Ci sono storie che scavano dentro, che lasciano solchi, che afferrano per la gola cogliendo il lettore impreparato, sorprendendolo di continuo. Sono queste le sensazioni dominanti che suscita la lettura di “Concetto al buio”, la nuova opera narrativa di Rosario Palazzolo (pubblicata da Perdisa Pop nella collana Babele Suite).
Per la verità l’autore ci mette in guardia già a partire dalla prima delle epigrafi scelte. È una citazione tratta da La cantina di Thomas Bernhard, e dice così: “Tutto quello che scrivo, tutto quello che faccio, è disturbo e irritazione. Tutta la mia vita in quanto esistenza non è altro che un continuo disturbare e irritare. Giacché richiamo l’attenzione su dei fatti che disturbano e irritano. Io non sono un uomo che lascia in pace la gente”.
“Concetto al buio” è una storia che disturba, irrita… che afferra alla gola, dicevo… ma non perché contiene descrizioni cruente. Tutt’altro. Qui è la suggestione, a padroneggiare. È la capacità dell’autore di imbastire un racconto avvalendosi di un approccio avvolgente, ipnotico. Squarci di una realtà amara e dolorosa che si dipanano con lentezza, ma in maniera inesorabile. Il lettore ci si trova nel mezzo. All’inizio della storia si può avere l’impressione di possedere tutte le coordinate degli eventi, ma ciò che nella fase preliminare della lettura sembra chiaro ed evidente si rivela – ben presto – come il frutto di una visuale sfocata. C’è un momento in cui il lettore proverà un inevitabile senso di straniamento, per poi capire – con sorpresa – che la storia che sta leggendo non è il semplice dramma del presunto protagonista… ma l’intreccio delle vite di almeno tre personaggi legati da un destino e una condizione orribili. Girata l’ultima pagina, la tentazione di rileggere tutto dall’inizio è quasi irresistibile.
Non c’è dubbio che Palazzolo sia bravo a mischiare le carte (a creare un effetto straniante, dicevo)… ma lo fa avvalendosi di un linguaggio e di una caratterizzazione forti e di qualità.
La storia inizia in una stanza chiusa. C’è un ragazzino che vi è segregato dentro.
Il senso di ciò che accade, l’atmosfera, si percepisce sin dalle prime pagine: “è successo ieri, verso sera, ho sentito che sprangavano la porta, che ci mettevano delle assi di legno, ho sentito che le inchiudevano per bene, la buttanissima strega con la solita voce smozzicata da strega dava degli ordini secchi, l’altra invece non parlava, eseguiva soltanto, ogni tanto faceva degli sbuffi di naso come di chi si sta stancando tropp’assai, erano degli sbuffi angosciati, pure, forse perché nel mentre, sotto sotto, stava piangendo”.
Le identità delle due donne vengono rivelate solo alla fine, quando i pezzi di questo puzzle narrativo si ricompongono.
E poi la storia viene intramezzata da un diario. Una sorta di lunga lettera indirizzata a Gesù crocifisso. “Una storia segreta e difficile (leggiamo nella scheda del libro), un padre silenzioso, una madre arcigna, un prete che impartisce crudeltà morali”.
Comincia così: palermo, 9 novembre 1984, ore 20 e 37
Questa sequenza di missive, a mio avviso, ha un che di commovente e (nonostante l’epilogo tutt’altro che a “lieto fine”) testimonia l’esistenza di una grande fede, per quanto semplice, disperata, talvolta distorta: “… visto che sei il più grandissimo, fai una cosa piccola per me, caro gesù: da adesso in poi, e per tutto il tempo del mio racconto, non ti mettere nessuna espressione, fatti di niente, ascolta la storia che infilerò dentro al foglio e non spiccicare parola, perché solo così potrò scrivere senza vergogna tutto quello che è successo, solo così potrò azzerare per poi ricominciare daccapo… e allora ci stai a questo giochetto? ci stai a scancellarti da ogni dove? grazie gesù mio, schiodati dalla croce e scomparisci, per favore”.
Vorrei discutere insieme a voi e a Rosario Palazzolo di questo suo libro e – contestualmente – soffermarmi su un paio di requisiti essenziali (sebbene non unici) di ogni narrazione: il linguaggio e lo stile, da una parte; la trama, dall’altra.
E sarà questa la base di partenza della discussione parallela che accompagnerà quella sul libro…
Come sempre, al fine di incentivare il dibattito, provo a formulare alcune domande.
Nella “economia” di una storia che ruolo giocano linguaggio, stile e trama?
Tra linguaggio e stile (da una parte) e trama (dall’altra) – premesso che dovrebbero sempre amalgamarsi in maniera simbiotica e sinergica – chi riveste (o dovrebbe rivestire) il ruolo prevalente?
a) Linguaggio e stile sono a servizio della trama. b) La trama è condizionata da linguaggio e stile.
Quali, tra le suddette affermazioni, vi sembra la più condivisibile?
State per andare in vacanza e siete costretti a scegliere un libro da portare con voi, tra i due seguenti: il primo – secondo i vostri gusti – è dotato di stile e linguaggio sopraffini, ma ha una trama ridicola; il secondo ha una trama avvincente e ben strutturata, ma linguaggio e stile sono decisamente mediocri.
Quale libro portate con voi?
L’importanza che si attribuisce a linguaggio, stile e trama può variare a seconda del “genere letterario” di riferimento?
Spero che queste domande possano innescare una bella discussione (parallela, ripeto, a quella che riguarderà “Concetto al buio”).
Prima di chiudere, segnalo che avrò il piacere di presentare Rosario Palazzolo e questo suo libro nell’ambito dell’evento “Leggere fa male” organizzato da Alessandro Zannoni e che si svolgerà dal 21 al 23 luglio a Bocca di Magra (Porticciolo)… come meglio specificato nella locandina qui sotto.
Alessandro parteciperà alla discussione raccontandoci meglio i dettagli e la storia di questo evento letterario.
Massimo Maugeri
P.s. dato che Alessandro Zannoni è pure scrittore, avrò modo di aggiornare questo post con riferimento al suo nuovo romanzo “Imperfetto” (anche questo edito da Perdisa Pop). Ne parleremo nella seconda fase di questo dibattito.
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AGGIORNAMENTO DEL 26 LUGLIO 2010
Aggiorno il post pubblicando, di seguito, l’articolo di Gea Polonio sulla tre giorni letteraria “Leggere fa male”, tenutasi a Bocca di Magra dal 21 al 23 luglio.
Di seguito… qualche foto messami gentilmente a disposizione da Gian Paolo Serino, che ringrazio (potete visionare l’intero album fotografico dall’apposita pagina di facebook).
Massimo Maugeri
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UHSTOCK. ovvero: tre giorni di pace, amore e libri visti con sguardo coniglico
di Gea Polonio
Insomma, gente, io ‘sta cosa so mica come scriverla.
Dovrei essere seria e parlare di Letteratura con la maiuscola (che pure una volta tanto ci starebbe, cazzo; la parola viene usata talmente spesso a sproposito che mi si blocca sulla tastiera, ma lì ce n’era, oh se ce n’era)?
Dovrei buttarla in caciara e descrivere gli schiamazzi notturni dei dopocena passati a ridere e chiacchierare bevendo vino (ma mica era solo cazzeggio, diobono, erano anche scambi interessanti e profondi sul senso della vita, e dello scrivere, e del leggere, e insomma)?
Dovrei essere sentimentalmente patetica e sdilinquirmi su quanto sia stato emozionante incontrare vecchi amici e conoscere persone umanamente fantastiche oltre che intellettualmente stimolanti (ma dannazione sarebbe sminuire in un pippone mieloso un qualcosa che merita molto di più)?
Insomma porcaccia la miseria è la terza volta che la riscrivo e mica mi va bene.
Allora facciamo che come viene viene, e caso mai aggiungete voi nei commenti, ok?
Della prima serata gli highlights sono senza dubbio: Carrino che inopinatamente e sfacciatamente ruba la scena a Serino durante la presentazione del proprio ”Pozzoromolo” mettendosi a cantare, benissimo, peraltro; e la professionalissima intervista del Maugeri (che all’inizio nessuno aveva riconosciuto perché indossava una camicia blu scuro), impeccabile come al solito, a un Rosario Palazzolo in gran forma, su lingua e scrittura, con riferimento a ”Concetto al Buio”. Beh, tra il peso specifico dei libri (assolutamente splendidi e corposi di forma e sostanza) e il notevole spessore degli autori, l’insieme è stato grande. Mi dispiace per chi se l’è perso.
La seconda sera era di scena il Bernardi, e quasi basta la parola. Prima con Francesco ”effeffe” Forlani il quale, con l’ausilio di potenti mezzi audiovisivi, lo ha coinvolto in una sorta di gioco della verità-intervista; poi con Sacha Naspini, per parlare de ”I Cariolanti” che Luigi ritiene, insieme a ”Pozzoromolo” appunto, tra i migliori libri italiani del 2009. E qui si è pure scoperto che ‘sto benedetto ragazzo scrive a quel modo in un fiat: cinque giorni, ci ha messo. Ed è irrefrenabile. Meglio per noi, no?
La terza performance è stata retaggio del Pandiani, che ha parlato del suo ”Les Italiens” e degli altri della serie usciti o scritti o in divenire, coadiuvato dal grande (in molti sensi) Enzo Bodycold. Purtroppo Barbara Baraldi ha avuto un impedimento e all’ultimo istante ha dovuto dare forfait. Peccato, ché sarebbe stato interessante sentirla, introdotta da Alessandra Buccheri (con la quale peraltro avevo in comune scarpe e borsa: buffo).
In mezzo a tutto questo: l’arrivo avventuroso di Imma che ha attraversato fiumi di fuoco ed è stata salvata dall’eroismo di Enrico Pandiani e Francesco Forlani che in sella a un cavallo bianco sono andati a recuperare lei e le mozzarelle; i pigiama party con Giulia e mamma Nicoletta; le ore piccole, la spiaggia, il perdersi con Sacha nel tentativo di fare senza tomtom; i bar dove collassare nelle ore calde e fare discorsi da sceneggiatura di film, bevendosi reciprocamente per non perdere un minuto dello stare insieme; lo shopping compulsivo da mercatino; memorie, confidenze, battute, tavole quadrate ché di rotondi bastavamo noi (come diceva tuo nonno,vero Gigio?), urletti e risate, bambini e adulti, ospitalità squisita e maternage, i castellani con bambolina sempre sveglia al seguito, i bluesmen, i fotografi (io odio Daniele Barraco che mi ha trascinato davanti all’obiettivo), Alice che porta la focaccia e sa aprire il vino, Rosario che parla poco ma dice molto, Carrino che è una gioia di autoironia e intelligenza, Domenichini che aveva l’aria di divertirsi un sacco, Paolacci che non sai mai cosa pensi ma credo che finchè sorride sia tutto ok, Forlani che i grandi momenti li provoca, Massi che giuro che lo adoro, Serino che fa spettacolo a sé, e Alba che viene da Pisa; e il Bernardi, santiddio, il Bernardi che è il Bernardi e se lo conosci non lo eviti, anzi…
E poi.
Poi Ale Zannoni.
E qui non c’è niente che io possa dire se non grazie.
E standing ovation.
Ribadisco i miei complimenti a Rosario Palazzolo per il suo “Concetto al buio” edito da Perdisa Pop.
E complimenti anche a Luigi Bernardi per averlo proposto…
Come ho scritto sul post “Concetto al buio” è una storia che disturba, irrita… che afferra alla gola, dicevo… ma non perché contiene descrizioni cruente. Tutt’altro. Qui è la suggestione, a padroneggiare. È la capacità dell’autore di imbastire un racconto avvalendosi di un approccio avvolgente, ipnotico. Squarci di una realtà amara e dolorosa che si dipanano con lentezza, ma in maniera inesorabile.
Il lettore (scrivevo sul post) ci si trova nel mezzo. C’è un momento in cui proverà un inevitabile senso di straniamento, per poi capire – con sorpresa – che la storia che sta leggendo non è il semplice dramma del presunto protagonista… ma l’intreccio delle vite di almeno tre personaggi legati da un destino e una condizione orribili. Girata l’ultima pagina, la tentazione di rileggere tutto dall’inizio è quasi irresistibile.
Una breve presentazione dell’autore…
Rosario Palazzolo è nato a Palermo nel ’72 e ci vive. È drammaturgo, scrittore, regista e attore. Ha fondato e dirige (con Anton Giulio Pandolfo) la Compagnia del Tratto, associazione che si occupa di nuove drammaturgie e nuove musiche. Per il teatro ha scritto: “Ciò che accadde all’improvviso”, “I tempi stanno per cambiare” (con Luigi Bernardi), “Ouminicch’ e ’A Cirimonia”, vincitore del Fringe al 18° Festival Internazionale del Teatro di Lugano.
Nel 2006 ha vinto il Premio Lama e Trama con il racconto “a N”.
Nel 2007 è uscito il suo primo libro, “L’ammazzatore” (Perdisa Pop).
Per darvi qualche altra informazione sul libro, vi trascrivo la scheda…
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A Palermo c’è un ragazzino segregato in una stanza buia. Due donne hanno appena sprangato con delle assi di legno la sua porta, per lasciarlo morire d’inedia. Nel frattempo scorre come un diario una lettera a Gesù crocifisso: una storia segreta e difficile, con un padre silenzioso, una madre arcigna, un prete che impartisce supplizi morali… Di chi è questa storia? E chi è quel ragazzo? Amaro e spassoso, carico di umorismo non meno che di crudezza, Concetto al buio è un libro sull’impossibilità della verità: una storia di trasfigurazioni e dissimulazioni, raccontata con straordinario ingegno. La novella sorprende a ogni pagina, con una prosa unica e deflagrante, di per sé in grado di spingere il realismo al grottesco e alla satira di costume. La scrittura, precisa, dura e travolgente, sporcata con sapienza da inflessioni dialettali e lingua parlata, dà voce e spessore a personaggi intrappolati in una cultura complessa, oscura e claustrofobica, dove imperano il dubbio e il senso di colpa, le distorsioni di una morale ai limiti del parossismo. Lo sguardo dei protagonisti sembra ingabbiato in questa dimensione, dove ognuno è incapace di sovvertire le regole del gioco, mentre ciò che la norma sociale fissa come legge si inabissa pericolosamente verso il suo opposto. Ne emerge una Palermo che va oltre la Palermo stessa: una città aspra, fatiscente e insincera, fatta di cunicoli vorticosi e durezza, dove ogni pezzetto di verità, nel momento stesso in cui si mostra, viene immediatamente cancellato. Il secondo libro di Rosario Palazzolo: una novella segnata da evidente felicità di scrittura, una storia densa e trascinante, la conferma di un talento.
Un libro che colpisce come il classico “pugno sullo stomaco” e che si presta benissimo a essere presentato nell’ambito dell’evento letterario LEGGERE FA MALE.
Ne parleremo più avanti.
Come ho già precisato, non c’è dubbio che Palazzolo sia bravo a mischiare le carte (a creare un effetto straniante, dicevo)… ma lo fa avvalendosi di un linguaggio e di una caratterizzazione forti e di qualità.
Vorrei discutere insieme a voi e a Rosario Palazzolo di questo suo libro e – contestualmente – soffermarmi su un paio di requisiti essenziali (sebbene non unici) di ogni narrazione: il linguaggio e lo stile, da una parte; la trama, dall’altra.
Sarà questa la base di partenza della discussione parallela che accompagnerà quella sul libro.
Come sempre, al fine di incentivare il dibattito, provo a formulare alcune domande…
Nella “economia” di una storia che ruolo giocano linguaggio, stile e trama?
Tra linguaggio e stile (da una parte) e trama (dall’altra) – premesso che dovrebbero sempre amalgamarsi in maniera simbiotica e sinergica – chi riveste (o dovrebbe rivestire) il ruolo prevalente?
a) Linguaggio e stile sono a servizio della trama. b) La trama è condizionata da linguaggio e stile.
Quali, tra le suddette affermazioni, vi sembra la più condivisibile?
State per andare in vacanza e siete costretti a scegliere un libro da portare con voi, tra i due seguenti: il primo – secondo i vostri gusti – è dotato di stile e linguaggio sopraffini, ma ha una trama parecchio scarsa; il secondo ha una trama avvincente e ben strutturata, ma linguaggio e stile sono decisamente mediocri.
Quale libro portate con voi?
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La risposta “nessuno dei due”… non vale. 😉
L’importanza che si attribuisce a linguaggio, stile e trama può variare a seconda del “genere letterario” di riferimento?
Prima di chiudere, segnalo che avrò il piacere di presentare Rosario Palazzolo e questo suo libro nell’ambito dell’evento “Leggere fa male” organizzato da Alessandro Zannoni, che si svolgerà dal 21 al 23 luglio al Porticciolo di Bocca Di Magra… come meglio specificato nella locandina.
Alessandro parteciperà alla discussione raccontandoci meglio i dettagli e la storia di questo evento letterario.
@ Rosario Palazzolo
Una prima domanda per te, Rosario.
Che differenza c’è tra scrivere una pièce teatrale e scrivere un testo di narrativa?
@ Rosario Palazzolo
Come nasce “Concetto al buio”?
