Dicembre 22, 2024

153 thoughts on “OMAGGIO A CARLO FRUTTERO

  1. Come è ricordato da Wikipedia, Fruttero ha svolto per molti anni l’attività di traduttore prima di incontrare nel 1952 Franco Lucentini con cui avrebbe fondato un team di scrittura destinato ad un grande successo di critica e di vendite. Con la sigla Fruttero & Lucentini, i due scrittori hanno firmato collaborazioni giornalistiche, traduzioni e romanzi, soprattutto di genere poliziesco, molto amati dal pubblico.

  2. Si è occupato anche di fantascienza, dirigendo, dapprima da solo e poi con Lucentini da lui “chiamato” a collaborarvi, dal 1961 al 1986 la collana Urania (Mondadori).

  3. Dedico questo “spazio” alla memoria di Carlo Fruttero. È un omaggio, ma anche un’occasione per far conoscere questo autore a chi non ha ancora avuto modo di accostarsi alle sue opere.

  4. Chiedo a tutti di contribuire lasciando un ricordo, un’impressione, una citazione, informazioni biografiche… ma anche link ad altri siti e quant’altro possa servire a ricordare Fruttero e la sua produzione letteraria.
    Vi ringrazio in anticipo!

  5. Sul post ho inserito un video estratto dalla diretta Rai della premiazione del Campiello 2007 dove l’ironia di Fruttero emerge con la sua carica di simpatia. Alla fine il pubblico della Fenice lo premia con una standing ovation.
    Date un’occhiata, se potete… e – se vi va – commentatelo…

  6. Un grande autore ci lascia. Ciao, Carlo Fruttero, caro amico di tante storie. Tornerò a rileggerti e continuerò a sentirti vicino.

  7. Se ne è andato a Castiglione della Pescaia, in quella casa toscana in cui da tempo si era ritirato. Carlo Fruttero – scrittore, ma anche giornalista e traduttore – è morto a 85 anni. Era nato nel 1926 a Torino e gran parte della sua attività è stata legata al sodalizio artistico e di amicizia 1 con Franco Lucentini. E alla città di Torino, che meglio di chiunque altro ha saputo raccontare, nella vita e nello spirito.

    Con Lucentini ha firmato romanzi, soprattutto di genere poliziesco. Ma gli esordi sono stati legati a una collana di fantascienza, Urania, che i due hanno diretto dal 1961 al 1986 per Mondadori.

    Il primo grande successo è legato a La donna della domenica, del 1972, giallo ambientato a Torino da cui fu tratto un celebre film 4di Luigi Comencini (di recente portato di nuovo sullo schermo da Giulio Base). Altro bestseller – sempre a quattro mani – è A che punto è la notte,

    del 1979. Del 1985 è, invece, La prevalenza del cretino, raccolta di brevi brani e articoli di fondo che mettevano sotto accusa, con ironia, l’idiozia di personaggi e modi di essere caratteristici del panorama umano contemporaneo.

    Del sodalizio con Lucentini – emblematica la sigla F&L – si ricorda anche un famoso scontro con Gheddafi, nel 1973, ai tempi della Stampa, quando dedicarono una puntata della loro “Agenda” al colonnello. “Pare che…”, s’ intitolava il pezzo: una satira feroce del “pazzo di Tripoli” che scatenò la furia del raìs. Il colonnello prima chiese a tutti i Paesi arabi di boicottare le auto Fiat, poi chiese a Gianni Agnelli di licenziare il direttore del quotidiano, Arrigo Levi. E ricevette un sonoro no dall’avvocato.

    Dopo il suicidio di Lucentini, nel 2002, aveva smesso di scrivere ma è tornato alla produzione nel 2006 con Donne informate sui fatti arrivato in finale al premio Campiello e la riedizione di Ti trovo un po’ pallida. Nel 2007 ha ottenuto il premio Chiara alla carriera; tre anni dopo – sempre alla carriera – anche il Campiello. Nel 2010 il suo ultimo libro, Mutandine di Chiffon in cui scorrono i ricordi di una vita: la famiglia, la scuola, la guerra. Dello stesso anno anche La patria, bene o male, con Massimo Gramellini, raccolta dedicata all’unità d’Italia.

