrano usati il più delle volte in un senso ampio e non specialistico, alla stregua di, che so, “affresco”, “natura morta”, “autoritratto” o altri termini di pertinenza delle arti figurative; sembrano insomma rimandare non a una determinata struttura, ma piuttosto a un’intenzione di struttura, e con una certa approssimazione. Ma questi sono rilievi che faccio a naso, di fronte a titoli di opere che non ho letto, e potrei essere smentito facilmente.
    Non è tanto diversa la situazione di una forma musicale che si ispiri a una forma letteraria: “poema sinfonico”, ad esempio, è “poema” solo per modo di dire, allude come può a una dimensione poetica (o anche narrativa) senza essere davvero né poesia né romanzo.
    Diverso è il caso di quei testi che contengono l’elemento musicale nel titolo perché quell’elemento musicale è “dentro” al racconto. La “Sonata a Kreutzer” di Tolstoj ne è un esempio illustre. Molto meno illustre è “Rapsodia su un solo tema”, che cito ora solo perché la conosco bene, visto che l’ho scritta io, e che prende titolo dal titolo di una delle composizioni del protagonista Dvoinikov citate e analizzate nel romanzo (titolo a sua volta enigmatico, o almeno ossimorico), e ne fa una possibile chiave di lettura di tutto il romanzo.
    Diverso ancora è il caso di testi che sembrano (notate la prudenza) essere costruiti secondo un’architettura formale di ispirazione musicale. Abbiamo già citato la “Sinfonia” (le “Sinfonie, anzi) di Pizzuto. La “rapsodia” sembra prestarsi a questo gioco di rimandi tra musica e letteratura (a patto che il termine non sia preso semplicemente a prestito per indicare un guazzabuglio eterogeneo, sennò non ci siamo). Qualcuno ha anche preso le mosse dal “tema con variazioni”… Qualcuno ha intinto la propria penna nell’improvvisazione controllata del jazz… Molti racconti vogliono poi suonare ricalcati sulla forma breve della canzone…
    Torniamo a “rapsodia”: Gianfranco Manfredi suggerisce una coloritura “satanica” (che certo nella colonna sonora di Mascagni è programmatica) in una forma che vive sul contrasto, sull’intreccio, sulla contaminazione tra alto e basso, oltre che sulla perizia virtuosistica che spesso prende piede nelle rapsodie musicali. Non so che pensare in proposito – intanto ci penso. Ma aspetto di leggere a questo punto qualche dotta postilla di Guido Conterio, che si è già rivelato un mascagnano di ferro.

  424. Butto lì invece un’altra suggestione, cinematografica: chi ha visto “Rapsodia” di Charles Vidor? Il Morandini (no, nessuna parentela) lo presenta così: “Triangolo amoroso tra la figlia (E. Taylor) di un industriale americano, un virtuoso del violino (V. Gassman) e un promettente pianista (J. Ericson). Melodramma di un romanticismo efferato col piede sull’acceleratore dell’enfasi cavato da un romanzo di Maurice Guest, sceneggiato da Fay e Michael Kanin. Bella partitura di Johnny Green e Bronislaw Kaper (ma anche Rachmaninov e Ciajkovskij) con Claudio Arrau al pianoforte e Michael Rabin al violino. Uno dei 4 film interpretati a Hollywood da Gassman. Quasi impossibile decidere quale sia il peggiore”.
    “Romanticismo efferato”? “Acceleratore dell’enfasi”? Ci sono elementi sufficienti per decidere di farne un culto, compresa la stoccata finale.

  425. Caro Claudio,
    in verità il mio mascagnismo è “di ferro” solo in un senso squisitamente relativo: rispetto cioè alle odierne scarsucce quotazioni di un musicista che forse, come usa dire, non “invecchia” tanto bene.
    Ma in tema di rapsodie vorrei invece rammentare quello che a mio giudizio potrebbe essere considerato un moderno vertice di questo nobile genere – anche se l’autore probabilmente non ci ha pensato, e ancor più probabilmente avrebbe dissentito da una tale attribuzione, così in odore di buon tempo antico (non ho informazioni a riguardo).
    Intendo “Hymnen” di Stockhausen, un lavoro forse venuto alla luce in anni paradossalmente poco indicati (1966-69), in quanto inclini a coglierne e valorizzarne più gli aspetti più o meno scopertamente “ideologici” e di rottura che non la stretta sostanza musicale. La quale, almeno nella parte giustamente più celebre (“Terza Regione”), è notevolissima.
    Un caro augurio di buon anno a tutti.

  426. Eccolo, Karlheinz. Guido (posso dirlo, vero?) è un frequentatore appassionato delle opere del Nostro. E potrebbe a buon diritto approfondire la questione del rapporto tra suono e parola nel catalogo di composizioni di Stockhausen.

  427. Ma torniamo, per passare il tempo, agli esempi di “rapsodia”.
    Musicalmente, una rapsodia prepotentemente caratterizzata è “Italia”, op. 11, 1909, di Alfredo Casella. La si cita talvolta come esempio di kitsch estremo, espressione di un nazionalismo campanilista e già strapaesano – in questo largamente in anticipo sui tempi. Per ammissione dello stesso Casella, questo brano è stato scritto con la volontà entusiastica di realizzare anche in Italia “qualcosa di simile” a quanto Albeniz aveva fatto con il patrimonio musicale spagnolo. Ma più che alla ricerca folklorica “Italia” ci fa pensare a una carrellata di bozzetti regionali impaziente di culminare nella citazione sfacciata e insistita di “Funiculì Funiculà”. La canzone di Giuseppe Turco e Luigi Denza, del 1880, non è certo materiale folklorico (è nata per celebrare la funicolare del Vesuvio costruita nel 1879 e ha quasi un carattere promozionale…), ma nella rapsodia di Casella viene usata, mixata, rivoltata, fugata e strombazzata come un tema archetipico in un’apoteosi che oggi suona un po’ imbarazzante (chissà come l’hanno presa allora). L’”Italia” di Casella finisce insomma tutta insieme a ballare sovreccitata e accaldata sul Vesuvio – en passant, non è la prima volta e non sarà l’ultima che questo torinese dallo spirito cosmopolita sente il bisogno irresistibile di concludere in tarantella.
    È un pot-pourri per grande orchestra che sembra nato per essere arrangiato per banda (una banda di virtuosi, d’accordo); la sapienza di scrittura ci impedisce di pensare ad esso come al brano perfetto per un balletto televisivo della domenica pomeriggio – ma intanto lo abbiamo pensato, accidenti. E tutto questo è curioso, perché Casella è stato sempre, anche durante il fascismo, un compositore di apertura europeista, un modernista tutt’altro che provinciale.
    Ancora un paio d’anni, e Stravinsky, con colori orchestrali analoghi, ammiccherà a temi popolari russi (taltolta veri, più spesso “verosimili”) nelle parti più caciarone di Petrouschka. Ma mentre Stravinsky ci suona “antiretorico” (la definizione è dello stesso Casella) anche quando sembra intenerirsi, questa pagina, “Italia” cioè, ci appare retoricissima, sin dall’attacco melodrammatico.

  428. Caro Claudio,
    il rapporto tra suono e parola nell’opera di Karlheinz Stockhausen sarebbe un tema molto interessante, ma, a dispetto della competenza che generosamente mi attribuisci, temo di non essere il più indicato a trattarlo. Anche di fronte, infatti, a quel caposaldo del – se l’espressione in questo caso conserva un valore – teatro d’opera a cavallo dei due millenni che è il monumentale ciclo “Licht”, ho sempre avuto una certa (colpevole) tendenza a trascurare i libretti (altro termine, nella fattispecie, da scomodare con cautela) a vantaggio di un ascolto “svincolato”, lasciandomi semmai intrigare dalla mera, talora stupefacente, sapienza “fonica” con cui la voce umana viene “aggredita” e, talora, reinventata. Ma i testi… ripeto: a una prima e magari superficiale lettura appaiono ostici, quando non pretestuosi. Esiste probabilmente un’adeguata bibliografia anche a loro riguardo: ma sarebbe, in effetti, simpatico se qualche “connoisseur” (non ne mancano, e la cittadina tedesca di Kürten è la loro Bayreuth) dicesse la sua in questa sede.

  429. Caro Guido,
    il gustoso assaggino che offri è già qualcosa. E penso che ce lo faremo bastare, anche se non è impossibile che tra i frequentatori di questo forum ci sia un (altro) esegeta pronto a discettare sull’uso della parola nella musica di Stockhausen. Vediamo.

  430. Ho cominciato a leggere con grande interesse “Fanny Mendelssohn – Note a margine” di Adriana Mascoli e Marcella Papeschi (Manni, 2006, seconda edizione 2010). È un romanzo d’impianto complesso, che rielabora la vita della sorella di Felix attingendo a pagine autentiche di diario e di lettere, in un gioco continuo tra invenzione e ricostruzione. Il sottotitolo mi pare felicemente allusivo: le “note a margine” sono (anche) quelle delle donne musiciste, in particolare compositrici, in un mondo prevalentemente al maschile.
    Nell’introduzione, dal titolo “In-audita presenza: le compositrici nella storia”, Claudia Galli e Mariateresa Lietti mettono bene in luce gli ostacoli sociali e i pregiudizi culturali contro cui le musiciste (compresa Clara Wieck Schumann) hanno dovuto combattere, e che talvolta hanno saputo superare almeno in parte con la solidarietà.
    Tornerò su questo libro ricco di spunti di riflessione e di lettura godibile, promesso.

  431. Proseguendo nella lettura di “Fanny Mendelssohn – Note a margine” di Adriana Mascoli e Marcella Papeschi sono colpito da alcuni aspetti, che proverò a evidenziare.
    La musica è raccontata come un connubio tra talento e studio: l’uno senza l’altro non sembrano portare da nessuna parte. L’approccio di Fanny e del fratello Felix alla musica, pur combinando studio e talento, è diverso: la memoria e la tecnica di Fanny sono infallibili; Felix eccelle in scioltezza e tocco leggero. Entrambi sono straordinariamente dotati per la composizione. Vederli suonare assieme è assistere a due talenti che si completano e si rispettano, anche nella pratica umile dell’esercizio tecnico: “Lui è molto bravo e riesce a mettersi da parte quando sono io che eseguo la voce principale” scrive Fanny in una pagina di diario del 10 dicembre 1819; “diventa gentile e lascia spazio alla mia linea melodica, anche se il maestro dice sempre che nella ginnastica per le dita la delicatezza non ci vuole”.
    A prevalere comunque è sempre Felix. Nelle occasioni sociali e familiari in cui vengono esibite le doti dei due ragazzini, il solo Felix è spinto avanti, solo in lui sembra realizzarsi l’ambizione del padre. Fanny, che pure ha ricevuto e sta ricevendo un’educazione di prima qualità, viene bloccata nel momento in cui dimostra con la più grande naturalezza che le donne possono essere (sono) pari agli uomini: Fanny sovverte così le convenzioni e l’etichetta di un’epoca, esce dalla dimensione familiare e salottiera in cui sembrano essere relegate le donne di talento.
    Da questo sta nascendo (sono alla prima cinquantina di pagine) un rapporto particolare con il fratello Felix, fatto di grande affetto sì e di rivalità, che si manifesta in silenzi e malumori e pagine pensose di lettera e di diario.
    Interessanti personaggi sono il padre e la madre. Il primo fiero dei figli, ma disposto ad appoggiare fino in fondo il solo figlio maschio, al punto da negare a Fanny la possibilità di esibirsi di fronte a Goethe con il fratello; la madre testimone silenziosa della sottovalutazione e della sofferenza della figlia, e incapace (per ora) di andare contro l’autorità del marito e le convenzioni sociali.

  432. Buongiorno! Riemergo da qualche giorno di latitanza per segnalare un’antologia poetica che insegue suggestioni e commistioni che questo forum conosce bene. “Con ORCHESTRA – POETI ALL’OPERA n.3″, pubblicato da Lietocolle, si propone con queste parole: “Dieci orchestrali, scelti e diretti da Guido Oldani, producono armonie inedite su spartiti personali utilizzando differenti timbri”.
    Gli “orchestrali”, se vogliamo stare al gioco, sono Alessio Alessandrini,
    Martha Canfield, Maddalena Capalbi, Maria Pina Ciancio, Salvatore Contessini, Antonio Fiori, Vincenzo Mascolo, Augusto Pivanti, Margherita Rimi, Anna Toscano.
    Per gli approfondimenti rimando alla pagina http://www.lietocolle.info/it/aa_vv_orchestra_poeti_all_opera_n_3.html.

  433. Non vedo l’ora di leggere “La letteratura è un cortile”, di Walter Mauro, appena pubblicato da Perrone. A incuriosirmi non è solo la grandezza dell’autore, ma anche il suo eclettismo di uomo di lettere, critico e musicista, che fa sì che nel saggio vi sia “musica, tantissima musica – la partitura di un’esistenza irripetibile che è un lungo tratto di storia del ’900”. Ricordo a questo proposito che Mauro frequenta con passione da anni il mondo del blues e del jazz.
    Bene, ne riparleremo presto.

  434. Annoto qualche osservazione su “La letteratura è un cortile” di Walter Mauro, che ho cominciato a leggere con gusto. La musica entra sin dalla prima pagina, con un ricordo dei primissimi anni quaranta: un negozio di dischi, i titoli e gli interpreti ridicolmente italianizzati dal fascismo, e la nascita da lì, di una avversione radicale verso quel regime coercitivo e grottesco. La passione (musicale, letteraria, intellettuale insomma) nelle pagine di Mauro si intreccia da subito, e con estrema naturalezza, con la passione politica.
    Walter Mauro ricostruisce con lucido affetto l’ambiente familiare, il padre wagneriano e dannunziano (ma irriducibilmente antifascista), la madre brillante pianista, allieva di Sgambati, che sacrifica però la carriera alla nascita del figlio, e il giovane Walter già orientato verso il jazz, si direbbe non per reazione alle preferenze dei genitori, ma in virtù di una sua predisposizione naturale. Che non fosse frutto di una ripicca (quanti figli diventano incendiari perché i genitori sono pompieri, o diventano pompieri giusto perché i genitori sono incendiari!) lo dimostrano i tentativi di far suonare alla madre, di stretta impostazione accademica, il jazz – e l’interesse e il coinvolgimento che Mauro prova comunque per la musica classica amata dalla madre.
    A pag. 20 una sorpresa divertente: il Gualtiero interpretato da Walter Chari nel film “Lo sai che i papaveri” è ispirato proprio alla figura del nostro autore, insegnante e letterato di giorno, ma la sera musicista jazz nei locali notturni. Mauro stesso, nell’introdurre l’aneddoto, confida la “tendenza a incrociare continuamente la musica e la letteratura, non isolando l’una dall’altra, ma cercando di trovare un punto d’incontro”.
    Nelle pagine successive giganteggia la figura di Ungaretti, come poeta, uomo e insegnante universitario di potentissima personalità, e la sera amante di samba e bossa nova. E appunta Mauro, acutamente: “mi parve persino di intravvedere un punto di contatto tra la musica che ascoltavamo, cioè il jazz, la musica spezzata, sincopata, fatta di armonie non continuative, e la poesia di Ungaretti”.
    Continuo a leggere.

  435. Voglio segnalare, tornando a uno dei temi che hanno più volte attraversato questo forum, “Il secolo del rumore. Il paesaggio sonoro del Novecento”, di Stefano Pivato (Il Mulino, 2011).
    Rumore, suono, silenzio. Guerra, industria, città, luoghi di ritrovo, società di massa, musica, musiche anzi. Il boom. Il rumore nella musica – nel cinema, nell’arte, nella letteratura.
    Come si vede, il denso articolo di Simonetta Fiori su “La Repubblica” di oggi a proposito del saggio di Pivato mi ha riempito di curiosità.

  436. Naif Hérin è una delle voci più fresche e ispirate della canzone italiana. La sua notorietà è cresciuta anno dopo anno, grazie all’impegno suo e dei suoi collaboratori (tra cui il complice di sempre, Simone “Momo” Riva, confondatore del marchio “TdEproductionZ”), e grazie a una serie fittissima di concerti e di registrazioni che la vedono sempre in movimento, tra Italia e Francia.
    In questi giorni sta ultimando un nuovo album (il quarto ufficiale, dopo “Naif”, 2005, “…è tempo di raccolto!”, 2009, e “Faites du bruit”, 2010, il suo disco “francese”), ma ha trovato il tempo di rispondere ad alcune mie domande sul comporre e sul rapporto tra parola e musica nell’ambito della forma-canzone.

    1 – Come nasce una canzone? Da che cosa parti?
    NAIF – Nel cervello ho una specie di ufficio che lavora 24 ore su 24. Raccolgo continuamente immagini, frasi, descrizioni, atteggiamenti, melodie, passaggi armonici, ritmi e me li appunto. Negli ultimi anni ho affiancato alla mia tecnica di “raccolta-sovrappensiero” la “rielaborazione notturna”. Durante la notte una parte di me continua a fabbricare e assemblare idee; capita spesso che in piena notte prenda l’iphone e registri delle idee, per la felicità di chi condivide il letto con me. È una specie di dormiveglia da cui esco solo nel caso che l’idea prodotta sembri sufficientemente interessante al mio subconscio; allora afferro l’iphone e tento di emettere dei suoni a un volume bassissimo, ma a volte mi tocca alzarmi e andare in bagno a registrare. La parte divertente sta nel tentare poi di decifrare le registrazioni… Non sempre ci riesco: una volta ho registrato un motivetto che mi pareva meraviglioso… peccato che fosse una canzone dei Beatles!

    2 – Per te è più importante il suono delle parole o il senso?
    NAIF – Questa sì che è una lotta feroce! Il suono e il senso, rivali o amanti? Forse quando ho cominciato a scrivere canzoni badavo più al suono, ma con gli anni il senso ha preso piede, e su alcuni brani è diventato la cosa più importante. L’operazione che trovo più difficile è decisamente trovare l’equilibrio tra questi due mondi, ci sono brani in cui la melodia è limitata a poche battute… Il senso ha bisogno a volte di più spazio per “raccontarsi”, in quei casi il suono prende il sopravvento. La sensazione di completezza si raggiunge quando suono e senso viaggiano paralleli, quando il suono descrive proprio il senso delle parole, aggiunge informazioni, e con la precisione di un bisturi va a lavorare nel punto giusto enfatizzando sfumature emotive che sarebbe difficile descrivere usando solo uno dei due mezzi a disposizione. Miscelando il suono e il senso un autore ha una bella gamma di possibilità; ma a questo punto emerge un altro bel quesito: cosa si vuole comunicare e a chi.

  437. 3 – Esiste la canzone pop perfetta? Quali sono gli ingredienti alchemici che fanno di una canzone una canzone ideale?
    NAIF – Ogni persona credo abbia la sua canzone perfetta, io ne ho un sacchetto pieno. Per un motivo o per l’altro ci sono canzoni che mi emozionano ogni volta che le ascolto e che trovo perfette, che siano pop o meno. La canzone perfetta credo sia per definizione una canzone capace di creare un collegamento con l’ascoltatore, diventa “pop” nel momento in cui riesce a parlare a un pubblico vasto.
    Esiste anche “la canzone pop ideale” come una specie di pacchetto offerta salvadanaio messa a punto dall’industria discografica commerciale. Ogni autore, anche quello alle prime armi, ne conosce le regole; si tratta di codici che possono variare un pochino a seconda dell’epoca e delle mode del momento, ma che bene o male seguono degli standard: strofa, inciso, ritornello, seconda strofa, secondo inciso, ritornello, special e ritornello un tono più su, il tutto in tre minuti, con melodia semplice, testo non troppo complesso e concetti alla portata di tutti, arrangiamenti già codificati dalle masse, passaggi armonici senza troppi fronzoli e chiusure vocali prevedibili – insomma una canzone capace di essere canticchiata al secondo ascolto anche dal vicino di casa meno intonato. Anche io a volte faccio i conti con questi codici, sono strumenti che bisogna conoscere, in alcuni casi seguire, in altri evitare. In fondo credo che ogni autore vorrebbe riuscire a scrivere almeno “una canzone pop perfetta e allo stesso tempo di qualità” nella propria carriera.
    Esistono anche altri aspetti che incidono profondamente nella buona riuscita di una canzone pop: l’interpretazione, la promozione, il contesto culturale, ecc. In definitiva, credo sia davvero difficile scrivere una canzone perfetta e fare in modo che sia riconosciuta come tale.

    4 – Quanto cambiano le tue canzoni nel tempo? Ti piace trasformarle, adattarle alle circostanze e agli organici?
    NAIF – La cosa bella delle canzoni è proprio questa. Sono creature mobili, soggette a variare in base all’interprete, al tempo, all’arrangiamento e via dicendo. Col passare del tempo possono essere cambiate, rivisitate, aggiustate, limate, scardinate, distrutte!

    5 – E quanto sei cambiata tu?
    NAIF – Io credo di essere sempre in metamorfosi, nel bene e nel male, e in questo sono simile alle mie canzoni. Mi piace allontanarmi, perdermi e poi ritornare. Sono una zingara della composizione e credo che il mio continuo vagare mi abbia reso in esperienza e forse meno in “praticità”.
    (E qui Naif sorride).

  438. 6 – Qual è il contributo degli altri musicisti alla creazione di una tua canzone?
    NAIF – Il contributo alla scrittura è variabile. In passato ho firmato brani assieme ai miei collaboratori più stretti; si trattava di un suggerimento iniziale, un’idea di riff, un passaggio armonico, la condivisione di un’emozione che si traduceva in musica e su cui poi lavoravo per conto mio. Negli anni ho coltivato di più la scrittura solitaria, forse per necessità, forse per casualità, o perché nel luogo in cui sono cresciuta non esistono molti veri autori. Ultimamente invece sto lavorando a stretto contatto con altri artisti. La condivisione mi piace, mi diverte, mi rasserena e inoltre permette di raggiungere ottimi risultati, ma certamente richiede voglia di capirsi, qualche rinuncia, stima e rispetto reciproci.

    7 – Quando scrivi una canzone per un altro artista, da che cosa parti?
    NAIF – Dall’idea di un vestito. Dico sempre agli artisti per i quali scrivo di pensare a me come a una sarta. Inizialmente studio la loro vocalità, il loro repertorio, tento di capire il loro “colore”, tento di interpretare una richiesta oppure propongo un’idea… «Secondo me staresti bene con questo vestito, provalo!». Una canzone è una porta che un artista può aprire e decidere di varcare o di chiudere, l’importante è che la senta sua, che ci si riconosca, che sia credibile. O, per tornare all’immagine del vestito, che calzi il meglio possibile; può anche essere rosso e vistoso, inusuale, ma ideale per una serata, oppure un abito con uno stile da riempire un armadio. Le canzoni vanno sistemate, un po’ come si usava fare negli anni ‘60 e ‘70, quando l’autore partecipava alla produzione del disco attivamente, e se c’era da aggiustare, da modificare qualcosa era lì a disposizione, pronto a fare il suo dovere. Io tento di seguire questa strada, lavoro a stretto contatto con gli artisti, non esiste ora, non esiste luogo, esiste solo la precisione del taglio e la serena consapevolezza del lavoro ben fatto.

    8 – E quando ti appropri di una canzone altrui, che cosa cerchi?
    NAIF – Anche qui mi piace ricercarne il senso. Ci sono brani apparentemente semplici e “pop” che pensati nell’epoca di pubblicazione portano con sé delle rivelazioni, altri che reinterpretati oggi sembrano dirci che in fondo non è cambiato niente, oppure ci suggeriscono nuove visioni di ciò che li ha ispirati. Mi approprio di una canzone altrui principalmente perché mi piace, stimo l’autore o l’artista che l’ha resa conosciuta. Le “cover” plasmate a dovere aiutano l’economia dei progetti artistici originali, nel disco come nei live… a patto di non esagerare.

    9 – Ti piace infrangere le regole, cambiare le carte in tavola, sperimentare nuove soluzioni, stupire?
    NAIF – Oh, sì! È il mio peggior difetto! Ma ha volte alcuni miei esperimenti hanno dato frutti inaspettati, quindi non me ne preoccupo più di tanto, mi concentro sulla creazione, sulla ricerca di un’emozione, studio soluzioni, cerco immagini, imbastisco, registro, vado in adorazione per qualche giorno, dopodiché con leggerezza penso: “È solo una canzone!”

  439. Torno sull’affabile saggio di Walter Mauro “La letteratura è un cortile” e su quel fertile intreccio tra musica e letteratura che ne anima le pagine. Lo faccio divagando anch’io, e improvvisando un po’. Il libro di Mauro è una raccolta di ricordi, di incontri, in cui la musica viene tirata in ballo con naturalezza ogni volta che si fa riferimento agli Stati Uniti o al Sudamerica. Gli Stati Uniti sono innanzitutto il jazz, che Mauro pratica anche come musicista e su cui riflette nel vederlo in simbiosi con certe tendenze letterarie. Lo aiutano a focalizzare questa sintesi tra scrittura e musica (improvvisata) alcune figure di contaminatori come Boris Vian, o le analisi di un poeta curioso del jazz come Gregory Corso, che associava la scrittura automatica allo sviluppo estemporaneo tipico dell’improvvisazione jazzistica. Accanto a queste figure, ecco giganti del jazz, come Miles Davis (a lui e a Juliette Gréco Walter Mauro ha dedicato un libro che è insieme ricostruzione e reinvenzione), dominati da un’inquietudine insaziabile, oltre che dalla dipendenza dalla droga.
    Il problema dell’autonomia dell’artista, e dello scrittore in particolare, attraversa molte pagine di “La letteratura è un cortile”: durante il fascismo, prima; dietro alle direttive del PCI, poi, per molti. Mauro torna con affetto (talora con rimpianto) a occuparsi, accanto agli inevitabili e agli originali, di alcuni grandi irregolari, che vissero non senza drammi la loro indipendenza, o la loro renitenza a essere etichettati (prima di tutto entro il neorealismo che si era imposto nel dopoguerra): ecco Fenoglio, allora, o Berto, ma anche Bonaviri, Zavattini… In loro, Mauro riconosce la capacità di scappare dalle secche della riproduzione cronachistica in cui rischiava di finire il neorealismo, attraverso il gioco letterario, la divagazione, i “nidi di ragno” dietro a cui perde tempo Pin, il personaggio del romanzo di Calvino (tra parentesi, un altro di cui accanto alla grandezza Mauro non nasconde i difetti)…
    Va spiegato il titolo, a questo punto: lo fa lo stesso autore, quando scrive che “la letteratura è un cortile nel senso dei pettegolezzi, dell’odio, del rancore, dei dispettucci tra letterati”. Qui, appunto, viene citato Calvino.
    Nelle pagine “politiche” su Duke Ellington (“Il blu è il colore della persecuzione”, uno dei capitoli più densi, a mio parere, e più jazzistici, nell’impostazione), la condizione di “uomo invisibile”, secondo la definizione di Ralph Ellison, passa dall’uomo afroamericano all’intellettuale tout-court. Cito le parole lucidamente profetiche di James Baldwin che, intervistato da Mauro, affronta il discorso sul ruolo dell’intellettuale: “Siamo tutti nello stesso sacco e ci troviamo tutti nella medesima impossibilità, nell’assoluta impotenza di agire con le nostre opere comunque siano”.

  440. Sul numero di febbraio di “Amadeus” compare un bell’articolo su Silvia Colasanti (“Eppure sentire”, di Marilena Laterza). Tornerò a parlarne, perché la Colasanti, che figura tra i giovani compositori italiani più brillanti, ha dimostrato in molte sue composizioni un’attenzione particolare per la fusione tra suono e parola, oltre che uno spiccato gusto letterario.

  441. (È sempre un piacere, Massimo).
    Dunque, ritorno a Silvia Colasanti e all’articolo che Marilena Laterza le ha dedicato sull’ultimo numero di “Amadeus”.
    “Di tumulti e d’ombre. Studio per Faust” è il titolo di un quartetto per archi che prelude a una più vasta opera di teatro musicale su testo di Pessoa. La stessa compositrice definisce questo Faust “tormentatissimo, nichilista, incapace di amare”. Il quartetto è stato concepito “come una scena teatrale immaginaria nella quale i materiali musicali ricalcano le principali situazioni emotive dell’opera” procedendo “per reminiscenze”.
    La Colasanti non è nuova a commistioni tra musica e parola. Nell’articolo vengono citati i melologhi “Orfeo. Flebile queritur lyra” e “L’angelo del Liponard. Un delirio amoroso” (da Tobino!): letture sceniche in cui la voce recitante e la musica collaborano direttamente, restando in un certo senso separate. Ma sono ricordati anche brani di musica in cui il riferimento letterario rimane sottinteso, o, come dice l’autrice, “è solo programmatico”: “Cede pietati, dolor” (Seneca, la “Medea”), ad esempio. Sul sito della compositrice (http://www.silviacolasanti.it) l’intento programmatico è così spiegato: “L’orchestra riproduce la drammaturgia della ragione che dilania se stessa, la lotta tra tensioni contrarie che prima di risolversi nel furor”. Riproduce. Drammaturgia. Sono parole forti, che esprimono una fiducia nella forza comunicativa della musica.
    Confida la Colasanti a Marilena Laterza: “Prediligo testi che parlano in maniera profonda di una parte dell’anima, che sia una poesia di Borges o il Faust di Pessoa”. E dopo aver riconosciuto che in questa ricerca di un nesso con la parola la musica assume appunto una “funzione drammaturgica”, la compositrice esprime un concetto forte, che sembra voler levare dalla musica contemporanea ogni cerebralismo: “Più viscerale e intuitiva rispetto alla parola, la musica riesce a esprimere le nostre pulsioni a uno stadio primordiale, in cui il pensiero non è già un pensare, ma ancora un sentire”.