Da quale idea? Quale, la fonte di ispirazione?
Poi, Rosario, ti invito (se vuoi e se puoi) a rispondere alle “domande generali” del post… a cui tutti sono invitati a rispondere.
Per stasera chiudo qui.
A tutti voi una serena notte.
Visto che qui si parla di linguaggio, stile e trama, vorrei sintetizzare la mia opinione in proposito: sono tutte caratteristiche scrittorie dipendenti dal significato profondo di un racconto. Essendo la profondita’ variabile a seconda dell’autore, tutto sara’ di conseguenza: stile, trama, linguaggio, figure retoriche eccetera. L’importante e’ che una narrazione riesca a fornire una sintesi di personalita’ individuale e leggibilita’. Meglio se elidendo del tutto le mode del periodo.
Ed e’ tutto, da parte mia, al momento, detto in quattro paroline.
P.S.
La percentuale di personalita’ e leggibilita’ potrebbe essere: 70 % personalita’ e 30 % leggibilita’. Ovviamente, meno un’opera d’arte letteraria e’ leggibile e piu’ rappresenta l’autore. L’ideale sarebbe 100% e 0%…
Secondo ed ultimo poscritto
Scusatemi, ma questo post scriptum lo devo proprio mettere, poi ”mollo”. Allora, lo storico della filosofia Nicola Abbagnano scrisse che ”l’uomo non deve pensare che l’universo sia una parte di se’, ma che lui sia una parte dell’universo” (perifrasi buttata giu’ ora, a memoria). Ecco: l’affermazione di Abbagnano per me e’ incompleta: l’uomo deve pensare di essere una parte del tutto E ALLO STESSO TEMPO che tutto sia una parte di se’. Identico discorso vale per la narrativa. La narrativa d’arte, eh…
Le domande che ci proponi, Massimo sono molto difficile. Intanto trovo difficoltà a capire quanto detto da Sergio Sozi: “meno un’ opera d’ arte letteraria è leggibile e più rappresenta l’ autore.” Secondo me la leggibilità di un’ opera letteraria è un requisito essenziale. Il linguaggio e lo stile sono molto importanti e penso che siano a servizio della trama, restando il fatto già detto da Massimo che stile, linguaggio e trama dovrebbero essere armonicamente intrecciati.
…cosi’ si otterrebbe un 100% di personalita’, corrispondente ad un 100% di leggibilita’.
Caro Massi,
bellissimo post, domande interessantissime e attuali.L’autore, poi, geniale e bravo. Aspetto con gioia di leggerlo.
Il solito nodo. Parole. Trama. L’una o l’altra?
Ecco. Credo che l’arte della scrittura sia essenzialmente parola.
Ma parola che si fa viaggio, che – in se stessa – compie una storia, che si narra e umilmente racconta. Potrei dire, la parola che si fa, essa stessa, trama.
La storia non è il narrato, ma il narrare ricordando che quell’atto non dipana fatti, ma li rivela. Nel modo in cui dice, nella scelta del suono, del verbo, della strada attraverso cui s’innesta, la parola è già essa stessa viaggio, immissione nel mondo, preludio alla scoperta.
Non ci sono limiti alla sua capacità di appropriazione e commozione, perchè l’atto del dire in letteratura è salvataggio di quella parte dell’uomo che non saprebbe vivere altrimenti, che si forma solo nel cercarsi e nel raccontarsi.
Da piccola preferivo mio nonno a ogni altro narratore perchè trasformava la favola in un mistero solo usando parole, mettendole in rima o leggendole al contrario.
La storia era sempre la stessa, ma nel modo in cui variava, capivo la vita, l’uomo, mio nonno divertito se metteva aggettivi d’aria e di vento, triste se di pioggia, lucido se diceva “sogno”, prossimo alla morte se diceva” fine”.
L’ultima volta che raccontò la storia di “Mezzo galluccio alla corte del re” fu anche l’unica in cui mi avvertì che calava il sipario, e lo fece col solo fiato, dettando alle sillabe il suo testamento. Si congedò con le parole e col loro senso, lasciando immutata la storia, tutte le storie, la somma di chi le aveva narrate e persino la sua. Scriveva anche la mia, quella notte, solo dicendomi: “Domani raccontala tu”.
Cara sig.ra Bagnoli,
salve, lieto di discorrere con Lei.
Mi spieghero’ meglio. Spero che Lei mi segua attentamente, poi magari rispondendomi. Grazie.
Allora.
Postulato il fatto che nessun uomo puo’ mai esprimersi appieno (scrivendo, parlando, dipingendo: in nessun modo insomma) per via del fatto che ogni mezzo espressivo e’ un mezzo imperfetto in confronto all’esprimibile, cioe’ al nostro spirito, ne consegue che piu’ un mezzo espressivo qualunque (vedi la scrittura) viene gestito personalmente dall’autore e piu’ quel che esprime e’ compiuto, ma e’ anche incomprensibile. Siccome, poi, anche lo spirito umano, nonostante sia di derivazione divina, resta a sua volta imperfetto, ecco che le due imperfezioni si trovano a combaciare: spirito imperfetto ed inesaustivo e mezzo espressivo imperfetto ed inesaustivo. Ergo: piu’ un’opera d’arte e’ incompresa, piu’ e’ artistica, cioe’ vicina a Dio.
Giustappunto l’arte perfetta e’ SOLO quella di Dio. La nostra e’ intrattenimento… magari anche buon intrattenimento, certo…
Saluti Cari
Sozi
Ciao, Simona cara,
allora amerai il Queneau degli ”Esercizi di stile”…
Sono d’ accordo con Lei, caro Sozi sul limite delle parole, mezzi di comunicazione imperfetti. Certo, un’ opera d’ arte è relativamente comprensibile tanto che la valutazione varia da lettore a lettore, ma io credo che un minimo di comprensione sia indispensabile altrimenti perché la leggeremmo? La domanda è banale, mi rendo conto. Posso dire che il suo discorso mi torna se penso al romanzo di Calvino: “Una notte d’ inverno un viaggiatore ( forse il titolo non è propio questo). E’ un romanzo che mi ha emozionato e affascinato. L’ ho letto più volte per cercare di capirne a fondo il significato profondo ma non ci sono mai riuscita. Lieta di averle parlato.
A stringere, tenendo presente il persorso che ho scritto prima: il 100% di leggibilita’ insieme al 100% di personalita’ e’ una semplice e schietta chimera. Chimera. Come la letteratura.
Grazie, sig.ra Bagnoli. Io giustappunto apprezzo il Calvino della Trilogia e non quello del ”…Viaggiatore…”. Nel Barone rampante Calvino era uomo, nel Viaggiatore si fingeva Dio. Errore dato dal troppo successo. Cosa comune, effetto dell’idolatria e delle mode. L’OULIPO, Queneau… si era montato la testa insomma, Calvino. Capita, nell’era della massificazione…
Saluti Cari
Sozi
Massimo,
stavolta proponi un tema ostico, che divide. Come divide Thomas Bernhard, ossia il vate del pessimismo: passami la definizione. Ma il pessimismo appartiene alla vita, e spesso l’avvolge in modo tale che diventa poi difficile districarsi o salvarsi, oppure redimersi.
Penso che Rosario Palazzolo sappia districarsi e districare il lettore, ha il talento di chi afferra la vita per le corna, come si usa dire, portandola in luoghi e situazioni che permettono di scorgere anche uno squarcio di cielo, detto metaforicamente.
Un autore che ha tratto lezioni da Bernhard, e da altri, ma che sa narrare e interpretare la vita e i fatti con un metro e un cipiglio personalissimi. Sbaglio?
“Leggere fa male” s’intitola la manifestazione di Bocca di Magra. Fa male leggere, sì, a volte. Ma dal dolore – come dagli abissi del male – spunta sempre un’idea, una concezione, un atteggiamento diverso, che successivamente diventa un antidoto allo stesso male.
Rosario è d’accordo?
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Riguardo alle affermazioni sul linguaggio, lo stile e la trama, beh, io credo che il linguaggio e lo stile debbano essere a servizio della trama, dal momento che alla trama do il valore principale, a differenza magari di altri lettori.
Ne consegue che, per me, il ruolo prevalente in un romanzo debba essere rivestito appunto dalla trama. In un romanzo, lo ripeto.
Cordialmente.
L’Anonimo apparso sopra ha un nome.
Massimo, Rosario e i lettori mi perdonino la svista, A. B.
Caro Massimo, grazie innanzitutto per aver detto così bene di Concetto al buio.
Non sempre capita, è un libro difficile, lo so bene; è un libro che corre, un libro da fiato corto.
Domani risponderò per filo e per segno alle tue domande.
Buona notte.
io ne ho letto un pezzo ad alta voce, prima ancora della lettura privatissima e silenziosa che ogni lettore riserva ad un libro.
ero alla presentazione a milano. chiedevano chi volesse offrirsi per leggere un brano. dire di sì ha stupito anche me. mi sono alzata, ho raggiunto il microfono (il pavimento scricchiola, chissà se Rosario si ricorda davvero di me, ci siano conosciuti tanti anni fa. lui sta scrivendo, e pubblica, io no…).
ho cominciato a leggere senza sapere cosa leggessi, risucchiata in un gorgo di periodi senza punteggiatura, senza quasi prendere aria. la storia comandava di essere letta, e io leggevo. e correvo, e l’inseguivo.
la pagina finì troppo presto.
a casa ho ripreso la corsa.
stavolta dovevo leggere per me soltanto.
però mi era rimasto l’istinto di correre.
si può mai correre in un labirinto? me lo chiedo adesso. eppure lo facevo. in un labirinto si deve procedere con prudenza, toccando i bordi, segnandosi i confini, i dati concreti sui quali orientarsi. ma no, non potevo. andavo giù col torrente, fino alla fine.
ogni storia ha la sua voce. e questa voce è unica. e talvolta, il suono di questa voce è dato da una lingua biforcuta, snella o tonda, scalena; certe altre volte, il colore di questa voce è quello di un bouquet povero o arco-balenato da stilemi combattivi, quello sbiadito di uno stile ardito, libero, persino peccaminoso o il colore acceso, unico, di una gerbera intenzionale.
una storia può essere la stessa storia di un’altra ma non saranno mai uguali. e questo è vero fino a quando ci saranno due scrittori diversi, fino a quando saremo due lettori: gli stessi.
trama, stile, storia, linguaggio… in fondo, l’unica cosa importante è che che mi ‘cresca’ anche molti anni dopo aver letto l’ultima pagina.
curioso di questo libro qua io. molto.
La butto lì, caro Massimo: anche secondo me, come per Simona Lo Iacono, c’è una trama parallela, che corre accanto quella fatta di azioni colpi di scena, ecc., ed è quella che vivono le parole, ciò che ci raccontano le parole (stile e linguaggio, insomma); è una storia fatta di echi, rimandi, armonici (passatemi questa), reminiscenze… Le parole sono i personaggi di questa vasta storia. Se mi viene a mancare questa dimensione fatta di sapienza e personalità stilistica, il resto (il plot) non mi basta.
Faccio i miei migliori auguri a Rosario Palazzolo: ciò che ho letto del suo libro è molto invitante! Saluto gli amici e torno di là, e vedere che c’è di nuovo nella discussione su letteratura e musica…
Intanto i migliori auguri a Rosario Palazzolo per questo libro presentato in maniera molto invitante. Mi piacciono i libri “forti” che raccontano storie dure in maniera elegante, senza scadere cioè nel racconto del singolo dettaglio. Se ho ben capito ‘Concetto al buio’ è uno di questi libri.
Le domande.
Nella “economia” di una storia che ruolo giocano linguaggio, stile e trama?
Fondamentale. Ci sono altri elementi, certo. Tipo la caratterizzazione dei personaggi, l’ambientazione, ecc.
Ma se vengono meno linguaggio, stile e trama una storia non è degna di tal nome.
Tra linguaggio e stile (da una parte) e trama (dall’altra) – premesso che dovrebbero sempre amalgamarsi in maniera simbiotica e sinergica – chi riveste (o dovrebbe rivestire) il ruolo prevalente?
Domanda difficilissima. Io sono tra quelli che pensano che stile e lingua devono essere a servizio della storia.
a) Linguaggio e stile sono a servizio della trama. b) La trama è condizionata da linguaggio e stile.
Quali, tra le suddette affermazioni, vi sembra la più condivisibile?
la prima, come già detto. Senza dubbio.
State per andare in vacanza e siete costretti a scegliere un libro da portare con voi, tra i due seguenti: il primo – secondo i vostri gusti – è dotato di stile e linguaggio sopraffini, ma ha una trama ridicola; il secondo ha una trama avvincente e ben strutturata, ma linguaggio e stile sono decisamente mediocri.
Quale libro portate con voi?
Considerato che siamo in estate e immaginandomi sotto l’ombrellone, porto con me il secondo libro.
L’importanza che si attribuisce a linguaggio, stile e trama può variare a seconda del “genere letterario” di riferimento?
In un thriller o in un giallo la trama è molto più importante rispetto a un romanzo ‘intimista’.
Auguri per la manifestazione a Bocca di Magra.
Sono molto intrigata da questo libro. Lo leggerò presto (ma tu l’estate consigli sempre libri che mi prendono al cuore? L’anno scorso è stata la volta di Accabadora, ricordi?) e devo dire che quello che mi ha colpita, dalle poche cose che ho letto qui è proprio “la storia”.
Chiaro che, se vogliamo restare nella filosofia della scrittura, la parola e la trama sono complementari, ma (siccome sono una passionale) io privilegio la storia.
Chi racconta per me è principalmente un cantastorie, una persona che si mette al servizio della storia e la esprime con le sue capacità. Non parte dalla scrittura (bella, ricercata, elaborata, straniante, etc.) ma da quel che accade.
Un po’ come l’attore che “serve” il teatro (come diceva Jean Louis Barrault). L’attore è nascosto dietro il personaggio, lo fa agire con le sue potenzialità, con i suoi ricordi, con le sue esperienze. Lo crea.
Altri, invece, partono dalla loro abilità e “riducono” il personaggio ad una proiezione di se stessi (sono i mattatori).
La scrittura non si differenzia molto da questo.
E il mio non è certo un giudizio di merito.
partire dalla scrittura o dalla storia è assolutamente indifferente se il risultato è buono.
Resta il fatto (soggettivo) del piacere. E a me piace rotolarmi nelle belle storie, nelle storie che mi portano altrove, che mi aprono la testa alle associazioni, alle rivoluzioni, ai sogni.
Grazie Massimo per questo spunto.
Quello che penso è che in Italia siamo pieni di scrittori, ma poveri di narratori. Chi narra “crea” una storia che, al limite, può anche prendere spunto da qualche particolare di vita vissuta ma che, sostanzialmente, è fiction e fantasia. Sono per il romanzo “classico”, in definitiva. Per le storie scelte dall’autore o che scelgono l’autore per essere narrate. L’autore deve esserci con una voce riconoscibile e peculiare, ma non come presenza ingombrante. Leggo troppe cose, a mio avviso autoreferenziali e ombelicali. Nel romanzo classico è anche possibile che la scrittura salvi la trama o viceversa. Anche se l’optimum sarebbe un equilibrio di qualità tra entrambi gli elementi.
Salve a tutti,
ho avuto il piacere di presentare “Concetto al buio” insieme con il suo autore e quindi voglio intervenire per stimolare, chi non l’avesse ancora letto, a farlo il prima possibile. Io c’ho messo tre ore a finire il libro e vi posso assicurare che la scoperta di questo modo particolare di raccontare è un’esperienza molto formativa, oltre che di grande soddisfazione culturale.
Rosario Palazzolo è un autore che la sa lunga, che conosce i meccanismi tecnici della scrittura e che sa sfruttarli al massimo per uno scopo preciso: far credere al lettore di stare perfettamente capendo lo svolgimento di una storia, quando poi, in verità, non è così. Durante la lettura, infatti, siamo portati a fare inferenze su ciò che succederà dopo e l’autore Palazzolo ci asseconda, lasciando svolgere la storia come sarebbe facile immaginarsi. Ma c’è sempre un punto (e questo in tutti i prodotti artistici di Rosario Palazzolo) in cui la storia ci fa uno scherzo e svirgola verso luoghi e svolgimenti che mai ci saremmo immaginati. L’autore, insomma, ci tiene in pugno.
“Concetto al buio” è tutto nel suo titolo. La parola “concetto” viene dal latino “cum capio” che vuol dire, più o meno, “mettere insieme” e infatti in questa parola ci sono, messi insieme, almeno tre risvolti del racconto: “Concetto” può essere un nome proprio di persona, può essere un’idea e può anche essere il participio del verbo “concepire”. Queste tre cose costituiscono l’ossatura del libro. Ma c’è una seconda parte nel titolo: “al buio”. Il buio, secondo la nostra percezione comune, è un sentimento disforico che si contrappone all’euforico “luce”. Il buio di questo libro esplicita il problema centrale del racconto: l’impossibilità della verità. C’è qualcosa o qualcuno che cerca una via d’uscita, una verità, ma il raggiungimento di questa è impossibile. Sarà lì a portata di mano in ogni pagina del libro, ma sarà al buio e quindi non potrà mai venire alla luce.