    Di Castiglione della Pescaia, dove ha scelto di vivere l’ultimo periodo della sua vita, ha ricevuto anche la cittadinanza onoraria 5. Nei suoi scritti per Vieni via con me – di Fazio e Saviano – aveva ironizzato così sulla vecchiaia: “Passati gli ottant’anni nessuno osa più scrivere di te ‘il vecchio Fruttero’, ancor meno ‘l’anziano Frutterò. Così si passa a un sinonimo lusinghiero: ‘il grande Fruttero’. Per far capire che è solo un modo di dire, si può ricorrere a un superlativo: il ‘grandissimo’ Fruttero, che qui saluta e lascia la scena col suo più bel sorriso”. E con la stessa ironia, anche sulla morte aveva saputo scherzare, parlando dei privilegi della vecchiaia: “Puoi perfino giocare la domenica pomeriggio in famiglia alla compilazione del tuo necrologio. Circondato dall’affetto dei tuoi cari…”
    (15 gennaio 2012)

  8. da Repubblica.it – La prevalenza del marziano di MAURIZIO CROSETTI
    Era un inglese con l’accento sabaudo, era un marziano di quelli tanto amati ai tempi di “Urania” e delle “Meraviglie del possibile”, creature verdi con le antenne e gli occhi enormi e curiosi: gli stessi che possedeva, custodiva e accudiva lui, Carlo Fruttero 1, l’altra metà di Lucentini. Quando morì, suicida, il suo sodale e fratello, venne a cadere anche la “&” più famosa della letteratura italiana. Da quel giorno, Fruttero & Fruttero hanno scritto ancora, ma non è stata la stessa cosa.

    Lui e Lucentini, non solo giallisti ma artisti assoluti, sublimi analisti del costume italiano (la prevalenza del cretino, già…), erano due mezze mele, due scettici blu, coltissimi e distaccati, ironici e remoti. Amavano le eccentricità, le asimmetrie. Negli anni del neorealismo e della letteratura impegnata, inevitabilmente di sinistra, loro pensavano ai venusiani: non era fuga, e nemmeno distacco, era la prova che chi scrive deve sempre cercare anche altri universi, e spingere lo sguardo laggiù, o lassù. Senza gabbie, senza tessere mentali. Era troppo, tutto questo, per la paludata Einaudi, e infatti le reciproche strade si separarono.

    Lucentini era il filosofo, l’architetto delle storie, invece Fruttero era la penna, era lo stile. Non è vero che scrivessero insieme, e che avessero messo insieme quell’autentico capolavoro di leggerezza e scandaglio sociale che resta “La donna della domenica” (classe ’72, ma pare scritto ieri mattina) assemblando un capitolo per uno: lo scrittore era Fruttero, mentre Lucentini era il revisore, la voce critica, il rifacitore. Risultato: la perfezione.
    Carlo Fruttero era un uomo amabilissimo e difficile. Non lunatico e saturnino quanto Lucentini, però. Dedicò all’amico una memorabile orazione funebre in cui lo definì un bricoleur della propria morte, perché non doveva essere stato facile tuffarsi in quel modo nella tromba delle scale, un’operazione tecnicamente complessa, e infatti F. & L. adoravano risolvere i rompicapo.

    Monsù Fruttero era un signore meravigliosamente snob, torinese fino nel midollo, e parlargli era un’avventura indimenticabile. Con quella voce bassa e bizzarra, è stato anche una star stralunata della tivù con Fabio Fazio: interagivano a meraviglia. Resteranno il suo sguardo, l’accuratezza della frase rotonda eppure ellittica, sempre alla ricerca del sottofondo, del semitono, della sfumatura. Lui e Lucentini hanno captato atmosfere con garbo e stile: anche per questo marziani, venusiani in un mondo delle lettere a volte così banale e greve.
    (15 gennaio 2012)

  9. Ho molto amato il romanzo “La donna della domenica”, e anche altri libro del duo Fruttero/Lucentini.
    Gli ultimi libri di Fruttero non li ho letti, ma voglio leggerli.