  442. Curioso il libro che ho trovato in biblioteca mentre curiosavo alla ricerca di nuovi spunti per questo forum. Si tratta di “SempreVerdi – 14 opere in forma di racconto” di Vittorio Sermonti (Rizzoli, 2002). Nelle quattordici (come chiamarle?) narrazioni di questa raccolta Sermonti, con affettuosa e documentatissima ironia, riscrive altrettante opere di Giuseppe Verdi. In molti casi è una specie di riappropriazione da parte della letteratura: soggetti nati dalla penna di illustri romanzieri o drammaturghi, passati poi tra le mani di più modesti librettisti e messi finalmente in musica, tornano ad essere letteratura, parole su carta. Il trattamento lascia il segno: nella versione sermontiana i personaggi si muovono e cantano su palchi spesso esplicitamente citati, ed è parte di questo gioco la musica (gli strumenti, anzi, cioè gli orchestrali, che il racconto cita di frequente come attori a tutti gli effetti). La parafrasi racconta e insieme li analizza nell’opera, rimescola continuamente le carte, li fa conversare o litigare attraverso le battute del libretto citate alla lettera, talvolta va per le spicce (“Ernani sacramenta tra sé”), scarta verso la contemporaneità.
    Ecco un semplice esempio di come la musica viene citata nella narrazione: “I tre crocchi di streghe, che appariscono fra gran botti striati da cromatismi d’archi un po’ sospetti, cantocchiano (sic!) staccato e marcato assai i loro sortilegi da quattro soldi”. O un altro: “E lei, su un galoppo pianissimo a piena orchestra, rabbrividisce”. È davvero il racconto dell’opera, fatto partitura alla mano – o la parafrasi a parole di quella partitura, con un occhio al libretto e un altro ai meccanismi e alle convenzioni e alle deliziose assurdità del teatro.
    Nel 2001 ricorreva il centenario della morte di Giuseppe Verdi. Per l’occasione, a Giorgio Battistelli era venuto in mente di chiedere al Sermonti di “ri-raccontare” la metà del totale delle opere di Verdi, in quattordici racconti “di secondo grado” (ma anche terzo, se non quarto, in certi casi) che altrettanti compositori (Ferrero, Dall’Ongaro, Nova, tra gli altri) hanno poi liberamente messo in musica per piccola orchestra e voce recitante (lo stesso Sermonti).
    Sarebbe bello se Radio Tre riproponesse quelle operine, visto che siamo nel clima giusto (Verdi, Risorgimento, Unità d’Italia, insomma ci siamo capiti).

  443. L’amica scrittrice francese Stéphanie Hochet in questi giorni si trovava in Valle d’Aosta per una breve vacanza. Incontrarla e conversare con lei, portarla a visitare i luoghi (Aosta, Torino) in cui ha vissuto Pasquale Villano, uno dei suoi personaggi di “La distribution des lumières”, è stato estremamente interessante. Ho avuto anche il piacere di presentarla nel corso di due incontri, il 9 marzo alla Biblioteca Regionale di Aosta e l’11 presso la Libreria Minerva, e di approfondire con lei temi e aspetti del suo ultimo libro, edito da Flammarion nel 2010, e dei sei precedenti. Ho trovato in lei (ma questo non mi ha stupito) una scrittrice profondamente consapevole, attenta agli equilibri che regolano la struttura di un’opera, legata a modelli letterari classicamente “alti”, e insieme disposta a sperimentare e a rischiare. Alla ricerca di possibili sinestesie tra letteratura e altre arti, abbiamo parlato di architettura, soprattutto di suggestioni pittoriche. Il titolo del suo ultimo romanzo rimanda in effetti alla tecnica pittorica della distribuzione delle luci e delle ombre: ogni volta che parla uno dei tre personaggi principali (Aurèle, Jérôme, Pasquale), la luce per così dire lo isola dagli altri, e lascia in ombra gli altri. Ma è anche vero che le tre voci tessono un sistema complesso di ricostruzione dei fatti attorno al quarto personaggio, Anna, l’oggetto del desiderio, che voce non ha, o che ne ha una che risuona per simpatia nelle voci altrui. Ed ecco che accanto ad architettura e a pittura come possibili riferimenti per la particolare tecnica narrativa scelta dalla Hochet in questo suo settimo romanzo, compare, visto che si parla di voci, la musica.

    La musica, dicevo, e in particolare il contrappunto. Il termine contrappunto, nella trama del romanzo, è prima di tutto l’elemento che fa avvicinare il personaggio italiano, Pasquale Villano (esule a Lione per il disgusto di fronte alla degenerazione politica del suo paese) e Anna Lussing, insegnante di musica nella banlieue lionese. Pasquale, che lavora alla traduzione di un romanzo in lingua inglese (come fecero Pavese o Vittorini, precisa la Hochet), ha bisogno di dettagli sul contrappunto, e, dopo aver cercato invano informazioni troppo tecniche, trova in Anna l’interlocutrice giusta.
    Una prima suggestione contrappuntistica appare in questo breve dialogo tra Pasquale e Anna (la prima battuta della citazione è di quest’ultima):
    «- Je peux vous conseiller quelqu’un si vous voulez prendre des cours de musique.
    – Non. Je ne cherche que des précisions sur le punctus contra puntum.
    – L’harmonie, l’horizontalité, la verticalité, ça ne vous dit rien ? (…)»
    E più avanti, dopo qualche confidenza sulle origini valdostane di Pasquale :
    «- Connaitre deux langues, c’est un bon début pour comprendre le contrepoint, le principe est le même.»
    Qui Pasquale sembra portatore lui stesso di un contrappunto interiore a tre voci, in quanto bilingue, anzi trilingue (l’italiano della memoria, l’inglese delle traduzioni, il francese della comunicazione nel presente); ma potremmo dire lo stesso anche di Aurèle, l’adolescente «ossessionata dal linguaggio» secondo il giudizio della stessa autrice, uno di quei personaggi potenti e devastanti che portano scompiglio nei romanzi di Stéphanie Hochet (in Aurèle, grande affabulatrice, la parola scardina la realtà, la manipola, la ricostruisce).

    Ma un’idea di contrappunto è anche e soprattutto – lo si scopre un po’ alla volta, senza che questo procedimento sinestetico sia troppo ostentato – alla base della costruzione “polifonica” del romanzo. Essa permette di esprimere la molteplicità e insieme di cercare un equilibrio, una sintesi. Ha scritto la stessa Hochet rispondendo a un’intervista: «Les personnages qui ont la parole (Aurèle, Jérôme, Pasquale) sont les amoureux d’Anna. C’est leur seul point commun, en dehors de ça, ils sont à l’opposé les uns et des autres. L’objet aimé (qui finit par devenir vraiment un objet) est ce qui les réunit. A l’image du contrepoint en musique, leurs styles discordants s’unissent autour d’un thème. » Cioè, insomma : i personaggi che prendono di volta in volta la parola sono innamorati di Anna. Questo è il solo punto in comune tra loro, a parte questo i tre sono in forte contrapposizione l’uno con l’altro. L’oggetto amato (che davvero finirà per diventare oggetto) è ciò che li riunisce. Come nel contrappunto fondato sul procedimento imitativo, i loro stili contrastanti si uniscono attorno a un tema (Anna).
    Che Anna sia il personaggio ossessivamente presente nei pensieri dei tre, ma allo stesso tempo sia silente, è un aspetto che può sorprendere. Ma se si ascoltassero tutte le voci, si rischierebbe la cacofonia, ha riconosciuto l’autrice. Senza contare che anche di questo è fatto il contrappunto, di silenzio, di voci che tacciono, di parti implicite che risuonano per simpatia, nascoste tre le pieghe della tessitura complessiva.

    Stéphanie ha citato opportunamente una frase della Yourcenar, «Un roman est le portrait d’une voix», il romanzo è il ritratto di un voce. Qui, nella “Distribution des lumières”, le esigenze polifoniche spingono, come si diceva, a un trio di voci. «Écrit à la troisième personne ce texte aurait été trop descriptif, trop analytique» : raccontato in terza persona il testo sarebbe risultato troppo analitico, descrittivo, insomma freddo. Troppo comodo il narratore esterno onnisciente, che consente un distacco quasi confortevole dalla materia brulicante del romanzo (comparirà alla fine, a raffreddare l’incandescenza della trama, in un ambiguo happy end: e qualcuno ha visto in questa una quarta voce, del tutto differente dalle altre). Un narratore in prima persona, poi un altro, poi un altro ancora, non solo costringono il lettore di entrare profondamente nella storia, ma lo coinvolgono fino a sballottarlo in una persistente condizione di disagio.
    Ogni voce è il ritratto di una diversa forma di attrazione (d’«amour», scrive assai più nettamente la Hochet). Le tre voci sono così diametralmente opposte che era necessario favorire la comprensione del lettore (l’ascolto, anzi, verrebbe da dire) attraverso una differenziazione delle tre : Pasquale è una voce classica, sofisticata, precisa, molto “scritta” se vogliamo, anche quando l’indignatio verso la degenerazione del suo paese (il nostro) lo spinge verso toni duri alla Giovenale; Aurèle è « violenta e cerebrale » allo stesso tempo, il suo lessico rimanda continuamente alla fisicità dei corpi attraverso un continuo giocare con le parole; la lingua di Jérôme, paratattica, spesso alogica, esprime soltanto emozioni, sensazioni, pulsioni, ossessioni.

    Il romanzo di Stéphanie Hochet non vuole riprodurre nella sostanza una tecnica contrappuntistica, ma trova nel linguaggio musicale il fecondo suggerimento di una struttura polifonica e imitativa; esso allude insomma al contrappunto, restando saldamente ancorato a una natura narrativa. Certo, se vogliamo stare al gioco e trovare nell’ambito musicale un equivalente della tecnica della Hochet, non è in Palestrina o Marenzio che bisognerebbe cercarlo, ma piuttosto in certi ripiegamenti tormentati verso il contrappunto che hanno caratterizzato il Novecento – un contrappunto in cui il sovrapporsi delle linee melodiche non sfocia verso l’armonia del tutto, ma verso asperità dissonanti, attraverso uno strisciante conflitto di voci – oppure negli omaggi di Stravinsky o Sciarrino a quel complesso genio che fu Gesualdo da Venosa.

  444. In attesa di leggerlo, segnalo il volume che raccoglie la “Trilogia della sequenza. Storie d’amore e di dottrina dal Medioevo a oggi”, di Bruno Andreolli, uscito nel 2010 per Diabasis. La scheda editoriale presenta così l’opera: “Finalmente raccolti in un unico volume i tre romanzi che il medievista Bruno Andreolli ha voluto costruire attorno al tema della sequenza: una forma di musica e di canto che accoglie in un comune destino protagonisti del passato e del presente.”
    La raccolta comprende tra l’altro “La sequenza. Storia d’amore e di dottrina del IX secolo” del 2002 e “Lo scrigno delle sequenze” del 2005. E per approfondire il discorso su cosa sia una sequenza, rimando (che pigro, eh?) a questi link: http://www.gremus.it/?q=node/922 e all’inevitabile http://it.wikipedia.org/wiki/Sequenza_%28liturgia%29.
    Su http://www.youtube.com/watch?v=HeDm4qw_Eb4 si trova il video della presentazione della Trilogia.

  445. (Un piacere, come sempre, Massimo).
    Il sito della Società Filarmonica di Trento dedica alla letteratura variamente legata alla musica una pagina, http://www.filarmonica-trento.it/letteratura.htm, che contiene numerosi suggerimenti interessanti e numerosissime conferme. La segnalo volentieri (quel che è giusto è giusto) e mi riservo di tornare su alcuni dei titoli che non conoscevo e che d’improvviso mi sembrano imprescindibili, sia pure a naso. Se poi non fossi il solo a farlo, sarebbe magnifico…

  446. Leggo “Momento musicale”, il racconto lungo che dà titolo alla raccolta (be’, se si può dire raccolta una coppia di racconti) dello scrittore israeliano Yehoshua Kenaz pubblicata da poco da Giuntina.
    La musica vi entra attraverso le reminiscenze d’infanzia dell’io narrante, all’epoca un bambino pieno di tic, immerso in una famiglia attenta e un po’ oppressiva: la musica per lui è all’inizio tutta sensi, suoni e odori (la colofonia, passata sulle corde dell’archetto del violino), fisicità (e attrazione vaga per la bella e maestosa maestra di strumento, Hanina); ma subito dopo diventa grigia routine, oppressione dolorosa, noia e sensazione di abbandono, con i ricordi delle lezioni al conservatorio di Haifa. Una lezione di violino e pianoforte, ascoltata da un corridoio del conservatorio, sbirciata da una porta socchiusa, rivela all’io narrante una gamma di emozioni contraddittorie, e la capacità della musica di giocare con tutte queste emozioni, e con altre che ancora il ragazzino non conosce. Pianoforte e violino ora collaborano, ora lottano. Il giovane allievo che suona il violino con una concentrazione assoluta incanta il ragazzino, e l’aria eseguita diventa un’ossessione: il narrante cerca invano di riprodurla, a voce, con il suo piccolo violino, ma il confronto sembra schiacciarlo.
    Il narrante continua a sentirsi inadeguato dinanzi a quel modello (Uri, si chiama il giovane violinista, e non avrà più di tredici anni: ma per il piccolo narrante è un modello irraggiungibile, come la famiglia di Uri stesso, osservata durante un concerto al conservatorio, nella compostezza dell’occasione solenne). Quando Uri esegue le variazioni sulla Follia di Corelli, il bambino ne ammira spaventato lo splendido isolamento dal mondo: “è un’interpretazione di una purezza quasi spaventosa, provocante, impersonale, fredda ed estatica allo stesso tempo”. E sente che le lacrime della madre non nascono dalla commozione per l’esecuzione, ma sono per lui, per quello che lui non è e on sarà mai.

  447. Marcella Papeschi e Adriana Mascoli, le autrici di “Fanny Mendelssohn – Note a margine” (Manni, 2006), hanno accettato di rispondere ad alcune mie domande sul loro romanzo. Avevo già scritto tempo fa, in questo forum, di “Fanny Mendelssohn”, dell’attenta ricostruzione degli atteggiamenti e delle emozioni del primo Ottocento, del mondo fatto di gerarchie familiari, dell’intreccio tra passioni trattenute, ossequio alle convenzioni sociali e ribellioni interiori che le autrici hanno saputo ricreare.
    Il romanzo gioca sin dal sottotitolo (“Note a margine”) con il tema attorno a cui stiamo girando da mesi nel forum di “Letteratitudine”, il rapporto anche linguistico tra musica e letteratura. Si potrebbe aggiungere che anche scrivere un romanzo “a quattro mani” è ammiccare alla letteratura musicale e alla pratica musicale. Le risposte di Adriana e Marcella sono un contributo significativo alla nostra discussione.

    IO – Come siete arrivate a scegliere Fanny Mendelssohn?
    ADRIANA – Fanny Mendelssohn è una figura storica che ci ha affascinato sia per la qualità della sua musica sia per la sua storia di donna inquieta. È stato quasi immediato il desiderio di fare un viaggio letterario insieme a lei, il percorso è stato così coinvolgente che la distanza tra i nostri mondi si è annullata.
    In Fanny la ricerca ha determinato un profondo conflitto con il padre e il fratello che non consideravano possibile una sua carriera da musicista. Fanny non si riconosceva chiusa nel ruolo di madre dedita alla famiglia e sentiva il bisogno di uscire dai confini della propria casa, pur illuminata da tanta cultura e da tanta musica. La vita di Fanny Mendelssohn è una storia di autoaffermazione.
    Uno snodo essenziale del suo percorso è stato il viaggio nella amatissima Italia. Tra il 1840 e il 1841 col marito e il figlio ha soggiornato a Venezia, a Roma e a Napoli: la cerchia di amicizie che la ha accolta come musicista ha creato lo sfondo per una nuova consapevolezza di sé e per la determinazione nel seguire i propri desideri. Fanny sapeva che era l’arte a dare sostanza alla sua vita: la collaborazione col marito pittore l’ha sostenuta anche nei momenti in cui la distanza dalle aspettative della famiglia sembrava insostenibile.

    IO – Come avete lavorato insieme?
    MARCELLA – Io e Adriana abbiamo dato vita a questo progetto a partire dalle nostre passioni comuni: la scrittura, la musica e le biografie di donne esemplari, ma anche per una nostra predisposizione alla comunicazione e al percorso cooperativo, non a caso tutte e due insegniamo e siamo appassionate del nostro lavoro. Scrivere in due è stato bello e importante: la condivisione delle fatiche e delle responsabilità è sempre stata accompagnata dalla ricerca della consonanza tra i nostri modi di sentire e di interloquire col personaggio.

    IO – Come avete lavorato sui documenti d’epoca? Come avete integrato diari, lettere e altre testimonianze nel lavoro di ricostruzione romanzesca?
    MARCELLA – Abbiamo proceduto a partire dalla musica. Adriana, come pianista, aveva nelle mani e nel cuore parte del repertorio di Fanny. La sua musica parlava di lei. Per un anno abbiamo ascoltato, letto e tradotto le fonti: in italiano non esistevano testi, se non alcuni articoli su riviste specializzate; abbiamo cercato e recuperato saggi stranieri, alcuni attraverso ricerche in librerie antiquarie. Non essendo traduttrici di professione ci siamo via via confrontate sulle pagine più complesse.
    È stato un anno di intenso lavoro. Le parti più interessanti per il nostro progetto ci sono apparse il diario e le lettere spedite alla famiglia e al fratello. Abbiamo poi studiato i testi che ci riconducevano alle vicende della vita di Fanny: i diari di viaggio di Goethe, la storia della vita quotidiana dell’Ottocento europeo e tanti altri. Piano piano il profilo biografico di Fanny ha preso vita.

    IO – Che tipo di scrittura avete scelto?
    ADRIANA – È stato chiaro fin dall’inizio che non volevamo produrre un saggio e abbiamo seguito il nostro desiderio di scrivere un romanzo.
    La scrittura è articolata su tre piani narrativi: il diario, una voce narrante esterna, le lettere scritte e ricevute da Fanny. L’alternanza di questi tre piani ci ha consentito di dare movimento allo svolgimento delle vicende e di lasciare emergere con discrezione il carattere della protagonista.
    Obiettivo essenziale della nostra scelta narrativa è stato quello di veicolare ciò che abbiamo considerato l’elemento più prezioso nella storia di Fanny Mendelssohn: il divenire della forza di un desiderio.

  448. E già che siamo in tema (nel tema cioè del confronto tra genio riconosciuto e genio sottovalutato o schiacciato da oppressioni familiari e convenzioni sociali; ma anche nel tema della musica raccontata nella storia passata), invito a leggere o a rileggere gli interventi sul “Dibattito sul romanzo storico”, http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/02/25/dibattito-sul-romanzo-storico-2/ relativi al romanzo di Rita Charbonnier “La sorella di Mozart” (Piemme). In particolare rimando alla recensione di Salvo Zappulla e ai chiarimenti della stessa autrice. Spero di poter presto coinvolgere Rita anche in questo nostro forum, per approfondire con lei certi aspetti più propriamente musicali del suo mondo letterario.

  449. Caro Claudio, anche se non intervengo leggo sempre gli spunti letterario/musicali che offri in questo forum. Ci tenevo a dirtelo perché magri uno pensa: sono solo. Invece no. Io ti leggo. Ed anche tanti altri, credo.

  450. Letto (divorato, anzi) “La sorella di Mozart” di Rita Charbonnier, mi accingo a postare (pardon) alcune considerazioni sugli aspetti musicali di questo eccellente romanzo.

  451. La storia della musica ci ha consegnato alcune figure femminili forti e ispirate, che con passione e determinazione hanno combattuto contro le convenzioni sociali del loro tempo, i pregiudizi nei confronti delle donne, le oppressioni familiari: Fanny Mendelssohn, Nannerl Mozart, Clara Schumann. Non stupisce che siano state rese protagoniste di romanzi che, al di là del carattere più propriamente “storico”, si rivelano come indagini sul gusto, sulla sensibilità, sull’estetica, soprattutto se sono vissute in epoche di passaggio. L’ambiente musicale descritto in “La sorella di Mozart” di Rita Charbonnier (ora ristampato da Piemme) è appunto colto in un momento di evoluzione dal vecchio al nuovo. È un mondo in cui vecchie figure al tramonto, i senatori della musica come J. C. Bach, Farinelli, Salieri (l’incontro finale al cimitero sulla ossa comune in cui è stato gettato Mozart ha il sapore di una commovente riabilitazione), osservano con stupore l’emergere di un gusto nuovo, di giovani esponenti di un nuovo linguaggio. Mozart sembra essere (con Nannerl, forse) il trait d’union tra un’epoca e l’altra.

    “La sorella di Mozart” gioca con grande discrezione con i rimandi al linguaggio musicale (“Ouverture”, “Amaro interludio”, “Finale. Scherzo”…). Anche le lettere di Nannerl e del suo amato Armand sembrano alternarsi e intrecciarsi nel romanzo come due temi di una forma-sonata (non a caso la prima lettera è di Armand, così come nella forma-sonata spesso il primo tema ha un carattere “virile”). La musica nel romanzo di Rita Charbonnier è spesso descritta come qualcosa di organico, di leggero ma non etereo: “La voce del violino s’insinuò tra le pieghe della tenda e discese sulle tavole del pavimento per rimontare fino alle volte del tetto, colmando lo spazio di un velluto sottile e lucente”. È un’arte dal potere incantatorio, una forza rapinosa. È un linguaggio misterioso che incanta chi non sa davvero capirlo ma non può resistere ad esso (un recente esempio analogo ho trovato ne “La nota segreta” di Marta Morazzoni) .
    Come parlare di questo linguaggio, come “raccontarlo”? Trovo una possibile soluzione nella bella descrizione della Fantasia per pianoforte di Mozart (quella in Re minore?) che “La sorella di Mozart” ci concede verso la fine: la pagina gioca con metafore, atmosfere, attese e seduzioni, colpi di scena, improvvise accelerazioni e abbandoni stuporosi. Rendere a parole un brano musicale vuol dire davvero, più che descriverlo, scovarne una dimensione narrativa, farne una storia (che forse è la storia del rapporto tra chi ha composto, chi sta eseguendo e chi ascolta).

    La natura squisitamente musicale della Nannerl di Rita Charbonnier emerge bene anche dalla sua capacità di cogliere il mondo attraverso i suoni, di leggere suoni e rumori come una sorta di partitura, sin dalla più tenera età: “Ma poi (il grido della madre durante il parto, ndr) riemerse dalla sua memoria nella forma di un ritornello amplificato, distorto, disumano”. E più avanti: “Ogni azione aveva un suono e ogni suono aveva un senso per Wolfgang e Nannerl”. In questo senso sono particolarmente significativi molti episodi di vita familiare, e tra i primi quello della nascita di Wolfgang, tutto giocato su gridi, urla, poi vagiti… Il mondo tesse una gigantesca partitura a cui per gioco le voci e i suoni di Nannerl e di Wolfgang si sommano (“Correvano le loro note improvvisate e anarchiche, selvagge e spassose, da una porta all’altra; s’inseguivano, si ghermivano, s’intrecciavano e si scioglievano; uscivano dalla finestra, si posavano sul trono del sovrano, soffiavano sui cappelli dei passanti, si mischiavano con il fracasso di una carrozza in corsa”). La natura di Nannerl è insomma portata alla sinestesia. “Vede” la musica, “sente” o “ascolta” tutto il resto. Il “vedere” la musica si traduce in una capacità istantanea di immaginare la scrittura musicale, di trasformare i suoni in piccole macchie di inchiostro sul foglio pentagrammato. Forse è proprio così che un musicista sensibile si rapporta con la realtà. E forse è in questo approccio sinestetico la soluzione per mettere in relazione la musica e la letteratura.
    La giovane Nannerl è musicista, nonostante l’ostilità paterna, e, insoddisfatta dei libretti altrui, anche poetessa. Nel lavorare alle musiche e ai versi della sua opera “Il Militar Galante” ha già operato per conto suo una sintesi tra le due arti, e superato una convenzione a cui il fratello è ancora legato. Nannerl è aperta, curiosa, assai più del padre, piuttosto diffidente nei confronti delle novità (non ama ad esempio il pianoforte, lo giudica privo di vero futuro); e, rispetto al fratello Wolfgang, sembra più consapevole, più riflessiva, meno istintiva, meno “impudente”.
    Da didatta, Nannerl riconoscerà il talento autentico in figure come Victoria, e lo difenderà a ogni costo, misurando ogni volta quanto l’ottusità dei padri e dei suoi tempi reprima il talento musicale nelle donne, rovinando l’anima “nel silenzio, nel livore, nelle imposizioni accettate senza discutere”. Nell’impossibilità di esprimere pienamente se stessa, Nannerl troverà modo di esprimersi attraverso la formazione di Victoria, la sua allieva prediletta.
    Ma, forse anche per queste sue qualità, Nannerl Mozart resta una creatura dell’ombra, e ne è cosciente. “Ho sempre preferito il ruolo di chi, nell’ombra, inventa, poi, nell’ombra, ascolta il risultato”. A relegarla in questa posizione, oltre all’essere una fanciulla, è la preferenza data dal padre Leopold alla carriera del figlio Wolfgang. Nannerl sembra però fare di questa condizione periferica un punto di forza: “Non potevo suonare (avrei svegliato tutto il vicinato!) ma per comporre mi bastava ascoltare l’orecchio interno e sfiorare la tastiera, senza affondare le dita; le mie cognizioni di contrappunto si limitavano a quanto riuscivo a origliare delle lezioni che mio padre dava a Wolfgang ma questo era per me, più che un limite, uno stimolo”.
    Secondo Wolfgang la sorella è prigioniera della perfezione, della tecnica. Le consiglierà di scrivere “in modo più sciocco; o più furbo, se vuoi, ma imperfetto”. Le dirà: “Io qui vedo solo tecnica, Nannerl. La tua passione non c’è”. Questo appunto di Mozart ci dice molto di lui, della sua visione estetica; ma allo stesso tempo ci suona ingiusto nei confronti di Nannerl e di una musica che immaginiamo assai più bella e libera (e “appassionata”) di quanto lo stesso Wolfgang voglia ammettere.
    Alla fine del romanzo, la sua vita lontano da Wolfgang e dalla sua musica le apparirà come all’interno di una “pausa” musicale (e una pausa, come sa bene chi è musicista, è sempre un silenzio carico di senso quanto le note che precedono e seguono). La riconciliazione e la ritrovata armonia con il ricordo del fratello nel frattempo morto si traducono in scrittura, cioè in trascrizione, edizione critica, cura meticolosa, inchiostro e inchiostro versato con dedizione per salvare musiche che altrimenti andrebbero perdute. Anche con Wolfgang, insomma, Nannerl si realizza come aveva fatto attraverso Victoria. La musica, in questo senso, sembra superare le vite e le volontà dei musicisti, e usare gli uomini come strumenti, passare dagli uni agli altri.

  452. Be’, caro Massimo, le mie domande a Rita Charbonnier sono queste:

    1 – Di Nannerl Mozart come compositrice non è rimasto nulla. Questo ti ha consentito di lavorare attorno alle sue composizioni con una maggiore libertà?

    2 – “Quando faceva musica, la piccola Nannerl non aveva nulla di umano; sembrava ci fosse in lei una divinità primitiva, che aspettava di accostarsi a uno strumento per debordare e lasciare stupefatti. Le sue mani srotolavano suoni limpidi e velocissimi, obbedivano a un istinto armonico ineguagliabile e il risultato era insieme sicuro e disordinato”. È una descrizione suggestiva e perfino inquietante dell’ispirazione e del talento musicale. Quanto di questa visione ti appartiene e quanto invece è legato alla visione che se ne aveva all’epoca di Wolfgang e di Nannerl?

    3 – La facilità con cui Nannerl pensa e scrive musica (e la vive come una parte di se stessa) si sposa spesso con una concezione invece legata alla pazienza della ricopiatura, all’attesa del risultato migliore, all’alta artigianalità della costruzione. “Passione” e “disciplina”, come dirà anche Johann Christian Bach: la seconda serve ad esprimere la prima. Ti riconosci anche tu, come musicista ma anche come scrittrice, in questo equilibrio tra l’una e l’altra?

    4 – Il mondo della musica (se lo prendiamo come una sorta di paradigma del mondo tout court) ha ancora, secondo te, qualcosa dell’epoca raccontata nel romanzo, per quanto riguarda il ruolo e la presenza delle donne?

    5 – Su che cosa si incentra secondo te il rapporto tra letteratura e musica? O, per essere più precisi: come può secondo te il linguaggio della narrativa avvicinarsi a quello della musica? Come può renderlo senza tradirlo?

    6 – Che cosa ha dato a te scrittrice la formazione da pianista? Io ho sentito una sensibilità da musicista per esempio nelle scene dei concerti: l’atmosfera di attesa, l’eccitazione impaziente e la sensibilità esasperata di chi si sta preparando all’esecuzione, i dettagli, le mani, le dita, le unghie addirittura, la postura nel corso dell’esecuzione; oppure nella resa “sonora” degli ambienti…

    7 – Perché secondo te il discorso del confronto tra genio riconosciuto (Wolfgang, Felix, Robert) e genio in penombra o non riconosciuto (Nannerl, Fanny, Clara…), o, per citare altre opere, tra genio e mediocrità, viene fuori così bene nell’ambito della musica?

    So che Rita intende rispondere un po’ alla volta alle domande. E sono molto curioso…

  453. Ringrazio Claudio per il cortese invito, per la bellissima recensione e Massimo per l’ospitalità. Questo per me è un periodo convulso, perché sta per uscire il mio nuovo romanzo, “Le due vite di Elsa” – che ha poco a vedere con la musica, a parte il fatto che vi sono citate diverse canzoni degli anni ’30, l’epoca nella quale è ambientato. Sto infatti preparando una performance per la presentazione romana nella quale canto le canzoni medesime accompagnandomi al pianoforte, e recito alcuni brani del testo. Tutto ciò per dire che risponderò alle interessantissime domande di Claudio “a spizzichi e bocconi” – chiedo venia!
    Andiamo con la prima:

    *Di Nannerl Mozart come compositrice non è rimasto nulla. Questo ti ha consentito di lavorare attorno alle sue composizioni con una maggiore libertà?*

    Sì, senz’altro. Mi sono chiesta quale possa essere stata la natura della sua musica – che in più di un’occasione ebbe il plauso di suo fratello: ci sono delle lettere nelle quali Mozart loda la bellezza e la “correttezza” delle sue composizioni, e la esorta a cimentarsi ancora. Peraltro il fatto che la musica di Nannerl non sia giunta fino a noi mi è sembrato potenzialmente fortissimo sul piano drammatico: dovevo senz’altro raccontare il momento nel quale le sue composizioni venivano distrutte. E nel romanzo questo avviene più di una volta e in modi e momenti diversi; d’altra parte, la musica di Nannerl si disperde sempre in un elemento naturale: fuoco, acqua, aria.

    Ancora grazie e a presto!
    Rita

  454. Bravo Claudio Morandini. Belle domande. Il tema mi interessa particolarmente.
    E grazie a Rita Charbonnier per aver dato spazio a Nannerl Mozart. In bocca al lupo per il nuovo libro.

  455. Ciao a tutti, e un saluto particolare a Vale: grazie a te e viva il lupo! 🙂
    Continuo a rispondere alle belle domande di Claudio: andiamo con la numero 2.