Sono stato forse troppo enigmatico, ma so che l’autore gradisce così.
Grazie per l’attenzione e buona lettura
Non ho ancora letto il libro di Palazzolo, ma credo che lo farò. M’interessava ora cercare di rispondere a Massimo. Quando ero molto giovane e iniziavo a scrivere i miei primi racconti mi pareva che lo stile fosse tutto e la trama secondaria. Poi, nei miei romanzi, la trama divenne molto importante, al punto da indurmi a cercare uno stile “inapparente”, al suo esclusivo servizio. Nel mio ultimo libro ho invece imparato che dal linguaggio può nascere la storia. Una parola diversa, un sinonimo (anche se, tecnicamente parlando i sinonimi non esistono), conducono in direzioni non considerate prima. Credo che molto dipenda dal tipo di narrazione che si racconta. In alcune è fondamentale raccontare scene, eventi. E lo stile diventa un servo della trama. In altre invece lo stile crea la trama. Difficile, almeno per me, trovare per ora una mediazione che funzini in entrambi i casi. Ma forse dipende dalla mia tendenza a scrivere sia testi di genere sia testi “mainstream”.
Comunque, più invecchio, più apprezzo la leggibilità.
rimango molto incuriosito anch’io dal libro di Palazzolo. mi piacciono le storie capaci di stupire il lettore.
sul discorso stile/trama: secondo me, ma potrei sbagliarmi, chi si pone come obiettivo prevalente lo stile spesso rischia di scrivere storie autoreferenziali.
E’ possibile. Bisogna essere molto attenti a evitare questo rischio.
A Nicola: secondo me il rischio dell’autoreferenzialità si evita proprio attraverso uno stile sorvegliato, una concentrazione sulla scrittura, sulle qualità foniche e evocative e sul percorso storico delle parole, sul cursus della frase, sulle finezze della costruzione. Quando si parla di stile si parla, direi, proprio di questo: non di sbrodolamenti compiaciuti, di ammiccamenti narcisistici, di enfasi da buona-la-prima, ma di misura, consapevolezza, lavoro di lima, incontentabilità. Ecco perché sono convinto che lo stile sia il migliore antidoto all’osservazione del proprio ombelico.
quindi lo stile è riservato a chi sa, a chi può fare un percorso storico delle parole, chi ha conoscenza delle qualità foniche, etc.
Partendo da questo punto si potrebbe arrivare a correre il rischio di dire che chi non ha fatto studi classici non può scrivere (bene).
Beh su questo sono abbastanza in disaccordo.
L’autoreferenzialità, secondo me, si sconfigge solamente non cercando applausi e -insisto- servendo la letteratura/scrittura, non usandola come un trampolino per soddisfare/lucidare il proprio ego.
E’ nel rapporto con l’ego il problema dell’autoreferenzialità, non (solo) nello stile.
Caro Massi, argomento molto intrigante come il giovane autore… anche attore. drammaturgo e – del segno dei gemelli -. Il suo intenso percorso artistico, già spiega…l’inspiegabile lessico e l’obliqua trama. Viva la tormentata, baldanzosa, inarrestabile, creatività in libera…uscita! Sicilia docet, con la sua magica terra di lava e lapilli.
Ho segnalato sul mio sito il dibattito, è in fondo alla sezione ” Benvenuto”,
poi darò smalto anche all’incontro a Bocca di Magra.
Spero di tornare sulla trascinante tematica, se nel frattempo non mi murano… nel mio pensatoio.
Tessy
già nella sua prima opera – “l’ammazzatore”, perdisapop – la scrittura di rosario mi aveva colpito e meravigliato; ho scoperto un autore che non vuole dormire sonni tranquilli, che non si accontenta della strada segnata ma che cerca un sentiero tutto suo, nuovo, unico, arduo e stimolante. e con “concetto al buio” ha rimarcato la sua scelta difficile, quella di fare letteratura senza badare a pubblico, vendite o tendenze editoriali. e solo un genio spericolato come luigi bernardi e una casa editrice come la perdisapop potevano avere la forza per pubblicarlo. ecco, il romanzo di rosario, assieme a quello di carrino, potrebbe essere l’emblema della manifestazione che organizzo: leggere, in questi casi, fa male davvero; e scrivere certe cose è
roba da suicidio letterario, perchè nel mondo editoriale falsato dagli interessi e standardizzato verso il basso, trovare visibilità è sempre più difficile. è per questo che da anni cerco di dare il mio contributo (minimo) alla causa: “leggere fa male” è infatti alla sesta edizione (prima si chiamava “festa della letteratura nera”) ma qui non ci troverete i soliti scrittori che servono a riempire le sale, e nemmeno i romanzi primi in classifica: qui c’è spazio per autori che faticano a farsi trovare nelle librerie, nelle recensioni, per non parlare dei grandi festival e delle trasmissioni televisive o radiofoniche.
ma, in verità, questi incontri li organizzo per rivedere vecchi amici o per conoscerne di nuovi.
ciao massimo, ciao rosario, un saluto agli altri
alessandro zannoni
ps
per domande io sono qui.
ah, dimenticavo: scelgo assolutamente la scrittura.
da questo presupposto invito (quasi) tutti gli scrittori italiani a fare un ripasso generale della punteggiatura. un ripasso generale ma molto approfondito.
@ Isabella: non mi riconosco nelle conclusioni snobistiche che mi attribuisci.
Insisto: lo stile è frutto di ricerca, studio, buone letture, approccio umile a certi modelli riconosciuti come grandi (quali, fate voi), amore per le potenzialità della parola, elaborazione paziente di una propria voce. Questo, per chiunque prenda una penna in mano, mi pare un percorso (personale, non “scolastico”) salutare e formativo per chi scrive e rispettoso di chi avrà voglia di leggere. Ed è un percorso che può durare un’intera vita.
Piccola postilla: coltivare la propria “voce” e ostentare manierismi e virtuosismi sono due cose ben diverse.
Altra piccola postilla: certo, oltre allo stile bisogna sempre avere qualcosa da dire – meglio, da condividere.
adesso tenterò di rispondere alle domande di massimo, una per una.
Nella “economia” di una storia che ruolo giocano linguaggio, stile e trama?
a mio parere sono un tutt’uno.
lo stile e il linguaggio occorrono alla trama come ciò che siamo occorre alla nostra vita.
uno nasce, vive, fa, impara e così trama la propria vita.
ma, in definitiva, credo che nessuna storia meriti davvero di essere raccontata.
i rotocalchi, gli approfondimenti televisivi, le dirette dal luogo del delitto, i “ecco chi ce l’ha fatta”, le notizie sorprendenti incredibili mirabolanti, gli appunti per l’estate, i “così non si fa”, le stupefacenti avventure dei grimpeur o dei pidocchi, mentono.
non è tanto che cosa si narra.
ma chi lo fa, e perché.
l’urgenza che ne ha.
ciò che davvero conta, secondo me, è il motivo che determina la narrazione.
l’impeto dei sottotesti.
e andiamo alla seconda.
Tra linguaggio e stile (da una parte) e trama (dall’altra) – premesso che dovrebbero sempre amalgamarsi in maniera simbiotica e sinergica – chi riveste (o dovrebbe rivestire) il ruolo prevalente?
forse ho già risposto.
il linguaggio e lo stile sono già la trama.
del resto, solo con quella voce posso permettemi di raccontare.
non è ho una in prestito.
se tento di avercela, vorrà dire che non ne avrò mai una mia.
la vita è fatta di scelte, nonostante sia davvero impossibile scegliere, nonostante ugualmente ci incaponiamo.
se un linguaggio è convincente, se non appena le parole ti scorrono nella testa pensi “ci credo”, se sei in grando di immedesimarti nell’impossibile che stai leggendo, allora la trama ci sarà già.
qualcuno diceva che qualsiasi storia è già stata narrata.
ciò che crea nuovi scenari è “il chi” la racconta.
e “il chi” è e sarà sempre diverso, frutto delle imprevedibili commistioni dell’esistente, della caducità dell’istante, del repentino modificarsi delle cose che sono, che poi non sono, che sono di nuovo.
ovvero: non potrò mai scrollarmi di dosso il “cosa sono” se prima non avrò risposto alla domanda delle domande: “perchè sono ciò che sono”.
quali eventi mi hanno fatto prendere la strada che ho preso.
se ho davvero preso una strada.
se c’è una qualche strada da prendere.
a) Linguaggio e stile sono a servizio della trama. b) La trama è condizionata da linguaggio e stile.
Quali, tra le suddette affermazioni, vi sembra la più condivisibile?
la seconda, ovviamente.
State per andare in vacanza e siete costretti a scegliere un libro da portare con voi, tra i due seguenti: il primo – secondo i vostri gusti – è dotato di stile e linguaggio sopraffini, ma ha una trama parecchio scarsa; il secondo ha una trama avvincente e ben strutturata, ma linguaggio e stile sono decisamente mediocri.
Quale libro portate con voi?
messo alle strette, rinuncerei alla vacanza.
L’importanza che si attribuisce a linguaggio, stile e trama può variare a seconda del “genere letterario” di riferimento?
no, è assolutamente marginale.
per me, si parte sempre del “chi racconta” per poi approdare al “cosa racconta”.
e il “cosa racconta” può trattare di scannamenti e ammazzatine, di cuori infranti, di irriducibili stati di malessere, di mafia, di ecosistema, di granite e di cuccuruccucù paloma.
Che differenza c’è tra scrivere una pièce teatrale e scrivere un testo di narrativa?
la differenza è banale, raggiungibile, ma ugualmente dubbia:
nella scrittura teatrale ti misuri sempre con ciò che il pubblico vedrà, per un momento, senza preavviso; sai che il sipario poi cala e che tutto sarà finito, per davvero, sai che non ci saranno repliche uguali, che il pubblico varierà, e che il pubblico è vario, sai perfettamente che bene che vada vivrai nei ricordi di qualcuno, per qualche tempo, assottigliandogli insieme ai fatti nuovi della sua vita, sai che alla fine rimarrà un afflato, il ricordo di un ricordo di un ricordo di una specie di emozione.
adesso potrei dirti che in narrativa le cose cambiano.
che il libro sta lì.
che non scompare.
che non possiede afflati irripetibili.
che uno ha la possibilità di leggerlo e rileggerlo all’infinito.
e potrei dirti che l’autore queste cose le sa.
e che si regola di conseguenza.
potrei dirti che la narrativa abbisogna di altri miracoli.
come una certa convulsione degli snodi, una specie di spasmo dei significati, l’esperimento che quand’è riuscito ti farà scoprire cose non scoperte.
ma in definitiva, no, non te lo dico.
siamo diversi, sempre, e ci diversifichiamo di continuo.
un libro bello diventa brutto.
ciò che mi piaceva adesso non più.
mi chiamavo marcello adesso francesco.
dunque: credo che, tolti i differenti approcci pratici, differenze non ce ne siano.
La leggibilità sommata alla piena espressione di personalità è un dono; neanche tutti i più grandi autori ce l’hanno sempre, ma qualche volta sì, e questo fa la differenza.
ma sai, rosario, che da questa ultima risposta mi sembri più intelligente di quello che ricordavo?
e infine:
Come nasce “Concetto al buio”?
Da quale idea? Quale, la fonte di ispirazione?
Concetto al buio nasce per esprimere un concetto, e non al buio.
ovvero, quello dell’impossibiltà della verità.
che è un’idea che avevo già sviluppato in teatro con ‘A Cirimonia.
per me la verità è impossibile, ne esiste una, una soltanto, ma non può essere espressa, mai.
quando l’oggettività di qualcosa s’impatta con la soggettività di qualcuno, ne esce uno sconquassamento di senso.
per cui, ciò che è non è più.
l’uomo rimane cosciente del fatto che ciò che è è ancora.
ma lo ignora, semplicemente.
crede – perché glielo hanno fatto credere – che sia lui a dominare le cose del mondo.
ma il mondo è sempre stato oggettivo.
l’uomo, solo qualcuno che si trova lì per caso.
Concetto al buio nasce per ribadire, insomma.
credo che questa risposta contenga le tue due domande, Massimo.
alessandro, magari quando ci incontreremo ancora, sarò più stupido di quando non ti ero parso così intelligente.
e magari lo sarò davvero, ovvero: non sarà solo una tua impressione.
tu l’ultima volti mi sei parso intelligente, ma partivi avvantaggiato.
non potevi essere stupido visto che avevi apprezzato L’Ammazzatore.
che se no stupido diventavo pure io.
per fare il quadro della situazione attuale:
ringrazio massimo maugeri per ciò che ha detto di Concetto al buio, per le domande interessanti e per avermi invitato, sebbene il tutto sia stato frutto del movimento innescato da alessandro zannoni, che è il secondo che mi tocca ringraziare.
ringrazio annamaria sansone e marco manera, che sono finora gli unici miei lettori indipendenti che hanno postato dei loro commenti.
ringrazio l. carrino, e non per il commento, ma per il suo Pozzoromolo, che non mi ha fatto sentire solo.
ringrazio perdisa pop e qualcuno dei suoi attori.
ringrazio soprattutto chi sta partecipando a questo dibattito, perché partecipare ai dibattiti oggi mi sa tanto di eroico.
A mio parere non esistono regole rigide per quanto riguarda l’elaborazione di un racconto scritto. Ognuno mette nero su bianco come meglio crede; e non potrebbe essere altrimenti, sennò si finirebbe per scrivere e leggere quanto è di nostra radicata conoscenza, privandoci del piacere dell’imprevedibilità. Purtroppo mi capita spesso di aprire un libro e constatare, con grande amarezza, di quanto sia uguale a tantisimi altri. La scrittura rispecchia l’interiorità dell’autore; è scontato dire che linguaggio e stile sono al servizio della trama, ma non è escluso che potrebbe verificarsi tutto l’opposto. Quando un autore scrive, almeno credo, non sta lì a pensare allo stile, la trama i dialoghi, va avanti con la consapevolezza che qualsiasi cosa dica corrisponde all’ineluttabile percorso artistico ed umano.
sì, salvatore, la penso come te.
quasi su tutto.
sono d’accordo quando dici che non esistono regole certe.
e quando affermi che la scrittura rispecchia l’interiorità dell’autore.
però devo dirti che, almeno per quanto mi riguarda, lo stile è un fatto che va sperimentato continuamente.
un fatto su cui ragiono, costruendo l’impalcatura che serva a sostenere i personaggi di cui narro.
basta poco, basta che la mano pensi a conto suo, e l’impalcatura crolla, i personaggi con lei, io con loro.
Questa è la mia recensione al romanzo:
http://www.thrillermagazine.it/libri/9514/
Qui c’è dentro tutto quello che penso di questo romanzo favoloso!
Chiara
Linguaggio e stile, per me, prevalgono sulla trama, anche se, appunto, l’ideale è avere tutti e tre allo stesso livello.
E tra le due opzioni vacanziere, dato che non si può rispondere nessuno dei due, sceglierei il libro con la trama scarsina.
Mi è capitato di leggere libri tradotti da due persone diverse, quindi con stili ovviamente non uguali, e non sono lo stesso libro.
Giuliana
Non esistono regole certe. E’ stato detto. Sottoscrivo. La scrittura è qualcosa di estremamente soggettivo, e così la lettura.
Però un grande stile che non racconta nulla è pura masturbazione.
Intendiamoci: la storia a volte non è quella apparente. Nelle variazioni sul tema del signore col cappello sul tram, di Queneau (tirata in ballo da Sergio), la storia non è quella del signore col cappello sul tram. La storia da cercare è altrove, è nelle parole, è nelle variazioni stesse.
Arte e letteratura sono forme di comunicazione. Hanno bisogno di un comunicatore e un destinatario della comunicazione, pertanto anche di un qualcosa da comunicargli. Per questo l’oggetto della comunicazione (una storia, un pensiero, un’idea) non può assolutamente essere secondario. E’ solo che a volte (appunto) non è la trama dei fatti narrati, ma qualcosa di sottostante.
Per questo apprezzo particolarmente l’intervento di Simona, che distingue il narrato dal narrare, che individua nel percorso parallelo alla trama della parola stessa un’altra trama. E lo conferma anche Palazzolo stesso: “il linguaggio e lo stile sono già la trama”.
La parola “trama” stessa, in fondo, indica un ordito, un insieme di fili che complicatamente si intrecciano per mostrarci un qualcosa di nuovo, di diverso dai fili che lo compongono. Filo (parole) e ordito (fatto di “trama” e di “sottotrama”) diventano così un tutt’uno, assolutamente inscindibile.
Per questo credo abbia poco senso, in fondo, la domanda “Quale libro portate con voi?”. Sarebbe come dire preferite un ordito senza fili, o dei fili senza ordito?
surprise surprise.
arrivo, spariglio al volo e riscompaio, in attesa di sarzana.
secondo me sono i vocaboli a creare confusione. ”stile” può significare anche mera pippa.
e ”trama” nell’accezione comune evoca accadimenti drammatici ed epocali.
ciò che fa di un libro un’opera letteraria valida e memorabile è il modo di narrare. quello che ti sfiora e ti accarezza e ti culla oppure ti afferra violentemente penetrandoti di colpo e lasciandoti senza fiato. quello che ti tiene tra le sue braccia facendosi annusare e assaggiare, che quando tutto è finito ti lascia una scia lunga e spossata di memoria e ritorni improvvisi di sensazioni, che ti fa trasalire al ricordo anche a distanza, che rimane con te per sempre, comunque e al di là di tutto.
e il modo è una voce e una storia. una storia che può essere anche esilissima ma che l’occhio del narratore identifica come quel pezzettino di nulla che ha l’infinito dentro.
e la voce è cosa personalissima, e se non c’è non ce la si può dare.