  10. F&L, un connubio perfetto di gustosa e arguta ironia. “La manutenzione del sorriso”, l’ineguagliabile “A che punto è la notte”, “La donna della domenica” e poi Carlo con “Donne informate sui fatti”…
    Non mi stanco mai di rileggerli, è una scrittura che va al di là della trama, non importa conoscere già il finale, lo rlleggi per riscoprire le sfumature, per la risata che sgorga spontanea, per le terse e precise descrizioni dei luoghi e dei personaggi.
    Un grazie infinito a Carlo, reso eterno dalla sua straordinaria attitudine alle parole.
    Valeria Corciolani

  11. Adesso la coppia è davvero finita, perché con la morte di Carlo Fruttero scompare anche quel modo di scrivere, quella sottile perfidia dello sguardo, quel disincanto acuto del racconto che apparteneva a tutti e due. E che Franco Lucentini non era riuscito a portarsi via con la morte.

    Fruttero era rimasto solo, alzava un po’ di più il bavero del cappotto, affondava le mani in tasca, guardava attorno Torino senza nemmeno vederla, quasi fiutandola. Ma ogni angolo, ogni trattoria con il nome di animale (come piacevano a lui), le insegne che cedevano alle mode sotto i portici gli rimandavano gli echi di pensiero del suo complice, un ping pong a cui non era possibile sottrarsi.

    Anche alla fine, quando non usciva ormai più, il gioco mentale proseguiva finalmente perfetto, perché senza il contagio della realtà quotidiana Torino aderiva ormai del tutto alla creatura letteraria che avevano smontato pezzo per pezzo nei decenni di chiacchiera: per poi rimontarla ogni volta nei romanzi, un vizio attaccato a un’abitudine, a un quartiere, al modo di camminare di una donna, a un gesto di periferia, a una curva sulla collina.

    “Mani in alto”, dicevo sempre a tutti e due appena li incontravo. Cercavo da anni la traccia della mano che aveva scritto l’ultimo articolo, firmato da tutti e due naturalmente, o tentavo di separare l’intarsio di voci di una recensione, il trucco a due teste che stava dietro un elzeviro.

    Non ho mai capito, anche perché loro depistavano. Andavamo a pranzo dietro la
    Gran Madre, e appena ricordavo a Lucentini che in quel pezzo c’erano le tracce di quel che mi aveva raccontato qualche anno prima, lui negava: “Sai che proprio non mi ricordo…”. E Fruttero completava l’opera: “Ci pensavo da tempo, l’ho scritto e Franco lo ha corretto nell’ultima frase, ribaltandolo”. Meglio rinunciare, la chimica della letteratura ha i suoi segreti, quella dell’amicizia ancora di più.

    Sembrava che cogliessero i cambiamenti, che per loro erano quasi sempre cedimenti e regressioni, dal nostro modo di parlare. Stavano in agguato in qualche angolo, ad ascoltare, e sembra di vederli mentre scuotono la testa, e si divertono. Errori, vanterie, cedimenti al pensiero immobile dei luoghi comuni, al vocabolario infinito delle frasi fatte, insomma al rifiuto della parola e del concetto, o anche solo dell’autenticità.

    Sapevano cogliere le stratificazioni sociali dietro i linguaggi, così come dalle parole decifravano i segni geografici, le inclinazioni politiche, le debolezze intellettuali. Si lasciavano circondare da una grande chiacchiera infinita, come quella finale dell’assassino nella pineta toscana che frequentavano in vacanza, e loro procedevano staccando – come quadri preziosi  –  le grandi imbecillità e le piccole astuzie attraverso le quali inganniamo noi stessi mentre dialoghiamo col mondo.

    Alle parole che coglievano e restituivano nei romanzi, sapevano aggiungere i gesti, le posture, il modo di vestire (Anna Carla era più torinese della realtà), un’arte borghese di perdere tempo, un esercizio piemontese di non svelare mai troppo di sé. Unito, tutto questo, ad una fisiognomica implacabile e perfida, che condannava l’architetto Garrone prima ancora dell’arrivo del suo assassino per fracassargli la testa.