    DOMANDA
    “Quando faceva musica, la piccola Nannerl non aveva nulla di umano; sembrava ci fosse in lei una divinità primitiva, che aspettava di accostarsi a uno strumento per debordare e lasciare stupefatti. Le sue mani srotolavano suoni limpidi e velocissimi, obbedivano a un istinto armonico ineguagliabile e il risultato era insieme sicuro e disordinato”. È una descrizione suggestiva e perfino inquietante dell’ispirazione e del talento musicale. Quanto di questa visione ti appartiene e quanto invece è legato alla visione che se ne aveva all’epoca di Wolfgang e di Nannerl?
    RISPOSTA
    Ho avuto un’insegnante di pianoforte che ha rappresentato molto per me (e che ringrazio alla fine del romanzo). Si chiama Lucia Lusvardi ed era una bambina prodigio. Fu lei a parlarmi delle sensazioni che provava nel suonare, da piccola. Era per lei un fatto assolutamente naturale, un gioco al quale dava un’importanza persino relativa e che negli altri destava stupore e anche un certo timore – lo stesso che si prova di fronte a una manifestazione potente della natura. Credo quindi che alla base della descrizione che tu citi ci sia questo ricordo. E poi, l’idea del disordine: poiché genio è anche rompere le regole e creare un nuovo ordine (“troppe note, caro Mozart”…)

    Ancora grazie a tutti, abbracci e a presto!

  456. Grazie, Massimo, non mi lascio intimidire… ma francamente mi è un po’ difficile trovare il link permanente a questo post, se non attraverso i commenti recenti nella sidebar: lo si trova da qualche parte nella homepage?
    Comunque vado volentieri con la risposta alla domanda numero 3.

    DOMANDA di Claudio
    La facilità con cui Nannerl pensa e scrive musica (e la vive come una parte di se stessa) si sposa spesso con una concezione invece legata alla pazienza della ricopiatura, all’attesa del risultato migliore, all’alta artigianalità della costruzione. “Passione” e “disciplina”, come dirà anche Johann Christian Bach: la seconda serve ad esprimere la prima. Ti riconosci anche tu, come musicista ma anche come scrittrice, in questo equilibrio tra l’una e l’altra?

    RISPOSTA
    Sì, senz’altro. Credo che ogni creazione artistica sia frutto di una complessa mediazione tra una parte di sé che urla, che vuole a ogni costo esprimersi, e una parte che invece comprime, imbriglia e reprime. La seconda di solito dice “così non va bene, non è così che si fa” ma può arrivare addirittura a dire “non ce la farai mai, non sei capace!”. Come affermo nei seminari di scrittura che di quando in quando mi trovo a tenere, l’ostilità nei confronti della “tecnica” che manifestano molte persone, soprattutto quando si tratta di tecnica di scrittura, non è altro che un tentativo (infruttuoso) di gettare lontano da sé quella parte soffocante. Che invece andrebbe integrata e utilizzata, perché può essere molto utile.

    Ancora grazie. Ci vediamo alla prossima puntata… 😉

  457. C’è un logo ( un’immagine animata dei Beatles ) sulla colonna di destra del sito collegata a questa pagina. Esattamente di fronte al logo sul dibattito relativo alla letteratura dell’ironia, che è poco sotto a quelli sui vampiri e sul romanzo storico.
    Cliccando si aprono le pagine. Io ogni tanto ci vado per vedere se trovo novità.
    Ciao.

  458. Prego. 🙂
    Però forse si potrebbe chiedere a Massimo di mettere il logo più in evidenza……

  459. Grazie a te, Rita. E grazie anche a Claudio (e ad Amelia).
    Avete ragione! C’è un po’ di confusione con i tanti “loghi cliccabili” inseriti nelle due colonne laterali del blog.
    Cosa possiamo fare per migliorare la visibilità? Accetto proposte.

    Magari potrei inserire il logo di questo dibattito nella colonna di sinistra (insieme altri). Che ne dite?

  460. Nell’attesa del trasferimento del bannerino sulla sinistra vado avanti con le risposte… la domanda numero 4 di Claudio mi ha particolarmente appassionata… scopro inoltre che Claudio sta ripubblicando domande e risposte sul suo bel blog: dateci un’occhiata! http://ombrelarve.blogspot.com/2011/04/sintonie-intervista-rita-charbonnier-1.html

    DOMANDA
    Il mondo della musica (se lo prendiamo come una sorta di paradigma del mondo tout court) ha ancora, secondo te, qualcosa dell’epoca raccontata nel romanzo, per quanto riguarda il ruolo e la presenza delle donne?
    RISPOSTA
    Ahimè, basta guardarsi intorno… ci sono poche compositrici, e le direttrici d’orchestra sono mosche bianche. Quando una donna dirige un’orchestra, fa notizia! Le nostre menti (quelle degli uomini e anche quelle delle donne) sono così invase da stereotipi e pregiudizi vecchi di millenni che tuttora, e non di rado, si sente parlare di una presunta “naturale”, “congenita” incapacità delle donne a comporre e dirigere. Cioè, si considera il dato come una prova di se stesso, con un procedimento francamente illogico. Come a dire: nessuna persona di colore ha vinto il Nobel per la fisica, quindi dobbiamo concludere che i neri sono inadatti a contribuire al processo scientifico (o magari meno intelligenti dei bianchi!). E’ esattamente lo stesso tipo di sciocchezza, per non dire di assurdità offensiva e gravemente discriminatoria. Eppure me lo sono sentito dire diverse volte, durante le presentazioni del mio romanzo. Ogni tanto si alzava qualcuno in piedi e osservava con un’aria arguta: “Nella storia ci sono state diverse poetesse, diverse pittrici, ma pochissime compositrici. Questo dimostra che la mente femminile ha una qualche specificità che la rende meno adatta alla composizione di musica della mente maschile. Non lo crede anche lei?” E per quanto io potessi rispondere: “No, non lo credo”, e tentare di argomentare, vedevo che queste persone non erano contente; anche perché, probabilmente, avevano bisogno di identificare quel che l’essere umano diventa e realizza con quel che è “destinato” a diventare e realizzare, per via delle sue caratteristiche innate, in maniera pressoché indipendente dalle circostanze. Io credo invece che noi ci formiamo interagendo con il mondo che ci circonda, e se quel mondo non fa che ripeterci che un Mozart donna non potrà mai esistere, finiremo per crederci anche noi.

    Ancora grazie e, se non ci sentiamo prima, buona Pasqua!
    A presto, Rita

  461. Chissà, Rita, forse un romanzo come il tuo può aiutare a spazzare via anche certi pregiudizi duri a morire. O almeno – a me sembrerebbe già molto importante – può far venire qualche dubbio ai sapientoni della domenica, può incrinare le loro comode certezze.
    A me, a proposito di figure femminili fondamentali nella musica, è venuto subito in mente il nome di Nadia Boulanger: senza di lei e il suo insegnamento e la sua visione estetica, mezza musica del Novecento non ci sarebbe (di sicuro tutta o quasi la musica nordamericana, da Copland a Glass a Quincy Jones, per dire).
    A proposito, Rita: la sua vita finisce per assomigliare a quella della tua Nannerl. Dopo una giovanile attività di compositrice (poca roba, ma preziosa) si dà all’insegnamento, oltre che alla diffusione e valorizzazione dell’opera della sorella Lili. Ha tracciato la via della modernità (una delle vie, d’accordo, in ogni caso quella più duratura, frequentata e varia).

  462. Caro Claudio, cara Rita… grazie per le domande e le risposte (e auguri di buona Pasqua!).

    Come avete visto il banner relativo a questo dibattito è stato spostato sulla colonna di sinistra del blog.

  463. Grazie a Massimo per lo spostamento del banner e a Claudio per la bella integrazione alla mia risposta. Ricambio gli auguri di buona Pasquetta – 25 aprile e andiamo con la domanda numero 4!

    DOMANDA di Claudio
    Su che cosa si incentra secondo te il rapporto tra letteratura e musica? O, per essere più precisi: come può secondo te il linguaggio della narrativa avvicinarsi a quello della musica? Come può renderlo senza tradirlo?
    RISPOSTA
    Non sono sicura di saper rispondere. Quello che mi interessa, personalmente, non è tanto un possibile avvicinarsi del linguaggio della narrativa a quello della musica, quanto una linea di ricerca che porti i due linguaggi a interagire e magari fondersi. Quindi non parlerei di tradimento: non mi sembra possibile. Sono due mondi espressivi troppo diversi. Sarebbe come dire che un elefante viene portato ad assomigliare a una gazzella senza tradire l’essenza della gazzella. Chissà che invece l’uno e l’altra non possano correre insieme… Per fare un esempio: diverse persone mi hanno detto di aver gustato meglio l’ascolto della musica di Mozart dopo aver letto il mio romanzo; o che, nel leggerlo, provavano un desiderio fortissimo di ascoltare il brano al quale, in quel momento, il romanzo faceva riferimento. “Bisognerebbe che il CD fosse in vendita insieme al libro!” mi dicevano. Ecco, questa è una delle possibilità di interazione. Oppure, qualche tempo fa ho presentato “La sorella di Mozart” in un locale dove c’è un pianoforte, e ho suonato la Fantasia in re minore K 397 recitando, nel contempo, il brano del romanzo nel quale Nannerl la suona per suo marito. Tutti mi hanno detto di aver gustato triplamente l’ascolto della musica – poiché accompagnato da una descrizione verbale forte sul piano emotivo (non da un’analisi musicale). Esiste quindi la possibilità che letteratura e musica si fondano senza tradirsi, ma integrandosi; che divengano un unico veicolo.

    Abbracci e a presto, Rita

  464. A me interessa molto l’opinione dei musicisti sul tema che ci sta più a cuore in questo forum, cioè il rapporto tra parola e suono, tra letteratura e musica. Per questo, tempo fa, ho inviato una serie di domande a Marta Raviglia, “cantante, improvvisatrice e compositrice”, come si definisce lei stessa nel suo sito http://www.martaraviglia.com.
    Tra le sue attività aggiungerei quella di docente di canto.
    Marta, che “frequenta da sempre musiche avventurose”, e passa con naturalezza da Berio al jazz ad altro che non saprei bene come definire se non appunto come “musica avventurosa”, ha un curriculum di tutto rispetto: citerei almeno le sue incisioni discografiche e i suoi progetti: Insectet, Insectet (EMN 2006); Spiral Tales, Marta Raviglia Quartet (Alfa Music 2007); Don’t Fence Me In, Marta Raviglia Quartet (autoprodotto 2008); Morfeo, Manuel Attanasio/Marta Raviglia (Monk Records 2009), Vocione, Tony Cattano/Marta Raviglia (Monk Records 2010), Cherry Dance, Pierluigi Balducci/Maurizio Brunod/Marta Raviglia (Monk Records 2010), Jacques Lacan. A True Musical Story, Francesco Cusa Electric/Vocal Skrunch, (Improvvisatore Involontario 2010).
    Nei prossimi giorni inserirò le domande che ho inviato a Marta e la inviterò a rispondere.

  465. Per preparare il terreno alla conversazione con Marta Ravoglia, trascrivo di seguito le note che ho scritto per il duo vocale Morfeo (Marta Raviglia e Manuel Attanasio); con il titolo “Voci di dentro” sono state pubblicate sul booklet del CD pubblicato da Monk Record nel 2009.
    “Morfeo non è semplicemente un duo vocale che, moltiplicandosi, si comporta come un coro. Marta e Manuel cantano, certo, ma ringhiano anche, rantolano, soffiano, sbuffano, nel bel mezzo di una melodia distesa si inceppano o si inerpicano innaturalmente, come se qualcuno lavorasse di manopola per dispetto o per sbaglio, ridono, piangono, minacciano, blandiscono, rischiano il soffocamento, tentano polifonie mongoliche, bamboleggiano, russano, si perdono, litigano, si concedono un virtuosismo, poi la parodia del virtuosismo, poi la parodia della parodia… Quello di Morfeo è un gioco serio, concentrato, come i giochi di quando si è bambini e si indagano le possibilità dei suoni che ci escono di bocca e si sfidano le convenzioni e le etichette degli adulti.
    Dietro questi guizzi, questi borborigmi, e le urla, i singhiozzi, senti la lezione dei grandi sperimentatori degli ultimi decenni – la Berberian, certo, e in generale lo studio di Berio sulla vocalità e sul folklore, ma anche Meredith Monk, Norma Winstone, Sainkho Namchylak, Demetrio Stratos, Dean Bowman… Ma inseguire le ascendenze e i possibili modelli ha senso fino a un certo punto, di fronte alla ricerca di Marta e Manuel, che partono sempre dalla propria voce, e da quella dell’altro, nutrendosene, e procedono per espansioni e rifrazioni: la combinazione crea attriti, tensioni irrisolte, disturbi stridenti, ma sa aprirsi anche a momenti di intesa e di tenerezza, che non sai quanto potranno durare, ma intanto ci sono, prima che un’ondata inaspettata di suoni o rumori li cancelli o ne alteri il senso.
    Pensa alle poche note di pianoforte con cui si apre A Rhyme, e che sembrano introdurre un paesaggio bucolico, che il canto di Marta espande e colora: non fai in tempo a indugiare in un ristagno di malinconia appagata, che quel paesaggio sonoro è turbato da versi trafelati, che lo increspano irrimediabilmente. Oppure pensa a Unn, a quel sottofondo di monaci tibetani, inebetiti dietro al loro mantra, e al folletto capriccioso che declama in primo piano – o a Salty Jewel, in cui la voce un po’ alla volta si discosta dallo stile giocosamente jazzistico dell’inizio, con una libertà che solo chi ha una padronanza perfetta dei propri mezzi può concedersi.
    Sono poche le parole intelligibili, concentrate in alcuni momenti. Farfugli, invece, assoli strumentali, melopee in lingue inventate, jodel, falsetti, sibili, cigolii, distorsioni heavy metal, vibrati belcantistici, melismi orientali, filastrocche infantili, loop notturni, versi di uccelli crepuscolari, belati, e i gorgheggi di Manuel che si fanno rumore bianco, poi si trasformano in ritmo percussivo, poi ronzano gravi come un didgeridoo… A volte il contrasto si appiana, e ti chiedi d’improvviso di chi dei due sia la voce che senti stagliarsi sulle altre.
    È una musica che nasce da un nulla, da un balbettio o da un canticchiare confuso, da sfarfallii della coscienza, e come i pensieri nel dormiveglia procede tentoni, per associazioni alogiche, per suggestioni analogiche, per sobbalzi, per perturbazioni spaziotemporali… Pesca nel calderone delle esperienze passate, giocherella con i déjà vu, e in questo percorre una via espressiva che non sia definibile o catalogabile per generi, e che sia indifferente alle convenzioni (e figuriamoci alle leggi del mercato). Butta all’aria le strutture consolidate con la giocosità assonnata di un bambino un po’ malinconico colto da un mezzo sonno la sera.
    Tra i tanti piccoli gioielli che compongono questo disco si prenda My Bonnie, che sembra seguire un pensiero narrativo. Senti il canto di Marta, che nel silenzio di una stanza enuncia con pacatezza materna la prima strofa, come per indurre al sonno un bambino restio; senti poi aprirsi strati di reminiscenze, paesaggi mentali, vasti come solo nei sogni appaiono, e solo ai bambini; e poi, placatisi questi, torna la voce, ma trasformata, soffocata in un sussurro, e ti chiedi se sia la madre di prima, che per consegnare al sonno completo termina la sua nenia prima di andarsene, o non sia piuttosto qualcos’altro, che posatosi sul cuscino dopo l’uscita di scena della madre ne prende il posto, per sussurrare al bambino un finale imprevedibilmente macabro; e quando Marta lascia in sospeso la conclusione, mangiandosi l’ultima sillaba, resti con il fiato sospeso, in attesa, e scopri di aver smesso di respirare per qualche secondo.
    Colpisce l’essenzialità di questi momenti. Capita che un duo, nel tentare di superare i limiti oggettivi dell’essere costituito appunto solo da due musicisti, si lasci cogliere da una tentazione – come dire – sinfonica: e carichi di suoni, gonfi di armonie, attraverso un accanito lavoro di sovraincisioni che suggerisce a volte un horror vacui. Morfeo vuole invece sfidare l’ascoltatore a esplorare gli spazi vuoti, l’immensità dei silenzi attorno alle due voci e ai suoni. Morfeo permette di assaporare questi silenzi come un elemento attivo della costruzione musicale, la sottrazione come un arricchimento del tessuto compositivo. Marta e Manuel procedono spesso in punta di piedi, e per effetto del vuoto quei passi si sentono, come si sentono i respiri, i sospiri, le lievi esitazioni, i piccoli rumori organici che produciamo senza accorgercene. Quanto agli strilli, nel silenzio tagliano la pelle.
    Certo, non mancano sorprendenti eccezioni, i pieni, le tumefazioni corali. Red Bug, il primo brano, si satura fino all’inverosimile, fino a sfiorare il rumore bianco, per interrompersi di colpo, sulla soglia del dolore. In Fix in Medio, Manuel detta non solo il ritmo indolente, ma spalma strati di un’armonia dilatata, su cui adagia assorto i suoi vocalizzi. E 1, 2, 3, 4 & 5, uno scherzo tinto di jazz e funk che inizia in sordina e diventa poi una marcetta grottesca, è gonfiato via via di voci e di strilli, e di fronte a questa parata minacciosa non sai se sorridere o rabbrividire, perché tutti i passi di marcia, anche quelli più scanzonati, hanno un retrogusto di armi, polvere e guerra. La traccia fantasma, Daylight, sembra voler chiudere con un bozzetto di serenità impressionista, a due voci. Ma per quell’accartocciare sullo sfondo, e soprattutto per ciò che abbiamo ascoltato fino a quel momento, non ci sentiamo tranquilli. La vera dimensione di Morfeo è quella imprevedibile, volatile, ambigua, talvolta sinistra, del sogno.”

  466. E vai con la penultima! 🙂


    DOMANDA
    Che cosa ha dato a te scrittrice la formazione da pianista? Io ho sentito una sensibilità da musicista per esempio nelle scene dei concerti: l’atmosfera di attesa, l’eccitazione impaziente e la sensibilità esasperata di chi si sta preparando all’esecuzione, i dettagli, le mani, le dita, le unghie addirittura, la postura nel corso dell’esecuzione; oppure nella resa “sonora” degli ambienti…
    RISPOSTA

    Grazie di queste affermazioni, per me molto lusinghiere. Partirò dalle unghie e dalle dita: mi ha sempre colpita il fatto che il suonare uno strumento giunga a modificare, almeno temporaneamente, il corpo del suonatore. Mi rivedo a osservare con stupore, fascinazione e anche un certo disgusto il pollice sinistro di un amico contrabbassista, che aveva due enormi corpi callosi sui lati; e chi suona il pianoforte sa che è fortemente necessario avere le unghie corte, cortissime (con le unghie lunghe si titillano i tasti, non si può suonare). Per questo Nannerl, la protagonista del mio romanzo, quando smette di suonare si lascia crescere le unghie: è un segno e una conseguenza. Si tratta quindi di “dettagli” che ho vissuto, che mi appartengono, e non solo sul piano musicale, ma anche perché ho fatto molto teatro.
    Riguardo alla relazione tra il suonare e lo scrivere, probabilmente ho sviluppato un certo orecchio per il “fraseggio” che riguarda (non a caso la parola è la stessa) anche la costruzione delle frasi in lingua italiana. Mi rendo conto sempre più chiaramente che il mio modo di scrivere è influenzato da una certa ritmica, da una percezione immaginaria di come quelle frasi “suonerebbero” se dette, anziché lette. Ma non è detto che sia un bene…

  467. Ed ecco l’ultima…
    DOMANDA
    Perché secondo te il discorso del confronto tra genio riconosciuto (Wolfgang, Felix, Robert) e genio in penombra o non riconosciuto (Nannerl, Fanny, Clara…), o, per citare altre opere, tra genio e mediocrità, viene fuori così bene nell’ambito della musica?
    RISPOSTA
    Forse, semplicemente, perché attorno al musicista c’è un’aura romantica che attorno ad altri generi di artisti è meno evidente. Mi torna in mente un atto unico di Frank Wedekind, “Il cantante da camera”. Il protagonista (un musicista, quindi – sempre che i cantanti possano essere considerati musicisti, cosa sulla quale non tutti sono d’accordo…) definisce se stesso, e gli artisti in genere, come “articoli di lusso della borghesia che fa a gara per pagarci”. E afferma poi, con lo stesso cinismo, che “non esiste il genio misconosciuto”. Chissà, forse quello del genio incompreso è, perlomeno almeno in parte, un mito romantico. Mettersi dalla parte del perdente ha un fascino: conforta il perdente che è in ognuno di noi. Ma questo è un altro discorso…

  468. Come sempre è un piacere, Massimo!
    @ Rita: il tuo contributo a questo forum è importante. Torna a trovarci quando vuoi, siamo sempre felici di leggerti. E a proposito: mi unisco all’in-bocca-al-lupo di Massimo per il tuo “Le due vite di Elsa”!

  469. Bene bene bene: è il momento di inserire le domande che ho in serbo per Marta Raviglia, la “cantante, improvvisatrice e compositrice” di cui ho parlato nei post del 26 aprile. So che Marta ha pronte le risposte.
    Allora, vado. Marta, sei pronta?
    1 – A te che sei musicista, cantante, che componi, voglio chiedere qual è il tuo rapporto con la parola. O meglio:
    da autrice di song, che cosa cerchi nella parola? Nei tuoi progetti più sperimentali (“Vocione” con Tony Cattano, “Morfeo” con Manuel Attanasio, ma anche certi momenti più “aperti” del trio con Brunod e Balducci), spesso la tua voce parte libera, esplora le potenzialità dei suoni senza ancorarsi a un testo di cui sembra non avere più bisogno…
    2 – Che cosa può dare la parola letteraria alla musica? A che cosa deve rinunciare la musica che si adatta alla parola? In questo senso il jazz vocale presenta delle differenze rispetto alla musica cosiddetta colta?
    3 – In musica, come in letteratura, vige una certa tendenza a etichettare, a incasellare in generi e tendenze. Tu, che come musicista sei incline non tanto all’eclettismo quanto a un’apertura curiosa e sperimentale verso molte direzioni, come vivi questo etichettare?
    4 – Ritorna talvolta in questo forum (almeno, ritorna nei miei interventi) l’idea che l’atto creativo, sia in letteratura sia in musica, sia fondato su un equilibrio tra “caso” e “controllo”, o almeno su un’oscillazione tra questi due poli. Ti ci riconosci?
    5 – Che cosa ami leggere? E che cosa non ti piace?
    6 – Che cosa pensi della letteratura che racconta la musica o si ispira alla musica?

  470. Eccomi! E vi prego di scusarmi per il ritardo nella risposta, ma non ho avuto a disposizione internet negli ultimi giorni!
    1. Sono affascinata dalle parole, dal loro suono e dai significati che veicolano, ma non ne sono schiava. Non sono mai stata una cacciatrice di parole e da esse, se ho la fortuna di imbattermici, non voglio nulla in cambio. Amo raccontare storie e ogni volta, a seconda delle circostanze, lo faccio in modo diverso: con i testi irregolari delle mie canzoni strampalate, con tutte le possibilità espressive dello strumento voce (canto, respiro, verso, rumore), con declamazioni pompose (ultimamente Omero, San Juan de la Cruz e un manuale sui fiori di Bach mi sono di grande aiuto a tal fine), oppure abbandonandomi al fluire-defluire-rifluire della coscienza, pratica che mi mette a stretto contatto col mio io più profondo e che spesso genera, con mia grande sorpresa, racconti di senso compiuto in lingua italiana e, più raramente, inglese. Dunque, non cerco la parola ma tutte le volte che la incontro, l’accolgo a braccia aperte: oltre la voce e il movimento, è per me un canale espressivo privilegiato, ma certamente non è l’unico.
    2. La parola letteraria costituisce un grande arricchimento per la musica che trae da essa nutrimento. Adattandosi alla parola, la musica rinuncia all’imprevisto che, però, può essere reintegrato nella composizione in altre forme e modalità. Nel jazz vocale e, più in generale, nella pratica improvvisativa, a differenza che nella musica colta in cui vi sono maggiori vincoli, il cantante è libero di gestire il testo e di trasformarlo, adattandolo alle esigenze del momento, fondando, dunque, quella che definirei un’estetica dell’imprevisto e dell’imprevedibile.
    3. Le etichette vorrebbero facilitare e velocizzare la fruizione dell’opera d’arte, ma le vie dell’arte sono infinite e, soprattutto, rispondono a modalità di percezione, interiorizzazione e comprensione del tutto legate all’esperienza e al carattere del fruitore: per questo, ritengo che etichettare, qualcosa o qualcuno, non abbia utilità alcuna. In questo senso, mi trovo d’accordo con Miles Davis per il quale la musica era buona o cattiva e credo che lo stesso si possa dire della letteratura: tutto dipende dall’onestà del creatore e dalla forza del suo desiderio di espressione.
    4. Profondamente. Spesso l’ispirazione sopraggiunge nei momenti e nei luoghi più impensati (solitamente mentre aspetto). Ho sempre un taccuino con me sul quale annoto versi, melodie, combinazioni di accordi. Alle volte passano mesi interi prima che questo materiale trovi un suo impiego e venga raffinato, ma questa lentezza nell’elaborazione del momento creativo mi permette di approcciarlo con maggiore distacco, come se non fossi stata io a produrlo: solo in questo modo posso stabilire il suo effettivo valore.
    5. Sono una lettrice accanita e morbosa e amo confrontarmi sia con la poesia che con testi in prosa (romanzi, saggi, ecc.). Nonostante ciò, non riesco a leggere tutto. Come nella musica e nelle altre arti, infatti, anche nella letteratura ho bisogno di opere che mi scuotano dal di dentro. Sono felice quando, dopo una lettura, sento che qualcosa in me è cambiato o diviene consapevole della necessità di un cambiamento.
    6. Credo ci sia un legame profondo e indissolubile tra letteratura e musica. La parola è musica. Un poeta e un narratore sono padroni del tempo e del ritmo proprio come i musicisti. Personalmente per capire il valore di un testo, ho bisogno di leggerne interi passaggi a voce alta: questo mi rende consapevole dei rapporti tra le parole, del loro movimento interno e della loro proiezione verso l’esterno. Credo, quindi, che la letteratura raccontando la musica, o ispirandosi ad essa, rifletta sulla sua natura, sui meccanismi che la regolano e così divenga arte plastica. In quest’ottica suono, parola, gesto e colore tornano ad essere un’entità unica e inscindibile e, proprio come nel teatro greco, costituisco il fondamento dell’arte totale.

  471. Grazie mille, cara Marta.
    E grazie (come sempre) a Claudio.
    Credo che questa pagina, ormai, si sia trasformata in uno scrigno zeppo di spunti, considerazioni e testimonianze sul tema “letteratura e musica”.

  472. Caro Massimo, non vedo l’ora di scendere a Torino per scoprire al Salone del libro di quest’anno nuovi spunti con cui continuare ad animare questa discussione!

  473. Torniamo a parlare di Mozart, dopo l’incontro graditissimo con Rita Charbonnier. Al Salone del libro di Torino ho trovato una bella edizione (Interlinea, con illustrazioni di Fernando Eandi) del racconto “Amadé – Mozart a Torino” di Laura Mancinelli. La Mancinelli ha più volte affrontato la figura di Mozart (anche nel testo teatrale “Notte con Mozart”, L’Argonauta, 1991, oltre che ne “Il fantasma di Mozart”, Einaudi, che comprende anche “Amadé”). E in una nota finale ce ne spiega con garbo le ragioni (ci tornerò).
    “Amadé” nasce da due amori, credo: la musica di Mozart, e va bene; e la bellezza intrisa di storia di Torino, città di adozione e di elezione per la scrittrice. Il piccolo Amadeus attraversa durante una breve visita invernale in compagnia del padre Leopold la città, ne esplora le prospettive, i vicoli e le architetture, ne conosce gli abitanti – il popolo, l’aristocrazia irrigidita nell’etichetta. Di fronte alle architetture sorprendenti del Guarini e ai giochi di prospettiva e di luce Mozart “legge” e “traduce” all’istante in termini musicali. Così dentro al duomo, sotto la cupola: “E si caricava di tonalità più opache, più tristi, come il suono ripetuto dall’eco, come in un contrappunto in minore.
    Passò nel cielo una di quelle nuvole leggere che già aveva visto attraversare il cielo sulla piazza, e tutte le luci, dirette rifrante e riflesse, si velarono di ombra lieve, come quando la stessa frase viene ripetuta in minore per esprimere un momento di malinconia, pensò Mozart.
    La nube era passata, e il sole irruppe più vivo nella cappella rimbalzando come impazzito di gioia in un allegro travolgente. Mozart trasse di tasca carta e matita e seduto su un gradino di pietra cominciò a tracciare dei segni.”
    Più in là, il gioco sinestetico riappare, al contrario. “Allora Mozart… incominciò a suonare «un esercizio», come egli lo chiamò. Un gruppo di note legate in crescendo in una frase semplice ma completa, si ripetevano in ordine inverso, come riflesse in uno specchio, o come raggi di luce su una parete bianca, pensava Mozart suonando.”
    Torino appare “fredda, lunare”, ai due salisburghesi, ma rivela al giovanissimo Wolfgang tesori ch’egli coverà a lungo, facendone materia per progetti futuri, ispirazione per musiche che attenderanno anni per essere scritte. Così è l’infantile infatuazione per Rosa, la piccola venditrice di frutta secca, che sfocia in una ricerca ossessiva di rose in pieno inverno, e il misterioso (almeno agli inizi) uomo del teatrino, che addirittura allude con un paio di marionette a “Le nozze di Figaro”.
    Nella nota finale (avevo promesso di tornarci) la Mancinelli definisce la sua “segreta, inconsapevole predilezione per la musica che precede il romanticismo”, forse per una “ragione… di autodifesa di fronte alle troppo coinvolgenti espressioni romantiche”. Il suo “Amadé” in questo senso è davvero settecentesco, per grazia trattenuta: il solo ad agitarsi è proprio il piccolo Mozart, protoromantico elfo armato di violino, in un mondo che pare diventargli stretto ogni giorno di più.

  474. Nello splendido racconto lungo “Un bambino prodigio “ di Irène Nemirovsky, che ho trovato allo stand dell’editrice Giuntina al Salone del libro di Torino, Ismaele Baruch, un piccolo Orfeo ebreo dotato di una voce incantata, di un’ispirazione naif che sa toccare il cuore degli uomini, e armato talvolta solo di una balalaika, sa ammansire fino alle lacrime i brutti ceffi che si ubriacano nelle bettole di un porto sul Mar Nero. Nel suo canto, che traduce all’istante le pene e i sentimenti di uomini rozzi e abbrutiti, e sa rendere questi migliori, più umani, rendendo dolci le loro sofferenze, il dono dell’improvvisazione poetica e quello della musica coincidono: le parole sgorgano come le note su cui si adagiano, e queste sono l’estensione di quelle, come nell’arte primitiva, spontaneamente portata alla sinestesia. Non è un aedo sofisticato, e proprio per questo sa avvicinarsi subito al cuore degli uomini più umili; non conosce tecnica, è portato per sua natura ad intonare nel più commovente dei modi ciò che agita la mente di chi è abbrutito dall’alcol e dalla fatica del lavoro. Piace anche agli esponenti della bella società che ogni tanto si spingono fin nei bassifondi: verrà comprato e regalato come un cagnolino dal poeta Romain Nord per la sua bella dama, una ricca vedova che prima lo esibirà entusiasta come una curiosità con cui giocherellare e scacciare la noia, poi semplicemente se ne annoierà e lo dimenticherà nel suo palazzo di campagna, durante i lunghi mesi dell’inverno.
    Qui, il piccolo Ismaele, ormai adolescente, proverà a supplire al vuoto dell’ispirazione e alle carenze tecniche della sua arte studiando i grandi poeti, approfondendo con disperazione crescente l’aspetto tecnico (della poesia, innanzitutto: nella novella la musica è davvero solo l’intonazione delle parole), la metrica, la retorica. Uscirà amaramente sconfitto e disgustato da quel confronto, e la sua voce ne verrà inaridita irrimediabilmente. Alla fine, dopo essere rimasto muto durante l’ultimo incontro con la sua protettrice sempre più stizzita e tediata, si ucciderà.