è come il succo: da una rapa, quello di rapa ottieni. lo puoi allungare, condire, addolcire, correggere brandy, centrifugare e sterilizzare. non diventerà mai succo di pomodoro.
tra le due scelte, massi, rinuncio: nessuno dei due sarebbe altro che un oggetto inutile, e ne posso fare a meno. preferisco passare il tempo a recitare ragazzoni ad alta voce, o a giocare a nascondino, o a saltellare (hoppity).
ho letto l’ammazzatore, e l’ho amato.
entro un paio di giorni dovrei avere in mano concetto.
non vedo l’ora.
(ciao carlo, massi ci vediamo presto. ale con te facciamo i conti dopo 🙂 . last but not least, rosario: sarà un piacere stringerti la mano)
grazie, gea.
pienamente d’accordo con te.
a presto.
Bentornata Gea! Ma non scomparire troppo un’altra volta.
Un caro saluto a tutti gli intervenuti…
Tornerò tra breve 😉
Nel mio peregrinare di libro in libro ho incontrato spesso trame avvincenti, ma scritte con uno stile così piatto, che di loro non serbo alcun ricordo. Ho incontrato invece trame senza alcun senso, al limite della inesistenza o, perché no, del ridicolo, ma scritte con uno stile così epico, così forte, che ne ricordo ancora il ritmo. Ogni storia, anche la più indegna, la più irraccontabile, trova nella parola, nello stile, quell’autentico filtro narrativo che è, in buona sostanza, l’unico mezzo che ne nobilita l’essenza. Questo perché non esistono storie non degne di essere raccontate, ma esistono modi per raccontarle che trasfigurano la storia in avvenimento, in catarsi per chi ha la ventura di leggerla. E quel modo è lo stile.
Grazie a tutti per i numerosi commenti.
Per prima cosa ne approfitto per salutare Rosario Palazzolo.
Benvenuto a Letteratitudine, Rosario!
Come sempre (e nonostante la stanchezza) desidero ringraziare tutti gli intervenuti.
Grazie dunque a: Sergio Sozi, Franca Maria Bagnoli, Simona Lo Iacono, Ausilio Bertoli, Annamaria Sansone…
E grazie a: Luigi Romolo Carrino, Amelia Corsi, Claudio Morandini, Isabella Moroni, Enrico Gregori, Marco Manera (benvenuto a Letteratitudine), Alessandro Defilippi, M.Teresa Santalucia Scibona (in arte, Tessy)…
Un saluto e un ringraziamento speciale a Ale Zannoni (organizzatore dell’evento).
E ringraziamenti e saluti vanno anche a Gabry, Salvatore Scalisi, Chiara, Giuliana.
Un caldo benvenuto a chi, tra voi, interviene per la prima volta.
E poi… grazie mille anche a Carlo, Gea (bentornata!!!), Angelo Ricci.
In ogni vostra risposta ho trovato spunti interessanti…
Bellissime, quelle di Rosario!
@ Rosario Palazzolo
Quando hai iniziato a scrivere “Concetto al buio”, avevi ben chiara in mente la storia… o si è dipanata mentre scrivevi?
@ Alessandro Zannoni
Raccontaci (se puoi) qualche altro dettaglio sull’evento. Qualcosa in più sulla storia di questa manifestazione.
E poi, se ti è possibile… qualcosa sul luogo che ci ospita.
Di “Pozzoromolo” di Luigi Carrino ne abbiamo discusso qui: http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/11/02/pozzoromolo/
@ Alessandro Zannoni
Sarebbo bello che partecipassero alla discussione anche gli altri autori partecipanti a “Leggere fa male”.
Alessandro, potresti invitarli?
Forza, gente!
😉
Le domande che ho posto sono un po’ provocatorie… grazie per averle raccolte e aver fornito le risposte…
Forse la più provocatoria è questa…
–
State per andare in vacanza e siete costretti a scegliere un libro da portare con voi, tra i due seguenti: il primo – secondo i vostri gusti – è dotato di stile e linguaggio sopraffini, ma ha una trama ridicola; il secondo ha una trama avvincente e ben strutturata, ma linguaggio e stile sono decisamente mediocri.
Quale libro portate con voi?
Lasciatevi provocare, su…
🙂
Per oggi chiudo qui.
Una serena notte a tutti.
Concetto al buio nasce con le idee chiare, Massimo.
il tema mi girava in testa da parecchio tempo.
ma mi mancavano le coordinate, che sono arrivate pian piano.
per primo è arrivato Concetto, il mio personaggio, e insieme abbiamo passato notti insonni: occorreva trovargli una voce, un’identità, una lingua che fosse davvero sua e una faccia (una faccia, sì; perché io mi vedo i personaggi, prima, poi un corpo, dei vestiti…: è una mania che eredito dalla mia provenienza teatrale, una cosa che non mi dispiace).
lì ho iniziato a non salutare più la portinaia.
oramai è così: appena m’infilo davvero dentro la storia che voglio raccontare io non saluto più la portinaia.
non lo faccio apposta, mi capita e basta.
è un segnale di cui si accorge mia moglie.
mi dice, Non l’hai salutata, e io gioisco perché capisco di essere sulla buona strada.
poi prendo appunti, prendo appunti, prendo appunti.
e nel mentre ragiono.
così è stato con Concetto al buio: la storia era già dipanata, quando è stato il momento, ho dovuto “soltanto” trascriverla.
Massimo… ti sembrera’ strano, ma io… porterei con me il libro meno stilisticamente curato. Pero’ so che questo dibattito resta zero: la Letteratura, come anche tu sai e affermi, e’ un’omogenea opera d’arte, un affresco in movimento di stile, personalita’, individualita’ e senso storico, cioe’ senso del divenire, fabula, narrazione, catena di eventi. Il resto e’ robetta. La nostra e’ robetta, credo. La mia scrittura anche, si’, certo.
‘notte
Sergio
Si dice che ogni essere umano – anche un narratore, nel nostro caso – tenda a raggiungere, a scoprire le tante verità in vari modi, con vari mezzi, senza tregua, per istinto, nonostante oggi sia umanamente impossibile spiegare con tanto di dimostrazione l’origine e gli scopi ultimi della vita, del mondo, dell’universo. L’origine e gli scopi, si badi!
@ Rosario Palazzolo
Mi ha lasciato perplesso la frase con cui affermi che “Concetto al buio” (non l’ho ancora letto, ma ne sono attratto) nasce per esprimere un concetto, ovvero quello dell’impossibilità della verità. Intendi forse le verità ultime se non la Verità, quella comunemente indicata appunto con la vu maiuscola? Perché le tante verità personali, del mondo, delle cose che ci circondano stanno proprio nella dimostrazione. Soltanto nella dimostrazione. Ma stanno, sono tangibili, costituiscono il sostrato del nostro agire, delle nostre esperienze, speranze o attese, addirittura – a volte – delle nostre ipotesi sulla Verità. A mio giudizio, s’intende.
@ Simona
“Credo che l’arte della scrittura sia essenzialmente parola. Ma parola che si fa viaggio…”, scrivi acutamente.
E se io sostenessi che è soprattutto viaggio alla ricerca dei propri dolori, patemi, angosce, gioie, insomma della propria anima in modo da guarirla, se ferita, o ricostruirla, o palesarne e ostentarne le peculiarità, saresti d’accordo?
@ Carlo S.
Verissimo: arte e letteratura sono forme di comunicazione; c’è un comunicatore, un messaggio, un canale di comunicazione, un “universo ricevente” o destinatario (che – riflettendoci – può anche essere lo stesso comunicatore, nel caso dell’arte e della letteratura). Ma il messaggio c’è sempre.
Buona giornata.
Va bene, Massimo, sto al gioco!
In vacanza porterei con me…
il libro dalla bella trama e di scrittura sciatta. Lo leggerei soffrendo, sempre più smagato. E poi lo lascerei in albergo.
(Intanto continuo a pensarci: ma mentre mi vengono in mente numerosi titoli di libri corrispondenti a questa categoria, non me ne viene in mente nemmeno uno dell’altra, trama ridicola, davvero ridicola intendo, e scrittura sopraffina. Siamo sicuri che esistano, che non siamo dalle parti degli ircocervi? La risposta di Angelo Ricci, in questo senso, mi sembra convincente.)
Non so mai se prima di esprimere un parere siano necessarie delle premesse, una prefazione che dica chi sono, che aiuti a contestualizzare, poi sul “chi sono” casca l’asino che sarei io e non prefazio!
Mi piacciono poche cose, perché mi piace solo ciò che mi stupisce, in positivo possibilmente.
Mi piace Rosario: Ouminicch’ , ‘A cirimonia, L’ammazzatore e Concetto al buio, perché non è consueto, non è scontato , perché è personale. Sia che inventi o interpreti è autore o filtro emozionato e emozionante e quindi significante.
Della trama me ne infischio, è il pensiero nuovo che mi intriga e i pensieri nuovi nascono attorno a qualsiasi cosa faccia vibrare i nostri sensi, il nostro pensiero, noi.
A condizione ci sia qualcuno in grado di pensarli.
Dopo aver letto L’ammazzatore pensavo che il successivo libro di Rosario sarebbe stato più lungo … banale pensiero. In fondo cosa contano le pagine, chi conta le pagine?
Concetto al buio è molto più lungo! E’ circolare, si può ricominciare e ricominciare, va letto senza fine, è fitto di storie che si intrecciano, ha un po’ il tempo dei sogni che è ora ma anche prima e dopo e contemporaneamente. Ma non è solamente onirico, visionario, è realistico e critico e volutamente provocatorio come del resto è sempre il pensiero pensato per passione e non per dovere o educazione.
Di Rosario mi piacciono le stanze sia fisiche che psico-emotive , le porte e le finestre tentatrici che chiamano alla fuga ma che spesso annunciano un fallimento, necessario.
Mi piace la scrittura-torrente che aiuta le immagini e fa girare la testa, forse crea un varco nelle nostre coscienze televisive sedate e poi: zac! s’infila!
Scrivo a casaccio perché quando penso sono disastrosa! ( Forse questa sarebbe stata l’unica prefazione sensata).
Mi piace la “verità” che sento nei pensieri e nelle emozioni dei personaggi di Rosario, che lasciano ch’io mi identifichi. E’ vero il pensiero del fanciullo, della donna, del vecchio. E sento la contraddizione , lo spazio necessario alla contraddizione, la verità del molteplice. Un bravo scrittore per me è questo che deve saper fare, sentire e vedere prima di scrivere, trovare i personaggi in sé e ascoltarli…
E per finire apprezzo chi riesce a riconciliarmi con le parole, le amo ma mi procurano dolore, indipendentemente da ciò che dicono: ogni parola mi ricorda l’uso abominevole che ne è stato fatto, ogni suono mi ricorda suoni con cui ci hanno ammansito, addomesticato, addormentato, per me ucciso. Le parole dei giornalisti, dei dj, delle pubblicità, delle donne dal parrucchiere e degli uomini al bar e le parole dei medici, dei preti …
Ogni parola che scrivo mi fa un po’ male è come dovesse rinascere…
Le parole di Rosario sono vive, rinate, ci vuole tanto lavoro per dare un suono così vero alle parole.
A Milano è proibito pensare parole non autorizzare! Hanno messo maxi schermi per “consigliarti” cosa pensare nelle metropolitane, sugli autobus, dal dentista mentre mi trapanava ho visto Mussolini e la guerra, intanto però lui parlava di vacanze alle Maldive, non Mussolini, il dentista, e la testa una stanza gremita, forse più un cestello di lavatrice che centrifuga, che follia, collettiva.
Eppure tutto ciò che sta vicino alla follia individuale è più vero, vero?
E nella lavatrice c’è l’oblò, vero?
Per finire, le opere che ho più apprezzato di Rosario sono Ouminicch’ e Concetto al buio. Perché? E che ne so! Nicoletta
Caro Rosario, sono d’accordo che lo stile va sperimentato; non copiato, come purtroppo, magari senza rendersene conto, fanno in tanti. Aggiungo, per esperienza personale, che questo avviene attraverso la scrittua e non la lettura ( e qui mi pioveranno critiche a non finire) che sicuramente ha la sua importanza, non è dovuto un’assillante ricerca ma avviene in modo incoscio. Alla fine, lo stesso autore può cimentarsi in un noir o un testo brillante, ma in entrambi i casi lascia un’impronta riconoscibile, che lo contraddistingue da altri scrittori.
caro massimo,
mettere in piedi una manifestazione del genere – festival è un nome che non sopporto più, proprio come noir – non è così semplice, più che altro perchè devi sbatterti a trovare i soldi e i comuni sono sempre avari, per quanto riguarda l’editoria indipendente; loro vogliono nomi di richiamo, gente riconoscibile al popolino, i tipi della tivù quindi, altrimenti non se la sentono di “buttare” via il denaro dei cittadini (sigh).
è per questo che per tre stagioni non ho organizzato niente, quest’anno invece ho conosciuto un vero mecenate, pietro torrigiani, marchese fiorentino proprietario del castello di fosdinovo: gli ho spiegato la cosa, mi ha detto subito “gli autori li ospito io, gratis”, e allora in un’oretta ho ricevuto le adesioni agli incontri.
la scelta del posto è stata quasi forzata ma assolutamente gradita: Bocca di Magra (Ameglia, SP) è un paesino che sorge sull’intersezione del fiume magra con il mare; dal 1945 alla fine degli anni cinquanta fu luogo di ritrovo estivo di intellettuali e scrittori come Giovanni Pintori, Giulio Einaudi, Marguerite Duras, Franco Fortini, Elio Vittorini ed Italo Calvino; un ottimo auspicio per i partecipanti a “Leggere fa male/scrittori criminali, lettori fuorilegge” non trovi? il sindaco è un amico di vecchia data – quando partecipavo alla mostra del mercanteinfiera di parma gli davo uno strappo all’università, ma prima di scendere lui doveva aiutarmi a scaricare quadri e mobili – e trovarsi una manifestazione pronta e a costo zero non gli è sembrato vero; per contro mi ha pagato manifesti e affissioni. contenti tutti e due.
quindi agli autori e ai relatori offrirò una giornata al mare, una cena nel ristorante più conosciuto del litorale e una notte in montagna, al castello.
cosa volete di più?
nel frattempo ho avvisato gli scrittori partecipanti, e spero si facciano sentire presto – giusto, sacha?
Sacha io?
Salve a tutti 🙂
(anche a te, favetta dello Zannoni)
e poi… inizieremo alle 19,30; nell’intervallo tra un autore e un altro, suoneranno i miei amici della southside blues band, quelli che mi accompagnano in giro per l’italia nelle presentazioni; gente di uno spessore tecnico e umano da far invidia ai grandi del blues. e mentre li sentiremo suonare potremo bere vino fresco e mangiare focaccia fatta in casa, giusto per fermare l’appetito e arrivare alla conclusione della serata e andare – per chi vuole – a mangiare tutti insieme, autori e spettatori, al ristorante la capannina di ciccio.
giovedì 22 invece, nell’intervallo, shooting fotografico ad opera di daniele barraco per tutti i partecipanti, ma proprio tutti, e conseguente entrata di diritto nel librodei ricordi della manifestazione.
bè, sacha, tutto qui?
parla, di qualcosa, esterna…
🙂
ultima cosa, la più importante: bernardi non presenterà un suo libro, sarà presente come relatore sul romanzo di naspini – i cariolanti – ma, ancora più importante, parlerà a ruota libera sull’editoria; un assolo che spero lascerà il segno, con l’aiuto di francesco forlani alle domande che vorrei fossero il più cattive e provocanti possibile.
E pure io mi lascio provocare. Come Claudio, sono una di quelle che porterebbe quello con la bella trama. Perché mi piace lasciarmi cullare dal racconto di una storia, anche se lo stile non è impeccabile.
C’è una cosa che vorrei dire riguardo ai romanzi di Rosario: ho avuto la fortuna di assistere a uno spettacolo messo in scena da Rosario e da Luigi Bernardi; sono uscita dalla sala frastornata, colpita in pieno da quel “pugno nello stomaco” che sanno essere le sue opere. E credo che i suoi libri rendano meglio se letti ad alta voce, perché sono vere e proprie messe in scena. Le pagine stesse dei suoi romanzi non sono un insieme di segni, ma simboli che Rosario manipola per plasmare meta-trame come frammenti di un mosaico.
E c’è una cosa che mi piace dei “Babele” PerdisaPop: che sono piccoli oggetti ossimorici. Poche pagine, come a far intendere lettura veloce, mentre in realtà contengono vere e proprie cariche deflagranti, romanzi di spessore che richiedono una lettura lenta, calibrata (come il caso di Rosario) o molte riletture (prendi “Biondo 901”), prima di essere soddisfatti. Proprio di Claudio Morandini, confesso, mi piacerebbe leggere un “Babele”.
forse un esempio di romanzo tutto incentrato nello stile e nel linguaggio e con una trama ridicola e l’Ulisse di Joyce, libro che non sono mai riuscito a digerire (probabilmente per un mio limite).