    Del resto, per loro le cose stavano davvero così, sapevano guardare e ascoltare, e credevano in quel che vedevano e capivano. “Mi ascolti a me, Maggioni  –  confidano in Il palio delle contrade morte -: quando uno ha la faccia da picio, è un picio”.

    Il dialetto piemontese (anzi torinese), nei suoi giochi pesanti e nelle vocali accentuate e allargate faceva un po’ da contrappeso al gioco letterario tutto di testa, congegni a orologeria, enigmi di un intero romanzo nascosti in una frase sulla “buna lavandera”, finzioni di parole come paraventi. E l’altro antidoto alla vita trasformata in letteratura, era la buona vecchia pietà che i due avevano per le loro vittime, come se la cattiveria intellettuale si arrestasse appagata ogni volta che il professore era diventato un personaggio, e la gran dama aveva riacchiappato finalmente se stessa (” Oh, mi mi povra dona…”) saltando giù dal letto del commissario perché si era fatto tardi, e a Torino si va a tavola per cena puntuali, e il rito nasconde il resto.

    Avevano immaginato che Santamaria tornasse a Torino trenta, quarant’anni dopo come questore, e volevano ambientare il seguito della Donna della domenica a San Salvario. Avevano anche cominciato a scrivere. Ma poi, Lucentini se n’era andato, da solo. Fruttero aveva scritto ancora, cose bellissime, e i ricordi sembravano inesauribili, se qualcuno li sapeva rivisitare.

    Ma San Salvario intanto aveva cambiato faccia due volte in un decennio, la città tutt’attorno ancora di più, diventando bellissima anche per Carlo Fruttero, che una volta aveva rivelato come gli angoli brutti di Torino erano i più brutti del mondo. Non c’era più niente da immaginare, non c’era più nessuno con cui giocare. La donna della domenica, ormai, forse va fuori città per il week end. 
    http://www.repubblica.it/persone/2012/01/16/news/i_segreti_e_la_perfidia_di_quella_coppia_geniale-28197705/

  12. Il suo sguardo su Torino: «Era semplicemente il suo sguardo. Quella mimica delle rughe con cui sapeva raccontare ed esprimere emozioni e farci rivivere la città che aveva conosciuto e non c’era più». Boosta, il fondatore dei Subsonica, lo ricorda così, ripercorrendo i giorni del 2007 quando si era trovato per avventura a raccontare insieme all’anziano scrittore la resurrezione dopo le Olimpiadi invernali di un anno prima. Un colloqui tra due mondi, due Torino, figlie una dell’altra, che dovevano imparare a riconoscersi.

    L’occasione era stata la produzione del docufilm di Chiara Pacilli, «Surfin’Torino». La città era al culmine della rinascita dopo la grande paura di inizio decennio, con la Fiat che aveva rischiato il fallimento. Il turn around di Marchionne aveva dato entusiasmo. Fruttero aveva commentato con la sua consueta ironia: «Mah, la Fiat ha fatto un recupero prodigioso. Fosse diventata una fabbrica di cioccolatini o di sushi non mi sarebbe piaciuto». Lo sguardo distaccato e penetrante era quello che aveva colpito il giovane Boosta: «Per girare il film — ricorda oggi — avevamo sequestrato un piccolo bar e avevamo cominciato a parlare. Io lo interrogavo sulla storia di una città che lui aveva vissuto molto prima di me. Io Torino me la ricordo dagli anni Ottanta».

    La Torino del dopoguerra e quella degli anni Settanta sono gli scenari della narrazione di Fruttero. Ma anche rispetto a quel periodo, come a quello tra le due guerre,

    lo scrittore aveva uno sguardo distaccato: «Non rimpiango quella città. Non dico che vorrei che fosse uguale. Sono cose della giovinezza e tutto quello che riguarda la giovinezza ti sembra, settant’anni dopo, che fosse bellissimo. Che fosse facile e spensierato: e in fondo lo era». Era stata un’idea certamente originale quella di mettere a confronto il giovane e l’anziano sui cambiamenti della città. Con Boosta a raccontare la Torino dei Murazzi, l’underground degli anni Novanta. E Fruttero a fare il controcanto: «I Murazzi per me sono i posti dove io affittavo una barchetta e risalivo il fiume, erano tutti depositi di barche quelli che adesso sono luoghi di ‘follia’. C’era quell’odore della pece… insomma un luogo… una specie di porticciolo». Così, con quella crudeltà leggera che un uso sapiente della parola gli consentiva, Carlo Fruttero assisteva alla metamorfosi della sua città: «Le mie notti erano notti di chiacchierate lungo i viali con amici, talvolta con una ragazza. Di queste notti torinesi attuali non so niente».