  475. In “Un bambino prodigio”, la Némirovsky dipinge così la voce del piccolo Ismaele: “Chiuse gli occhi e si mise a cantare, o piuttosto a salmodiare con una voce lenta e pura che vibrava stranamente nel silenzio della notte”. È una voce ipnotica, che sembra in comunicazione con la “incessante, dolce vibrazione” che le stelle comunicano al firmamento intero, e con gli elementi della natura. “Erano parole semplici e ingenue, le stesse che esprimevano così bene le pene e le gioie dei vagabondi del porto e, proprio per questo, toccavano strane corde del cuore. Non avevano né rima, né cadenza, ma un ritmo naturale, come quello del vento, del mare”.
    L’ispirazione poetica è un dono misterioso: “Le parole si risvegliavano in lui come uccelli misteriosi ai quali doveva solo dare la libertà, e anche la musica giusta le accompagnava con la stessa naturalezza”. C’è l’eco (inconsapevole) del canto della tradizione ebraica in quel salmodiare: “A volte… iniziava a cantare lente nenie lamentose che quegli slavi non conoscevano, che altro non erano che l’eco inconscia dei tristi canti ebraici, venuti su dal fondo dei secoli come un immenso singhiozzo, cresciuto di generazione in generazione, fino alla sua anima di fanciullo”.
    Ecco perché la perdita incomprensibile di questo dono sarà così dolorosa da spingerlo a darsi la morte.
    Ismaele ha una natura potentemente tesa a cogliere analogie e sinestesie ovunque, in un continuo intreccio di stimoli sensoriali. Trascrivo (spero di poterlo fare) una delle pagine più belle di tutto il racconto (ricordo che è pubblicato da Giuntina e che è tradotto con eleganza da Vanna Lucattini Vogelmann). Siamo nel palazzo della dama, dopo una festa, in un momento in cui, tra realtà e sogno, tutto sembra sospeso e confuso: “Poi le donne se ne andavano ad una ad una, portate via da alti ufficiali con mantelli dalle mille pieghe, grandi come crinoline; le bubbole delle slitte tintinnavano dolcemente nella città addormentata. I valletti venivano a spegnere i lampadari; i muri bianchi erano come velati di ghiaccio dal chiaro di luna; il pianoforte aperto riluceva debolmente nell’ombra; la corda di un violino rimasto fuori dal suo astuccio, sfiorata da una corrente d’aria, vibrava appena, come un sospiro; un ventaglio dimenticato tratteneva ancora tra le piume il profumo del ballo, mescolato all’odore esasperato dei fiori morti. Nel silenzio fluttuava come un’eco della musica appena spenta, e gli specchi umidi sembravano mantenere nel fondo della loro acqua il riflesso dei volti che vi si erano specchiati per un momento, il lampo di un sorriso.”

  476. Voglio segnalare (l’ho ordinato, lo leggerò presto) il romanzo di Nathan Shaham “Il Quartetto Rosendorf”, sempre pubblicato da Giuntina. Per ora mi contento di riportare quanto trovo sul sito dell’editore.

    “Tel Aviv 1936. Kurt Rosendorf, fuggito dalla Germania nazista, approda nella Palestina sotto il Mandato britannico per suonare il violino nella neonata orchestra filarmonica della Terra d’Israele. Costretto ad abbandonare patria, moglie (cristiana) e figlia, Rosendorf, per sfuggire allo sconforto della sua vita sradicata, forma un quartetto d’archi perché solo nella musica da camera potrà ritrovare un senso alla sua esistenza. Sceglie, come secondo violino, Konrad Friedmann, giovane, ingenuo e fervente sionista; come viola, Eva Staubenfeld, donna bellissima ma cinica e fredda, avvolta da un passato enigmatico; come violoncello, Bernard Litowsky, uomo infantile e volgare, ma anche audace e divertente.
    Il romanzo, narrato a cinque voci (quelle dei componenti del quartetto e del loro amico scrittore Egon Loewenthal, anch’egli esule dalla Germania), procede in un appassionante intreccio di emozioni e riflessioni, attraversa la storia di Israele e d’Europa ed è un magnifico tributo ai poteri consolatori e terapeutici della musica.”
    Ne riparleremo presto, promesso!

  477. Sto sfogliando il catalogo dell’editore Zecchini di Varese. Zecchini è specializzato in libri di argomento musicale: accanto a monografie e biografie dedicate a direttori, interpreti, opere, compositori (autore frequente è l’instancabile Piero Rattalino, che sa bene come “raccontare” la musica senza dover rinunciare a precisione e esattezza), vi trovo titoli di più difficile collocazione. Tra questi, segnalo subito “I grotteschi della musica”, di Hector Berlioz, così presentato: “Nei Grotesques de la Musique il mondo della musica può diventare un incubo. (…) Pur non risparmiandoci nessuno dei gironi infernali dove sono ospitate tutte le demenze e tutte le manie provocate dalla musica, in questo libro sorprendente Hector Berlioz trova il modo di mettere a nudo anche il suo cuore. E lo fa collezionando esilaranti resoconti di viaggio, surreali episodi tratti dalla Parigi del suo tempo, irritazioni furibonde contro la stupidità che stringe in una morsa il mondo moderno”.
    Ospitate nella collana “I racconti della musica” roviamo anche le fantasticherie del musicologo Alessandro Zignani, come “Il divertimento e l’estasi” e “Le parrucche di Hoffmann – Un omicidio”. Nel primo, “il celebre pianista Niso viene invitato a celebrare il bicentenario mozartiano. Niso deve la sua fama ad una singolare proprietà: sa trasformare le note in esseri animati, capaci di rendere danza le astratte strutture della musica”. Niso e altri bizzarri personaggi legati alla musica si accorgono, da diversi segnali inquietanti, di essere capitati alla fine dei tempi. “Toccherà ai Nostri, insieme agli alleati reclutati per via — Cornelia Stolzmann, con i suoi Minidrammi; Mathias Wilhelmi, paleografo musicale capace di scoprire, sotto alle note, segreti messaggi subliminali; Tommaso Lacan, fondatore del Laboratorio di Epistemologia Impossibile — entrare nella Dimensione Parallela, per scoprire, in un’atmosfera da opera rossiniana, il complotto demoniaco scatenato, grazie alla musica, da un Artefice occulto”.
    O ancora, di Davide Ielmini, la “Musica scritta di quotidiana inutilità”. “Questo libro” leggo nella scheda “è un luogo nel quale ci si può perdere e ritrovare perché narra di una società che gli uomini hanno reso invisibile, di storie immaginate, di personaggi cinici e fragili, protagonisti di un continuo alternarsi tra commedia e dramma giocati sul filo del rasoio. Neppure Edgar Varèse, Leonard Bernstein, Sigmund Freud, Zygmunt Bauman – voci fuori campo – riescono ad infondere sicurezza alle figure di un teatro che cambia spesso scena, tanto vivace quanto profondo e lesto nel generare la curiosità dei lettori, anch’essi parte di questi scritti fatti di lealtà, paure, contraddizioni, desideri. (…) Una carrellata di artisti anomali e goffi, di uomini forti ma deboli, di anime alla deriva folli e innamorate, di saggi venditori di sogni e compositori inetti piegati al volere di un Destino beffardo e crudele. Ballate, dialoghi, canzoni e racconti dove il senso pratico del vivere cede il passo all’irrazionalità ed alla bellezza di ciò che non è logico, e mai potrà esserlo. Quadri senza cornici, che lo scrittore appende obliqui al muro della stravaganza”.

  478. Leggo stamani su “Tuttolibri” del festival “Le corde dell’anima”, dal 3 al 5 giugno a Cremona, una bella occasione per far parlare assieme scrittori e musicisti. A me pare particolarmente interessante la presenza il 4 giugno dell’olandese Jan Brokkenn, autore di “Nella casa del pianista” (Iperborea), sul pianista sovietico Youri Egorov. Riparleremo anche di questo, magari, che dite?

    Per il programma e tutti i dettagli del festival, andate su http://www.lecordedellanima.it.

  479. Sto leggendo “Nella casa del pianista” di Jan Brokken (Iperborea), sul pianista russo Youri Egorov, splendido ritratto di uno sradicamento oscillante tra disperazione e speranza che, almeno nelle prime pagine, si accompagna e si sintonizza su “Vers la flamme” di Skrjabin. Tornerò su questo toccante romanzo, che io per combinazione sto affrontando dopo aver concluso il pietroso, sconvolgente “Tutto scorre…” di Vasilij Grossmann, Adelphi – e leggendolo come una sorta di ideale prosecuzione e aggiornamento.
    Ne approfitto per segnalare un altro romanzo a forte impronta saggistica immerso nella musica del (secondo) Novecento, “Boulevard Solitude” di Patrizia Mari (Manni, 2011), che ho letto con grande interesse e di cui riparlerò.

  480. Ho letto con grande interesse “Boulevard Solitude”, il romanzo di Patrizia Mari che Manni ha appena pubblicato nella collana “Pretesti”. Intendiamoci: romanzo è una definizione che va presa con prudenza, perché il testo della Mari evita plot e intrecci, si concede ampie riflessioni di natura filosofica e artistica, e resta ancorato alla dimensione della biografia (immaginaria, ma verosimile) e del saggio.
    Siamo nel secondo Novecento, immersi in una fitta selva di riferimenti figurativi, musicali, letterari, filosofici, storici, di costume, con cui la Mari rende squisite le vite dei suoi personaggi. Due figure di compositori dominano il romanzo: di loro di sa il nome (Igor, Emilio), si raccolgono un po’ alla volta i dettagli biografici, si scoprono i riferimenti a personalità realmente vissute. Sono figure le cui vite sono impregnate di arte: i loro pensieri vagano per lo più attorno a questioni estetiche; le esistenze sono vissute (composte, organizzate, delibate) come opere d’arte, come quadri, o romanzi, senza però niente, direi, del compiacimento proprio del vecchio decadentismo. La voglia di far piazza pulita del secondo Novecento artistico (di fare i conti con la tradizione, di uccidere i padri, di cercare nuove vie) ha qualcosa in comune con la furia iconoclasta dei movimenti d’avanguardia del primo Novecento – ma gli intellettuali dell’ultima parte del secolo, e in particolare Emilio, lo fanno con una compassatezza che ha più dell’atto filosofico o della dimostrazione scientifica, che dell’omicidio sia pure metaforico dei vecchi futuristi. Il loro mondo, gli amici che frequentano, garantiscono sempre un alto livello di riflessione e di osservazione (o di ascolto); ma certo è un mondo che sa essere anche chiuso, autoreferenziale, fatuo a volte, talvolta malato di una sorta di istrionismo.
    I due, Igor e Emilio, sono compositori, dicevo, e amanti; l’amore omosessuale sembra porsi, come in una reminiscenza ellenica, come il completamento di una paideia (Emilio è anche il maestro, ironicamente materno, del più giovane Igor). Dei due, Emilio è spinto da un vitalismo più accentuato, da una curiosità vorace: un carattere estroverso e una alta considerazione di sé e dei suoi mezzi lo rendono sempre protagonista nei consessi in cui si trova. Igor, di suo, è più portato alla riflessione, si ritaglia un ruolo di devoto allievo (pur con momenti di inquietudine anche sessuale e con l’aiuto di un analista distratto di suo). Eppure, nell’ambito del linguaggio compositivo, le due personalità sembrano contraddirsi (contraddizione feconda, umana, reale): il vitalistico Emilio, attraverso un lungo lavoro di prosciugamento e di depurazione da ogni gesto retorico e da ogni intrusione soggettivistica e da ogni contaminazione con la tradizione, vuole arrivare a un’espressione di estremo rigore formale; il riflessivo Igor, invece, progetta e realizza (solo in parte) un ciclo di vastità wagneriana, di ambizione smisurata, che si ponga come un contenitore enciclopedico del tutto.
    Emilio aspira a una superiore eleganza compositiva fatta di leggerezza, a una musica che suoni necessaria come una riflessione filosofica, come il teorema di una scienza esatta: la strada verso questa espressione totalmente oggettiva è improntata ai principi della serialità integrale elaborati a Darmstadt. La sua è una “lotta di liberazione” dal fardello della tradizione e del soggetto (o dell’uso che del soggetto ha fatto la tradizione), alla ricerca di una musica che suoni nuova, insieme lieve e inattaccabile nella sua totale disciplina. In questo senso la sua ricerca di una musica di luminosa “novità” si pone agli antipodi rispetto a quella (oscura, demoniaca) del suo antico collega Adrian Leverkühn (il “Dottor Faust” di Mann), anche se bene o male si sta parlando sempre di musica dodecafonica, o di principi seriali applicati alla composizione, e Adorno c’entra in entrambi i casi. Se qualcosa in Emilio ricorda Hans Werner Henze (il vitalismo, appunto, la voracità intellettuale, l’amore per l’Italia condiviso con Igor, le inclinazioni sessuali e soprattutto quel titolo, “Boulevard Solitude”, che è anche il titolo della prima opera lirica di Henze), qualcosa rimanda invece a Pierre Boulez (il rigore compositivo, il titolo di certe composizioni, come “Structures” per due pianoforti, il tenore di certe riflessioni, il rapporto arcigno con la tradizione, e anche una certa attenzione per la costruzione della propria figura pubblica…). Quanto a Igor, dietro al suo ultimo progetto mastodontico (concepito intorno ai sette giorni della settimana, officiato come un rito, in cui si fondono tutte le possibili discipline artistiche) è fin facile intravedere l’immenso ciclo “Licht” che tenne occupato Karlheinz Stockhausen nei suoi ultimi anni.
    “Boulevard Solitude”, il titolo del denso romanzo di Patrizia Mari, rimanda appunto alla strada che Emilio si trova a percorrere verso un’arte di superiore distacco: dalla contaminazione del mondo, ma soprattutto da se stessi, dall’io visto come qualcosa di sostanzialmente impuro. Una strada che, nonostante la devozione di Igor, è da percorrere in solitudine (non proprio, però, non del tutto: le riflessioni di Ernesto Negroponte, un filosofo con tendenze mistiche che nella seconda parte del romanzo diventa un complice intellettuale, fungono da imprescindibili indicatori).

  481. Sto finendo l’emozionante “Nella casa del pianista” di Jan Brokken, nell’attenta traduzione di Claudia Di Palermo (Iperborea, 2011). Uso il termine “emozionante” perché questo romanzo intriso di vita e di realtà non è solo incentrato sulla figura del pianista russo Youri Egorov, non si limita a farne il ritratto. In realtà è la storia di un’amicizia, quella tra Egorov e lo stesso Brokken; ed è l’affresco di un’epoca e di un contesto (il mondo artistico degli anni ottanta) fertile e ricco, e destinato a essere incrinato tragicamente (dall’AIDS, ma non solo); è, infine, un’immersione precisa nel mondo interiore di un interprete, nelle emozioni di un concertista.
    Egorov fugge in occidente nel 1976. L’Unione Sovietica, cupa e minacciosa, lo soffoca, in quanto artista e in quanto uomo. La sua fuga è però tutt’altro che uno sradicamento: Egorov, curioso del mondo occidentale, della musica e dello stile di vita dell’occidente, mantiene fortissimi legami con lo spirito russo, con l’arte e la poesia russe, con la lingua russa. Questo è uno degli elementi di contatto con Brokken, che della letteratura russa è studioso. Russia significa però anche un fortissimo senso di colpa, dovuto soprattutto alla separazione dalla propria famiglia, al senso di delusione e di frustrazione che Egorov teme di suscitare ovunque, e di avere suscitato al momento della partenza improvvisa – e che Brokken riconduce allo spirito russo, alla mentalità russa.
    La sua nuova sistemazione ad Amsterdam gli dà la possibilità di una vita eccitante, disordinata e in fin dei conti rischiosa: musicalmente gli consente di accostarsi a quel repertorio che nell’Unione Sovietica era considerato decadente o era decisamente proibito (e si sta parlando di Debussy e Ravel, nei quali Egorov troverà sonorità nuove, e in cui scivolerà con perizia e scrupolo, prima di abbandonarvisi del tutto). La sua formazione di pianista viene ampliata senza che vengano rinnegati (anzi, tutt’altro) i pilastri del concertismo romantico che la scuola interpretativa russa ha continuato a frequentare. Egorov, a contatto con nuove scuole e nuove tendenze, prosciuga l’enfasi e nasconde il magistero tecnico.
    Da molte pagine di Brokken veniamo a conoscere le ansie, le angosce, i chiari di luna di un concertista celebre: la pressione a cui è sottoposto lo rende ipersensibile a tutto, lo carica di affanni, lo fa esplodere in momenti di ira stizzita, lo fa soffrire e fa soffrire tutti coloro che gli stanno accanto o che gli vogliono bene. L’ansia di Egorov è anche l’ansia dei suoi amici, che lo accompagnano ai concerti (in tournée spesso massacranti). Sono paure concrete, per un musicista: l’intonazione dello strumento, le qualità acustiche della sala, la presenza di pubblico, il rapporto con l’orchestra o con il direttore, il tipo di programma, le condizioni di salute…
    Interessante è anche la consapevolezza che Brokken acquisisce come scrittore accanto a Egorov, che sta acquisendo consapevolezza in quanto musicista. L’amicizia tra i due, la profonda fiducia reciproca, finiscono per significare anche questo: l’uno dà consapevolezza all’altro dei suoi mezzi espressivi, l’uno aiuta l’altro a cercare la sua voce. Brokken vede (e lo dice) nell’accanirsi dell’amico a trovare un suono, nell’inseguire una sfumatura, qualcosa di simile al suo lavorare e rilavorare sulle proprie pagine.

  482. Brokken è più di un cronista: è un esegeta, che riesce nel miracolo di non cedere di profondità mantenendo una sincera affabilità. Non nasconde le contraddizioni di Egorov, le spigolosità, le crudeltà, le paure, ma le inserisce in un quadro di impressionante complessità.
    Arrivate alle ultime pagine, in cui lo scrittore racconta la preparazione della morte di Egorov come la preparazione a un concerto: stesso scrupolo, stessa ricerca di un ordine necessario, di un’armonia. Sono pagine che non è facile leggere senza i lucciconi agli occhi, o almeno un accenno di groppo in gola. Egorov vi emerge in tutta la sua ostinata fragilità. Malato di AIDS, sente accumularsi su di sé i segni di malattia, diventa debole, ha attacchi di epilessia, diviene quasi cieco: ma è la prospettiva di non poter più contare sul soccorso della musica a fargli perdere ogni residua voglia di combattere per vivere ancora un po’. I suoi ultimi, sublimi concerti (l’ultimo Schubert, il più crepuscolare, il più sfuggente Ravel) chiosano la sua esistenza come epitaffi.

  483. L’amico scrittore Guido Conterio mi ha regalato “Magazzino Jazz – articoli musicali d’occasione” di Franco Bergoglio (Mobydick, 2011). Bergoglio, che si definisce “scrittore al servizio del jazz” oltre che saggista e critico, nei numerosi pezzi che compongono la raccolta si pone diverse domande sul rapporto tra scrittura e musica, non dissimili da quelle che anche noi continuiamo a porci in questo forum – a partire dal primo assaggio, “Scherzo”, sull’utilità delle citazioni dotte in esergo. Nel riflettere sul linguaggio del jazz l’autore riflette anche sulla scrittura; lo stesso fa quando si pone domande sulla natura e la funzione della critica jazzistica (sempre parole su note, no?). E spesso, quando si tratta di analizzare il jazz, Bergoglio lo “racconta”, narrativamente intendo, giocando con il concetto di libertà controllata e di improvvisazione su temi dati, e applicandolo alla scrittura, come accade, che so, in “Contrappasso”. Con gusto si raccontano episodi, incontri, ascolti, manie (una su tutte, il collezionismo, visto che ogni amante del jazz è per Bergoglio anche un collezionista). Con gusto (ironicamente, ma convintamente) colto si scovano accoppiamenti tra letteratura (poesia, narrativa) e esperienza musicale (ma anche arte, come in “Jazz on Jackson”, cioè Pollock).

  484. “Mansarda” è il nome di un quintetto anomalo, composto da Marta Raviglia, voce, Henry Cook ai sax e al flauto, Giacomo Ancillotto alla chitarra, Francesco Cusa a batteria e percussioni, Roberto Raciti al contrabbasso; riunitisi per la prima volta nel 2009, hanno dato luogo a una musica totalmente improvvisata, le cui tracce costituiscono la prima parte del CD omonimo pubblicato da Improvvisatore Involontario nel 2011; la seconda parte è stata registrata nel Monk Studio con lo stesso spirito, e con lo scopo di arricchire di nuovo materiale la pubblicazione del CD.
    Musica totalmente improvvisata, si diceva: ma da parte di musicisti che lo sanno fare con maestria, non cincischiano a vuoto, sanno contare su un’intesa perfetta e immediata, strutturano e destrutturano con sapienza e divertimento, e sono spinti da un gusto comune per la variazione, per la deviazione inaspettata, a non soffermarsi mai più di una manciata di minuti su un’idea, su un’intuizione.
    “Mansarda è il respiro del Minotauro, lo specchio di Perseo, il calice di Dioniso” si legge nel booklet del CD. Curiosamente non è citato “il vaso di Pandora” in questo breve elenco di allusioni mitologiche, e forse per evitare un riferimento un tantino ovvio. Sta di fatto che l’ascolto della musica di Mansarda suona davvero come lo scoperchiamento di un vaso di Pandora.
    È musica che tritura e rielabora tutto il paesaggio sonoro dei nostri giorni e ce lo restituisce riassemblato e distorto in chiave esasperata, spesso sarcastica. Il sarcasmo, a dire il vero, è soprattutto della voce, di Marta Raviglia, e sta nel suo uso delle parole, nel suo improvvisare con il senso delle parole attraverso il ricorso a ritagli di giornale, dispacci radiofonici, frammenti di canzoni, brandelli di conversazione, giù giù fino ai singoli fonemi, agli strilli, ai gorgheggi, ai sospiri.
    Il senso del divertimento è ben avvertibile nei titoli (“Le ultime lettere di Alberto Fortis”, “Tony Blair witch project”, “Tu mi tiri coriandoli d’asfalto onde celebrare la tua Viareggio stanca”, “Henry goes to Hollywood”…), titoli che però il più delle volte ingannano, perché sono dati (a posteriori, si direbbe) non a parodie saldamente filologiche (alla, che so, Frank Zappa, o alla Elio e le Storie Tese) ma a guizzi, talvolta di pochi secondi, a frammenti estemporanei (potrebbero venirci in mente certe cose di John Zorn: ma qui si improvvisa davvero, e ci si diverte di più).
    Marta Raviglia ama usare la sua voce come strumento (a fiato, ma anche a percussione, e pure ad arco, to’), svincolandola dal condizionamento del senso delle parole di un testo. In “Mansarda” Marta si abbandona spesso a questo post-vocalese. Non è la prima volta, certo, ma questo è il progetto nel quale lo fa con più accentuata radicalità. Quando Marta (con un’attitudine riconducibile pur sempre a una matrice jazzistica) applica il procedimento dell’improvvisazione alla elaborazione estemporanea di un testo, come dicevamo, va a pescare nei cascami dell’informazione contemporanea, in reminiscenze di vecchie canzoni (ah, la sublimità di quelle parole così indispensabilmente “stupide”!), o di arie d’opera, oppure lascia andare la lingua, e sembra seguirne il tour tra le associazioni.
    Un paio di esempi tra i tanti. Ne “Le ultime lettere di Alberto Fortis” Marta esordisce sola, con un breve, intenso sproloquio sull’assioma che “il sentimento è sentimentale”. Segue un rock lento, monoaccordale, “ipnotico”, come si diceva una volta, su cui ora la voce di Marta, distorta, si dilata in urli strazianti (ma sempre impeccabilmente intonati); riprenderà alla fine l’uso della parola, per enunciare frammenti di isolata insensatezza.
    In “Per gole sì”, la spiritata parodia di un’aria d’opera metastasiana (in ottonari) tirata per le lunghe come tutte le arie d’opera, adagiata sull’accompagnamento disturbante e incongruo (e sempre più allusivamente funky) degli altri strumenti, si alterna a vocette, strilli, e verso la fine a commenti parlati (accenni di un rap petulante) e a interiezioni come “Oh yeah”. Qui la soprapposizione di toni e componenti musicali e extramusicali non cerca la sintesi, ma gioca sull’antitesi, sull’attrito – il che, invece di urtarci, ci diverte fino alle lacrime
    In “Surdu Mihai” una notizia di cronaca nera e di intolleranza etnica si dilata in un canto svagato su un ritmo imperturbabile di bossa nova. In questo caso il senso del macabro prende la via del grottesco, del paradosso: il povero cadavere (“in putrefazione”) della vittima di un incidente viene rinvenuto da una passante, portato a casa, posto sul divano, accanto al marito, coccolato come un ospite di riguardo (“Un vero cadavere a casa! Quanto di meglio ti possa capitare/oggigiorno”). Il ritmo spensierato della danza brasiliana dà un colore da salotto borghese appena un po’ fané, da modernariato anni sessanta, il che accentua, invece di attenuare, la crudeltà del testo. In questo brano, il programma di avvicinare alla forma canzone la creazione estemporanea è rispettato più che in altri, il che è davvero singolare, visto il contenuto trucidamente provocatorio del testo.
    Il macabro ritorna nell’assai più minacciosa ultima traccia, “V come Veronica” (l’unica attribuita alla scrittura di Francesco Cusa), tour de force vocale alla deriva tra efferatezze mormorate o ringhiate (sangue a fiotti, decapitazioni, deliri spiritualistici e/o demonologici), frasi registrate anche al contrario, parole non sempre distinguibili dalle azioni di disturbo degli strumenti – una conclusione tutt’altro che accomodante.
    Ecco, il vaso di Pandora si è per il momento vuotato, i detriti e i cascami del nostro mondo (della nostra civiltà, ma anche del nostro paesaggio interiore, soprattutto delle zone meno battute) ne sono usciti a ondate, e non siamo più capaci di rimetterli dentro. Che importa? Ci rallegra che gli stessi musicisti di Mansarda programmino (minaccino) di far uscire “a scadenza biennale” un nuovo disco, “un nuovo viaggio”.

  485. Leggo “Johann Sebastian Bach in disgrazia”, ovvero “La disgrâce de Jean-Sébastien Bach” di Jean-François Robin, che Nottetempo ha pubblicato nel 2007 nella traduzione di Laura Barile. A colpirmi è la levità della narrazione, ottenuta grazie al ricorso alla pacata voce narrante del giovane Lucas Traum; Traum, militare non ignaro di musica, è incaricato di fare la guardia a un Bach trentenne, imprigionato (senza strumenti!) in una stanza del castello di Weimar dal Principe di Sassonia-Weimar, che non vuole concedere al musicista di andarsene presso la Corte di Köthen.
    Di Bach è resa bene la vitalità inarrestabile: all’epoca è un trentenne fisicamente imponente, dotato di energia e resistenza non comuni, amante del fumo della pipa, del buon cibo e del bere, e innamoratissimo della moglie Maria Barbara, da cui è tenuto separato ma che riuscirà a incontrare). In tutto questo, nelle gioie del palato come nel fascino femminile, Bach vede dolci doni di Dio, da delibare con moderazione, sì, certo non da rifiutare. Anche la musica rientra in questa visione appassionata, vorace, della vita: ogni nota è scritta a maggior gloria di Dio, e solo la musica può esaltarne la grandezza e la misericordia. Bach compone inarrestabile, dopo aver disegnato prima una pedaliera d’organo sul pavimento della nuda stanza in cui è stato rinchiuso, poi una tastiera su un vecchio tavolo. Non c’è bisogno di uno strumento vero, quando c’è la voce umana a cantare (in quel periodo Bach compone i corali del “Piccolo libro d’organo”, ma anche Cantate sacre e profane). E non c’è bisogno di ascoltare la musica, quando le pagine fittamente riempite di grappoli di note risuonano alla sola lettura. Passione e pazienza (artigianale dedizione, pratica continua) sono i due princìpi a cui Bach si attiene.
    Ai figli ancora piccoli Bach pensa con commozione: ne farà dei musicisti, perché il musicista, nella sua visione (in quella di Robin, se non altro), è un uomo davvero libero, non un cortigiano, né un soldato. Il musicista, dice Bach, ha solo Dio come autorità superiore. E qui si torna a uno dei temi che questo forum ha trattato spesso, il rapporto tra espressione e potere, tra arte e autorità. Bach prigioniero non si umilia, non si abbassa: quanto più gli si consiglia prudenza e sottomissione, tanto più egli si intestardisce, programma il suo futuro di musicista libero (libero cioè, visto il contesto storico, di scegliersi il signore che più gli aggrada, quello che più mostra di apprezzarlo).

  486. Altro tema che ritorna, almeno da “Amadeus” in su (no, mi correggo: da “Mozart e Salieri” di Puškin in su, visto che tutto della leggenda salieriana nasce tra i versi di quella “piccola tragedia”), e che ritrovo in in “Johann Sebastian Bach in disgrazia” di Jean-François Robin, è il confronto tra la grandezza del genio (Bach, in questo caso) e la mediocrità senza speranza (qui il giovane Drese, rimasto musicista di corte, o meglio Kapellmeister, a seguito appunto della reclusione di Bach). Ma più che la mediocrità di Drese, spiccano la meschinità e la sordità del Principe, che cocciutamente rifiuta la musica di Bach, anzi la mette al bando, e condanna il musicista a una sorta di damnatio memoriae presso la corte. Bach ha osato comportarsi da uomo libero, cioè da professionista della musica, rifiutando di adattarsi al rango di servo.