Il libro di Rosario non l’ho ancora letto, lo farò presto, di sicuro. E sì, Luigi Bernardi mi presenterà alla manifestazione LEGGERE FA MALE, questo mi crea dei discreti batticuore e qualche sciame di mosche dentro agli occhi. Quelle cose tipo “non vedo l’ora” e “aiuto, sta arrivando troppo presto” insieme
cara barbara, grazie.
i tempi stanno per cambiare, lo spettacolo che ho scritto con bernardi, m’era quasi passato di mente.
il teatro ha il difetto dell’immaterialità, come dicevo.
più avanti si va e meno ci rimane di ciò che è stato, altre prove e altre suggestioni più baldanzose ci prendono di soppiatto.
sicuramente hai ragione, mi porto dietro il teatro, qualunque cosa mi capita di scrivere.
nel caso specifico, penso che concetto al buio abbia una struttura troppo complessa per immaginarsela scomposta su un palco.
ma per la voce, sì, mi pare che tu abbia ragione.
concetto al buio è un testo che si presta all’oralità.
ci vediamo presto.
È sempre un grande piacere rincontrarti, Rosario, le occasioni sono rare, ma preziose.
E… scusami! Non mi sono espressa come avrei voluto. Nel dire “messa in scena” mi figuravo una cosa che non ha niente a che fare con la vera messa in scena del teatro, ma una messa in scena sulla pagina dei personaggi, a nudo nella loro incompletezza, nel flusso dei pensieri attraverso cui tenti di dare corpo alla loro immaterialità. Grazie a ciò che ho visto dei tuoi spettacoli ho “imparato” a leggere i tuoi romanzi, come partecipando attivamente alla creazione dell’opera.
Buongiorno a tutti, ho saputo di questa discussione pochi minuti fa. Sono una persona distratta. Sono stato invitato da Alessandro a partecipare, cioè, mi ha minacciato. In realtà sto contando il tempo che manca alla scampagnata che ci porterà a Bocca di Magra. Conoscerò finalmente Barbara che ho mancato al Salone del Libro di Torino e tutte le persone con le quali ho scambiato messaggi e sensazioni in questi mesi di FB. Alcuni dei romanzi di cui si parla li ho già letti, altri non ancora.
Ad ogni modo mi presento per coloro che non mi conoscono (i più):
Enrico Pandiani, grafico editoriale per costrizione, scrittore di romanzi polizieschi per disperazione. Ho pubblicato il romanzo Les italiens nel 2009 e Troppo piombo nel 2010, entrambi con l’editore Instar Libri.
i miei protagonisti sono una squadra della Brigata Criminale di Parigi, il commissario Mordenti, il capoccia, Servandoni, il suo secondo nonchè figura paterna, eccetera eccetera, Coccioni, il pasticcione, Leila Santoni, la tipa e Didier Cofferati, la recluta. Siccome più o meno tutti quanti sono di discendenza italiana, i colleghi alla Crim li chiamano les italiens o, più appropriatamente, gli italiani del cazzo.
Mi fermo qui, altrimenti con Enzo “Body Cold” Carcella dovrò poi fare scena muta. Aspetto con trepidazione di incontrare tutti gli amici.
Leggere un libro è come vedere un quadro e dopo averlo guardato dici” mi piace o non mi piace”. Se ti piace allora ne sminuzzi la riflessione sullo stile e sul linguaggio, sulle trama e sull’epilogo.
Un libro, un romanzo, si può leggere per diversi motivi: per passare il tempo, perchè è inneggiato dalla critica, perchè qualcuno te lo ha consigliato, perchè eri alla stazione, ti è piaciuta la copertina,e lo hai comprato……. perchè conosci l’autore ecc…perchè rientra nel genere che preferisci. Oggi nella società delle forti emozioni si prefesce il noir. Comunque la motivazione e la preferenza di genere orienta sempre il giudizio e la valutazione.
Oggi il romanzo impegnato nella trama, nel linguaggio e nello stile non esiste perchè l’editoria è più attenta alla commerciabilità, quindi la letteratura abbonda di retorica ideologica,ed è poco attenta all’ingegneria narrativa,alla semantica ed alla semiotica. Come dice U.Eco la nostra letteratura vuol far passare per trasposizione letteraria fonti filosofiche mentre in effetti la fonte risiede nel “Conte di Montecristo”. Lo scrittore è sempre un Dumas che scrive per provocare reazioni democratiche e anti…qualcosa, ma spesso non si accorge di costruire figure alternative che diventano emblema di un super…eroe…super…uomo ecc da contrapporre al romanzo feudal-borghese di Flobert.
Personalmente i romanzi più belli li ho letti non tra quelli scritti da coloro che provengono dal professionismo della scrittura( che sono diventati professionisti dopo il successo del romanzo spontaneo) ma tra quelli che ad un certo punto della loro vita si siedono e scrivono perchè un mondo si agita dentro ed hanno bisogno di sbarazzarsene comunicandolo. Dewey diceva infatti “Non è importante dire qualcosa, ma avere qualcosa da dire”. Questi scrittori improvvisati che non fanno cassetta, sanno dare una veste linguistica e stilistica alla marea delle idee e delle esperienze, affascinarti ed incantarti per cui non ti accorgi neanche delle disfunzioni linguistiche e non senti il bisogno di consultarti nè con Chomsky, nè con Suassure, perchè trattano il linguaggio come fosse una persona la cui identità può cambiare nel tempo pur mantenendo ferma l’autenticità.
Personalmente, qui in campagna, mi sono portata Charles Bukowski “La canzone dei folli”.
bellissima discussione.
fra stile e trama, preferisco lo stile.
un saluto a tutti e complimenti a Palazzolo.
e in bocca al lupo per la manifestazione ‘leggere fa male’.
nessun problema, barbara, per carità.
del resto, come ti dicevo, è vero: io tratto la narrativa come il teatro e il teatro come la narrativa.
tento di far sentire i racconti, di raccontare le immagini.
Mio caro Massi, mi aspettano sul tavolo della camera-studio, quattro libri ponderosi, di ottima scrittura, trama carsica e concetti da rileggere più volte per riflettere ed annotare i passi salienti.
Però, con questo caldo che leva il respiro, ho ripreso in mano “Zia Mame”
di Patrick Dennis (Adelphi) e, nella stanza più fresca di casa mia, dove tre piante sfiorano il soffitto e alcuni vasi sono fioriti, trascorro le vacanze. Leggiucchio tra una bibita fresca e l’altra, sfoglio una rivista e ogni tanto, a passi lenti e felpati… vado a sbirciare il computer e mi chiedo:- C’è posta per me? Dimenticavo.. il sabato e la domenica vengono a trovarmi gli amici e lo scenario si anima!
Una vita semplice, elementare, da rimbambina… che scherza per non piangere….
Tessy
Grande, Tessy!!!
Forza e coraggio.
E grazie di cuore per i tuoi interventi qui a Letteratitudine.
Qui ci sarà sempre posta per te… e per la tua poesia!
😉
Ringrazio tutti per i nuovi commenti.
Ne approfitto per chiedere a Rosario Palazzolo (come faccio sempre con gli amici scrittori che ospito in questo blog) la disponibilità a farci leggere – se possibile – qualche brano tratto da “Concetto al buio”.
Che ne dici, Rosario?
Magari qualche brano (anche uno solo) particolarmente significativo…
Ne approfitto pure per ringraziare e complimentarmi con Alessandro Zannoni per la bella iniziativa che ha messo in piedi.
“Leggere fa male” è una frase che colpisce e attira.
A volte bisogna stare male per crescere… dunque leggete, amici!
@ Sergio Sozi
Scrivi: “la Letteratura, come anche tu sai e affermi, e’ un’omogenea opera d’arte, un affresco in movimento di stile, personalita’, individualita’ e senso storico, cioe’ senso del divenire, fabula, narrazione, catena di eventi. Il resto e’ robetta. La nostra e’ robetta, credo. La mia scrittura anche, si’, certo.”
–
Concordo. Soprattutto con la frase finale.
(scherzo, eh)
😉
@ Claudio Morandini
Ti chiedi: ma esistono davvero libri con la scrittura sopraffina e la trama ridicola?
Secondo te?
Secondo gli altri?
–
(P.s. La provocazione ha funzionato).:-))
Grazie mille a Ausilio Bertoli, a Nicoletta Bernardi e a Salvatore Scalisi per i loro interventi.
@ Sacha Naspini
Grazie per essere passato, Sacha.
Tu avrai l’onore di essere presentato da Luigi Bernardi, che introdurrà il tuo bel romanzo “I cariolanti” (Elliot).
Ne approfitto per riproporre la tua intervista radio rilasciata a Fahrenheit
Barbara Baraldi (ciao, Barbara!) è stata nostra ospite qui (per il romanzo “Scarlett”): http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/06/16/scarlett-di-barbara-baraldi/
Ma nella manifestazione “Leggere fa male” si parlerà di quest’altro libro: http://www.castelvecchieditore.com/catalog/title/?cmd=ext&title_id=659&subclass=
Un saluto di benvenuto a Enrico Pandiani.
Del suo “Les italiens” (Instar) ne ha parlato a Fahrenheit, qui
Un caro saluto e ringraziamenti a: Mela Mondì, Laura e Amedeo.
@Massimo. Bellissima discussione. Non ho tempo per un intervento approfondito perchè sto per partire in vacanza. Ho le valigie pronte. I migliori auguri a Rosario Palazzolo, che mi sembra un tipo in gamba. Quale libro porterei? Di sicuro non un libro di Sergio Sozi. Gesù! Non vorrei rovinarmi le vacanze.
Grazie, Salvo. Buona vacanza.
Per la verità sono anch’io in partenza per una settimana di vacanza a partire da sabato.
A tutti voi una serena notte.
Un saluto, in ritardo, a tutti.
Anch’io quoto Ricci… anche per assonanza con me!
🙂
Torniamo seri: trama, stile, scrittura… sono concetti che non hanno senso se non in quanto elementi strutturali di un’opera. Un organismo vivente può essere sezionato: sappiamo a cosa serve un fegato, un cuore, sappiamo come funzionano gli apparati, ma senza l’insieme, la vita, tutto rimane a pezzi su un tavolo anatomico.
Un libro è i personaggi, è la trama, è le parole che fanno agire pensare accadere. Trama e stile sono come mente e spirito, anima e corpo, un’unità inscindibile specie nelle grandi opere.
La Cappella Sistina è un unicum in cui il concetto – il Giudizio Universale, wow che trama! – è espresso con stile vigoroso, superbo, spettacolare.
E potremmo continuare.
Libri per le vacanze: quelli in cui stile e trama siano un tutt’uno, in cui QUELLA PARTICOLARE COSA dev’essere detta in QUELLA PARTICOLARE FORMA e non in un’altra.
ecco un assaggio (pure se così mi saltano tutti i corsivi; per favore, immaginatevi i corsivi)
* * *
…mi sentivo come un certo signor caio, mettiamo, che un brutto giorno si trova davanti a uno strapiombo col mare in tempesta, già sente il voltastomaco delle vertigini e pensa al modo in cui si sfracellerà e cerca di immaginarsi il dolore, ma proprio nel momento esatto in cui sta lasciandosi andare al suo destino, si accorge che c’ha ancora una possibilità, un bel colpo di culo improvviso: alle sue spalle c’è un pirtuso stretto e scuro, un pirtuso di cui non si era accorto prima, un pirtuso che gli pare l’unica soluzione possibile, e il signor caio, pieno di speranza, pensa
magari se m’infilo nel pirtuso mi salvo,
e allora ci si infila veloce e mette a camminare allegramente, ogni tanto si guarda intorno fischiettando al mondo la sua voglia di vivere, ma all’improvviso succede il papocchio, succede che un’incertezza balorda comincia a masticargli ogni pensiero, e più s’infila nel pirtuso più il signor caio perde di vista il senso più profondo di quel suo viaggio, ovvero che è solo un viaggio, nient’altro che un viaggio, e siccome è un viaggio nient’altro che un viaggio lui dovrebbe soltanto viaggiare, tirare diritto fin quando è diritto, svoltare se c’è da svoltare, invece si ferma, e la testa gli comincia a sviluppare dei dubbi spaventosi, tutte le domande degli impirtusati
ma è un pirtuso davvero sicuro, questo?
e quanto sarà lungo?
e per quanto dovrò camminare?
e a che velocità?
ci saranno pericoli, nel mentre?
ma soprattutto, una volta arrivati alla fine del pirtuso, siamo sicuri che non ci saranno altri pirtusi?
siamo sicuri che non passerò la mia vita a infilarmi nei pirtusi?
insomma: questo di ora è o non è un pirtuso definitivo?
e qua, finita la speranza, il signor caio piglia a riflettere per ore e ore indeciso sul da farsi, se tornare indietro e buttarsi dal burrone (che almeno così c’avrebbe una morte tutta bella organizzata
se mi butto di testa non c’avrò manco il tempo di pensare…)
oppure continuare a infilarsi nel pirtuso dove alla fine del pirtuso chissà che tipo di morte lo aspetterà, o che tipo di vita, e più passa il tempo più il signor caio si strapazza di ragionamenti, perde ogni minuto della sua esistenza a riflettere così, si vive una vita che sa solo immaginarsi qualche altra vita, piena di conteggi e convenienze, una vita che non c’avrà manco uno schifo di vita di cui lamentarsi… io no, io, pure se nel mentre la testa mi sbummicàva tantissime domande cornute e contente, pure se mi gridava
che sì! che sì!
che c’erano tanti pericoli, che il pirtuso in cui mi stavo infilando era un pirtuso a perdita di pirtuso, lo stesso non mi sono fatto fottere dal dubbio, e difatti, per secondo, ho preso a starmi immobile senza fare niente, fermo impalato, lasciando che il ragionamento si pigliasse tutto il tempo che gli serviva, facesse conto di tutte le cose che si sarebbe dovuto figurare, persino le virgole, certe volte mi dicevo
concetto, infilati in questo viaggetto, amunì!
tanto per darmi coraggio, altre volte mi facevo dei trabocchetti per vedere se la cosa straordinaria che avevo pensato rimaneva straordinaria pure nell’atto pratico, e ci rimaneva, buttanissima, e allora mi gridavo delle frasi del tipo
vai concetto… sei il più furbissimo… c’hai il cervello che ti fuma…
e altre cose a uso queste, e così sono stato a riflettere e a fare niente fino a quando questo riflettere e questo fare niente non mi hanno scassato troppo la minchia, non appena me l’hanno scassata, non appena mi sono sentito proprio sicuro sicuro, convinto preciso, mi sono alzato e sono andato alla scrivania, mi sono seduto sulla sedia, ho stirato bene un quaderno, ho pigliato la penna e
ce la farò in una settimana?
mi sono chiesto,
ce la farò, ce la devo fare!
mi sono gridato, e ho cominciato a scrivere questa storia del pirtuso, e adesso, visto che oramai l’ho scritta, visto che potrebbe scassarti i cosiddetti una premessa così complicata, che se questa è la premessa figuriamoci tutto il resto, e allora ti dico evita, ti dico che sei ancora in tempo, ti dico girati dall’altra parte, ti dico continua a guardarti gli uccelli del cielo, guardati il sole, ti dico guarda tutto quello che ti pare basta che non guardi verso di me, anche se vorrei dirti il contrario, vorrei dirti ti prego, vorrei dirti ho paura, vorrei dirti di aprirti per bene le orecchie, gesù mio, che ho bisogno di te, ho bisogno di un amico silenzioso e immobile, di un fratello invisibile, di un santo che è il più migliore santo di tutti i santi del cielo ma che è anche un uomo fatto di carne e schifezze… e allora facciamo finta che sia così, facciamo finta che tu ci credi, che sei un chicchessia all’oscuro delle disgrazie dell’umanità, lo so, tu mi conosci bene per via che ci siamo incontrati nelle tante preghiere che ti ho fatto, e sono sicuro che conosci pure il motivo di questa cosa, il perché e il percome ho deciso di scriverti così, e perciò, visto che sei il più grandissimo, fai una cosa piccola per me, caro gesù: da adesso in poi, e per tutto il tempo del mio racconto, non ti mettere nessuna espressione, fatti di niente, scancellati, ascolta la storia che infilerò dentro al foglio e non spiccicare parola, perché solo così potrò scrivere senza vergogna tutto quello che è successo, solo così potrò azzerare per poi ricominciare daccapo… e allora sei d’accordo? ci stai a questo giochetto? ci stai a scancellarti da ogni dove? grazie gesù mio, adesso schiodati dalla croce e scomparisci, per favore.