    Un prudente distacco anche dalle ultime mode culinarie importate in città: «Vedo che vanno, piluccano, mangiano, ne parlano, fanno i confronti, fanno le gare, si vogliono divertire con queste novità esotiche… beh, lo facciano, io dal mango sto lontano». Antimodernismo? No. La stessa ironia Fruttero la utilizzava su se stesso. Boosta gli chiede se si sente un creativo: «Io tanto creativo non mi sento, ma non mi son mai sentito creativo io. Non è che quando stavo da Einaudi ci sentivamo creativi. È un po’ una parola che mi dà fastidio la parola creativo. Non lo so, uno fa. Non è creativo: fa».

    Dietro il sarcasmo c’era naturalmente una profonda passione per la città e i suoi cambiamenti. Così «con gli occhi azzurri che parlano», secondo il ricordo di oggi di Boosta, Fruttero aveva dato il suo giudizio anche sulle polemiche nei confronti dell’immigrazione straniera. Prima con una considerazione filosofica: «Furto, scippo. Adesso c’è questa distinzione tra paura vera e paura percepita. Io paura non ne ho. E percepirla, non la percepisco». Poi, lapidario: «Mah, non è male che ci sia San Salvario. È un quartiere che a suo modo è riuscito a emergere come luogo esemplare, e non sarà un caso. È un quartiere di Torino, perché Torino sempre arriva prima degli altri: al disastro o invece alle vette del successo»

    http://torino.repubblica.it/cronaca/2012/01/16/news/addio_a_carlo_fruttero_il_cantore_della_torinesit-28192406/

  13. Addio Carlo Fruttero. Insieme a Lucentini mi hai offerto belle storie che mi hanno appassionata e tenuto compagnia.
    Grazie a entrambi. Continuerò a leggervi e a rileggervi.

  14. Addio a Carlo Fruttero. Mi insegnò che il compito della letteratura è far arrivare a più persone possibile l’alchimia della narrazione.

  15. “Le risorse dell’uomo sono infinite, purché le circostanze lo costringano a cavarsela da sé (…)”
    Carlo Fruttero

  16. È morto Carlo Fruttero verrà sepolto a Castiglioncello davanti a Italo Calvino, diceva: “prenderemo il té insieme anche nell’aldilà”

  17. Addio a Fruttero – da “Buongiorno” di Massimo Gramellini

     
    «Il Manzoni… bisogna leggerlo, assolutamente». Se n’è andato con il suo scrittore preferito sulle labbra, Carlo Fruttero. E con un sorriso, perché nelle ultime settimane sorrideva sempre. Sorrideva e viaggiava. Chiudeva gli occhi e andava in Inghilterra, in Cina, in Giappone, ma anche a Passerano e a Canelli. In posti dove non era mai stato e in altri che non visitava da tempo. Cosa ci andasse a fare, lo sapeva soltanto lui. Quando tornava indietro, non si perdeva nel racconto dei particolari. Diceva solo che aveva visto una certa strada, una certa faccia, un ricordo oppure un sogno ancora mai sognato. Aveva fretta di partire di nuovo. «La borraccia, riempitemi la borraccia. E la valigia. È pronta la mia valigia? Insomma, sbrigatevi. Quando mi portate via di qui? Devo fare un altro viaggio, devo andare a Torino!».

    Da quando si era trasferito definitivamente in Maremma, nel comprensorio in cui tanti anni prima aveva comprato casa accanto all’amico Italo Calvino, Torino era di continuo nei suoi pensieri.