  487. Caro Claudio,
    chiedo licenza di uscire dal seminato rispetto agli ultimi spunti per proporre una riflessione – un dubbio, più che altro – che sta intrigandomi man mano che procedo nella lettura del secondo, “minore”, romanzo di di Stefano D’Arrigo: quel “Cima delle nobildonne” che quasi parve scritto per spiazzare gli ammiratori e reduci dall’enorme fascinazione lirico-ritmica di “Horcynus Orca”.
    Qui (in “Cima”, intendo) il melos, se non frontalmente negato, appare da subito franto, quintessenziato, come se l’Autore tenesse a incagliare il lettore/ascoltatore in preziose enigmatiche concrezioni, momenti di sosta obbligata in cui assaporare sensi, e segni, altrimenti sorvolati.
    Ora mi domandavo appunto se non si tratti in fondo dello stesso processo, di nobile filtraggio e contrazione, che tante volte si incontra nella storia della musica (quella fatta di note), sia da un punto d’osservazione generale che indagando singolarmente la produzione di alcuni grandi.
    Penso ad esempio, con la disinvoltura cui autorizza il clima informale di un forum “amichevole” come il tuo, agli ultimi quartetti di Beethoven, o al distillarsi di uno Schoenberg (e, ancora di più, del “romantico” Berg) nelle (se non rammento male) quattro ore o poco più di oreficeria musicale licenziate da Anton Webern.
    Cari saluti,
    Guido Conterio.

  488. E intanto, visto che si parla di scrittori di penna finissima, chissà se ci si può ancora procurare il prezioso libretto intitolato “Giorgio Manganelli, ascoltatore maniacale” che Paolo Terni ha pubblicato nel 2001 con Sellerio? Conteneva la trascrizione di una serie di incontri di Terni con Giorgio Manganelli, risalenti nel 1980 nell’ambito della trasmissione radiofonica “La musica e i dischi di…” (Radiotre, se non sbaglio). “Conversazioni in cui non solo si scruta nella musica dello scrittore – la scoperta dei suoni, i pezzi prediletti, le scelte musicali – ma soprattutto vengono esplorate le relazioni tra musica e letteratura, i rimandi tra l’una e l’altra arte” leggo nella descrizione del libro. Direi proprio che farebbe al caso nostro…

  489. Di Paolo Terni, musicologo e narratore, è uscito da poco per Bompiani “Il respiro della musica”, affascinante serie di divagazioni musicologiche. Ma ricordo anche la precedente “Suite alessandrina” del 2008 (sempre Bompiani), di impianto più schiettamente narrativo, oltre ai raffinati volumetti pubblicati con Sellerio (“In tempo rubato” del 1999, “Un vento sottilissimo” del 2002, “Perché cantano?” del 2006). Ne riparleremo di sicuro.

  490. Leggo “Il respiro della musica” di Paolo Terni (Bompiani 2011). Terni inizia affabilmente con la reminiscenza del primo concerto a cui ha assistito bambino. Indagare il senso della musica, per Terni, è spesso indagare la complessità dell’esperienza dell’ascolto: “La musica, implacabile, respira in noi dalle segrete dei nostri ascolti”.
    (Be’, il vero inizio del libro sarebbe costituito da una “Lettera” di Ludovico Einaudi, che però nulla aggiunge e qualcosa toglie alla dimensione musicologica e filosofica dell’opera di Terni. Ma in effetti, lo ammetto, è difficile rendere la straordinaria densità teorica e la pregnanza poetica delle riflessioni di questo piccolo libro.)
    La musica, per Terni, è immagine di un mondo “misterioso” (il termine ritorna diverse volte, e sembrerebbe caricarsi di una valenza spirituale, se non mistica – di certo filosofica): è linguaggio, sì, ma enigmatico (“La musica, come sfinge, dipana il suo mito, procede nel mistero del proprio labirinto, elabora enigmi, propone domande senza risposta”). Si intreccia, nel profondo della nostra interiorità, con le mille voci della memoria.
    La natura urla con la voce potente della musica (la musica delle sfere, del cosmo, dell’immensamente grande e dell’immensamente piccolo) – una voce che cogliamo in parte, a sprazzi, in rari momenti di epifania, perché essa eccede di troppo la limitata capacità di percezione dei nostri sensi. Terni, con uno stile spesso oracolare, sempre poetico (quante sinestesie per rendere accessibile un concetto!), insiste sul carattere di “rivelazione” che ha l’ascolto della musica, l’intuizione di un ordine e una complessità incommensurabili di cui la musica è voce, riflesso e metafora. La musica si fa nelle sue pagine immensità cosmica ma anche profondità insondabile, cielo e abisso; è insieme modello di struttura, “geometria dinamica di idee platoniche… intrinsecamente imprendibile”, e “imago mundi”, cioè immagine autentica della “fluttuante architettura” dell’universo – ma è anche immane organismo, che vive e “respira” (e attorno a cui si affannano le “chiacchiere insensate” del “pensiero musicale corrente”, incapace di coglierne l’essenza).

  491. Caro Claudio,
    una telegrafica appendice, solo indirettamente “d’arrighiana”.
    Mi sono talvolta chiesto quale opera, nell’ambito della divulgazione letteraria, meriti per chiarezza, eleganza, e potrei aggiungere appassionata concisione, quella palma che nel settore della musicologia viene con piena ragione solitamente asssegnata alla “Breve storia” di Massimo Mila. Ebbene, adesso crederei di averla trovata: si tratta di “Per una biblioteca indispensabile” di Nicola Gardini, coinvolgentissima guida recentemente pubblicata da Einaudi. Qui, in rigoroso ordine alfabetico, sono presentati cinquantadue classici imprescindibili della letteratura italiana, dall’Alighieri alla Ortese: con tale, direi, compenetrazione di grazia e rigore che è difficile per il lettore non affrettarsi a scoprire o ripercorrere le altissime vette additate.
    Ma D’Arrigo che cosa c’entra?
    Purtroppo (e sorprendentemente, a mio parere) gli tocca un ruolo di grande escluso. E qui sarebbe interessante ascoltare le ragioni “a discolpa” da parte dell’Autore. In mancanza (o chissà, attesa) di queste, si potrebbe avanzare una congettura: che proprio l’eccesso di “canto” e di musica, a scapito magari di altre qualità più aderenti alle regole e alle scansioni di un discorso, rischi di velare l’universalità, ma anche la pertinenza col frangente storico, di un’opera narrativa.
    Cari saluti,
    Guido Conterio.

  492. Il dubbio che Guido Conterio esprime così lucidamente merita qualche riflessione. Guido, che di musicalità della parola e della frase si intende, e parecchio (leggetevi il suo ultimo “Incanto e guarigione”), deduce e teme, a proposito dell’esclusione di D’Arrigo, che “proprio l’eccesso di “canto” e di musica… rischi di velare l’universalità, ma anche la pertinenza col frangente storico, di un’opera narrativa”. La considerazione (amara) di Conterio sembra particolarmente adatta a descrivere l’irrimediabile inattualità (incongruenza, verrebbe da dire) di D’Arrigo (e di alcuni altri) rispetto a un’epoca come la nostra, caratterizzata da prevalenza del plot e da scarsa attenzione per la ricchezza espressiva della lingua (letteraria).
    Quanto a Nicola Gardini, come si legge nell’introduzione al suo interessantissimo “Per una biblioteca indispensabile”, non ha voluto stilare un nuovo canone della letteratura italiana, ma un suo personale catalogo, che ha come corollario anche numerose rinunce piuttosto difficili; e, soprattutto, nel farlo è partito dal repertorio di letture di classici a cui si affida la scuola italiana, e ne ha distillato una ristretta rosa di irrinunciabili. Questo spiega bene l’esclusione di D’Arrigo.

  493. Cambiando (in parte) discorso: sul numero di luglio/agosto 2011 di “Pulp Libri” compare una intervista bella e lunga (non potrebbe essere altrimenti, visto l’intervistato) a William T. Vollmann a cura di Fabio Zucchella. Segnalo in particolare la parte in cui, invitato a parlare del vasto romanzo storico “Europe Central”, Vollmann si sofferma sulla figura, potente, eroica ma anche ambigua e sfuggente, di Dmitrij Šostakovič, e sui rapporti di quest’ultimo con il potere (con Stalin, insomma).
    Ora, l’argomento è spaventosamente interessante, e non solo per ciò che concerne la ricostruzione storica, ma anche per le domande sul presente e su noi stessi che ci costringe a porci. Io mi ci metto, a leggerlo, promesso, ma le quasi mille pagine di questo dettagliatissimo affresco mi sgomentano, e io procedo con lentezza. Qualcuno ha già affrontato “Europe Central”? E avrebbe voglia di parlarne?

  494. Giustissima, caro Claudio, la tua spiegazione su D’Arrigo: tanto più che, nella stessa introduzione, Nicola Gardini dichiara e difende l’esclusione dalla sua guida di libri successivi agli anni Sessanta, “la distanza temporale essendo una condizione del classico”.
    Eppure… “Horcynus Orca” non solo al suo apparire e perfino nel corso della sua gestazione venne (più che fondatamente, a mio giudizio, seppur con qualche fracasso) presentato come capolavoro epocale, ma, si potrebbe osservare, da ogni sillaba e sortilegio dell’omerico andamento sembra che invochi il diritto a essere riconosciuto come tale. In casi del genere, io dico, o si acconsente senz’altro, o mai. E a costo di uno strappo alle regole quel romanzo l’avrei ospitato.
    Carissimi saluti,
    Guido Conterio

  495. L’elogio tributato qualche giorno fa da Guido Conterio (ciao, Guido, grazie per i tuoi interessantissimi contributi!) alla “Breve storia della musica” di Massimo Mila mi ha fatto venire voglia di ricercarvi quelle perle di gusto letterario che tanto mi avevano colpito molti anni fa, ai tempi della prima lettura, non meno del rigore analitico e della sapiente capacità di sintesi. E quasi ad apertura di pagina, saltabeccando tra epoche e scuole, trovo:
    (a proposito dell’epoca delle origini del contrappunto): “Questa ci appare intorno al 1100 come quelle ragazze di dieci anni, tutte lunghe gambe stecchite, che hanno perduto la grazia inconscia dell’infanzia e non posseggono ancora la seduzione della donna” (va bene, il sapore rétro di questa analogia va collocato nel 1963, anno della prima edizione);
    (a proposito di Schubert) “Quella melodia se ne sta gelosamente rimpiatta tra le due riprese della preludiante introduzione, come un perla tra le valve di un’ostrica, o come una sfolgorante Madonna tra le portelle d’un trittico” (ma vi raccomando anche il seguito, in cui i “motivi squisiti di Schubert” vengono immaginati lavorati “con la tenerezza affettuosa d’un babbo Natale da fiaba”);
    (e sull’”universo poetico” di Anton Webern), “fatto di vibrazioni impercettibili, di grigi colori smorzati, di gridi soffocati in sospiri”; una “fragile materia sentimentale, di crepuscolare delicatezza, tutta rabbrividente in gelosa intimità” al tempo stesso frutto e anzi “trionfo del calcolo più rigoroso”;
    (o, a proposito dei cali di ispirazione che Mila nota, in una pagina cattivella, nella musica dello svizzero Ernest Bloch) “Non sempre, cominciando a scrivere, Bloch sa che cosa dirà alla fine del pezzo; ascoltandosi s’infervora, i pensieri gli rampollano l’uno dall’altro e si succedono come annotazioni febbrili”, con quel che segue.
    E si potrebbe continuare – ma la “Breve storia” di Mila è un classico così conosciuto che ognuno lo può fare per conto suo, magari condividendo poi le sue scoperte e preferenze su questo forum.

  496. Che prezioso libretto è “Giorgio Manganelli, ascoltatore maniacale” (Sellerio, 2001), in cui Paolo Terni ha raccolto (trascritto, anzi, con affettuosa filologia) le conversazioni avute nel luglio del 1980 sul Terzo Canale della Radio nel corso delle puntate de “La musica e i dischi di…”. Manganelli, che di musica è stato un degustatore accanito (maniacale, appunto) anche se, a suo dire, discontinuo, con una sapienza di linguaggio irraggiungibile torna su alcuni punti fondamentali del discorso attorno alla musica e alla letteratura: se vi sia un rapporto, appunto, e quale; quale sia, a un altro livello, la relazione tra musica e linguaggio; che cosa possa dare (suggerire) la forma musicale al letterato; quali analogie si possano trovare, o almeno intuire, tra aspetti e strumenti linguistici di musica e parola (compresi il silenzio, la citazione, la variazione); quale sia, in musica e in letteratura, il rapporto con il significato.
    Della musica è la forma ad affascinare in particolare Manganelli, il trionfo della forma, delle strutture; quest’arte rivela più che ogni altra espressione artistica “il passaggio dal materico, più che dal concreto, alla forma” (questa è la sintesi di Terni). Manganelli sente tutto ciò come una sorta di sfida che la costruzione musicale lancia allo scrittore (parola, en passant, ch’egli usa con insolito e ammirevole ritegno). Lo scrittore è immaginato nell’atto di un inseguimento, nell’emulazione della olimpica astrazione delle forme musicali, che bastano a se stesse. “In certi casi ho cercato proprio di inseguire alcune forme musicali che mi affascinavano proprio – non so, ad esempio, la variazione che in letteratura è così difficilmente, preziosamente trasferibile…”
    Questo trionfo della forma si esplica nella musica assai più vantaggiosamente che nella letteratura per via della natura stessa della musica, lontana da quella che Manganelli stesso chiama, con felice paradossale espressione, “l’onta del significato”: “Questa capacità del discorso musicale di non dovere neanche… affrontare l’onta del significato: questo è un privilegio che il letterato non può non invidiare continuamente…”. Notate il termine “invidia”, che ritorna altre volte nella conversazione con Terni, accanto ad altri altrettanto forti, come il già citato “sfida”, o “angoscia”, quest’ultima, come vedremo, sempre accompagnata e illuminata dal senso del “gioco”.
    Manganelli puntualizza così il concetto dell’invidia: “Esiste una specifica invidia dello scrittore verso il musicista che è l’invidia di una… di una condizione particolare che a lui sembra infinitamente più libera e più inventiva, più naturalmente fantastica (…). Lo scrittore ha il problema di scrivere adoperando qualche cosa che si può presentare e descrivere come un significato e deve contemporaneamente liberarsi del significato (…). Questa condizione il letterato la trova nella musica realizzata in maniera particolarmente felice”. Manganelli lavora così su questo punto (e noterete la terminologia sempre forte, “angoscia”, “dramma”, “uccidere”): “Il dramma del musicista non è diverso da quello dello scrittore”; il primo però opera con “uno strumento che… agisce molto più prontamente coi suoi incantesimi per mortificare il significato, mentre lo scrittore, purtroppo, deve… poterselo dietro e deve ucciderlo passo passo!”
    Quanto all’”angoscia”: quando Terni nota una certa omogeneità di colori nelle proposte musicali del suo ospite (“predilezione… per tempi di marcia, generalmente in minore, e non casualmente impregnati da un vago clima di angoscia”), Manganelli chiarisce che è importante che questa, l’angoscia cioè, “coesista con il gioco, coesista continuamente con la… non so se la liberazione o la schiavitù della forma, ma certamente con qualche cosa che affronta, sfida e contemporaneamente coniuga l’angoscia”. È l’unico gioco possibile, in musica, in letteratura, in ogni arte (“quella cosa misteriosa che noi chiamiamo arte”)..
    Ecco infine dove la forma trionfa: in Bach, certo (in lui “la musica si presenta esattamente come quello che è: cioè soltanto se stessa. E non c’è niente da cercare che non sia puro suono e rapporto di suoni”); nella “geometria dinamica” del primo Haydn, che la possiede naturalmente, e la esercita con “purezza”, “pulizia”, “asprezza”, e insomma “cinismo” (il suggerimento lessicale, subito accolto da Manganelli, è di Terni), prima che il “furore della forma” di Mozart, che da lì prendeva le mosse, non lo influenzasse a sua volta permeandolo di inquietudine; nella ritualità della musica giapponese (una musica fatta di gesti “che hanno perso totalmente il significato gestuale”, si sono fatti “istantanei emblemi” di un “atteggiamento che io chiamerei cerimoniale… o liturgico” in cui “hanno rinunciato ad essere umani”).
    Ma la musica per Manganelli è (stata) anche altro: una passione adolescenziale, nutrita di “emblemi intellettuali, psicologici direi molto più che intellettuali” che ne fanno lo specchio di elementi onirici, “puberali”. In questo senso Wagner (la sinfonia del Tannhäuser in particolare) presenta una “affettuosa alleanza di eros e di morte, di sterminio e di insediamento” che ne fanno l’ideale “commentatore di questa onnipotenza onirica del ragazzo”. Ma anche Schumann (il secondo tempo del Quintetto op. 44) e Mozart (il Requiem), altri amori giovanili, rivelano una natura comune, “una parentela strana, inquietante, forse anche un po’ sinistra”, che è, ancora, “il tema dell’angoscia, il tema del modo di trasformare l’angoscia in forma”.

  497. Benritrovati! Spero che le vacanze siano state piacevoli, prodighe di buoni ascolti e di altrettanto buone letture.

    La visita al Musée Jules Verne di Nantes, quest’estate, oltre a farmi diventare (meglio, tornare) irriducibilmente verniano, mi ha permesso di scoprire l’eccellente “Revue Jules Verne”, pubblicata a cura di diverse associazioni culturali francesi sparse tra Nantes e Amiens. In particolare, non ho mancato di procurarmi il n. 24, dedicato ai rapporti tra Verne e la musica.
    Prima osservazione: la cultura musicale faceva naturalmente parte del bagaglio di conoscenze di Verne, come di moltissimi scrittori suoi contemporanei – e questo ci fa invidia, visto che da un pezzo non è più così scontato. Di più: Verne è descritto come un buon melomane, aggiornato sulla produzione musicale dei suoi tempi come sulla grande tradizione classica. Secondo il gusto tipico dell’epoca, e suo in particolare, ama enumerare composizioni e compositori con la stessa precisa voluttà didascalica che lo spinge a fitte elencazioni in campo biologico, geografico, geologico. Alcuni personaggi fortemente caratterizzati sembrano riflettere questa sua passione: e qui viene subito in mente il capitano Nemo all’organo nel suo Nautilus, certo. Ma lo strumento per eccellenza di Verne è il più salottiero pianoforte, che nei suoi romanzi appare un po’ ovunque, là dove la trama lo consente; e dove non c’è posto per un pianoforte, e nemmeno per qualche strumento di ripiego, ecco che supplisce la voce umana, ed è il momento di canti di matrice colta o popolare.
    La musica in Verne (sintetizzo quanto trovo nel bell’articolo di Mireille Pédaugé, “La musique dans l’oeuvre de Jules Verne”), innestata nello sviluppo dell’azione, diventa romanticamente “riflesso o messaggera di uno stato d’animo” (e aggiungerei che, in letteratura, l’approccio “romantico” al flusso delle idee musicali sembra essere il più fecondo, o il più funzionale agli intenti narrativi, fate voi). La Pédaugé riporta questo celebre esempio, da “20000 lieues sous les mers ”: “En ce moment, j’entendis les vagues accords de l’orgue, une harmonie triste sous un chant indéfinissable, véritables plaintes d’une âme qui veut briser ses liens terrestres. J’écoutai par tous mes sens à la fois, respirant à peine, plongé comme le capitaine Nemo dans ces extases musicales qui l’entraînaient hors des limites de ce monde.”
    Ma il romanzo di Verne in cui la musica diventa protagonista è il poco conosciuto (da noi, se non altro) “Le Château des Carpathes”, un finto gotico di assunto tecnologico di cui parlerò un’altra volta. Per ora rimando al denso articolo di Bruno Bossis, “Le fil d’Ariane, au-delà de la vie”, e al romanzo stesso, di cui sto per concludere la lettura.

  498. Carissimi,
    ho recentemente acquistato “Il mio ricordo degli eterni” (Rizzoli, 2011), snella ma, come prevedibile, tutt’altro che banale autobiografia di Emanuele Severino, con l’intento di indagare eventuali echi e assonanze fra, come suol dirsi, pensiero e vita. E ve ne sono, naturalmente: ma scopro anche che il Nostro, dei cui originali esiti speculativi mi dichiaro, più che effettivo conoscitore, un ammirato orecchiante, è stato compositore, e di quelli più che “certificati”. Ha scritto “parecchia musica”, fra cui una Suite per strumenti a fiato e pianoforte più volte eseguita (in uno stile, ci fa sapere, tra Bartók e Stravinskij).
    Tutto si tiene. Severino è stato anche lodato per lo stile quasi matematico del suo argomentare (e, per dire, ha tradotto “La costruzione logica del mondo” di Carnap, testo rigorosissimo e impervio, fra i più indigesti della storia della filosofia per il lettore poco avvezzo alle dimostrazioni condotte “more geometrico”).
    Musica, filosofia, matematica. Ecco una triade su cui non ci si annoia mai a ricamare. Così come sarebbe sicuramente intrigante ascoltare qualcuno di questi brani che il grande filosofo, con squisito understatement, fuggevolmente ci menziona.
    Cari saluti e buona “ripresa” a tutti.
    Guido Conterio

  499. Musica, filosofia, matematica. Caro Guido, ti lascio sviluppare questa triade. A me, a proposito dei primi due elementi, vengono in mente certi saggi musicali di Adorno (di cui qualcosa si trova in CD) e prima ancora di Nietzsche (cosine pianistiche invero piuttosto modeste, ben documentate su CD). Ma urge un riascolto, seguito da una riflessione attenta, prima che io spari sentenze di cui potrei pentirmi.

  500. Carissimi,
    proprio nell’aureo libricino di Paolo Terni segnalatoci da Claudio il Manganelli, nel rammentare la legittimità e anzi opportunità di una storia della musica, o della letteratura, anche per specifici generi, afferma: “Ad esempio, che so, la storia della lirica italiana, la storia del poema, di un certo tipo di poema, passa esclusivamente per alcuni moduli stilistici che non vengono adoperati come opere di un autore, ma che vengono adoperati come esempi di quel genere. Così ad esempio (…) esiste una storia del petrarchismo, e in buona parte penso al petrarchismo perché è appunto uno dei casi più puri di un criterio formale totalmente – direi – matematico, descrivibile in termini quasi puramente astratti, alla creazione di poesia.”
    Qui mi verrebbe da pensare a quelli che i matematici appunto chiamano “invarianti” di una trasformazione geometrica… ma anche, all’opposto, e con un volo che a un matematico stretto farebbe storcere il naso, ai “punti di catastrofe” su cui doviziosamente ci ha informati René Thom: quei frangenti in cui, a causa di un infinitesimo sbandamento, la struttura rovina fragorosamente (e, potremmo aggiungere fuor di matematica e, volo per volo, rubando il termine a Kuhn, un nuovo “paradigma” si impone).
    Sicché avviene ad esempio che il diuturno, generoso accanimento di Schönberg e discepoli nel rivendicare una salda continuità spirituale rispetto alle forme della tradizione venga di punto in bianco sparigliato da quel simpaticone di John Cage.
    Cari saluti e ringraziamenti,
    Guido Conterio

  501. Carissimi,
    mi accorgo che dalla mia precedente citazione di Manganelli è saltata via una parola, con qualche danno per la comprensione.
    Si legga dunque, riguardo al petrarchismo: “è appunto uno dei casi più puri di APPLICAZIONE di un criterio formale”.
    Di nuovo cari saluti,
    Guido Conterio

  502. @ Claudio
    Vorresti entrare un attimo, per favore, nei pensieri vacanzieri? Ci sarebbe il bisogno di un tuo parere.
    ciao

  503. Arrivo subito, Antonella! Anzi, che ne dite (ora mi rivolgo ai silenziosi e affezionati lettori di questo forum) se ci spostiamo un po’ su “Pensieri vacanzieri” a dire la nostra?

  504. Ho letto le “Conversazioni musicali” che il musicologo Roberto Iovino ha avuto con Edoardo Sanguineti pochi anni fa e che Il Melangolo ha pubblicato da pochi mesi. Il libretto ha molti pregi. Intanto si tratta di conversazioni vere, che alternano, come è giusto che sia, momenti di vertigine concettuale ad altri di serena divagazione talvolta un po’ di maniera. Poi Sanguineti esprime con chiarezza quella che è la sua idea di poeta “al servizio” della musica: idea sorprendente, ma perfettamente coerente, che solo un grande poeta può permettersi di sostenere con quella disinvolta umiltà. Ha scritto (detto) proprio Sanguineti, in un’altra occasione, sempre a Iovino: “Ho un’idea servile della parola nei confronti della musica. Se un musicista tratta le mie parole in modo che siano riconoscibili, bene. Ma se le usa come pretesto e le riduce a singoli suoni non mi sento turbato”. Egli stesso, soprattutto se pressato dall’urgenza di altri lavori, invitava il compositore che si rivolgeva a lui in cerca di un testo a servirsi pure liberamente, ad attingere dalla sua opera, a prendere quello che gli serviva. Nelle “Conversazioni” Sanguineti ribadisce questa posizione: in fondo, ammette, “l’ultima parola spetta a lui”, al compositore; e al pubblico arriva sempre e solo ciò che il compositore vuole che arrivi, delle parole. “La mia idea è che io debba dare dei materiali al compositore e questi materiali entrano nella sua creazione, divenendone parte integrante e nello stesso tempo perdendo la loro autonomia a favore di un discorso generale più ampio e completo. Non ha più rilevanza il verso in sé, ma quello che del verso il musicista utilizza e vuol far arrivare all’ascoltatore.”
    In appendice si può leggere un interessantissimo “Catalogo delle opere musicali scritte su testi (o ispirate a testi) di Sanguineti”: catalogo destinato, come si può immaginare, a continui aggiornamenti. Tra le collaborazioni di Sanguineti, ovviamente, risaltano in modo particolare quelle con Luciano Berio, a partire già dalla prima opera: “Passaggio”, dei primissimi anni sessanta, è definita “messa in scena di Luciano Berio e Edoardo Sanguineti”, senza distinzione di ruoli tra autori di parole e di musica, a dimostrazione di un profondo rispetto reciproco e di una sintonia rara, oltre che del fatto che, in fondo, Sanguineti non può essere solo un “librettista”, come con understatement insiste di volersi chiamare.
    Nel Catalogo colpiscono anche i titoli di certe opere più recenti, per esempio “Rap”, “Macbeth Remix” o anche “Sei personaggi.com” per le musiche di Andrea Liberovici; in tali opere Sanguineti sembra appropriarsi (anche con intento parodistico) di metodi costruttivi legati a nuovissime forme di comunicazione, o meglio scoprire in queste delle affinità con la sua idea di parole per musica, o di “recitar cantando”. Lo stesso Liberovici racconta che tra loro “c’era uno scambio molto libero: lui mi metteva a disposizione quelli che amava definire ‘materiali verbali’ e io li montavo, li smontavo e li rimontavo come più mi sembrava utile per la scena che avevo in testa”.

  505. Su http://asidel.wordpress.com/, o http://www.inpoesia.org/, insomma “In Poesia- Filosofia delle poetiche e dei linguaggi”, Antonio De Lisa, che è docente, poeta, musicista e musicologo e ha una formazione filosofica di tutto rispetto, indaga instancabilmente sulla poesia e su ogni contatto della poesia con altre arti, in particolare con la musica. Segnalo agli amici del nostro forum questo blog colto e appassionato che assomiglia molto, per rigore, competenza e sistematicità, a una vera e propria rivista (De Lisa, che ha studiato con Giacomo Manzoni, ha anche fondato e diretto la rivista “Sonus- Materiali per la musica moderna e contemporanea”). Io, di mio, leggo “In Poesia” e ne percorro le pagine come fosse un’enciclopedia in continuo aggiornamento.

  506. Questa mattina ho finito di vedere con i miei allievi il bel film di Carlo Mazzacurati dedicato ad Andrea Zanzotto. C’è un punto in cui Zanzotto, stimolato da una domanda di Marco Paolini, “parla” di musica (già Franco Marcoaldi nell’introduzione al libretto che accompagna il DVD suggerisce che non di semplice conversazione si tratti, ma, nel caso di Zanzotto, di un “canto”). Non a caso, Zanzotto tocca il tema della musica dopo avere divagato sulla nascita della sua lingua poetica come di un viaggio “molto accidentato”, compiuto attraverso la fantasia, fatto di “incroci” e “impasti” tra il fondo tradizionale, “monocorde, fermo del paese” e “le acquisizioni” tratte dalle esplorazioni letterarie. Anche la musica per Zanzotto è un aprirsi verso un altrove più lontano, un rivelarsi di vite e paesaggi inaspettati.
    Racconta ad esempio il poeta del repertorio folklorico ormai dimenticato e scomparso che ancora quand’era giovane era tenuto in vita dai contadini al ritorno dai campi, magari un po’ brilli. “Taran ta… tin tin e tin ton… l’è la figlia del caro papà” cantavano, “con centomila variazioni” proprio sul ritornello del “caro papà”. L’approccio di Zanzotto, nel ricordo, è sicuramente leopardiano (la “sera del dì di festa” è nell’aria), ma anche, verrebbe da dire, bartokiano o kodaliano, nell’attenzione “scientifica” dell’ascolto, nella consapevolezza della ricchezza di quel materiale atemporale e arcaico, e nella volontà di farsi per così dire testimone (attraverso la musica dei versi) di quella ricchezza poi contaminata e perduta.
    Altri ricordi rimandano a esperienze ironicamente sentimentali, come le arie d’opera cantate “perfino dai preti… stanchi di preghiere” e litanie, che “si sfogavano” intonando “Che gelida manina” con un certo trasporto per la strada; o come le lezioni di pianoforte (fatte di “Sonatine di Clementi: tan tiritan tan tan”) del maestro Fontebasso, vicino di casa, le quali iniziavano alle cinque del mattino. Aperture sonore verso altri mondi al di là del familiare quadrilatero, e insieme colori familiari di un paesaggio che anno dopo anno si andava formando attorno a lui e dentro di lui.

  507. (A te, caro Massimo, che mi dai la possibilità di condividere questi pensierini un po’ disordinati!)
    Una postilla al mio intervento dell’8 novembre su Zanzotto. Nel bel libretto “Ascoltando dal prato – Divagazioni e ricordi”, che Interlinea ha pubblicato a cura di Giovanna Ioli per celebrare i novant’anni del poeta, e che contiene alcuni inediti che contribuiscono a definire meglio la geografia poetica e umana di Zanzotto, leggo il nome del prete appassionato di musica che cantava arie d’opera per strada: Don Miotto, “un professore di matematica preparato” presso il Collegio Balbi Valier di Pieve di Soligo.
    Va be’, direte voi.
    Nel medesimo libretto trovo un appunto sull’apprendimento della lingua da parte del piccolo Andrea: la nonna paterna era solita recitare al nipotino le rime di Ariosto e Tasso, intercalandole e quasi fondendole (i verbi sono di Zanzotto) con il dialetto di Pieve; versi incliti e filastrocche popolari favorirono nel giovanissimo Zanzotto “una percezione fantasiosa delle parole” colte dapprima e soprattutto nel loro valore musicale e ritmico. In quel rimescolio di lingua colta e dialetto e altri idiomi c’è già tutta la lingua dello Zanzotto poeta.

    (Ma sono da leggere tutte quelle pagine sull’infanzia, sulle giornate popolate di suore, zie, nonne, preti, amici, sulla presenza benevola e stimolante del padre, e su come un mondo così circoscritto e periferico possa diventare immenso e universale).