Mi piace. Mi piace anche se non l’ho ancora letto. Un bimbo che scrive una lettera a Gesù ritenendolo il suo più grande amico, uno con cui si può litigare. Causa del litigio? La croce. La sofferenza del buio, l’urlo di chi vorrebbe uscire dal ventre ourobotico e quindi finalmente nascere o rinascere, la rivolta contro una terra teatrale, la Sicilia, che ha sostituito la teatralità alla verità e guai, dico guai a voi, se cercate una ruolo diverso da quello che vi è stato assegnato, tutti gli altri “attori sociali” (lavoro, famiglia, etc) dovrebbero cambiare i personaggi che li possiedono, e questo non si può, si vedrebbe troppa luce! Pirandello quando qualcuno cercava la verità lo faceva diventare pazzo o pazza, le sue trame alla fine sono tutte uguali, il suo labirintico esistere è non ha vie d’uscita, il molteplice vince sull’unicità, la “triazzata eterna” sulla speranza e sulla fede; in un bel libro di Lo Cascio ho letto che un giorno, mentre il noto drammaturgo si radeva guardandosi allo specchio, un coro di voci gli dilaniò le viscere, erano gridi angoscianti di personaggi non più tali a lui divenuti scomodi gli che urlavano “fammi uscire”, un po’ come il tuo bimbo chiuso nell’oscurità di quattro pareti soffocanti che invoca Dio con i suoi messaggi dentro una bottiglia.
Caro Rosario, spero di conoscerti presto. Nel frattempo mi permetto di consigliarti un libro meraviglioso (i classici della filosofia) che, se non l’hai ancora letto, sono sicura ti piacerà moltissimo, e che s’intitola “Saggio sul problema della Sincerità” di Regis Jolivet. Il testo si divide in due parti , la prima “Della comunicazione con se stessi” la seconda “Della comunicazione con gli altri”, ed io concludo in riferimento a quanto da te accennato a proposito della soggettività e dell’oggettività che “ la coscienza deve essere riconosciuta da un’altra coscienza che, a sua volta, deve riconoscere”, questo avviene al di là dell’ego, è senza opinioni /interpretazioni personali, spesso non necessita di verbalità, è pulito, oggettivo, logico in quanto palese. I bambini ci arrivano molto prima. Gli adulti è meglio che tacciano. Punto.
Un caro saluto a Luigi Bernardi e a Maria Lucia Riccioli.
@ Rosario
Grazie per il brano “postato”.
E grazie anche a Rossella per il suo intervento…
“Letteratitudine” sostiene la giornata del silenzio dell’informazione italiana.
Per oggi, venerdì 9 luglio 2010, per tutta la giornata e fino a stasera, non sarà possibile rilasciare commenti su questo blog.
–
P.s. Per Rosario: conclusa la giornata del silenzio inserirò i corsivi al tuo brano.
Dopo questa giornata di silenzio, ripristino la funzione commenti del blog.
(Scusate il disagio arrecato).
@ Rosario
Ho appena provveduto a inserire i corsivi del tuo brano. 😉
Sono in partenza.
Andrò in vacanza per una settimana… e ho deciso di lasciare in primo piano questo post.
D’altronde credo che gli argomenti di discussione non manchino.
Oltre ad approfondire la conoscenza di “Concetto al buio” mi piacerebbe conoscere anche un po’ meglio gli altri libri coinvolti nella manifestazione.
Li elenco, di seguito…
– “Pozzoromolo” di L. R. Carrino (Meridiano Zero); ne abbiamo parlato ampiamente qui http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/11/02/pozzoromolo/
– “I cariolanti” di Sacha Naspini (Elliot)
—
Campagna toscana, 1918. Per non partire soldato nella Prima guerra mondiale, un uomo nasconde suo figlio di nove anni e sua moglie in un buco scavato nel bosco. Lì dentro la famiglia passa quasi tutto il tempo, il padre esce solo per prendere l’acqua e per cacciare, ma a volte il cibo non si trova e allora bisogna affondare le dita nella terra umida per vedere se salta fuori un baco o una radice da masticare, oppure rassegnarsi a mangiare carne umana. Inizia così l’avventura di Bastiano, che cerca di riscattare la sua vita solitaria e animalesca innamorandosi di Sara, la figlia del padrone per cui va a lavorare come aiutante stalliere. Ma il fango quasi mai incontra la luce, e allora finirà per sporcarsi totalmente, uccidere colpevoli e innocenti, scappare, trasformarsi in un animale da preda, perdersi, per poi ritrovarsi anni dopo in quella tana in mezzo al bosco, la sua vera casa. “I cariolanti” è un romanzo di deformazione, selvatico e rabbioso, dove la vera protagonista è la bestialità, non la bestialità malvagia e gratuita, ma quella istintiva e viscerale di chi uccide per sopravvivere. Una favola nera in tredici istantanee dove si respirano atmosfere che vanno da Truffaut a Stephen King, alle “Fiabe italiane” di Calvino.
http://www.ibs.it/code/9788861921054/naspini-sacha/cariolanti.html
– “Lullaby. La ninna nanna della morte” di Barbara Baraldi (Castelvecchi)
–
Una ragazzina fragile, un aspirante scrittore, un uomo alle prese con un’inquietante crisi personale e una madre soffocante. Tutti insieme, avvinti dall’orrore, si ritroveranno uniti da una catena di omicidi apparentemente inspiegabili e decisamente efferati. Sulla via della salvezza, soltanto una traccia di sangue che danza al ritmo di una ninna nanna mortale. Una musica ossessiva e un pugno di domande spaventose: cosa spinge una giovane studentessa a sprofondare in continue crisi di autolesionismo? È possibile uccidere nel nome della dea Ispirazione? Quale segreto è nascosto nel passato di quella che sembra una famiglia modello? Lullaby è una struggente melodia da cui non è possibile liberarsi, un incubo a occhi aperti, la macabra visione di un assassino prigioniero del suo stesso rituale.
http://www.ibs.it/code/9788876153785/baraldi-barbara/lullaby-ninna-nanna.html
“Les italiens” di Enrico Pandiani (Instar libri)
–
Una gragnuola di proiettili sparati attraverso la finestra devasta un ufficio della Brigata Criminale di Parigi straziando le persone che si trovano all’interno. Tre agenti e una donna rimangono sul pavimento in un lago di sangue. La squadra de «les italiens» viene decimata prima ancora di cominciare le indagini. Il commissario che la dirige, poliziotto disincantato e un po’ indolente, assieme ai suoi flic di origine italiana si trova ben presto coinvolto in una feroce caccia all’uomo. È costretto a fuggire attraverso una Parigi assolata braccato da un gruppo di sicari senza scrupoli che non si fermano davanti a nulla pur di eliminare lui e la bellissima pittrice transessuale che si trova tra i piedi. Suo malgrado, tra litigi e malumori, deve proteggere e salvare quella giovane donna piena di sorprese. Un viaggio infernale che li porta lentamente a scoprirsi spingendoli l’uno verso l’altra, cambiando la loro prospettiva e rimettendo in gioco le loro convinzioni.
http://www.ibs.it/code/9788846100993/pandiani-enrico/italiens.html
E poi… c’è il nuovo romanzo di Alessandro Zannoni
(Ale, parlaci un po’ di questo tuo libro)
–
Riferimenti nel commento a seguire…
“Imperfetto” di Alessandro Zannoni (Perdisa Pop)
–
Il cadavere di un ragazzo viene ritrovato in un bosco, lungo una strada di provincia, nudo e malridotto. Nessuno sa che dietro al delitto c’è una mente criminale meticolosa e folle. Dopo un anno di indagini non si è arrivati a niente. La vittima era il figlio di un personaggio influente della zona e le pressioni della famiglia sono diventate un problema. Serve un parafulmine. Eccolo: Merisi, investigatore privato, quarant’anni appena compiuti e un matrimonio a scatafascio… Sulfureo, nero e trascinante, già uscito in edizione autoprodotta nel 2006 con un tale successo da richiedere un’immediata ristampa, “Imperfetto” conferma il talento del suo autore con una miscela impeccabile di suspense, ingegno e causticità.
http://www.ibs.it/code/9788883723919/zannoni-alessandro/imperfetto.html
Alessandro… anche il tuo libro rientrerebbe bene nel gruppo dei “Leggere fa male”, n’est pas?
😉
Vi ripropongo anche le domande del post…
Nella “economia” di una storia che ruolo giocano linguaggio, stile e trama?
–
Tra linguaggio e stile (da una parte) e trama (dall’altra) – premesso che dovrebbero sempre amalgamarsi in maniera simbiotica e sinergica – chi riveste (o dovrebbe rivestire) il ruolo prevalente?
–
a) Linguaggio e stile sono a servizio della trama. b) La trama è condizionata da linguaggio e stile.
Quali, tra le suddette affermazioni, vi sembra la più condivisibile?
–
State per andare in vacanza e siete costretti a scegliere un libro da portare con voi, tra i due seguenti: il primo – secondo i vostri gusti – è dotato di stile e linguaggio sopraffini, ma ha una trama ridicola; il secondo ha una trama avvincente e ben strutturata, ma linguaggio e stile sono decisamente mediocri.
Quale libro portate con voi?
–
L’importanza che si attribuisce a linguaggio, stile e trama può variare a seconda del “genere letterario” di riferimento?
Parto in vacanza e vi auguro buon fine settimana (e buon inizio di settimana prossima).
–
Mi raccomando… fate i bravi, eh!
(Non in senso “manzoniano”)
😉
vacanza pure, massimo.
(grazie per le virgole e gli asterischi)
grazie massimo del pensiero verso il mio libro, ma non voglio togliere spazio a rosario e neppure a quegli altri scavezzacollo che parteciperanno a “leggere fa male”. lascio invece un articolo di Luigi Mascheroni (Il Giornale – 28/10/2008) che può essere una delle infinite chiavi di lettura di “leggere fa male”…
Questo è un articolo-provocazione per estinguere il mito che “basta solo leggere”. Leggere è importante per studiare, apprendere, ma non è garanzia di formare una mente elastica e moderna! Quante volte vi è capitato di parlare con un lettore accanito e vi accorgete senza ombra di dubbio che ha una mente ottusa?Quanti laureati avete incontrato che non applicano la loro conoscenza nella vita (esempio un dietologo grasso, un pneumologo fumatore……) Quante persone dotte che leggono decine di libri all’anno non sanno leggere un messaggio di errore sul monitor di un computer e vi chiedono aiuto? La verità, contrariamente a quello che pensa la maggior parte della gente, è che i libri sono pericolosi. Non soltanto spesso sono inutili, ma addirittura possono fare danni, persino peggiori di quelli prodotti dall’ignoranza. Leggere fa male, molto male. È un concetto difficile da accettare, soprattutto in tempi come i nostri di bestsellerismo imperante, di editoria over-size, di mega-store pieni zeppi di «novità», di super festival del libro e della letteratura (dove tutti vogliono vedere, già meno ascoltare, quasi mai leggere). Un concetto difficile da accettare in un Paese come il nostro dove si pubblicano tra i 60 e i 70mila libri all’anno ma dove meno del dieci per cento degli italiani legge più di un libro al mese. Un concetto difficile da accettare in questo sovraffollamento di titoli dove l’abbondanza soffoca la qualità e le parole scritte superano quelle lette. Un concetto difficile da accettare ma sul quale vale la pena riflettere se a suggerirlo è una delle menti più sottili e brillanti del suo tempo, come lo fu Arthur Schopenhauer (1788-1860). Il suo scritto Sulla lettura e sui libri (in realtà un paragrafo dei celebri Parerga e paralipomena, che oggi la casa editrice La vita felice pubblica in una edizione «autonoma» con testo tedesco a fronte, pagg. 60, euro 6,50) è, in questo senso, illuminante. Una vera arte del non leggere. Il filosofo tedesco, attorno al 1850, metteva in guardia dal leggere. Soprattutto dal leggere troppo e dal leggere male. «Quando leggiamo, qualcun altro pensa per noi: noi ripetiamo solamente il suo processo mentale… quando si legge ci è sottratta la maggior parte dell’attività di pensare… Quindi accade che chi legge molto e per quasi tutto il giorno, piano piano perde la facoltà di pensare. Questo è il caso di molti dotti: hanno letto fino a diventare sciocchi». E più avanti: «Tanto più si legge, tanto meno ciò che si è letto lascia tracce nello spirito: diventa come una lavagna su cui si è scritto troppo e in modo confuso». Schopenhauer è implacabile: dice che leggere paralizza la fantasia, che siamo circondati da «cattivi libri» («nove decimi della nostra attuale letteratura non ha altro scopo che spillare qualche tallero dalle tasche»), che occorre leggere solo i classici e semmai rileggerli due, tre, quattro volte. Perché la vera letteratura «produce in un secolo in Europa solo una dozzina di opere durature». E poi è anche questione di tempo: «Sarebbe una bella cosa comprare i libri se si potesse comperare il tempo per leggere, ma si scambia per lo più l’acquisto di libri con l’acquisto del loro contenuto». A questo punto, allora, torna utile anche un altro consiglio, non di un filosofo tedesco ma di uno scrittore italiano: Luciano Bianciardi (1922-1971). Il quale nelle sue «Lezioni per diventare un intellettuale, dedicate in particolare ai giovani privi di talento» (uscite a puntate sul settimanale ABC nel 1967) spiega per filo e per segno, con la consueta ironia e l’altrettanto consueto pessimismo, come si può diventare «un uomo di successo nel mondo della cultura» anche senza cultura, appunto. Insomma, cari intellettuali (ancora in pectore o già in auge), come intima il titolo della nuova edizione in volume di quelle preziose lezioni (Stampa Alternativa, pagg. 94, euro 9): Non leggete i libri, fateveli raccontare.
qui spazio ce n’è tanto, zannoni.
puoi tranquillamente prendertene un pochino pure tu.
la distinzione tra forma e contenuto si può forse operare in sede di analisi di un testo, ma non mentre si legge. la lettura avvincente è possibile se stile e linguaggio catturano unitamente ad una trama non piatta. qualche tempo fa ho cominciato con curiosità un libro di un autore di cui ho sentito parlare qui, racconti thriller. ho smesso, nonostante le trame, perché era scritto molto male, con “errori” di forma non giustificati dal punto di vista che era quello di un narratore estraneo alla vicenda e non dichiarato come incolto. che bisogno c’è di scrivere “male” se non è motivato dalla caratterizzazione del personaggio e/o del narratore? l’ho trovato un disturbo inutile. quindi stile e linguaggio sono inevitabilmente connessi al genere e al taglio che si vuole dare all’intreccio, alla materia narrata, al genere, al punto di vista. sempre che non si voglia produrre un effetto di rovesciamento con effetto comico. ma se la storia va presa “alla lettera” val la pena adeguare i registri alla materia e alla tipologia dei personaggi. sarà un principio antiquato, ma funziona.
Carissimo Rosario,
credo che tu abbia scritto come si dovrebbe sempre scrivere, creando “la voce”, il timbro, i pensieri che rimbombano in testa, scegliendo le parole di chi dice per come si sono viste affiorare in se’, da bambino e da viandante, da ricercatore, da umilissimo partecipe dell’umanità.
Bellissimo quel volere un Cristo vicino, piccolo, alla portata di chi si deve schiudere. Bellissimo quel suo scomparire , anzi “scancellarsi”, per dare spazio, per fare posto, per consentire al fiato di dipanarsi.
Ecco, sono questi gli esempi più luminosi di parola che si fa viaggio. La scelta adatta al ritmo del cuore, la parola voluta sul dorso di un senso, trovata tra le altre perchè più di altre sa dire, suggerire, indurre. Emozionare.
Per esempio dove dici
“vorrei dirti di aprirti per bene le orecchie, gesù mio, che ho bisogno di te, ho bisogno di un amico silenzioso e immobile, di un fratello invisibile, di un santo che è il più migliore santo di tutti i santi del cielo ma che è anche un uomo fatto di carne e schifezze… ”
le parole sono già trama, sono dilatazione del sangue e della fragilità, ricerca che approda lì, nell’invoazione infarcita di paure e titubanze, ma anche di feroci certezze: guardarsi se l’altro non ci guarda, se ci offre tregua e forse pure la finzione di non conoscerci, scrivere di noi come su un foglio, quando il lettore è lontano e tu non pensi a lui, pensi solo che è davanti a quella nudità di carta e spazi che puoi esistere.
Bravissimo con tutto il cuore, e con tutto il cuore continua così.
Simona
Carissimo Ausilio,
intanto un affettuosissimo abbraccio.
E poi certo che sono d’accordo, caro amico. La parola che si fa viaggio non è mai fine a se stessa. E’ anzi la parola che aderisce alla ferita, la racconta sanandola, la adempie dandole senso.
Ho sempre creduto che la scrittura sia un affondo alla ricerca del mistero d’esistere. In questo senso sono d’accordissimo con Rosario quando si dibatte sapendo che la verità sfugge e vola oltre noi, che è inafferrabile e vasta, o forse piccolissima e poi ancora imprendibile. Che, insomma, ci sovrasta e – soprattutto – è difficile da raccontare.
Allora meglio raccontare quel cammino verso di essa, impossibile da concludere, meglio sentirsi vivi in quel viaggio e urlarlo dall’incavo del cuore. Meglio farselo scivolare sulla lingua e sulla penna sapendo, però, che proprio viaggiando, proprio resuscitando nella parola noi e i nostri noi nascosti, o i noi che non sapevamo di essere, adempiamo al segreto della scrittura.
Che non è mai approdo. Non è mai compiuto. Ma scelta di narrare il modo per arrivarci, e nel farlo, di saldare inciampi e cadute. Forse, di trasformarci.