  508. Caro Claudio,
    ho anch’io appena letto “Nella casa del pianista” di Jan Brokken (Iperborea, 2011), il romanzo interamente dedicato alla figura dello scomparso pianista russo Youri Egorov, e posso aggiungere solo un paio di osservazioni al tuo commento di alcuni mesi “sopra”, come sempre acuto ed esauriente.
    La prima è che ancora una volta è confermata una specie di legge naturale, la quale vuole che nessun libro in catalogo presso questa benemerita casa editrice, consacrata agli autori nordici, risulti mai deludente (un altro titolo che adesso mi viene in mente, pure non privo di implicazioni musicali, è un delizioso romanzetto di Torgny Lindgren, “La ricetta perfetta”).
    La seconda riguarda una specie di specularità che, al di là di altri contatti tematici, mi pare di cogliere fra il tuo “Rapsodia su un solo tema – Colloqui con Rafail Dvoinikov” e “Nella casa del pianista”. Semplificando con qualche brutalità si potrebbe affermare che, dove la tua descrizione di un musicista immaginario quasi si compiace o comunque finge di voler indurre il lettore un po’ frettoloso a ritenere realmente esistito il personaggio, qui, in una biografia “vera” e persino affettuosa, quale ci propone Jan Brokken, rischia di accadere il contrario. Ma, in questo secondo caso, si tratta forse di un (veniale) limite, causato da un eccesso di partecipazione da parte dello scrittore, che fu amico personale del pianista “commemorato” e, giornalista di formazione, si lascia inoltre talvolta troppo condizionare da certi riflessi, appunto più cronistici che letterari.
    Cari saluti a tutti,
    Guido Conterio

  509. Ti ringrazio, Guido! E ti prego di tornare a scriverci le tue impressioni su Egorov dopo averne ascoltato le registrazioni.
    Quanto a me, auguro un tardivo buon anno a chi ci legge e prometto di tornare presto a parlare di musica e letteratura.

  510. Ehilà, Massimo!
    Sto leggendo gli incantevoli racconti di Francesca Scotti (“Qualcosa di simile”, Pequod, 2011). Francesca ha uno sguardo attento e preciso sulle cose, fatto di compassione e insieme di crudeltà, e scrive davvero bene. In diverse sue pagine fa capolino la musica – che l’autrice, diplomata in violoncello, tratta con grande competenza. Per questo ne riparlerò presto.

  511. Caro Claudio, aspetto i tuoi contributi sui racconti di Francesca Scotti.
    Ovviamente, se Francesca volesse intervenire (inutile precisarlo)… sarebbe la benvenuta!

  512. Caro Massimo, Francesca Scotti si lascerà coinvolgere volentieri (almeno, lo spero). Ho già in serbo per lei qualche domanda…
    Ora, qualche pensierino a ruota libera sul suo libro.

  513. I dieci racconti di “Qualcosa di simile” (Pequod, 2011) di Francesca Scotti, privi di titolo, si distinguono per la semplice numerazione. I numeri al posto dei titoli sottolineano le continuità tra un racconto e l’altro, continuità tematiche e timbriche, che l’autrice ha già avuto modo di definire leitmotiv. Questi riverberi tematici tra i brani, costanti ma mai ostentati, già fanno intuire, mi pare, la cultura musicale dell’autrice, perché davvero alludono a un modo di “comporre” i racconti come se fossero parti di una suite.
    Sempre a proposito di musica: Francesca Scotti è diplomata in violoncello, e anche questo si sente, nella precisione con cui descrive il rapporto fisico con lo strumento, oltre che i dettagli tecnici che solo chi suona conosce così a fondo e sa riferire con naturale competenza. Il violoncello compare anche in un paio di racconti, il 4 e il 10: è un compagno esigente e delicato, richiede un coinvolgimento emotivo totale e una straordinaria concentrazione; si accompagna sempre a giovani esecutori impacciati, tormentati, anche angosciati. È dotato di una sensibilità acutissima, che amplifica e rende irrimediabili le indecisioni e le distrazioni di chi lo suona, le quali si riverberano subito sulla sua intonazione, trasmettendosi attraverso il braccio, il polso, l’arco, la corda. La sua è una voce duttile, dotata di accenti quasi umani, e se davvero volessimo cercare tra gli strumenti dell’orchestra l’equivalente della voce che racconta queste brevi storie lo troveremmo nel canto del violoncello – un canto che non teme la monodia, perché sottintende sempre un’ampiezza di strati armonici sotto, o sopra.
    Anche il pianoforte abita con autorevolezza gli spazi di diversi racconti, come una presenza viva ma pronta ad animarsi. È associato, nelle pagine della Scotti, a ragazze o donne complesse, che lo sanno suonare con una superiore perizia. Di fronte al pianoforte, alla sua perfetta intonazione, all’impassibilità e alla maestosità della sua architettura, si prova un senso di disagio, ci si scopre timidi, incerti, approssimativi. Il pianoforte, nei racconti di Francesca, è uno strumento che basterebbe a se stesso, ampio e ricco come un’orchestra: ma a volte si concede all’accompagnamento, alla commistione (in un trio di Haydn nel n. 4, nei Pezzi Fantastici di Schumann nel n. 10).
    In uno dei racconti più intensi, il n. 5, il pianoforte non c’è, ma aleggia ed è cercato ovunque come un fantasma, nella casa della vecchia maestra di strumento (Midori, già apparsa nel n. 4) che, diventata cieca, sa fare a meno non solo del piano, ma di tutta la musica. È un racconto in cui la musica risuona misteriosamente, anche se viene smentita ad ogni riga.
    La musica nei racconti di Francesca è sì abbandono, bellezza, facilità miracolosa, ma anche (e più spesso) fatica, delusione, pianto, frustrazione; questi sentimenti, oltre che dinanzi alla difficoltà dello strumento o alla complessità della letteratura strumentale, sono provati di fronte a figure femminili difficili e esigenti, amiche o maestre totalizzanti, che magari possiedono doti sovrumane da virtuose ma non amano la musica e sperano addirittura di trovare qualcosa che le aiuti a liberarsene. Quest’ultimo singolare aspetto ricorre più di una volta: dalla musica, dai condizionamenti pressanti che occupano intere vite e allontanano amicizie, amori, altri piaceri, ci si deve allontanare, per avere la possibilità di scoprire se stessi e cercare nuovi sentieri di libertà.
    C’è molto altro nei racconti di “Qualcosa di simile” di Francesca Scotti, non solo la musica: ma lascio che i lettori lo scoprano leggendo (ascoltando) queste pagine nitide e insieme sfuggenti, in cui compassione e crudeltà (l’ho già scritto) si amalgamano intensamente.

  514. Ringrazio subito per il benvenuto caloroso e per le bellissime parole!
    mi farà piacere chiacchierare con voi di musica e parole…e di come a volte possano essere la stessa cosa. 🙂

  515. Cara Francesca, avrei alcune domande per te: le trascrivo di seguito. Spero che ti piacciano!

    1 – Quanto ha contato per la tua scrittura la musica, in particolare la pratica esecutiva della musica per violoncello?
    2 – Come, secondo te, la letteratura (soprattutto la narrativa) può “raccontare” la musica?
    3 – Quale musica, quali compositori avevi in mente (o ascoltavi) quando hai scritto i racconti di “Qualcosa di simile”?
    4 – Che cosa cerchi quando suoni? E quando scrivi? E che cosa invece cerchi di evitare a tutti i costi?
    5 – Parlare di musica sembra essere un modo eccellente per alludere ad altro (per esempio, al conflitto tra l’essere e il dover essere, o al rapporto tra genio e mediocrità). Tu che cosa hai voluto suggerirci con questi racconti, in particolare con quelli “musicali”?

  516. @ Claudio Morandini
    Giusto per salutarti e ringraziarti per lo splendido lavoro che stai svolgendo in questo forum tematico. Io ti seguo sempre.
    Grazie anche a massimo per lo spazio che concede.
    Un saluto a Francesca e in bocca al lupo per il suo libro pubblicato da Pequod.

  517. Vorrei parlare di un libro ormai introvabile (ma su questo punto spero di essere smentito), che ho letto anni fa, dopo averlo preso in prestito in una biblioteca di quartiere di quassù che ora non sa più dove sia finito: è l’”Autoritratto” di Goffredo Petrassi, pubblicato da Laterza nel 1991. Ne parlo perché in realtà il vero autore dell’”Autoritratto” è Carla Vasio, a cui le bibliografie attribuiscono solo la “rielaborazione”. Però, però: nell’interessantissima intervista (“Ombre e torsioni del racconto”) che conclude la riedizione de “L’orizzonte” (Polìmata, 2011), Carla Vasio così confida a Massimiliano Borelli, in una parte sui suoi contatti con l’ambiente musicale romano, i musicisti di Nuova Consonanza, ecc.: “E poi la nuova musica. L’amicizia con Goffredo Petrassi, su cui ho scritto un libro, pubblicato da Laterza, come se lui stesso si raccontasse in prima persona”. Solo una sintonia totale di intenti, di vedute e interessi può consentire una così piena mimesi, una sintonia così profonda tra la voce del vecchio compositore ormai inattivo ma ancora osservatore lucidissimo (non solo di quanto accadeva in musica) e la squisita sensibilità della scrittrice (che, en passant, ha fatto parte del Gruppo 63 ed è esperta di pittura, fotografia, poesia e Giappone).
    Vorrei avere tra le mani quell’”Autoritratto”, per poterne dire qualcosa di meno generico.

  518. Buona sera a tutti.
    Come Claudio sa ho l’onore di conoscere Carla Vasio, la quale, amorevolmente, mi ha donato una copia – tra l’altro credo l’ultima – del prezioso “Autoritratto” di Goffredo Petrassi. Coincidenza, proprio domani andrò alla presentazione romana de “L’orizzonte” in cui la Vasio confida, come ha sottolineato Claudio, di essere l’autrice del libro. Sono in piena lettura, anche se il periodo, per me, è piuttosto complicato. Spero di poter condividere presto con voi le mie impressioni al riguardo. Nel mentre, sappiatelo, ho proposto alla deliziosa autrice di considerare la possibilità di una riedizione. Mi ha detto che lo farà. La seguirò a passo d’uomo.
    Un cordiale saluto, e complimenti a Massimo Maugeri per questo spazio.

  519. Mia cara Fabiana,
    come sai, aspettiamo la tua esegesi (altro che “impressioni”!). Io nel frattempo non ho rinunciato a cercare il Petrassi di Carla Vasio, o a farlo cercare…
    Un affettuoso saluto a tutti

  520. Se può interessare, di “Autoritratto” di Goffredo Petrassi dovrebbero quasi sicuramente averne una copia lo Studio Bibliografico Viglevanum di Vigevano (PV) e la Libreria Giannischicchi di Firenze; oltre che il Maggio Musicale Fiorentino bookshop.
    Con una breve ricerca su internet si recuperano i numeri di telefono.
    ciao Claudio 🙂

  521. Ciao Claudio, scusami per la lunga latitanza.
    e chiedo scusa anche a tutti gli altri partecipanti di queste interessantissime discussioni!

    Le tue domande hanno risuonato in me in questi giorni e ora, una per volta, ti rispondo. Così magari ne chiacchieriamo anche!
    – Quanto ha contato per la tua scrittura la musica, in particolare la pratica esecutiva della musica per violoncello?

    lo studio della musica mi è stato utilissimo per due aspetti: in primo luogo per quano riguarda la concentrazione e la pratica quotidiana. Anche nella scrittura per me è importante avere un contatto continuo con la storia, con il racconto. Magari mi limito a togliere e mettere due virgole ma ci passao un po’ di tempo ogni giorno. E con il violoncello è lo stesso: non sono tutte giornate per grandi studiate ed esecuzioni, a volte ho poco tempo e faccio solo un po’ di tecnica per tenere calde le mani!
    in secondo luogo per la componente sonora della scrittura, l’ascolto delle parole. Mi spiego meglio: io ho bisogno di leggere quello che scrivo ad alta voce perchè solo in questo modo riesco a convincermi di aver usato le parole che davvero cercavo…e che creano la musica che spero!

  522. Bentornata, Francesca!
    Interessante le analogie che proponi: musica e letteratura unite dalla pratica quotidiana, dal “riscaldamento” tecnico, dall’esercizio paziente alla ricerca del tono giusto e della scioltezza adatta.

  523. D’altronde qualcuno ha detto che uno scrittore non dotato di orecchio musicale non può fare lo scrittore. Purtroppo non ricordo la fonte ma era autorevole.
    Come è andata la ricerca, Claudio? Hai trovato?
    ***
    @ Francesca
    … “nella scrittura per me è importante avere un contatto continuo con la storia, con il racconto. Magari mi limito a togliere e mettere due virgole”…
    … “per la componente sonora della scrittura, l’ascolto delle parole”…
    parole sante

  524. Ciao, Antonella! Dunque, ti dirò: per ora provo a vedere che risultati dà il Prestito Interbibliotecario Nazionale (le maiuscole sono d’obbligo). Ricorrerò poi, nel caso il PIN non porti a nulla, ai tuoi (preziosi) consigli.

  525. @Antonella, mi fa piacere sentirti d’accordo! :)))
    non sapevo di questa affermazione che citi circa l’orecchio dello scrittore, ma è davvero interessante…da approfondire, apro la caccia!

    @Claudio, è merito della tua domanda!

  526. 2 – Come, secondo te, la letteratura (soprattutto la narrativa) può “raccontare” la musica?

    questa domanda mi piace moltissimo. Rileggendo le storie che ho scritto mi sono accorta che la musica appare spesso come arte performativa e poco come sonorità. Non è una musica raccontata in maniera romantica e nemmeno una cornice. E’ l’atto di suonare, le gioie ma anche le ombre che ne derivano. Come lettrice mi piace scoprire cosa la musica smuove nei personaggi, cosa scatena. Come arricchisce la loro vita. Io, ad esempio, senza musica non mi riesco a immaginare! e voi?

  527. Purtroppo, Francesca, non ricordo da dove mi provenga. Leggo troppo e, qualche volta, mi accade di non riuscire a risalire a un qualcosa di letto, perchè leggo variegato e simultaneamente e, se non è cosa di immediato utilizzo per vari motivi, che possono essere di studio o svago, ricerca o sperimentazione, qualche volta perfino curiosità delle letture altrui, finisce in un angolino e lì ci resta; indimenticato, ma ormai irraggiungibile il filo attraverso cui mi è arrivato.
    Effettivamente, Francesca, pensaci un attimo…. non ti capita, quando leggi lo scritto, tuo o altrui, di sentire una voce in sottofondo che nasce nel cervello e modula le parole, i periodi, la punteggiatura, in modo tale che, quello che è il letto, affiori con un suo timbro, un modulo caratteristico, un’inflessione così forti al punto tale che, se vuoi ricordarne un passo o riprenderne la lettura dopo un po’ di tempo, non puoi non sentire e ascoltare la voce interiore che ne proviene?
    E non ti capita, invece, di leggere e, oltre non sentirne questa voce delicata, sentirne addirittura come una sorta di cacofonia, o toni secchi e volgari, discrepanza, tanto che vorresti in prima persona apportare qualche miglioria perchè dispiace che la parola sia stata così relegata in un ghetto?
    Tra la prima voce e la mancanza della seconda sta quello che intendo la presenza o la mancanza di armonia, lo scrittore e quello mancato.
    Saluti.

  528. Per letteratura e musica segnalo il romanzo: La musica nel tempo dei fiori di cappero (rueBallu) prefazione di Marco Betta.
    Nel violino di Benedetta un gesto d’amore rivolto ai giovani per parlare di Musica classica, Poesia e Natura.

  529. Offrire ai giovani emozioni semplici e autentiche. Dialogare con loro sul senso di una poesia o di un brano di musica classica. Il contenuto emotivo di un testo, anche di grande letteratura, arriva sempre a destinazione, a prescindere dalla cosiddetta “parafrasi” spesso imposta dagli insegnanti. La scuola sovente inaridisce la sensibilità dei giovani. Per far capire il linguaggio dell’arte occorre lavorare sul mondo interiore del singolo ragazzo. Il mio romanzo affronta questo argomento da due diverse prospettive. Nella prima parte della storia Benedetta scopre di possedere un talento straordinario ritrovando il violino suonato dai suoi nonni. Vive a Salina in un luogo dove ancora è possibile percepire l’essenza poetica e sonora della vita legata alla natura, l’ineffabile voce del vento, la bellezza del cielo e del mare. La coscienza del personaggio si esprime attraverso una prosa musicale che mette a nudo la purezza del suo cuore. Nella seconda parte del romanzo finisce a Roma per partecipare a un programma televisivo dedicato a giovani talenti. E qui i lupi circuiscono l’agnello.
    Ho voluto denunciare chiaramente l’ipocrisia di un sistema che specula sulla commozione e sui sentimenti dei ragazzi. Purtroppo oggi la gente non è più abituata a riconoscere il valore dell’autenticità, tutto va in onda in fretta e si consuma, l’evento atroce passa accanto al più futile.
    I giovani possono ancora essere presi per mano purché questa mano sia generosa con loro e soprattutto lo ribadisco: semplice. Questo è l’unico modo che conosco per capire ciò che è profondo. La Musica, la Poesia, la Bellezza. Grazie Claudio della domanda.

  530. Tempo fa si parlava dell'”Autoritratto” di Goffredo Petrassi, della vera autrice Carla Vasio, e della difficoltà di scovare questo delizioso libro (pubblicato da Laterza nel 1991) fuori catalogo da un pezzo. La scorsa settimana, a Roma, ho avuto il grande piacere di incontrare proprio Carla Vasio, che mi ha fatto dono di una copia. La sto rileggendo, ammirato: e tornerò presto a parlarne in questo forum, perché “L’autoritratto” di Petrassi/Vasio è un esempio eccellente di come la scrittura e la musica si possano incontrare in un soccorrersi solidale.

  531. Tempo fa si parlava dell’”Autoritratto” di Goffredo Petrassi, della vera autrice Carla Vasio, e della difficoltà di scovare questo delizioso libro (pubblicato da Laterza nel 1991) fuori catalogo da un pezzo. La scorsa settimana, a Roma, ho avuto il grande piacere di incontrare proprio Carla Vasio, che mi ha fatto dono di una copia. La sto rileggendo, ammirato: e tornerò presto a parlarne in questo forum, perché “L’autoritratto” di Petrassi/Vasio è un esempio eccellente di come la scrittura e la musica si possano incontrare in un soccorrersi solidale.

  532. Già che son qui, segnalo del cubano Alejo Carpentier (fecondo scrittore, anche librettista e musicologo) il “Concerto barocco – romanzi brevi e racconti” che Einaudi ha pubblicato nel 1991. Anche in questo caso, auguro buona fortuna a chi si vuole mettere alla ricerca del libro, che promette fertili commistioni tra letteratura e musica – io l’ho intravisto nella biblioteca della mia città, e prima o poi lo leggerò.

  533. Ho riletto con grande piacere e intensa commozione l’”Autoritratto” di Goffredo Petrassi, scritto in realtà da Carla Vasio, a cui si attribuisce con discutibile scelta editoriale la sola elaborazione dell’intervista (Laterza, 1991). Carla Vasio, una delle voci più musicali e pittoriche della nostra letteratura recente, già legata al Gruppo 63, autrice quindi di splendidi affreschi di parole come “L’orizzonte” (1964, appena ristampato da Polimata), “Laguna” (Einaudi, 1998), “Labirinti di mare” e “La più grande anamorfosi del mondo” (entrambi Palomar, rispettivamente 2009 e 2008) – Carla Vasio, dicevo, raccoglie con affetto e dedizione totale le confidenze del vecchio maestro ormai cieco, e le riveste di un nitore formale e di una chiarezza di pensiero che oggi sono rari – eppure, prodigiosamente, ne salvaguarda l’andamento improvvisativo, i cambi di rotta del pensiero, le divagazioni della memoria.
    Petrassi, al momento dell’elaborazione del testo, è, dicevamo, vecchio e cieco; la sua condizione non ne fa un isolato, però: ama rimanere a contatto con allievi, amici, corrispondenti da tutto il mondo. Ha smesso, con piglio stoico, di scrivere musica – una decisione che è realistica accettazione dei limiti che la salute cagionevole gli impone –, e anche di dedicarsi alla lettura. “Posso scrivere una lettera quasi automaticamente” ammette Petrassi, “ma il controllo continuo sulla partitura non mi è più possibile e allora preferisco non scrivere. Così ho deciso.” E di seguito: “C’è voluto del coraggio… direi… che è venuto il momento della accettazione, sì, accettazione di uno stato irreversibile”. La sua mente, però, la sua facoltà immaginativa sono piene ancora e sempre di musica e di letteratura, continuano a produrre (a creare, meglio) musiche e a godere del ricordo delle parole. “Ascoltare la musica, pensare alla musica, essere imbevuto di musica: questo è il senso della vita” chiosa alla fine della prima sezione, “La passione e la vita”.
    Nella “difficoltà di vivere, nella fatica del vivere, in questa grande fatica”, che è fatica di ogni età, ma della vecchiaia in particolare, Petrassi individua due correttivi vitali, uno appunto nella cultura, nel desiderio di non rinunciare mai alla curiosità intellettuale, l’altro nell’amicizia più esigente, nel pieno soccorso degli affetti (l’amicizia è “un trapasso d’amore, un’intesa affettiva non detta, per cui si desidera vedere l’altro e parlargli essendo l’unico a cui si può aprire il proprio animo e accogliere il suo”). Questa lunga, libera eppure rigorosa conversazione con l’amica Carla Vasio unisce appunto queste due componenti e dedica diverse pagine al valore salvifico dell’amicizia, al potere della sintonia profonda di mente e di cuore tra due persone.
    Petrassi si racconta come un autodidatta: lo è davvero, all’inizio, nel suo muoversi alla ricerca di una direzione, nell’affinarsi di un gusto, partendo da condizioni (familiari, sociali, geografiche) non proprio favorevoli. Ma quell’atteggiamento da autodidatta, che si costruisce da sé, con “passione”, la propria strada, i propri riferimenti, la propria “tradizione”, o “canone”, e se sbaglia lo fa per generosa avventatezza, e sa imparare dai propri errori meglio e più che dai propri successi, e non perde mai quella sana concezione della creazione artistica come alto “artigianato” – quell’atteggiamento rimane il suo anche in seguito, quando il compositore, conosciuti Casella, Malipiero, Gavazzeni e altri, diventa celebre, comincia a viaggiare, ad avere impegni nell’ufficialità di anni anche difficili (a questa fertile formazione è dedicata la prima sezione del libro). Dice Petrassi: “Ho trovato una grande ricchezza nel mio tirocinio di autodidatta, perché mi ha permesso di curiosare nei campi più diversi… senza guida, senza programmi: un andare alla ricerca di quello che mi era veramente necessario”. E poco prima: “Un autodidatta ha un modo particolare di appropriarsi delle cose, perché non ha tempo di macerarsi su un solo argomento né di approfondire appassionatamente un solo oggetto di interesse”.
    L’autodidatta alla Petrassi (che non resta un autodidatta vero, intendiamoci, lo è nello spirito, nella libertà dei gesti) in questa sua “conquista” del mondo non si muove entro confini prestabiliti. Si stanca presto delle convenzioni delle scuole, a cui non vuole e non sa aderire; e strapazza fecondamente anche le convenzioni delle forme, che gli vengono quasi subito a noia. Come la lunga conversazione di cui stiamo parlando, le composizioni di Petrassi – anche le più ampie, le più ambiziose – procedono per guizzi e intuizioni, in una libertà che è ricerca di una forma nuova, che abbia una sua coerenza, una sua necessità all’interno di sé, non nel rispetto di strutture pregresse. Nel suo procedere nell’atto compositivo, egli lascia che l’immaginazione (potremmo anche dire la peregrinazione nei territori del “caso”) parta per prima, scaturisca da un elemento occasionale, estemporaneo, o meglio dalla scelta di un “ambiente sonoro” che è prima di tutto timbrico, e che la “ragione” eserciti su di essa un controllo discreto ma chiarificatore, ne distilli una forma, un senso. Sto usando termini, come “immaginazione”, “ragione”, che sono quelli adoperati proprio da Petrassi nella terza sezione del libro, intitolata “L’immaginario”; ve ne sono altri ancora, come “razionalità” e “passionalità”, che Petrassi vede coesistere o meglio lottare l’uno con l’altro, in “una lotta costante tra l’abbandono allo smarrimento della ragione e la necessità di mantenere un atteggiamento critico; tra il freno da imporre alle passioni e le passioni stesse” – il che suona, ovviamente, non solo come metodo di composizione, ma come costante approccio alla vita.
    Carla Vasio, nel procedere con la stesura dell’”Autoritratto”, ha lasciato che si esercitassero le medesime forze compositive: ha raccolto “discorsi confidenziali e frammentari, cercando un filo che collegasse frasi disperse nel flusso di un discorso senza progetto”: da questi frammenti Vasio ha ricomposto una sorta di biografia emotiva, di grande intensità, e insieme di incorreggibile pudore, perché Petrassi rimane riservato, pudico, anche quando si lascia andare. Petrassi si esprimeva così, assicura Carla Vasio: con precisione, con proprietà nella scelta delle parole, anche nei momenti svagati, nelle deviazioni della memoria. Quegli incontri in casa di Petrassi sono stati l’occasione per smuovere il terreno attorno a ricordi sepolti, con discrezione (parola importante, per capire non solo Petrassi, ma anche l’atteggiamento di Vasio, come lo è l’aggettivo “delicato” riferito all’operazione di recupero della memoria e di travaso del materiale raccolto nella coerenza di un intero libro).
    Carla Vasio, nella breve e importante Premessa, accenna, a proposito della vita di Petrassi, a un “percorso esistenziale che mostrava caratteri romanzeschi”, a un “destino eccezionale che provvedeva a farlo trovare sempre al posto giusto nel momento giusto”, a “dedizione incondizionata fino al raggiungimento della meta”, a “tensione”, a “passione”; ma nell’ultima pagina del libro lascia che Petrassi veda la propria vita, al contrario, come un esempio tra i tanti: “Ho provato tutto: felicità, dolore, paura, coraggio. Perché io sono un uomo comune. Seguito a dirlo: sono stato un uomo comune e la mia vita non ha avuto una tale rilevanza da essere storicizzata. Piuttosto può essere raccontata: questo sì, raccontata.” C’è in queste righe e nelle successive (“Forse avrei potuto fare di più, ma questo non lo so con certezza, non sta a me dirlo”) una dichiarazione di modestia vera, fatta di disincanto e anche di un’onesta dose di orgoglio, che solo i grandi, e forse solo dal punto estremo d’osservazione della vecchiaia, sanno esprimere.
    Ecco un libro che vale la pena cercare, ma nelle bancarelle, nelle biblioteche, nelle librerie dell’usato o antiquarie, perché, ahimè, è fuori commercio da anni, nonostante il prestigio dei nomi dei due coautori e la densità della materia trattata.

  534. Curioso che in questo forum si sia parlato tutto sommato poco, e sempre un po’ di striscio, di quello che forse è il massimo esempio di letteratura che racconta la musica con mezzi che sono sia letterari sia musicali, il “Doctor Faustus” di Thomas Mann. Torno su questo capolavoro, che credo di aver definito talvolta “ingombrante” (nel senso di sommo, certo, ineludibile, ma anche pesantemente condizionante, per chi si dispone a raccontare di musica con i suoi poveri mezzi); e lo faccio partendo non dal romanzone, ma da un lieve libretto pubblicato da Archinto (io ho consultato l’edizione del 1993, pescata in bancarella, lascio a voi controllare se esistano edizioni più recenti) contenente il carteggio tra Mann e Arnold Schönberg “A proposito del Doctor Faust” (questo è appunto il titolo, corredato dal sottotitolo “Lettere 1930-1951”).
    Il gustoso libretto, corredato di una prefazione di E. Randol Schönberg e di una opportuna postfazione di Bernhold Schmid (a cui queste note devono molto), parte da lontano, dai primi, rispettosissimi contatti tra i due artisti ancora per poco in Europa; passa poi ai convenevoli di maniera scambiati tra i due, diventati nel frattempo vicini di casa a Los Angeles; e si infiamma d’improvviso nel 1948, al momento della pubblicazione del “Doctor Faustus”. Schönberg non perdona a Mann di avere attribuito a Adrian Leverkühn, il protagonista del romanzo, l’invenzione della dodecafonia (il compositore non ama definire così il suo metodo di composizione con dodici note, ma tant’è): è offeso che il suo sistema sia stato, nella finzione narrativa, ideato da un uomo malato di sifilide, pazzo, ambiguamente sceso a patti con il demonio; teme, soprattutto, che in futuro la fama del romanzo possa oscurare la verità, e che si finisca per pensare che sia Mann (non Leverkühn) la mente che ha elaborato la dodecafonia; si sente, in definitiva, privato abusivamente di una sua proprietà intellettuale, e reagisce in modo non solo aspro, ma anche bizzarro. Invia a Mann una lettera contenente una lunga citazione di un immaginario musicologo del futuro, Hugo Trebsamen, che tra l’altro attribuisce appunto a Mann la paternità della dodecafonia, e presenta l’oscuro Schönberg come uno “sfruttatore senza scrupoli di idee altrui”. Ecco, sottintende Schönberg, la diffusione del romanzo potrà comportare, in futuro, il rischio di questa tragica confusione, soprattutto se alimentata dalla malafede e dalla reticenza.
    (Segue)

  535. Thomas Mann, che è già stato insignito del premio Nobel (la polemica tra i due non è rissa da ragazzini, ma disputa accanita e puntigliosa tra due anziani che hanno avuto già ampi riconoscimenti mondiali), Mann, dicevo, risponde con compassata sorpresa – una sorpresa che possiamo immaginare sincera, anche se negli anni dell’elaborazione del romanzo non ha mai pensato di accennare della cosa al vicino di casa Schönberg, temendo forse da subito un rifiuto. Gli argomenti di Mann sono corretti: la dodecafonia è ormai, nella realtà, inscindibile dal nome del suo vero creatore, nonostante sia diventata pratica compositiva diffusissima; una cosa è la realtà, una cosa è quel mondo puramente d’invenzione che è il romanzo, e nemmeno il più sprovveduto lettore potrebbe confondere la dodecafonia di Schönberg con quella di Leverkühn. Ma, visto che la polemica non scema, Mann accetta, grazie alla mediazione di Alma Mahler-Werfel, buona amica di entrambi, di apporre a tutte le edizioni del romanzo una nota che spieghi che il vero ideatore della dodecafonia è Schönberg. Tutto sembra accomodarsi, le lettere tornano cortesi, melliflue quasi: ma ecco che quella nota, che Mann sostiene di aver voluto “oggettiva”, e che a più riprese dice di avere accettato a malincuore, torna a far infuriare Schönberg, che si sente nuovamente ridimensionato a figura di contorno, a comparsa.
    Si legge nella nota, tra l’altro (cito dalla classica traduzione di Ervino Pocar): “il tipo di composizione… chiamato tecnica dodecafonica è, in realtà, proprietà spirituale di un compositore e teorico contemporaneo, Arnold Schönberg”. “Un compositore e teorico contemporaneo”? Uno? E contemporaneo di chi, vediamo? Di Stravinsky, o magari di Britten? Quell’articolo e quell’aggettivo fanno imbestialire Schönberg, che non si limita più a seccate lettere private, ma porta la polemica sulle riviste, specializzate e non, costringendo Mann a replicare con gli stessi mezzi, sia pure con quel garbo squisito, sussiegoso e ironicamente dispiaciuto che sarà a sua volta oggetto di ironie malevole da parte del musicista. Schönberg ora sferra attacchi non solo sul furto intellettuale operato nel romanzo, ma anche sulla competenza musicale approssimativa, sulla figura anacronistica del protagonista Leverkühn, che mentre è presentato come un innovatore straordinario è dipinto in realtà come un imbarazzante epigono del tardo wagnerismo, e finalmente su quello che è andato rivelandosi come il vero ispiratore del romanzo, Theodor W. Adorno, il filosofo e ex allievo di Alban Berg (allievo a sua volta di Schönberg) a cui Mann ha chiesto per anni preziose consulenze anche di stretta natura musicale (e di cui ha saccheggiato, ammettendolo però in questo caso, la “Filosofia della musica moderna”, opera che lo stesso Schönberg non amava).
    (Segue)

  536. Aggiungo due piccoli dettagli a questa disputa che ha dell’epico, per chi si interessa di musica e di letteratura e ama entrambi i contendenti, o almeno ama le loro opere:
    – Schönberg non ha mai letto il “Doctor Faustus”, per rifiuto personale ma anche per una menomante malattia agli occhi; la sua polemica è dunque alimentata dal contesto, dalle confidenze degli amici, in certi casi dal sentito dire. Ci resta la curiosità di sapere se avrebbe reagito allo stesso modo di fronte alla figura di Leverkühn, così diversa da lui, così incompatibile, così “letteraria”;
    – Thomas Mann, nella “Genesi del Doctor Faustus”, oltre a tracciare le fasi dell’elaborazione del suo vasto capolavoro, si difende dalle accuse del compositore, dilagate in ambito giornalistico e divenute materia di chiacchiera da salotto: qui riconosce a Adorno il merito che ha avuto nella creazione (un merito, verrebbe da dire, perfino eccessivo); ma Schönberg non ha potuto o voluto leggere nemmeno quet’opera.
    Nel 1950, i due, vecchi e pieni di acciacchi, troveranno modo, casualmente, di fare tregua, se non proprio pace. Lo stesso Schönberg, individuato in Adorno il vero “colpevole” di tutta la faccenda, e stanco della logorante polemica, accetterà con sollievo la mano tesagli da Mann.

  537. Sto leggendo “Nessuno accendeva le lampade”, una raccolta di racconti di Felisberto Hernández, da poco uscita in una nuova traduzione a cura di Francesca Lazzarato per La Nuova Frontiera. Hernández è praticamente sconosciuto in Italia: si sono perse da anni le tracce della precedente edizione Einaudi del 1974, con traduzione di U. Bonetti, mai più ristampata.
    Hernández (Montevideo, 1902-1964) era pianista e scrittore; prima pianista, poi scrittore dalla sconcertante sensibilità. Chissà come sono i suoi romanzi, tutti inediti in Italia. I racconti sono qualcosa di diverso, di inclassificabile: procedono ambigui e spaesanti come sogni a cui certe ricorrenze concedono una parvenza di articolazione narrativa. Sono abitati da personaggi che si muovono, guardano, pensano come persone sognate.
    L’io vive situazioni ricorrenti: attraversa tunnel, oppure è ospitato in ville e palazzi altrui dove indugia, si adagia, osserva, ascolta, compie con la più grande naturalezza atti misteriosi e incongrui (da questa incongruità nasce un lieve, spiazzante umorismo). Gli abitanti di quei luoghi si muovono assorti come fantasmi che non hanno dimenticato la cortesia. L’io non elabora ragionamenti, ma è attraversato da pensieri evanescenti e insieme ossessivi provenienti da chissà dove; e “legge” ciò che lo circonda ricorrendo a una fitta rete di imprevedibili analogie.
    Il suo modo di osservare popola la realtà di arti e teste che fluttuano nello spazio come animati da vita propria, si stagliano contro i cieli e i muri: teste autonome come animali, come nuvole, attraversate (mi ripeto, pazienza) da pensieri corposi e tangibili. I sensi – la vista in particolare – vagano per gli spazi, li illuminano, li manipolano.
    In un paio di occasioni (sto parlando dei primi racconti, non è escluso che più avanti questa postilla richiesta aggiornamenti) Hernández, che, come dicevo, era musicista, racconta la musica attraverso densi rimandi analogici, inusitate sinestesie. Nei suoi racconti la musica si espande lenta, viva e carnosa nell’aria, da strumenti non più accordati da un pezzo: “Quando suonai il primo accordo, il silenzio sembrava un pesante animale che avesse alzato una zampa. Dopo il primo accordo venero dei suoni che presero a oscillare come la luce delle candele. Feci un nuovo accordo, come se avanzassi di un altro passo. E pochi istanti dopo, prima che suonassi un altro accordo, una corda saltò…” (“Il balcone”). Oppure i rumori di un banchetto si fanno orchestrazione, i commensali sembrano eseguire una partitura, a capotavola il padrone di casa si muove come un direttore d’orchestra: “Sedendosi, il direttore salutava, tutti volgevano la testa ai piatti e provavano gli strumenti. Poi ciascun silenzioso orchestrale suonava per cono proprio. In principio si sentivano tintinnare le posate, ma dopo qualche istante il rumore svaniva e veniva dimenticato (…). Dopo poche serate a quella mensa gratuita, mi ero già abituato alle stoviglie e potevo suonare gli strumenti per conto mio” (“La maschera”).
    Continuo a leggere, con la lentezza necessaria.

  538. Caro Claudio, ancora una volta grazie per questo tuo nuovo intervento!
    E grazie per mantenere in vita questo spazio (che avremo modo di “rilanciare” al più presto).

  539. Cari amici, su http://www.intoscana.it/intoscana2/opencms/intoscana/sito-intoscana/Contenuti_intoscana/Canali/Eventi/visualizza_asset.html?id=1146480&pagename=704616 è ancora possibile seguire l’intera première de “La Metamorfosi”, da Franz Kafka, con musiche di Silvia Colasanti e libretto, regia scene e costumi di Pier’Alli (direzione di Marco Angius, Coro e Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino). Un’opera magnifica, altissima, su cui prima o poi proverò a scrivere qualche riga.

  540. Dunque, amici, dicevo…
    Con grande emozione ho assistito (in streaming, d’accordo, e il giorno dopo) alla prima assoluta dell’opera commissionata quest’anno dal Maggio musicale Fiorentino alla compositrice Silvia Colasanti, “La metamorfosi”, su libretto di Pier’Alli, che ha curato anche regia e scene. La scena, divisa in due da una parete – di qua l’appartamento, di là la stanza di Gregor Samsa –, è immersa in una penombra bluastra nella quale i pochi elementi riconoscibili – il muro stesso, finestre, divani, sedie, porte, quadri – sembrano fluttuare con la lentezza delle immagini sognate: è un mondo circospetto e minaccioso, abitato da ombre e fantasmi.
    L’avvenuta metamorfosi di Gregor Samsa è evocata prima di tutto dalla musica, che ora si incanta in fasi di sonno sospeso, ora si fa agitata e stridente, allude a zampettii, a nervosi movimenti di elitre, di antenne – e allo stupore di sentirsi vivere in una forma estranea, che ronza e frinisce, che non si lascia padroneggiare. Dà vita al tormentato mondo interiore di Gregorio la voce rotta, addolorata, stridente, ora attonita ora densa di ribellione inesplosa, di un attore recitante, l’eccellente Edoardo Lomazzi (a cui sulla scena corrisponde l’azione di Fabrizio Pezzoni).
    Nell’altra stanza, invece, gli altri personaggi cantano, un cantato declamatorio. Sono figure oppresse da pesanti palandrane, divise rigide, acconciature soffocanti. Si muovono con gesti goffi, legnosi, al cui confronto finiscono per avere una grazia fluida e acquatica i movimenti di Gregor, coleottero, o meglio trasfigurazione di scarafaggio, più forse grillotalpa o mantide, a momenti alien pierrottesco. Gregorio è un freak sensibile – ipersensibile, anzi, che si strugge per la musica, si commuove al suono del violino della sorella, e finisce per provare ripugnanza per la volgarità legnosa e la sordità cocciuta degli umani.
    La musica di Silvia Colasanti ha sempre cercato un contatto stretto, non occasionale con la parola, con la forza propulsiva della letteratura. Ha spesso trovato nel teatro (nel mondo del teatro, nella letteratura teatrale) il luogo ideale per questo connubio, in cui musica e parola lavorano insieme sull’evocazione, sull’allusione, sul gioco con la tradizione consolidata, sull’attrito e sul connubio. Ha colto dalla letteratura una sorta di attitudine narrativa, anche drammaturgica (non descrittiva, però), e vi ha aggiunto una sapienza formale, che la musica possiede per sua natura, nella complessità della costruzione, nell’architettura fondata sulla metamorfosi degli elementi, sul contrasto anche aspro. Sicura dei suoi mezzi, fiduciosa nella forza del suo linguaggio, non teme i momenti di assorto, turbato lirismo.
    L’incontro con Kafka costituisce una sfida esaltante, e non solo per il compositore: mettere in scena la tragedia grottesca di Gregor Samsa significa giocare con l’irrapresentabile, e non tanto per i rischi connessi alla realizzazione del mostruoso insetto in scena; dare corpo musicale a questa tragedia è un’ulteriore sfida, quella di far risuonare di echi profondi e nuovi le parole, e di sovrapporre alla metamorfosi narrata la metamorfosi in atto nella forma musicale. La scrittura orchestrale di Silvia Colasanti sa alludere con grande finezza anche alla collocazione storica del racconto-incubo di Kafka: riecheggia densità timbriche primonovecentesche, non cita espressamente ma rievoca certi vezzi compositivi (citazioni da valzer, impasti armonici scivolanti in provvisorie soluzioni tonali, qualche pennellata discreta di grottesco di matrice espressionista); di suo, aggiunge una singolare capacità di lavorare con la contrazione e la dilatazione del tempo, e, ben assecondata dalla direzione di Marco Angius, sa riempire e chiudere, abitare e desertificare gli spazi come solo una musica dalla spiccata vocazione drammatica sa fare.

  541. Grazie Claudio Morandini. Molto interessante. Sono un’appassionata di Kafka e della Metamorfosi.

  542. Mi fa piacere, Rita, grazie a te. Corri a vedere e ad ascoltare “La metamorfosi” della Colasanti, cliccando sul link del post del 26 maggio, ne rimarrai entusiasta!

  543. Ho letto un bel libro in lingua inglese Fantasia on a Theme of Thomas Tallis che è solamente disponibile in India che descrive meravigliosamente i sentimenti profondi che uno puo sentire ascoltando alcuni brani musicali. Non avevo mai letto un libro dove le parole potessero descrivere la forza emotiva della musica classica con tanta sublimità e dove la musica è usata per cambiare positivamente il punto di vista di uno dei principali personaggi. Molto interessante e filosofico.

  544. Grazie del suggerimento, Gabriela. Ho provato a fare una ricerca, e l’unico titolo che ho trovato è un romanzo di Vaughn Petterson, appunto “Fantasia on a Theme of Thomas Tallis” (qualche riferimento qui: http://www.authorsden.com/visit/viewwork.asp?id=39409). Esiste anche un booktrailer (http://archive.org/details/BookVideoTrailerFantasiaOnAThemeOfThomasTallis) che, purtroppo, ignora del tutto il riferimento del titolo alla nobile composizione per archi di Ralph Vaughan Williams.
    Intendevi questo libro, Gabriela?

  545. Si è proprio questo il libro. Scusa per aver scritto il titolo del libro e non il nome dell’ autore, Vaughn Petterson. Forse ho il morbo di Alzheimer! Speriamo di no! Non è facile trovare questo libro(non so perché). Ci sono vari temi ma dovrebbe essere di particolare interesse per chi apprezza la musica classica. Se sei interessato si può acquistare attraverso:

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  546. Peccato per il sottotitolo che suona fuorviante (“di che cosa è morta la musica classica?”): il nuovo saggio di Alessandro Zignani, “Musiche incompiute” (Zecchini, da poco in libreria), promette di ragionare attorno ad alcuni grandi casi di opere incompiute (Schubert, Sibelius, Debussy, Mahler, Berg…) con piglio filosofico (pennellato di ironia) più che filologico. “Questo libro” scrive Zignani nella Prefazione (“incompiuta”, naturalmente) “racconta l’abbaglio geniale, e il pentimento tardivo, di alcuni compositori convinti di poter fare della propria musica lo specchio di un mondo nuovo”. L’ho appena acquistato, ne riparleremo tra un po’, che ne dite?

  547. Direi che mi sembra un’ottima cosa, caro Claudio.
    Raccontaci un po’ di cosa parla questo interessante libro (una volta completata la lettura).
    Grazie di tutto.

  548. Alessandro Zignani, in “Musiche incompiute” (Zecchini, 2012), ragiona attorno al racconto di alcuni capolavori della musica otto-novecentesca rimasti in sospeso. La narrazione del fallimento, del venir meno delle forze, del mancato raggiungimento di un obiettivo troppo ambizioso è di per sé estremamente interessante, soprattutto quando l’artefice non è un mediocre: e qui, nella narrazione dei diversi casi, il libro di Zignani raggiunge risultati davvero suggestivi.
    In pochi casi si può attribuire l’incompiutezza di un progetto musicale al sopraggiungere della morte o di malattie invalidanti. Zignani pone piuttosto l’accento sulla paura – sulla paura, sì, che prende i compositori dinanzi alla possibilità che la loro opera tanto lungamente progettata rappresenti un passo troppo lungo verso abissi metafisici o attraverso porte spalancate su rivelazioni ultraterrene. “Spesso un creatore di mondi muore proprio quando la sua indagine sconfina nell’inconoscibile” si legge di Bruckner. Diversi titoli delle sezioni di cui si compone il libro suggeriscono appunto un “limite dell’assoluto”, o rimandano a “viandanti ai confini del buio”, o evocano “l’autunno dello sciamano”. Si tratta di concezioni applicabili a nemmeno un paio di secoli, a quell’Otto-primo Novecento che pur tra sussulti e strappi appare a ben vedere come un tutt’uno (prima la musica era altro, splendido artigianato, dopo non sarà più la stessa).
    Lo stile di Zignani, che è musicologo e scrittore, innesta la precisione del lessico musicologico in un linguaggio retoricamente esuberante, ricco di metafore e similitudini, originale nell’uso della punteggiatura, e insieme tendente alla sentenziosità. La lunga familiarità dell’autore con le opere trattate e con i loro autori e con gli altri protagonisti dell’epoca lo spinge a diffuse confidenzialità e non gli impedisce qualche caduta di stile (di Freud, a proposito della particolare misoginia degli inizi del Novecento, si legge che “ci rimase male. Temeva fosse un po’ colpa sua, e per essere sicuro di non commentare, si fece venire il cancro alla mascella”).
    Ma insomma, pazienza. Certi ritratti di compositori sono straordinariamente efficaci e precisi (Sibelius, Bruckner, Elgar, Janáček…); l’ultimo, titanico capitolo è dedicato al più visionario tra tutti, Skrjabin, e prende forma di dialogo, anzi di rappresentazione teatrale, di “mistero”, attorno al progetto del “Mysterium”, il più follemente ambizioso tra tutti.

  549. A distanza di qualche anno rileggo del compianto Anacleto Verrecchia la “Rapsodia viennese” (Donzelli, 2003). Verrecchia, filosofo e germanista, inanella ricordi e dati in una serie di schede sui luoghi e soprattutto sulle personalità che hanno avuto a che fare con la sua amata Vienna, o perché vi sono nate, o perché vi hanno trascorso parte della loro vita. Il libro, assai interessante, ha un andamento appunto rapsodico nella libertà con cui è confezionato, libertà che si nota nell’architettura generale ma anche nello stile particolare, umorale, pieno di guizzi e non privo di potenti idiosincrasie. È curioso notare che, mentre gli interessi di Verrecchia in campo letterario si spingono fino al Novecento inoltrato, l’ambito musicale resta saldamente ancorato a un Sette-Ottocento che parte da Mozart e non si spinge oltre Bruckner. Ai grandi viennesi del Novecento sono riservate solo alcune epigrafi maligne e riduttive in calce a capitoli in cui si parla di loro colleghi d’altri tempi. Così Schönberg, “almeno per me, se la cavava meglio con il pennello che con la carta pentagrammata”; oppure “Le opere orchestrali di Anton Webern sono di solito molto brevi. Una dura appena diciannove secondi. Sia ringraziato il cielo!”.
    L’oggi per lo più dispiaceva a Verrecchia. L’intervista-duetto con Ionesco, in occasione della première della Cantatrice Calva musicata da Luciano Chailly, lo dimostra bene – all’opera di Chailly, tra l’altro, non viene dedicata dai due una parola di commento. Lo si nota anche nelle pagine dedicate non a Mozart, ma al culto feticistico, abnorme, carico di fraintendimenti che ai giorni nostri si tributa al personaggio di Mozart più che alla sua musica.
    Di Verrecchia, a proposito dei suoi interessi musicali, potrebbe interessare anche la “Batracomachia di Bayreuth. Nietzschiani contro wagneriani”, pubblicata da Il Prato nel 2012. Di quest’ultima opera si può rintracciare una bella recensione, che è anche un commosso ritratto, firmato da Marco Lanterna, su “Pulp” di maggio/giugno 2012.

  550. Ieri sera guardavo in DVD “Coco Chanel & Igor Stravinsky”, il film di Jan Kounen del 2009 incentrato sulla liaison tra le due personalità. Il film ha diverse qualità e qualche difetto. Vale la pena vederlo innanzitutto per la ricostruzione della première del “Sacre du printemps”, a Parigi, al Théatre des Champs-Elisées, il 29 maggio del 1913: scene, coreografia, musica (con qualche taglio qua e là, d’accordo), la tensione dietro le quinte, il crescere delle reazioni di sconcerto del pubblico, addirittura le singole frasi pronunciate ad alta voce dai detrattori o dai sostenitori del compositore sono riportate con efficacia, grazie a una cinepresa che plana tra scene e pubblico e sguardi singoli e gesti di massa, e gioca con il piano sequenza. I problemi emergono quando la passione tra Coco e Igor sboccia (no, meglio, esplode) nella villa di Garches, presso Parigi, in cui la famiglia di Stravinsky è ospitata con magnanimità mecenatesca dalla Chanel. Chissà cosa c’è che non funziona. Forse il moltiplicarsi di certi calligrafismi della regia, forse la scelta dell’attore Mads Mikkelsen per la parte del compositore, che era fine, basso, minuto, meticoloso – Mikkelsen, invece, è un marcantonio tutto zigomi e muscoli, che non è molto credibile quando prende in mano le partiture. Forse l’aria da drammone (sofferenza, tradimento, scene madri, ecc.) che prevale nella seconda parte del film.
    Segnalo, per pura pignoleria, alcuni errori: Stravinsky che suona pagine della “Sonata” per pianoforte (severo monumento neoclassico di qualche anno successivo) mentre è ospite della Chanel nel 1920; lo stesso compositore che dirige la ripresa del Sacre (con successo e nuova coreografia) a Parigi nel 1921 (nella realtà, se ricordo bene, sul podio stava Ernest Ansermet). Non è questo il problema.
    Il problema, che mi pare affliggere molte delle biografie cinematografiche dedicate ai compositori, non sta tanto nell’invenzione o nella libera rielaborazione, quanto, credo, nell’incapacità del cinema (di certo cinema, almeno) di mostrare per quello che è davvero il lavoro del compositore, inteso come quell’insieme di gesti, pratiche, pensieri che danno forma concreta alla musica sulla pagina (o a uno strumento). Qui il cinema (certo cinema) rischia di prendere cantonate, o almeno di prendere troppe scorciatoie inanellando ingenuità, per non venir meno a un’esigenza di spettacolarità.

  551. A proposito di Stravinsky, e tornando al tema di questo forum, cioè il rapporto tra musica e letteratura, aggiungo che uno dei libri più centrati e sinceri sul compositore russo (poi naturalizzato francese, poi statunitense) è un libriccino dello scrittore svizzero Charles-Ferdinand Ramuz, “Souvenirs sur Igor Stravinsky”, del 1929 (inedito, ahimè, in Italia). I due avevano convissuto e collaborato, in Svizzera, negli anni della prima guerra mondiale, ad alcuni capolavori come l’”Histoire du soldat”, “Renard”, la versione francese de “Les noces”, e tra i due era sorta una piena (e rara) sintonia di vedute, che Ramuz con bella naturalezza e precisione racconta nelle sue pagine. Stravinsky collaborerà spesso con scrittori (Gide, Cocteau, Auden, Huxley), ma il rapporto con Ramuz sembra spontaneo, sinceramente amichevole, privo – come dire – di intellettualismi o di opportunismi artistici e di sotterranee incomprensioni (penso soprattutto a Gide e alla creazione della “Perséphone”). Tra i due si nota una sostanziale affinità nel modo di concepire la creazione artistica: rigore e accuratezza, certo, ma anche un approccio empirico, “artigianale”, ai problemi che possono sorgere di volta in volta (per esempio, nella traduzione dal russo al francese delle strofe del “Renard”, e nell’adattamento di queste alla musica, secondo un’idea della lingua come materiale sillabico ritmico-fonico più che semantico, un’idea a cui Stravinsky rimarrà fedele anche in seguito).

  552. Ciao Claudio desidero ringraziarti per gli interventi interessantissimi che inserisci in questa rubrica, ti leggo spesso e con grande piacere e curiosità.

  553. Grazie anche a Filippo!
    Sto rileggendo il Ramuz che dicevo, i suoi “Souvenirs sur Igor Strawinsky”, che non riprendevo in mano dai tempi della laurea, cioè dal secolo scorso. Che lettura gratificante! Ne riparleremo presto.

  554. Conversare, sia pure a distanza, con Massimo Maugeri è sempre un grande piacere. Anche perché la nostra chiacchierata di cui sopra mi ha permesso di mettere a fuoco (per me stesso, prima ancora che per gli altri) alcuni punti importanti di quel piccolo oggetto misterioso che è il mio “A gran giornate”. Perciò, caro Massimo, ti ringrazio anche qui!
    (Be’, ne parlo ora, in questo forum, di quel mio romanzo, perché in effetti tra quelle pagine c’è anche posto per alcune avventure, diciamo così, di tipo musicale. Ma ora smetto e torno a leggere i “Souvenirs” di Ramuz.)

  555. Torno sui “Souvenirs sur Igor Strawinsky” di Ramuz, uno dei libri più intensi e originali sulla collaborazione tra scrittore e musicista che mi sia capitato di leggere. L’opera sembra nascere dal bisogno di riallacciare un dialogo interrotto da qualche anno tra i due amici: ancora amici, certo, ma divisi dagli avvenimenti, in particolare dal nomadismo che caratterizza la vita del compositore, e costretti, per così dire, a comunicare per lettera. Ramuz instaura perciò in queste pagine un dialogo a distanza, rivolgendosi direttamente a Strawinsky (stavolta uso la traslitterazione francese dal russo) con il rispettoso “voi”, facendo appello alla memoria, e quando questa non è sufficiente, ricostruendo, ipotizzando, facendosi domande, fantasticando anche. Con quello che sembra un vezzo, Ramuz parla di lontano al musicista cosmopolita che miete successi in giro per il mondo: ma Ramuz, per quanto radicato assai più del russo alla sua terra natale, non è un isolato o un esule in casa propria, e nemmeno uno sconosciuto. È come se, insistendo nell’immaginarsi uno Stravinsky lontano, circondato da dame e confuso tra frequentatori di salotti, Ramuz volesse richiamarlo indietro alla vena più autentica, quella emersa spontaneamente durante il soggiorno in Svizzera, quella in cui lo stesso Ramuz si era pienamente riconosciuto: una vena fatta di terra, radicamento nella realtà, e insieme trasfigurazione nella fiaba popolare, tradizione, concretezza di cose e oggetti, esaltazione del “fare” come nucleo fondamentale della creazione artistica. Stravinsky, che componeva allo strumento, e dalla meccanica degli strumenti (dalla tastiera del pianoforte in particolare) traeva materia per le sue composizioni, non poteva che piacere a Ramuz. Questi, lo svizzero, comprendeva e ammirava la scrupolosità con cui quello, il russo, disponeva in perfetto ordine tutti gli oggetti sullo scrittoio (matite penne colori pennini inchiostri fogli forbici e un aggeggino per tirare pentagrammi): e descrive il tutto in una vivace pagina in cui il puntiglio stravinskiano fa piazza pulita di ogni fumosità tardoromantica sull’ispirazione. Il comporre era questo: mettere ordine, costringere la confusione, il caso e il caos in un sistema ordinato e paziente di gesti e di segni, imprigionare i suoni in pagine dalla grafia impeccabile.
    Lo scrittore svizzero non era un musicista, e nemmeno un esperto di musica: ma ha saputo mettere al servizio della musica dell’altro una sensibilità acutissima per la parola in quanto suono; prima ancora ha saputo riconoscere nel russo una sorta di fratello (nei gusti, nella semplicità con cui osserva le cose e usa gli oggetti e si mette in rapporto con gli altri). Sono anni difficili, gli anni della prima guerra mondiale: le opere che nascono dalla loro collaborazione risentono delle ristrettezze economiche del momento, anzi sfruttano come fossero vantaggi quelle stesse ristrettezze, inventando nuovi organici strumentali, nuove soluzioni drammaturgiche. In questo Stravinsky seguiva percorsi suoi, che stupivano e scandalizzavano i benpensanti che dalle finestre della sua casa udivano provenire timbri e armonie incomprensibili, urtanti, percussivi (erano i tempi della creazione de “Les noces”, creazione laboriosa e tormentata per la ricerca dell’organico strumentale, che alla fine sarà composto da quattro pianoforti e un nutrito gruppo di percussioni).

  556. C’è un progetto che mi sta molto a cuore e di cui voglio cominciare a parlare agli amici di Letteratitudine: si chiama “SHE LIVES – Contemporary music is music” (immaginate una riga sulla parola contemporary, a mo’ di cancellazione). Prende l’avvio il 17 novembre, a Roma, con un concerto-reading a cui ho l’onore di partecipare come ospite con pagine di ispirazione musicale tratte dai miei romanzi “Rapsodia su un solo tema” (Manni, 2010) e “A gran giornate” (La Linea, 2012). Il progetto, che vede coinvolti molti bei nomi della musica di oggi, si è sviluppato grazie all’entusiastica determinazione e alle capacità organizzative di Fabiana Piersanti, e sta diventando un progetto itinerante, destinato a dar luogo ad altri concerti-incontro in giro per l’Italia. L’idea del connubio tra musica e altri linguaggi artistici è bella, forte e allo stesso tempo semplice – bisognava solo pensarci, sentirne l’esigenza, renderla concreta, dar modo di incontrarsi a discipline, espressioni e scuole diverse e a voci diverse di ascoltarsi, al di fuori dai limiti angusti in cui la normale programmazione musicale ha relegato la musica contemporanea.

  557. Copio di seguito il comunicato stampa della prima serata romana di SHE LIVES – Contemporary music is music.
    Ho anche rivolto a Fabiana Piersanti alcune domande sulla natura del progetto. Fabiana ha accettato volentieri di rispondere.
    Bene. Si parte.

  558. Sabato 17 novembre ore 20.30
    Roma, cripta della Chiesa Santa Lucia del Gonfalone
    via dei Banchi Vecchi, 12

    Il NIGHT ITALIA Ark Festival
    ospita
    con il supporto del Pastificio dei Campi
    e di Iminds Group e MKT Musikit
    l’anteprima nazionale del progetto
    SHE LIVES – Contemporary music is music

    SHE LIVES – Contemporary music is music è un progetto itinerante ideato da Fabiana Piersanti e da lei curato in collaborazione con il M° Andrea Ceraso.

    Il progetto si propone di sensibilizzare pubblico e istituzioni alla musica colta che viene composta nel nostro tempo, promuovendo iniziative in grado di incoraggiare la nascita di un movimento culturale dinamico, consapevole ed estraneo alle dinamiche che regolano i luoghi del consumo massificato.
    SHE LIVES si rivolge agli amanti della musica classica, dell’arte e della cultura in genere, e ai compositori, ai musicisti e a tutti gli artisti che condividono lo spirito del progetto, invitandoli a una partecipazione attiva in un clima di libera condivisione.

    Il programma
    Concerto di musica classica e reading dello scrittore Claudio Morandini. Il concerto prevede l’esecuzione di opere dei compositori Sidney Corbett, Claude Debussy, Alessio Elia, Giusto Pappacena, Cristiano Serino e Lasse Thoresen. Esegue Ensemble Miroirs diretto dal M° Andrea Ceraso, con la partecipazione del pianista Massimiliano Scatena.