Si guarisce scrivendo, credo…
—–
Felicissime vacanze a Massi e una buona serata a tutti voi di “leggere fa male”. E’ vero…fa malissimo.. 🙂
Concordo appieno con l’intervento di Lucy. Basta con lo ”psudoscrittomale” che non si sa quanto ”pseudo” sia.
Salvuzzo Zappulla al vetriolo dice:
”Quale libro porterei? Di sicuro non un libro di Sergio Sozi. Gesù! Non vorrei rovinarmi le vacanze”.
Eggia’, Salvu’: ma tu pensa a quanto soffro io che devo portarmi dietro me stesso senza potermi lasciare a casa! Se rinasco chiedo a Dio di poter essere Salvo Zappulla siracusano…
Egr. Alessandro Zannoni,
leggere fa male, ma anche ascoltare una gran quantità di musica, guardare troppe immagini, avere troppi mariti, non basta la culotte ci vuole anche il tanga e la mutanda brasiliana, ora se vuoi accontentare la piccola Susy regalale l’ultima barbie, è formativo, se non altro la prepari ad incontrare le “adulte”.
Fu così che nel 1957 il pittore inglese Hamilton dipinse quel grande quadro intitolato “cos’è che rende le case d’oggi così diverse, così attraenti” dove veniva rappresentata una tavola a fumetti di young romance, la scatola di prosciutto sul tavolino, il televisore, il marchio della Ford sul paralume, il cinematografo, l’aspirapolvere ed il registratore nuovi di zecca, la coppia Salute e bellezza che metteva in mostra capezzoli e pettorali come fossero prodotti in vendita.
Insomma, oltrepassati i quindici anni di dopoguerra, la cultura ha preferito votarsi ai media perseguendo un obbiettivo che si basava e si basa a tutt’oggi su risultato numerico, mass cult e mid cult sono i piani dove la quantità ha prevalso sulla qualità, tutto viene riprodotto, i suoni, le immagini, figurarsi le parole!
Il fenomeno è da riferirsi alle coordinate economia – bisogni culturali che ad un certo punto ha avuto il pianeta terra, impossibile individuare un soggetto storico a cui addebbitare le colpe, prendila così, non possiamo farne un dramma.
So soltanto che anche se sono una donna giovane e tendente quando sono positiva alla mondanità, oggi al centro commerciale di Paternò (uno dei più grandi del sud Italia situato sulla statale) ho provato un gran malessere. Entravo dentro i negozi per comprare e mi girava la testa, saranno state le luci, l’architettura della scatola gigante costruita con i soldi siculo-americani, la musica assordante lanciata a tutto volume persino sul terrazzo dell’ultimo piano dove ho dovuto parcheggiare l’autovettura, oppure la massa umana che affollava gli spazi muovendosi coma la piena inarrestabile di un fiume.
Ad un certo punto, sentendomi esausta, mi sono accomodata su una poltrona in vendita, e non mi sono accorta che sul bracciolo c’era il pulsante rosso per essere catapultati all’indietro con i piedi all’insù, quello verde perazionare il vibratore schiena-collo-culo, giallo per poter girare su sè stessi: si chiama “poltrona relax”, no grazie, la robotica proprio no, ho risposto ai venditori.
Saluti
innanzitutto vorrei scusarmi con Ausilio per non aver risposto subito alla sua domanda.
il fatto è che non sono abituato alle discussioni sui blog, mi manca proprio l’aritmetica, pure la geografia.
non me ne vorrete, spero, se confesso che questa è la prima a cui partecipo, con l’aggravante che l’oggetto della discussione scaturisce da un mio libro.
insomma, non sono bravo a motivare le cifre tematiche dei miei testi utilizzando il confronto telematico.
ma ci proverò, sperando di non risultare noioso.
dunque, da qualche anno (dal 2007) lavoro a una Trilugia dell’impossibilità (sì, con la u); una Trilugia che, partendo dalla concretezza della cultura siciliana, tenta scandagliare l’universalità delle relazioni umane.
la Trilugia ha una poetica tesa all’annullamento di qualsiasi mera consolazione, intende raccontare una realtà priva di conforto, che porti però a una presa di coscienza, a una rivoluzione dell’agire; propone storie vorticose e allegoriche, spesso farneticanti e ossessive, che costruiscono verità cagionevoli, che zoppicano nel tentativo di imporsi al potere, per poter essere qualcosa; propone un percorso, innanzitutto, un percorso impercorribile, ma comunque opportuno, necessario.
Concetto al buio, come dicevo, tenta di analizzare il tema dell’impossibilità della verità.
io penso che la verità non abbia possibilità di realizzarsi.
non perché non esiste, tutt’altro.
la verità in sé è una e incontrovertibile, a meno che l’uomo non la controverta.
non penso che esistano delle verità, per esempio, con la v maiuscola.
se così fosse, esisterebbero, tanto per citare Kant, delle verità fenomeniche, ossia percepite, e altre neumeniche, ovvero inconoscibili. secondo me, invece, le verità sono uniche e percepibili.
ma, nel mentre della percezione, noi le tramutiamo.
ne facciamo il nostro tornaconto, spesso inconsapevolmente.
faccio un esempio.
un esempio minimo, ma tant’è.
se io compro un posacenere, ho comprato un posacenere, è chiaro che è un posacenere, lo si vede nitidamente, ha i contorni sbeccati per posarvici la sigaretta, è circolare, concavo, generalmente di poco valore.
se io riconosco questa verità, una verità semplice e minima, come si diceva, allora dovrò usarlo sempre e soltanto come posacenere: tirarlo fuori da dove sta, posargli la cenere, riporlo e poi daccapo: tirarlo fuori da dove sta, posargli la cenere, riporlo e poi daccapo…
per non negare la sua verità, dovrò utilizzarlo esclusivamente come posacenere, mi sarà vietato riempirlo di oggetti, non potrò usarlo come sopramobile o come ferma carte o come contenitore per caramelle, e neanche per darlo in testa a qualcuno, mettiamo.
se lo farò, anteporrò la mia verità alla sua.
il posacenere, pur rimanendo un posacecere, non sarà più un posacenere, ma quello che noi gli avremo deciso.
sapremo sempre che è un posacenere, ma semplicemente faremo finta che no.
insomma, secondo me, l’impossibilità della verità non sta nella verità, ma nella sua interpretazione.
e siccome qualsiasi verità non può che nascere dalla intepretazione, allora è impossibile.
pertanto, Ausilio, io non credo che la verità si ottenga con la dimostrazione.
la dimostrazione della verità, secondo questo mio parere bislacco, corrisponde al suo annientamento.
la verità non può essere dimostrata, senza correre il rischio di interpretarla e quindi di superarla, di eluderla.
è una bella discussione che meriterebbe di essere specificata meglio, in carne e ossa.
scusa ancora per il ritardo.
cara Simona, grazie per i complimenti, hai proprio centrato la questione, cascati tutti i birilli, secco pure il signore del tiro a segno.
il tuo discorso sulla “voce” dei personaggi è il medesimo che mi assilla ogniqualvolta afferro una penna.
(ps, a questo punto curioso per il tuo Tu non dici parole…)
Caro Palazzolo,
vorrei risponderLe.
Se la verita’ non puo’ esistere se non tramite interpretazione – come ha detto Lei qui sopra – secondo me le possibilita’ sono due:
1) Possiamo, interpretandola, conoscerla (ergo: la verita’ esiste di per se’ e anche per chi la sappia interpretare correttamente);
2) Le interpretazioni non ci daranno mai conto della verita’ (ergo: la verita’ esiste solo di per se’, non per l’uomo, percio’ e’ inconoscibile).
(E qui ho ovviamente considerato la ”dimostrazione veritativa” come facente parte della categoria delle ”interpretazioni”).
Tertium non datur. Bisogna scegliere. Io sono per la prima ipotesi, via religione. Lei?
Saluti Cordiali
Sergio Sozi
P.S.
Tertium non datur, ho detto, perche’ mi tengo stretto al Suo ragionamento che elide la terza possibilita’ di una verita’ esistente ed ininterpretabile, invisibile, inavvertibile, extrasensibile, diciamo.
…potrebbe insomma darsi che al di la’ di questo muro ci sia un cane a tre teste chiamato Cerbero, ma potrebbe essere solo la mia immaginazione umana a dirmelo: se non lo vedo, non lo so. Magari non c’e’ nulla. Ergo: la verita’, come la metti la metti, per l’uomo, essendo io uomo, non esiste ma puo’ esistere in se’. (Ultima ipotesi incasinata).
caro Sergio Sozi,
la verità a cui alludo io sta in terra.
su quella che sta in cielo non ho ancora ragionato.
ed è spicciola, la mia verità, da posacecere.
questa:
la verità c’è, è lì, davanti a chiunque, ed è una sola.
ma l’uomo, che pure sa che sta lì, che l’osserva, che sa decodificarla, ne fa spesso un uso egoistico, la reinterpreta a convenienza.
ora, questo concetto è un concetto che ho tentato di sviluppare nel mio libro.
vigilando che non diventasse, però, l’oggetto del libro.
ossia: c’è la storia e c’è il motivo che ha generato la storia.
la storia sta lì, edita da Perdisa Pop.
il motivo sta qui, dentro la mia testa.
e teme d’essere stanato.
grazie molte per la domanda, un caro saluto.
bella l’ultima ipotesi incasinata…
Non c’e’ differenza tra verita’ in cielo e verita’ in terra. Comunque grazie a Lei: e’ stato interessante – per me – come esercizio di lettura di uno scrittore ”metafisico involontario”. Io lo sono volontario.
Saluti Cari
Sozi
Carissimo dottor Maugeri,
intanto mi permetta di augurare a lei e alla sua famiglia felicissime e meritate vacanze.
Trovo la discussione come sempre interessantissima e vorrei aggiungere il mio umile contributo.
Intanto devo sinceramente complimentarmi con l’autore. Ha un’intensità altissima, un potere di evocazione commovente e una lingua che interpreta.
Non sono d’accordo quindi sulle generalizzazioni che ho letto qualche commento più su. Si può “scrivere male”, perchè il personaggio è analfabeta, perchè proviene da uno strato sociale che non consente l’erudizione o perchè è un bambino. Insomma la lingua è strumento della voce, e in questo senso è un rimando dell’intero mondo del personaggio. Nel caso del bravissimo signor Palazzolo, ad esempio, una voce colta, perfettamente aderente alla sintassi, una voce “grande ” a dispetto della piccolezza del suo protagonista, sarebbe stata inadatta, e soprattutto poco “morale”, nel senso che la moralità della scrittura risiede nella sua capacità di non tradire la vocazione per cui esiste: tendere alla verità.
Che questa verità sia poi afferrabile, che sia stanabile o anche costruibile, non lo so, dottor Maugeri.
Ma devo ancora concordare con la sensibilità del signor Palazzolo quando dice che noi possiamo solo interpretarla, e che nel’interpretarla forse ci priviamo della verità stessa, perchè non esiste uomo su questa terra che non strumentalizzi le verità che possiede.
Buon lavoro al signor Palazzolo, dunque, e felicissima vita alla sua “arte delle voci”.
Possiamo dimenticare un libro e la sua trama, ma la voce resta in noi, la voce è la strada che arriva e scava dentro. La voce è più che un suono. E’ identità.
Un abbraccio affettuoso a tutti dal suo affezionato
professor Emilio
volevo ringraziare Rossella, per la nota postata in precedenza.
(anche qui vale ciò che ho scritto prima: non me ne volete, sono nuovo e perlopiù continuamente distratto)
e un grazie particolare al professor Emilio, che ha argomentato bene quello che penso da sempre e che, probabilmente, qui avrei espresso male.
@ Simona
Come posso non apprezzare e condividere quanto scrivi?
Grazie delle tue ulteriori impressioni.
@ Rosario
Hai un’ottima capacità dialettica, oltre che una immaginazione feconda. La tua prosa fa pulsare la mente e il cuore, colorandoli di un rosso acceso (detto metaforicamente).
Per quanto riguarda la verità come dimostrazione, la mia affermazione si rifà alle concettualizzazioni filosofiche, specie aristoteliche. Difatti, Aristotele determinò per primo tale concetto, identificandolo con il “sillogismo scientifico”, cioè il sillogismo che parte da premesse vere e produce la scienza, in contrapposizione al “sillogismo dialettico”, che si muove nella sfera del probabile.
Lo strumento mediante il quale il sillogismo scientifico procede è il ragionamento. I punti di partenza sono: le definizioni, gli assiomi, i postulati. Si distingue in dimostrazione ascendente, che si muove per analisi, e discendente, che procede per sintesi.
C’è da osservare, poi, che questa teoria della dimostrazione – accolta e approfondita ulteriormente dalla scolastica – fu accettata fino all’età moderna quando, con il mutare del concetto di conoscenza e col prevalere del metodo induttivo (conseguente all’ampliamento delle prospettive scientifiche) fu messa in crisi dai filosofi empiristi, a cominciare da Locke.
Ma nella logica contemporanea, che si muove nell’ambito di una scienza non più “dimostrativa”, il concetto è accantonato e sostituito, semmai, con quello di “prova”.
Perdonate questa digressione forse superflua o “antipatica”, però – credo – utile a comprendere l’ottica nella quale ho ribadito il mio concetto, passibile comunque di interpretazioni e sfaccettature diverse.
Un cordialissimo saluto a Simona e a Rosario, e a tutti i lettori.
A Massimo, il mio augurio di buona vacanza.
A dirla tutta Aristotele procede dai principi universali, che legiferano l’intera manifestazione della realtà relativa, per considerare la verità nelle sue possibili gradazioni e sfumature. Gli universali, come li definisce lui stesso, modulano sia il carattere del movimento che le proporzioni dell’estensione, oltre a tutto il resto delle conseguenze esistenziali, e sono assi verticali al minimo grado di relatività possibile. Il tempo stesso è ordinato, sia qualitativamente che quantitativamente, dalla stessa spirale che ordina le relazioni tra le parti del tutto e il suo centro, che è asse fisso in rapporto alla rotazione. L’arché della spirale, sia essa microcosmica che macrocosmica, è chiamata Tetratkis, e segue un rapporto numerico definito che allinea i cicli dai quali è formata. Questo di cui ho appena accennato è la base della metafisica universale che è consapevolezza dei principi ed è oltra al tempo. Aristotele non ne è l’ideatore, perché questa conoscenza non è umana. Egli ne aveva accesso allo stesso modo di tutti coloro ai quali l’assoluto ha concesso di vedere la Verità principiale, attraverso l’intuizione spirituale. Niente a che fare con la verità mobile e scientifica. Nessun tostapane, quindi, da mettere sull’altare del conoscere per bollini premio, con le catastrofi naturali che seguono. Ovviamente anche le leggi scientifiche procedono da principi che sono analoghi a quelli universali, anche se a gradi di relatività maggiori perché coinvolgono domini limitati dell’essere e non tutta la realtà nelle sue valenze siano esse formali o informali, individuali o collettive, particolari o generali.
Il leggere, per esempio, non può dare la consapevolezza dei princìpi, e in questo senso si può ammettere che il leggere, se non fa male… non fa nemmeno tanto bene…
Straordinaria seconda prova di Rosario Palazzolo sia nel narrato che nel codice di scrittura. Sembra di udire la voce di Concetto per tutto il tempo della lettura che fa quasi l’appello dei dubbi e delle miserie che albergano in ognuno di noi.
Cari amici, vi ringrazio per i vostri commenti.
Vi scrivo dal mio luogo di villeggiatura. Ho portato con me netbook e chiavetta internet… ma qui il segnale non arriva nemmeno a pagarlo oro.
Infatti vi scrivo da una postazione di “fortuna”.
Non mi rimane che augurarvi buona prosecuzione di discussione (qui e negli altri post: se vorrete e se potrete).
A presto!
😉
@ Rosario Palazzolo
Euclide dimostrò che l’asse è il luogo dei punti equidistanti dagli estremi di un segmento e che il cerchio è il luogo dei punti equidistanti da un punto fisso detto centro: semplice da capire, se qualcuno vuole affermare la non veridicità di questi teoremi, lo dimostri. La geometria (compresa la geometria esistenziale) è inconfutabile poiché è nei fatti.
Caro Rosario il tuo portacenere , ovvero la sua funzione, è oggettivo ma sarà per il fatto che porto dentro una ferita che aspetta ancora d’essere risanata (sentirsi una bestiola ingiustamente colpita è uno di quei fenomeni per i quali la natura non perdona ), sarà che la vita insegna ad abbandonare quella che chiamiamo “buona fede” e che camuffa un altro termine come l’ “ingenuità” con l’invito di diventare più furbi e quindi più svegli con i nostri simili, sarà anche per altri motivi, ma nella maggior parte dei casi non si è “IN GRADO” DI ESSERE , FIGURARSI DI ESSERE VERI. Voglio dire che la bugia più grande è quella che si racconta a sé stessi e che di conseguenza si fa credere agli altri. I danni commessi sono direttamente proporzionali al proprio ruolo di potere nella vita ; un capo di governo è un pinocchione con relativa responsabilità, un capo famiglia un pinocchio, pinochetti quasi tutti.
I fatti.