  559. SHE LIVES – Contemporary music is music
    PROGRAMMA
    PRIMA PARTE
    Lettura dal romanzo Rapsodia su un solo tema (Manni, 2010) di Claudio Morandini (Voce: Claudio Morandini)
    – Alessio Elia, Trio [1999], per violino, violoncello e pianoforte
    (Violino: Ferruccio Vignanelli Zichella Violoncello: Marco Algenti
    Pianoforte: Massimiliano Scatena)
    – Lasse Thoresen, Invocation of Crystal Waters [2011]
    (Commissioned by The 13th International Grieg Piano Competition), per pianoforte (Pianoforte: Massimiliano Scatena)
    – Cristiano Serino, Silence inside the fish [2001] per quartetto d’archi (Ensemble Miroirs)
    – Lettura dal romanzo A gran giornate (La linea, 2012) di Claudio Morandini (Voce: Claudio Morandini)
    – Alessio Elia, Budapest 1956/2006 (Sonata per la rivoluzione) [2006]
    (Commissione del Festival 1956/2006 per il 50° Anniversario della Rivoluzione Ungherese del 1956), per clarinetto e pianoforte (Clarinetto: Claudio Cavallaro Pianoforte: Massimo Spada)

    SECONDA PARTE
    – Lettura dal romanzo A gran giornate (La linea, 2012) di Claudio Morandini
    (Voce: Claudio Morandini)
    – Giusto Pappacena Fa, SiB, La [2012], per quartetto d’archi e pianoforte (Ensemble Miroirs)
    – Alessio Elia e Cristiano Serino, Improvvisazione per violino e pianoforte
    (Violino: Cristiano Serino Pianoforte: Alessio Elia)
    – Sidney Corbett, Im Angesicht des Zweiflers (In the face of the Doubter), per clarinetto, violoncello e pianoforte [2006] Prima esecuzione in Italia
    (Clarinetto: Claudio Cavallaro, Violoncello: Marco Algenti, Pianoforte: Massimiliano Scatena)
    – Alessio Elia, Outrage – Piano Etude no. 1 [2010] (Pianoforte: Massimiliano Scatena)
    – Alessio Elia, Luminescences – Estratto dall’Opera “La Morte del Mago” [2005], per ensemble (Ensemble Miroirs:Violino primo: Masha Diatchenko,
    Violino secondo: Ferruccio Vignanelli Zichella, Viola: Valeria Chiappetta, Violoncello: Marco Algenti, Pianoforte: Massimo Spada, Clarinetto: Claudio Cavallaro, Flauto: Andrea Salvi, Percussioni: Fabio Cuozzo, Direttore: Andrea Ceraso)

  560. Sempre a proposito di SHE LIVES, la brochure della serata romana del 17 novembre contiene alcune preziose indicazioni. Vi si legge tra l’altro:
    “Il progetto si prefigge di offrire agli amanti della musica classica una possibilità in più di scoprire le composizioni e gli autori del nostro tempo, e si fonda sull’idea di creare un movimento culturale dinamico in grado di sensibilizzare quelle istituzioni musicali che sono restie a inserire all’interno della loro programmazione le opere di compositori viventi e poco noti, persuase che il pubblico non ami deviare dal consueto repertorio classico a cui è abituato.
    Allo stesso tempo SHE LIVES non è un festival di musica ‘contemporanea’, perché non vuole essere il luogo d’incontro per pochi irriducibili musicofili, e perché rifiuta di accostare a ‘musica’ l’aggettivo ‘contemporanea’ nell’accezione che ha assunto, principalmente dalla seconda metà del Novecento, di ‘inintelligibile’: la musica è musica.
    Chi ama la musica deve avere la possibilità di adeguare il proprio gusto al linguaggio musicale del proprio tempo, e siamo convinti che questo sia possibile solamente moltiplicando le occasioni di ascolto.
    I compositori e i musicisti coinvolti provengono dalla scena europea e mondiale, e presenteranno opere che in alcuni casi saranno eseguite per la prima volta in Italia.
    Oltre ai musicisti ospiti, il progetto si avvarrà della collaborazione stabile dell’Ensemble Miroirs, col quale condivide il fine di valorizzare la musica colta dei compositori del nostro tempo.
    Il fil rouge che lega le esibizioni in programma è rappresentato dalla libertà che hanno gli artisti di esprimersi in un contesto immune da influenze politico-culturali e svincolato dalle logiche che regolano i luoghi di consumo massificato.
    Il progetto sarà presentato in anteprima nel centro storico di Roma, in occasione del NIGHT ITALIA Ark Festival, evento performativo ideato e curato dall’artista Marco Fioramanti.”

  561. Queste le mie domande a Fabiana Piersanti, a proposito di SHE LIVES:
    1 – Fabiana, com’è nato il progetto?
    2 – È corretto leggervi un intento pedagogico?
    3 – Che cosa accomuna i compositori e i musicisti coinvolti?
    4 – La serata del 17 novembre unirà letture e esecuzioni di musiche. Che cosa lega la parola, scritta o detta, alla musica, secondo te?
    5 – La serata del 17 è solo l’inizio. Che cosa diventerà il progetto?
    6 – Che posto può avere la musica colta nel mondo di oggi?

  562. Buona sera a tutti, e grazie per l’accoglienza.
    Mi accingo a rispondere con grande piacere alle domande che Claudio mi ha rivolto. Per comodità utilizzerà un post per ogni domanda.

    1 – Fabiana, com’è nato il progetto?

    Il progetto è nato quasi per caso. Qualche mese fa mi è stata data la possibilità di organizzare un evento all’interno del “NIGHT ITALIA Ark Festival”, che si svolgerà a Roma dal 15 al 17 novembre nella cripta della Chiesa Santa Lucia del Gonfalone, a cura dell’artista Marco Fioramanti.
    Ho subito pensato a un concerto di opere di compositori viventi: amo la musica classica e da qualche anno, in particolare, il mio interesse si rivolge soprattutto alla musica del nostro tempo, quella cosiddetta ‘contemporanea’, anche se non ho molta simpatia per questo aggettivo, perché porta seco degli equivoci esiziali quando viene accostato alla musica – mi riferisco più che altro all’accezione che ha assunto, principalmente dalla seconda metà del Novecento, di ‘inintelligibile’. Questa passione mi ha spinto negli ultimi anni a cercare di entrare in contatto con i compositori che man mano scoprivo, instaurando, con alcuni di essi, amicizie di cui sono molto lusingata.
    Ben presto, grazie al suggerimento di Joel Tilanti di Iminds Group e all’incondizionata fiducia che mi ha rivolto Giuseppe Di Martino, proprietario del Pastificio dei Campi, che a occhi chiusi ha deciso di sponsorizzare l’iniziativa, l’idea di base ha cominciato a sconfinare in un proposito di più largo respiro: perché non cogliere l’occasione per configurare un progetto in grado di replicare questa esperienza? Mi sono rimaste impresse le parole che Di Martino mi ha detto durante la nostra prima conversazione: “Io ti dico sì, sulla fiducia, perché l’idea mi piace – e allora c’era davvero solo una vaga idea di cosa sarebbe stato –, e poi credo che la persona che sa gradire una pasta fatta in un certo modo è la stessa persona che sa apprezzare la buona musica”. Cos’altro aggiungere? Che di imprenditori così illuminati dovrebbero essercene di più, sì.
    Dopo quell’iniziale slancio il progetto ha continuato a crescere e si è arricchito di nuove preziose collaborazioni: quella con il M° Andrea Ceraso, per esempio, persona di raffinato gusto estetico e direttore musicale del progetto, nonché direttore dell’Ensemble Miroirs, che collaborerà stabilmente con SHE LIVES; e quella con Francesco Gorio, persona deliziosa e piena di entusiasmo, titolare della società MKT Musikit, che da più di vent’anni si occupa di Editoria Musicale ed è presente nei più importanti appuntamenti fieristici del settore in tutto il mondo, contribuendo in modo significativo a far conoscere i compositori dei nostri giorni.

  563. 2 – È corretto leggervi un intento pedagogico?

    È corretto, ma a questo punto occorre una precisazione: il mio è un punto di vista profano, da semplice amante della musica: a parte qualche anno di studio del pianoforte, molti anni fa, la mia educazione musicale non è accademica, ma totalmente empirica. Proprio questo aspetto, mi dicono invece molti ‘tecnici’, potrebbe costituire il punto di maggior forza del progetto.
    Frequentando da anni sale da concerto, compositori e musicisti, ho potuto verificare che a volte sono le stesse istituzioni musicali – non tutte, ovviamente – ad avere una sorta di pregiudizio, non tanto nei confronti della musica contemporanea, quanto della voglia del pubblico a interessarsene.
    Quello che invece io mi chiedo è: com’è possibile che un amante della musica possa non essere interessato ai suoni del proprio tempo? Sono convinta che il punto cruciale della questione risieda nel modo in cui qualcosa viene proposto: spesso ho avuto l’impressione che la presentazione di un’opera contemporanea contenesse in sé quasi una richiesta di scuse: mi riferisco, per esempio, alla formula che spesso viene usata di inserire l’opera contemporanea fra due del repertorio classico – mai alla fine, altrimenti la gente se ne va prima – quando questo non è giustificato da un intento di natura comparativa. Questo atteggiamento ha contribuito a creare un circolo vizioso: l’istituzione tende a non inserire musica contemporanea – o a farlo con molta cautela – nella propria stagione concertistica perché crede che il pubblico non la gradisca, e il pubblico effettivamente tende a prediligere il repertorio classico perché ha poche possibilità di adeguare il proprio gusto al linguaggio musicale del proprio tempo. Il M° Maurizio Pollini, fra gli altri, da anni non fa che ribadire questo concetto. L’incontro con il suo pensiero è stato per me determinante, in questo senso. Ecco, noi crediamo che questo circolo vizioso debba essere interrotto.

  564. 3 – Che cosa accomuna i compositori e i musicisti coinvolti?

    La prima cosa che li accomuna in questa esperienza è la libertà di esprimersi in un contesto immune da influenze politico-culturali e svincolato dalle logiche che regolano i luoghi di consumo massificato. SHE LIVES si propone come uno spazio di incontro in cui il suggerimento parta dagli artisti, in modo che siano stimolati a interagire fra di loro non in termini di una concorrenziale visibilità nelle poche vetrine disponibili, bensì di un comune spirito di costruttiva condivisione. Ma questo è un movimento che SHE LIVES ha solamente intercettato, e lo dimostra il fatto che alcuni dei compositori e dei musicisti coinvolti, pur provenendo da esperienze anche geograficamente distanti fra loro, si conoscevano, o si sono referenziati l’un l’altro.
    Questo sta già creando un clima di grande entusiasmo e di straordinario fermento, intorno al progetto. L’interesse cresce, da parte di nuovi compositori, musicisti, enti culturali. Qualche giorno fa, per esempio, il compositore Franco Antonio Mirenzi, che qui ringrazio pubblicamente, durante il suo intervento conclusivo al IV Convegno presso la sede della Conferenza dei Rettori e delle Università Italiane sul ruolo e sulle prospettive dei cori e le orchestre universitarie italiane, ha voluto parlare di SHE LIVES, e l’ha fatto in presenza di personalità eminenti: cito il prof. Franco Piperno, Presidente della Commissione Musica Sapienza, il dott. Luca Aversano, direttore dell’Orchestra dell’Università di Parma, e altri ancora.
    Poi sono in contatto quasi quotidiano con tutti gli artisti coinvolti: ringrazio in modo particolare per il sostegno e la collaborazione il compositore prof. Sidney Corbett, il compositore dott. Alessio Elia, e il M° Massimiliano Scatena, bravissimo pianista abruzzese che ho l’onore di avere come primo musicista ospite; e poi il M° Cristiano Serino e il M° Giusto Pappacena, cui sono molto legata. E naturalmente ringrazio te, Claudio, per l’amicizia e l’inesauribile fonte di raffinatezza che per me rappresenti.

  565. 4 – La serata del 17 novembre unirà letture e esecuzioni di musiche. Che cosa lega la parola, scritta o detta, alla musica, secondo te?

    Il rapporto fra musica e parola ha radici antichissime, che vanno dall’antica Grecia – se non prima – fino, idealmente, agli estremi Vocal Works di Ligeti; dunque non voglio avventurarmi in un terreno già ampiamente esplorato da voci molto più autorevoli e competenti della mia. Cercherò quindi di restringere la mia considerazione a un aspetto che mi suggerisce il contesto artistico e musicale della serata del 17 novembre.
    La letteratura, a un certo punto, ha cercato di imitare l’indeterminatezza della musica. Non posso non pensare, per esempio, ai “componimenti sonori” di una certa produzione poetica di Mallarmé. Ma anche la musica, soprattutto nel Novecento, ha sentito il desiderio di svincolarsi dal proprio linguaggio, o comunque di metterlo in discussione, che è lo stesso punto, poi, dal quale le maggiori avanguardie storiche sono partite. Su questo terreno mi ci ha portato la ricerca estetica musicale del sopracitato Alessio Elia. Il discorso è davvero molto affascinante, e più lo scruto più mi porta a essere attratta da compositori che prediligono una ricerca puramente sonora; l’unica, credo, in grado di esaltare la quint’essenza della natura evocativa della musica.
    Comunque, per quanto riguarda la serata del 17, il ponte con la parola non è così “filosofico”; ho avuto il grande piacere, nonché ho ritenuto opportuno invitare come primo ospite di SHE LIVES uno scrittore che stimo molto, e che condivide i valori del progetto.

  566. 5 – La serata del 17 è solo l’inizio. Che cosa diventerà il progetto?

    Diventerà principalmente un luogo di suggerimento dove pubblico e istituzioni potranno attingere ogni volta che vorranno. Ecco, vorrei sottolineare quanto l’attività di sensibilizzazione delle istituzioni culturali sia fondamentale, e quanto ci concentreremo su questo aspetto, perché le istituzioni possono dare una grande accelerazione nel processo di corroborazione della consapevolezza del pubblico; un pubblico che oggi ha un ruolo piuttosto passivo, statico, a volte addirittura ebete, e io sono convinta che la principale causa di questo atteggiamento sia imputabile proprio al pregiudizio delle istituzioni di cui ho accennato prima.
    Un paio d’anni fa quando proposi a un’importante istituzione musicale, di cui non farò il nome, di prendere in considerazione la possibilità di inserire nella sua programmazione concertistica le opere del compositore norvegese Lasse Thoresen, mi è stato risposto che non sarebbe stato possibile, perché il pubblico non ama le novità, e chiede di ascoltare un certo tipo di repertorio. Questo rappresentate, oltre al fatto che si è autoeletto a portavoce di un intero pubblico, come se questo fosse un monolite con un solo organo pensante, non sapeva, ne sono certa, che Lasse Thoresen è fra i compositori scandinavi viventi più stimati al mondo; però mi ha detto che se fosse stato l’ambasciatore norvegese in Italia a proporglielo, forse… Basta, non vado oltre.
    Un pezzo di Lasse Thoresen verrà eseguito il 17 novembre per la prima volta in Italia, e di questo sono molto orgogliosa. Ma colgo l’occasione per ribadire che non è mia intenzione generalizzare: molte istituzioni, anche pubbliche, svolgono un lavoro encomiabile, sotto questo punto di vista.

  567. 6 – Che posto può avere la musica colta nel mondo di oggi?

    Un posto fondamentale: la musica colta per sua natura si oppone con forza alla vorticosa, superficiale, bulimica tendenza dei nostri tempi di incoraggiare dinamiche da fast food nei confronti non solo della fruizione artistica, ma dell’esperienza esistenziale tout court, cui è fortemente legata. Soprattutto nelle nuove generazioni, che rappresentano il nostro futuro e che sono diventate purtroppo molto ricettive a certi stimoli negativi, queste dinamiche hanno creato un grande equivoco: complesso vuol dire noioso, macchinoso, non immediato. Sorrido: mi vengono in mente alcune composizioni di Bach, che pur inquadrate in un rigido rigore formale, hanno una potenza espressiva immensa. Ecco, offrire la possibilità di arricchire la percezione umana in questo modo credo sia l’impegno che ogni rappresentante istituzionale dovrebbe assumere come antidoto alla desolazione morale.

  568. Desideravo ringraziare Claudio Morandini e Fabiana Piersanti per questa bella discussione su questo forum che ha ancora tanto da dare (e da dire).
    Un saluto anche a Massimo!

  569. desideravo fare conoscere una casa editrice che si occupa di musica e con la quale ho collaborato per la traduzione dei libri di Yehudi Menuhin, L’arte speranza dell’umanità e Musica e vita interiore. Questo è il link al sito http://www.rueballu.it
    Un saluto a tutti,
    Gae Pisani

  570. la risposta alla domanda è la poesia il testo poetico ricordo che la mursica è un romanticismo urlato la verità è che la poesia piace poco perchè non è oltranzista ma un sogno nel silenzio il rapporto tra musica e noi la viviamo bene se non vi fosse una mentalità di fondo che ha ridotto l’ascolto di musiche che io rivivo ogni volta è un piacere un gesto esplicito uno studio reale.

  571. perchè se un cantante è morto non si debba riascoltare i generi come stefania rotolo che morì precocemente o tanti musicisti non uditi per es la musica popolare diventa una nuvola su molti cartoni animati.

  572. Molto bello anche questo dibattito sul tema letteratura e musica.
    Non credo ci sia qualcosa del genere in rete.

  573. Alcune amare considerazioni di Emanuele Arciuli sul blog de “Il giornale della Musica”: http://www.giornaledellamusica.it/blog/?b=356.
    Arciuli, da musicista, esamina le imbarazzanti approssimazioni con cui la musica è presentata nello sceneggiato RAI “La musica del cuore”, ambientato in un Conservatorio, e tira alcune (meste e ahimè mestamente condivisibili) conclusioni sulla cultura musicale dell’Italia.

  574. bel progetto, claudio.
    qui i dibattito sono ridotti al lumicino.
    immagino perché il max maugeri è impegnato nell’attività di promozione del suo romanzo.

  575. Giacomo, hai ragione! E’ un periodo di grande gioia ma anche di grande stanchezza. Qui sul blog sto un po’ tirando il fiato, è vero.
    Ma l’idea dei dibattiti online incentrati sui libri è il sangue (a proposito delle variazioni di Claudio) di Letteratitudine. E molto presto tornerò a proporveli.
    Per il momento vi ringrazio di cuore per seguire i vari contributi proposti nei post pubblicati e per ascoltare le trasmissioni radiofoniche.
    Grazie davvero!

  576. Un saluto a Claudio ed a Giacomo.
    Caro Claudio, complimenti per il bel progetto anche da parte mia.

  577. Caro Massimo, complimenti anche a te per il successo di “Trinacria Park”.
    Siamo sempre pronti ai nuovi dibattiti letteratitudiniani, quando vorrai.

  578. Io ho fatto parte di un coro polifonico con il quale ho inciso due cd; poi ne ho incisi altri due a tema religioso-liturgico e attualmente faccio parte di un coro lirico intitolato alla memoria di un baritono siracusano recentemente scomparso che ebbe una carriera di tutto rispetto.
    Ne parlo qui:

    http://www.marialuciariccioli.wordpress.com

    La letteratura e la musica sono sorelle perché entrambe forme altissime d’arte seppur con linguaggi diversi.
    E sì, ogni tanto bisogna tirare il fiato. Anche le pause sono importanti, in musica e in letteratura!
    😀

  579. Grazie a tutti, vi terrò aggiornati!
    Credo siano fisiologici, nella vita dei forum, questi momenti di quiete dopo il gran viavai dei primi mesi. Ma insomma, torneremo qui più spesso, promesso, anche perché l’argomento del rapporto tra letteratura e musica è tutt’altro che esaurito – semplicemente, ha trovato altri ritmi, oltre che nuovi spazi paralleli in “Letteratitudine News”.
    Un caro saluto a tutti, a prestissimo!

  580. E infatti, rieccomi qua a tempo di record!
    Hai ragione, Maria Lucia, la musica è anche fatta di pause. E a proposito: ho tra le mani un libriccino invitante, “Ascoltare il silenzio – Viaggio nel silenzio in musica” del musicologo e musicista Emanuele Ferrari. Lo pubblica Mimesis, nella collana, pensate un po’, “Accademia del silenzio”.
    Ne riparleremo, se volete.

  581. Già che ci sono, mi allargo ancora un po’ e vi propongo la lettura di un mio pezzo di argomento musicale per la rubrica (“Da un paese di confine”) che tengo sulla gloriosa rivista online “Zibaldoni e altre meraviglie”, diretta da Enrico De Vivo. Il pezzo si intitola “Musica muta” (tout se tient, n’est-ce pas?) e lo potete leggere qui: http://www.zibaldoni.it/2013/05/08/musica-muta/.

  582. Ne approfitto per salutare anche Amelia e Maria Lucia.
    E ringrazio ancora una volta Claudio, che tiene vivo questo forum permanente dedicato al rapporto tra “letteratura e musica”.

  583. Grazie Amelia, grazie Massimo!
    Dunque, ho qualche aggiornamento in proposito.
    Vengo a scoprire, grazie a Paola Rinaldi, alcune novità su “Le voci del mondo”, o nell’originale “Schlafes Bruder”, il romanzo di Robert Schneider di cui abbiamo parlato ieri su “Letteratitudine News”: intanto ne è stata tratta un’opera, con le musiche di Herbert Willi. Se ne parla ad esempio in questo articolo su “Repubblica”: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1996/04/28/voci-del-mondo-il-romanzo-diventa-musica.html.
    La première si è tenuta all’Opernhaus di Zurigo, nel 1996. Su youtube è visibile un unico frammento dall’opera, tratto dall’edizione del 2009 al Neue Oper Wien con la direzione di Walter Kobera, ma è piuttosto osé e non me la sento di linkarlo qui (apprezzerete la pruderie).
    Ho dato un’occhiata anche al filmone tratto dal romanzo, “Schlafes Bruder”, appunto, di Joseph Vilsmaier, del 1995. Ero curioso in particolare di scoprire come avrebbe risolto la scena dell’esecuzione al concorso organistico: e qui un po’ di delusione l’ho provata, di fronte all’evidente inadeguatezza della Toccata composta per il film (è accreditato come autori delle musiche Enjott Schneider) rispetto a quanto si racconta nel romanzo. Ne è venuto fuori qualcosa come Ken Russell (“Lisztomania”, per dire), ma senza sorriso – kitsch puro, irrimediabilmente inconsapevole di esserlo, a differenza del vecchio Ken.

  584. Cari amici, ho scoperto pochi giorni fa in libreria un cofanetto prezioso, contenente tutte e dodici le puntate di “C’è musica e musica”, il ciclo di trasmissioni di Luciano Berio, con Vittoria Ottolenghi e la regia di Gianfranco Mingozzi. Era il 1972, forse qualcuno di voi se ne ricorderà. Assieme ai due DVD, un bel libro (“Una polifonia di suoni e immagini”, a cura di Angela Ida De Benedictis) con testimonianze, saggi e la provvidenziale trascrizione di tutte le puntate (opera di Federica Di Gasbarro). Il tutto pubblicato da Feltrinelli nella collana Real Cinema.
    In questo forum abbiamo già parlato a più riprese di quelle gloriose puntate, ma approfitterei dell’uscita del cofanetto per riparlarne in un intervento su “Letteratitudine News” (ci sto lavorando, portate pazienza ancora qualche giorno).
    Che ne dici, caro Massimo, si può fare?

  585. Molto interessante Claudio.
    Ciao!
    Mi piace molto questo luogo pieno di musica/letteratura. 🙂

  586. Ho letto tutto il dibattito letteratura/musica.
    Molto bello. Un piccolo patrimonio messo a disposizione della rete.
    Grazie.

  587. Marino Pessina, musicologo e compositore, ha pubblicato nel 2011 presso l’editore Dalla Costa un libretto agile e denso, “Il suono nascosto – Divagazioni musicali attorno a 13 opere figurative”. Il titolo, suggestivo, rimanda proprio al lavoro di svelamento dei suoni che sembrano emettere le opere d’arte (dipinti, fotografie, sculture) nelle quali in vario modo si allude alla musica. Pessina, con competenza e passione, “immagina” le musiche silenziose che risuonano nelle stanze dipinte da Vermeer; intercetta canti e suoni di flauto in scene giocose di Giandomenico Tiepolo o di Matisse; scova parentele remote tra strumenti simbolici o fantastici come quelli che appaiono nel ritratto ingresiano di Cherubini o tra le mani delle muse di Klimt o tra le braccia di Man Ray; legge certi grafismi di Klee come una partitura; e via così.
    La lettura, assai gratificante, è facilitata dalla riproduzione delle opere da cui le “divagazioni” di Pessina, mai peregrine, partono come un libero risuonare di impressioni, un gioco di reminiscenze e di analogie, una “vacanza” dagli obblighi professionali (l’autore parla proprio, nell’introduzione, del libro come del frutto dell’”ozio estivo”). Note a piè di pagina e un apparato di schede redazionali su opere e autori (forse non indispensabili, queste ultime) consentono anche a chi non è esperto di musica o di storia dell’arte di collocare le riflessioni e le suggestioni di Pessina in un contesto storico-culturale preciso.

  588. Un altro consiglio di lettura veloce veloce (ci tornerò più avanti, magari): “Incontro con Nadia Boulanger” di Bruno Monsaingeon (Edizioni RueBallu, 2007). La grande didatta (la più grande del Novecento, accanto a Messiaen e a pochi altri) si confida si racconta con grande libertà e divertimento, e talvolta con irriverenza.

  589. E chissà quanta musica c’è davvero ne “Il direttore d’orchestra” di Antonio Russello? Ho tra le mani l’edizione Santi Quaranta del 2010. Riparleremo anche di questo romanzo.

  590. Ciao Claudio. È sempre piacere ritrovarti qui.
    Letteratitudine dà sempre quest’impressione di sentirsi a casa.

  591. “Busenello – Un théâtre de la rhétorique” (Classiques Garnier, 2013) è un saggio rigoroso, dettagliatissimo e insieme intrigante come un romanzo su Giovan Francesco Busenello, l’oratore poeta e librettista veneziano che, tra l’altro, ha scritto per Monteverdi il libretto de “L’incoronazione di Poppea”: l’autore è uno studioso francese, Jean-François Lattarico, appassionato di barocco, di musica, di letteratura e dell’Italia in generale. Ne parlo su Letteratitudine News: https://letteratitudinenews.wordpress.com/2013/10/15/busenello-un-theatre-de-la-rhetorique-di-jean-francois-lattarico/#more-3720.
    Venite a darci un’occhiata. E speriamo che questo bel saggio venga presto tradotto in italiano.

  592. C’è tanta musica tra le pagine di “Vita privata di una cultura” di Carla Vasio (Nottetempo, 2013). La sezione centrale del libro, in particolare, è dedicata a figure di primo piano della musica di ricerca degli anni sessanta e dintorni. Ne parlo in un pezzo a pag. 9 del ricchissimo Speciale n. 2 della rivista FuoriAsse, dedicato al Festival LABirinti che si è tenuto a Torino l’ottobre scorso, a cura degli amici di Cooperativa Letteraria. Potete sfogliare la rivista qui:
    http://www.youblisher.com/p/783115-FuoriAsse-Speciale-LABirinti-Festival/.
    Buona lettura (e buone feste, a proposito).

  593. Sempre a proposito di Benjamin Britten: nel 2013 Castelvecchi, nella collana “etcetera”, ha pubblicato, a cura di Luca Scarlini, una piccola raccolta di scritti del compositore inglese, con il titolo “La musica non esiste nel vuoto”. Me lo sono appena procurato. Ne riparleremo senz’altro.

  594. “La musica non esiste nel vuoto” di Benjamin Britten (Castelvecchi, 2013, a cura di Luca Scarlini) è un libretto gustoso, ma così striminzito! Davvero non si poteva aggiungere qualche altro scritto tra quelli (occasionali, d’accordo, ma sempre importanti) lasciati dal maggiore compositore britannico del Novecento? Insomma, si resta con l’acquolina in bocca, come dopo un pranzo raffinato ma fatto di soli assaggi.
    Emerge bene, comunque, un’idea affabile della musica, una disponibilità ad adattarsi alle circostanze, un mettersi al servizio degli altri (del pubblico, anche del pubblico infantile, dei committenti pubblici e privati) che non è mai un venir meno alle proprie esigenze compositive ma un modo per esprimerle al meglio. In questo Britten è esponente sincero, anche ironico e dotato di un considerevole understatement (come ci si aspetta da un inglese, anche a costo di sfiorare il cliché), di quella linea che nel Novecento insiste sull’artigianalità più che sull’arte, sulla concretezza del “fare” più che sulla vaghezza del “sentire”, e che pure (e nonostante ciò, verrebbe da aggiungere) ha dato risultati altissimi: Stravinsky, Hindemith, e appunto Britten, accanto a molti altri che andrebbero ricordati tutti.
    Britten non voleva essere un ricercatore, uno sperimentatore: eppure finiva per esserlo, in piena libertà, svincolato dalle scuole e dai dettami delle avanguardie. Di sicuro non era un conservatore, tanto meno un sentimentalone propenso ai facili effetti (nessuno lo accuserebbe più di questo, oggi). E che fosse un acuto osservatore delle faccende interne ad altre discipline artistiche, e in particolare alla letteratura, si nota bene nell’ultimo brano della raccolta, nel quale, non senza amabile sornioneria, discetta sulla presenza della musica nella narrativa di E. M. Forster, suo amico e collaboratore.

  595. Scopro solo ora questo vostro sito e segnalo la pubblicazione di due saggi sul rapporto Musica e poesia, nell’ottica del compositore, Matteo Segafreddo, e del poeta, Alessandro Cabianca; disponibile a inviare ulteriori informazioni se richieste:
    Armonie d’insieme – Musica e poesia dal mito al ‘900 – Modelli e aspetti di un connubio espressivo, CLEUP, 2009 – Prefazione di Angelo Zaniol
    Armonie contemporanee – Teoria ed estetica di opere d’insieme, CLEUP, 2012 – Prefazione di Claudio Ambrosini.
    Il primo saggio analizza il rapporto tra le due arti nei secoli, il secondo nella contemporaneità, con esempi concreti di opere in versi per musica.

  596. Buonasera a tutti! Sempre a proposito di musica e letteratura, segnalo, a pag. 49 della nuova eccellente rivista “Diacritica” (http://www.diacritica.it) un eccellente articolo intitolato “Consistenza e caso. Idea e confini del neodadaismo da Cage a Pleynet e oltre” di Alessandro Gaudio; e più sommessamente, a pag. 127, la mia recensione al bel romanzo “Una parete sottile” di Enrico Regazzoni (Neri Pozza, 2014).
    “Diacritica” è un bimestrale fondato da Maria Panetta e Matteo Maria Quintiliani e diretto da Domenico Renato Antonio Panetta; si occupa di filologia, critica letteraria e storia dell’editoria. Tenetela d’occhio, ne vale la pena.

  597. Un esempio dello stretto e naturale rapporto tra letteratura e musica è la canzone, in cui si realizza una forma di letteratura musicale. Il testo per canzone non è una poesia, ma nasce per essere cantato e spesso nasce dal canto dei pensieri in versi dell’autore. Una scrittura specifica, che esprime bene le radici del rapporto tra i due linguaggi. Per quanto spesso contestata, la canzone d’autore continua a dimostrarsi uno dei più grandi mezzi poetici del nostro tempo, capace di offrire alte composizioni melodico letterarie. Manuale di riferimento Il Cantautore, metodo creativo per scrittura di canzoni – letteratura musicale. http://www.ilcantautore.it

  598. Salve, vorrei segnalarvi il libro “Playlist – Se ci fosse la musica”, un romanzo a tema musicale con la prefazione di THE NIRO.
    Se per ogni occasione giusta della vita ci fosse la musica giusta? E’ quello che si chiede il protagonista Giulio, un musicista che mantiene la sua passione con lavoretti frustranti. In un susseguirsi di incontri surreali, visioni musicali, sms notturni, vessazioni sul lavoro e amori fugaci, nasce la colonna sonora di un’avventura.
    Il romanzo è stato presentato anche su Radio Capital, Radio Montecarlo e RTL 102.5.
    Se vi interessa saperne di più, visitate il sito http://www.playlistsecifosselamusica.it o la pagina facebook http://www.facebook.com/PlaylistSeCiFosseLaMusica
    Qui trovate invece il booktrailer del libro https://youtu.be/ZtD8vPYRnn8?

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