Come quel tipo che si faceva passare per marito modello, sempre attaccato alle gonne della moglie, cara ti amo sono pazzo di te e la perseguitava con la sua gelosia e mille telefonate di controllo accusandola ingiustamente di infedeltà. Lei che era una bella donna niente da obbiettare, molto innamorata del marito e da lui ingiustamente maltrattata, ossessivamente vilipesa con sermoni da moralista, quando si accorse che proprio sulla sua testa c’era un bel cesto di lumache talmente pesante da farla incurvare, ormai stanca di sopportare tutte quelle sceneggiate, prima di abbandonarlo lo fece cornuto per mortificarlo. Lo fece una volta sola. Ma lo fece di gusto.
Oppure quante volte ci siamo ritrovate davanti “signorotti” dal dubbio perbenismo che si vantano di magnanimità e galanteria, mentre qualche fatterello ci ha dimostrato taccagneria e maleducazione anche nel linguaggio, o ancora (in questo caso peggio che andar di notte) quelli che sbandierano il distacco dai beni materiali inneggiando se stessi oramai in cammino sulla strada dello spirito, che se poi gli togli la scarpetta firmata o quel gustoso piatto raffinato – sempre rimanendo nell’ottica di un estetica che sia al loro livello – s’incazzano profondamente poiché non era questo che intendevano dire e sono gli altri che hanno frainteso.
Ma il tasto più divertente su uomini e donne è la loro vanteria in fatto di doti amatorie e fascinazione, e qui siamo a livello di poveri cristi alla ricerca di virilità o femminilità, che non sai se è meglio ridere o piangere per come li ha fatti parlare e cogitare il loro narciso.
Morale: preferisco un attore consapevole a chi pensa d’essere sincero e non lo è, ma se il primo fa del male è molto difficile perdonarlo, il secondo si , poiché non lo sapeva.
saluti e buone vacanze.
P.S. A scanso di equivoci mi riferivo a fatti non accaduti a me direttamente . . . .
cara Rossella, d’accordo con te.
sebbene.
sebbene perfino Euclide, se messo alle strette, vedrebbe quadrato il rettangolo.
Guardate il quadrato, direbbe, Osservatelo bene, vedete?
e noi ci crederemmo.
costruirebbe formule a sostegno.
proporrebbe dimostrazioni pratiche.
e noi ci crederemmo.
direbbe che, siccome che, visto che, anteposto che…
e noi ci crederemmo.
l’uomo sa che tradisce la moglie, sa che gli anni passano e che allora è opportuno tingersi i capelli, sa che occorre essere virili, femminili, porcospini, sa che il perbenismo è un ottimo viatico per entrare in società, sa che lo è ugualmente per uscirne al momento opportuno, sa che
Io non c’entro,
Io non sono stato,
Io mi ero distratto,
sa come impugnare una forchetta e al momento giusto una pistola, sa essere attore consapevole, uomo sincero, cane randagio o sherazad, sa imparare a memoria i condamenti senza ricordarsene mai uno, sa chiedere perdono, redimersi, sa rifare tutto daccapo, sa chidere perdono, sa redimersi, sa rifare tutto daccapo, sa contestare e rivoluzionare se la cosa lo riguarda da vicino, viceversa è solidale, solidale con chi, con cosa, con quando,
sa, soprattutto, che, se messo alle strette, può far quadrare i rettangoli.
sa che gli altri ci crederanno.
sa che un giorno dovrà rendere il favore.
(fra l’attore consapevole e l’uomo che pensa d’essere sincero, io preferisco la zuppa inglese)
buone vacanze anche a te.
Buon giorno a tutti, Personalmente adoro Pavese, ma credo che la bella scrittura abbia maggior riscontro che non la bella trama. Sicuramente D’Annunzio, profeta del fatuo, ha avuto ed ha molti più lettori di Pavese o di di Fenoglio. In vacanza spesso mi porto Kafka, ma tra un libro con una bella trama ed una brutta scrittura ed uno con una brutta trama ed una bella scrittura scelgo il secondo.
complimenti a palazzolo per il libro. letto il brano, mi pare molto bello.
sono molto incuriosita dalla presentazione e dal fatto che la struttura, mi pare di aver capito, è complessa.
mi piacciono i libri che ti fanno pensare, dopo che li chiudi.
l’iniziativa leggerea fa male mi piace. non c’è mai stato malessere più salutare di quello che ti può dare la lettura.
spero che stiano sanamente male in tanti.
ci faccio caso ora.
sanamente = sana mente
Per quanto riguarda il discorso sui generi, diciamo la verità,
chi va in edicola a comprare gli harmony o certi gialli mica va a cercare il bello stile.
saluti e buona estate a todos.
🙂
ma poi: che significa bella scrittura vs. bella trama? non sono due cose che si presuppongono? quando scatta quel senso di soddisfazione che è insieme irrazionale e razionale, cioè dei sensi, quasi, e dell’intelletto, non è dovuto al perfetto funzionamento delle due cose? ci sono libri che non possono essere scritti altro che come sono scritti, altri che lasciano aperta la possibilità che forse si potevano scrivere diversamente nella direzione della forma, intendo, più che del contenuto, sul quale è un po’ difficle stabilire che cosa sia buono e che cosa no. penso ci sia in ogni caso molta confusione sotto il cielo determinata dalle quantità: nel post-postmodernismo che viviamo – praticamente l’epoca nella quale sono cresciuta culturalmente – ho assistito a dei paradossi letterari notevoli. la rottura di ogni appartenenza a generi, forme, stili, contenuti e la proliferazione conseguente in termini quantitativi di opere, accanto ad una mastodontica riflessione sul fare letterario. su questo fronte credo sia stato detto TUTTO: è insopportabile, per quanto mi riguarda, ogni proposta di riflessione ulteriore, di ogni ulteriore vivisezione del capello. siamo arrivati all’entropia. un’entropia del tutto particolare: ci è concessa la possibilità del ritorno: all’ordine (che tuttavia sarà un ordine scomposto), alla selezione (della razza: sopravviveranno, se non davvero i migliori, alcuni tuttavia, sui “molti”), ad una più pacata riflessione critica, magari con quattro o cinque regole-parametri di valutazione invece dell’universo dei possibili. nella crisi del sistema letterario è impensabile anche una critica verbosa come lo è tanta di quella attuale, e scalatrice di specchi. un nuovo classicismo: quando non si sa dove battere la testa, il classicismo va sempre bene. più ferroni, per intenderci, che fanno bene al sangue. altrimenti davvero leggere farà malissimo.
La futilità al quadrato dà, come risultato, la futilità pura e semplice. Separare trama e qualità dello scrivere è azione analoga al considerare una persona analizzandone solo un aspetto, slegato dalla totalità che l’individuo è. Se si lava la pasta per separarla dal sugo che la impregna si avrà sugo squallido e pasta viscida. Con che coraggio poi ci si chieda quale dei due sia preferibile è cosa incomprensibile. Trama e scrittura… tutto qua? E il senso dello scritto? Il senso, che è direzione, è il modo per misurare la qualità. Spaghetti e zucchero sono aggregati di carboidrati che danno risultati diversi in conseguenza della loro disposizione spaziale. La qualità delle azioni, analogamente, è in relazione al senso delle intenzioni che le ha generate.
È il senso di uno scritto che qualifica lo scritto. Che poi questo senso, che è significato essenziale, sia compreso oppure no, è cosa che complica l’analisi fino a rendere impossibile una sintesi esaustiva attorno all’atto dello scrivere.
La trama di una storia si tesse con le parole e con i costrutti della lingua, quanto più sono mirati al fine del raccontare , al contenuto, tanto più lo scritto ne è esaltato. Tutto sta nell’efficacia, nella scelta della parola, nell’uso delle figure letterarie volte ad esprimere situazioni e stati d’animo. Marguerite Duras scrisse nel suo romanzo autobiografico a proposito di un avvenimento:” E fu subito notte” Magia delle parole. Niente di più convincente.
Anche stavolta concordo con Vajmax.
pure io.
Non sono riuscito a leggere i numerosi pareri. però le provocazioni lanciate sia dalle domande sia dall’introduzione al libro presentato mi paiono interessanti.
Linguaggio stile e trama sono elementi essenziali viene fatto notare, sebbene non unici.
D’accordissimo.
Dovrebbero amalgamarsi in maniera simbiotica.
D’accordissimo anche stavolta.
Dovendo scegliere cosa si predilige è estremamente difficile.
Però, però, pero… gli stimoli e le provocazioni evidentemente giovano.
Ci ho pensato. Fra le opzioni preferirei il libro scritto con buon stile e buon linguaggio, anche se la trama è scadente. Perché come ha giò scritto qualcuno la scrittura contiene già una sorta di trama intrinseca (nel senso doppio del termine) che trova fondamento nell’uso della parola.
Grazie dunque per gli stimoli forniti e un grande in bocca al lupo al romanzo di Rosario Palazzolo ed al festival letterario ‘Leggere fa male’.
grazie raffaele
Be’… pero’… che la scrittura contenga gia’ di per se’ una sorta di trama intrinseca mi sembra affermazione un po’ forte. Se io dico: ”c’e’ un castello in mezzo al mare, viva gli sposi!” non ho fatto trama, ho fatto ridere. Magari servirebbe del lavoro in piu’, per far reggere le situazioni in catena logica – o illogica ma sempre coerente, illogicamente o logicamente coerente, insomma…
Titolo del romanzo: La lunga fuga del cavallo morto.
Clopet, clopet, clopet, clopet…
C’è tutto: trama, intreccio, ritmo, velocità.
io – e credo anche Raffaele e qualcun altro – intendevo qualcosa di differente.
gli esempi fatti sono semplicistici, e dimostrano proprio ciò che tentano di confutare.
ovvero, se tu Sergio scrivi: ”c’e’ un castello in mezzo al mare, viva gli sposi!”
o se tu Salvo, aggiungi: Clopet, clopet, clopet, clopet…
è ben chiaro che manca qualsiasi stile, negato qualsiasi tentativo di offrire una “voce” a uno o più personaggi.
c’è solo una lieve ironia.
che non vuole altro che il sorriso di chi legge.
pertanto, se era questa la trama, lo stile che avete usato l’ha resa.
ecco un esempio, come lo intendo io:
Fate attenzione a quello che ora vi racconto. Quando arrivai all’albergo “Praga”, subito il principale mi prese per l’orecchio e me lo tirò dicendomi: “Tu qui sei un apprendista cameriere, quindi ricordati. Tu non hai visto nulla e non hai sentito nulla. Ripeti!”. E io dissi che al lavoro non vedevo nulla e non sentivo nulla. E il principale mi tirò l’orecchio destro e disse: “E ricordati però che devo lo stesso vedere e sentire ogni cosa!”. E io ripetei sbigottito che avrei visto e sentito ogni cosa. E fu così che cominciai. Ogni mattina alle sei stavamo sul posto di lavoro, era come una sfilata di moda, arrivava il proprietario dell’albergo, da un lato del tappeto c’erano il maître e i camerieri e in fondo io, piccolo come un piccolo, e dall’altro lato i cuochi, le cameriere, le sguattere e la ragazza del buffet, e il proprietario ci passava accanto e guardava se le pettorine erano pulite e i colletti duri e i frac senza macchie, e se mancava qualche bottone, e se le scarpe erano pulite, e si chinava per verificare con l’olfatto se ci eravamo lavati i piedi, e poi diceva: “Buon giorno, signori, buon giorno, signore…”. E da quel momento non dovevamo più parlare con nessuno…
(Bohumil Hrabal, Ho servito il re d’Inghilterra).
So bene, caro Rosario. E se tu come esempio mi porti un pezzo del Maestro, che è il mio Maestro per eccellenza, non posso che inchinarmi. Io credo che un grande romanzo è come la ricetta di un grande chef, deve contenere svariati ingredienti per riuscire perfetto. Stile, trama, intreccio, affabulazione, chiarezza di scrittura devono camminare di pari passo. E soprattutto fantasia. La fantasia, a mio modesto parere, è la virtù principale di ogni scrittore che si rispetti. La capacità di scrivere storie originali, avere idee che altri non hanno avuto prima. Se no si rischia di scrivere tutti le stesse cose, di riciclare sempre le stesse storie trite e ritrite, di essere autoreferenziali e di attingere solo dal nostro vissuto. Poi in letteratura le vie sono infinite, come quelle di nostro Signore, si possono ottenere buoni risultati in maniera differente. Campanile ci riusciva in due battute a ottenere effetti esilaranti nel lettore. Altri ricorrendo a esercizi di bella scrittura.
Come dice Anonimo (Rosario Palazzolo?) in effetti intendevo dire qualcosa di diverso, come ha poi fatto lui meglio di me nel commento successivo. Nello spazio di un commento non sempre si riesce a esprimere il proprio pensiero in maniera sufficientemente analitica.
Sono comunque grato per aver scoperto questo blog e questo post, ho avuto più tempo e la possibilità di leggere tutti i commenti e mi sento più arricchito nell’apprendere le opinioni dei vari partecipanti.
Ancora auguri a Palazzolo per il libro, a Maugeri per il blog ed a Zannoni per ‘Leggere fa male’.
pardon Raffaele, mi scusino anche gli altri.
ero io l’anonimo di prima come ha inteso bene Salvo.
La parola trama mi sembra che significhi sequenza di eventi uniti da un denominatore comune – logico o illogico ma comune. Se questa comunanza manca, quella non e’ una trama. La vedo cosi’.
Wikipedia di ”trama” dice questo: ”Trama (narrativa) – l’insieme delle vicende attorno cui si sviluppa un’opera narrativa”.
Gentile Sergio Sozi, io convengo con lei sulla definizione di trama applicata alla narrativa. Ci mancherebbe. E non ci potrebbe essere storia sena trama.
Ciò che intendevo dire è che a volte la scrittura raggiunge livelli così alti (rispetto al gusto personale di chi legge) da essere essa stessa ‘trama’. E quando facevo riferimento al dopppio senso immaginavo le varie parole che si uniscono a formare la ‘trama’ di una storia (‘trama’ intesqa come insieme di parole), così come i singoli fili costituiscono la trama di un tessuto.
Saluti cari.
dopppio sta per doppio (doppia p, non tripla).
Egregio Raffaele,
grazie per la chiarificazione dell’accezione del lemma ”trama” che intendeva Lei in quell’intervento. Adesso mi ha fatto capire il senso – alquanto poetico e traslato – delle Sue espressioni. Cosi’, ora posso condividere la Sua opinione.
Cordialita’
Sozi
Cari amici, eccomi di nuovo qui.
Scusatemi se nei giorni scorsi non sono intervenuto, ma come vi ho spiegato la mia “chiavetta” per collegarsi a Internet non trovava campo.
Grazie a tutti voi per i nuovi commenti pervenuti, a partire da Rosario Palazzolo e Alessandro Zannoni…
Ma ne approfitto anche per salutare e ringraziare gli autori dei nuovi interventi: Simona Lo Iacono, Lucy, Ausilio Bertoli, Sergio Sozi, Rossella, Emilio, Vajmax, Luca Nencioni, Valeria, Albertina della Maddalena, Salvo Zappulla, Raffaele.
Abbiamo discusso del nuovo romanzo di Rosario Palazzolo… e ci siamo soffermarmi su un paio di requisiti essenziali (sebbene non unici) di ogni narrazione: il linguaggio e lo stile, da una parte; la trama, dall’altra.
Lo avevo sottolineato anche in premessa “requisiti non unici”. È ovvio che ce ne sono molti altri: caratterizzazione dei personaggi, ambientazione, climax, (il “senso” dello scritto, come dice Vajmax), ecc.
Ero convinto che mettere giocosamente in relazione “il linguaggio e lo stile” da una parte e “la trama” dall’altra… avrebbe fatto discutere (così come è accaduto).
Inoltre, come ho già avuto modo di sottolineare, in “Concetto al buio” (a mio modo di vedere, almeno) linguaggio, stile e trama – e non solo – si amalgamano in maniera simbiotica.
(Rinnovo i complimenti a Rosario).
Per il resto… vi aspetto (vi aspettiamo) il 21 luglio a Bocca di Magra.
😉
grazie a te, Massimo.
e grazie a tutti coloro che hanno partecipato alla discussione.
Spero di avere la possibilità di aggiornare questo post con qualche notizia sull’evento “Leggere fa male” e qualche foto…
Ho aggiornato il post pubblicando, di seguito, l’articolo di Gea Polonio sulla tre giorni letteraria “Leggere fa male”, tenutasi a Bocca di Magra dal 21 al 23 luglio.
Un articolo che – a mio avviso – fornisce un bel “quadro” di come si è svolto l’evento.
Brava, Gea!
E grazie.
Appena possibile inserirò pure qualche foto…
Ho aggiornato il post inserendo tre foto fornite gentilmente da Gian Paolo Serino, che ringrazio.
Prima foto (da sinistra a destra): Massimo Maugeri, Gian Paolo Serino, Rosario Palazzolo.
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Seconda foto: Massimo Maugeri e Rosario Palazzolo
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Terza foto: Alessandro Zannoni e Luigi Romolo Carrino.
L’intero album fotografico di Gian Paolo Serino (Bocca di Magra) è visionabile su Facebook qui…