    Come La Stampa . Ne aveva sempre qualche copia sul letto, ma se volevate davvero fargli un regalo, bisognava portargli l’edizione locale, quella con le pagine della cronaca cittadina. Ah, era uno spettacolo vederlo spuntare dalle lenzuola per avvolgersi in quei fogli di carta che parlavano di quartieri e personaggi nei quali aveva ambientato i suoi romanzi, ma soprattutto la sua vita. Non c’era storia minore che non attirasse la sua curiosità. Tanto a farla diventare maggiore ci pensava lui, chiosandola con un aneddoto o una riflessione che la elevavano a fatto universale.

    Non aveva paura di morire, Carlo. Era solo preoccupato dalla difficoltà dell’impresa. «Non pensavo che andarsene sarebbe stato così lungo» ha continuato a ripetere fino a ieri. Proprio lui che amava gli articoli e le frasi brevi. Dal giorno in cui me lo ha insegnato, applico ai miei testi il famoso emendamento Fruttero: «Nel dubbio, togli. Togli sempre. Cominciando dagli aggettivi». Togliere ogni peso superfluo alle parole, alle relazioni umane e ai pensieri era il suo modo di essere leggero rimanendo profondo: la lezione di Calvino.

    Non aveva paura di morire, ma ne sentiva la responsabilità verso i vivi. Le figlie, i nipoti, gli amici, i lettori. Persino verso di me. Mentre scrivevamo la storia d’Italia in 150 date, era lui a mettermi fretta. «Ho il timore di andarmene prima della fine e di lasciarti a metà strada. Che so, nel ’38 o nel ’72…». La sentiva anche verso il suo Paese: «Stanno arrivando tempi duri. Bisogna che io non muoia. Non posso prendere congedo proprio adesso. Sarebbe una fuga. Ma vedrai, ce ne tireremo fuori anche stavolta. Non dimenticarti chi siamo… L’Italia, no?».

    La morte, avrebbe detto Marcello Marchesi, lo ha colto vivo. Ultimato da settimane il suo necrologio, stava dettando un altro libro alla figlia Maria Carla, talmente in sintonia con lo spirito del padre da saperne interpretare anche i sospiri. La biblioteca ideale di Carlo Fruttero: una sorta di giro del mondo in 80 titoli di cui ragionava da tempo con Fabio Fazio e che sarebbe stato, e mi auguro sarà, il suo testamento culturale.

    Non era un provinciale, come non lo sono i torinesi che hanno i piedi per terra ma la testa alta e gli occhi capaci di guardare lontano. Eppure quest’uomo che ha letto e amato libri scritti in tutte le lingue del mondo, ultimamente aveva riscoperto i classici di quella che era la sua patria, bene o male. Si era preso una autentica cotta per Pinocchio – «un innamoramento senile», scherzava – mentre quella coi «Promessi Sposi» era una lunga e solida storia d’amore che di recente aveva conosciuto un ritorno di passione.

    «Il Manzoni… bisogna leggerlo, assolutamente». Lo ha ripetuto fino all’ultimo, fino alla partenza del viaggio che non lo porterà più a Torino ma in un altrove che gli auguro sia lieve con lui e come lui. Avrei altri cento aggettivi per salutarlo, ma qui scatta inesorabile l’emendamento Fruttero. Così ne salvo uno solo, il suo preferito. Leggero.
    http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/hrubrica.asp?ID_blog=41

  18. Mi ha quasi sbalordito saper che Fruttero aveva solo 85 anni.

    In realtà con la sua incartapecorita immagine di copertina lo credevo ultracentenario, magari compagno di giochi di Agatha…

    A parte li scherzi, grande, intelligente e indimenticabile costruttore di storie gialle…

    Ce ne vorrebbero…

  19. Mi ha regalato insieme a Lucentini ore di scrittura intelligente e di storie che trascendevano il poliziesco per farsi paradigma di certa borghesia, di certo modus vivendi italiano…
    Credo che la mitica coppia si sia riunita in cielo.

  20. La città di Torino è in lutto per la scomparsa di uno dei suoi figli più illustri. Ieri, all’età di 85, è morto Carlo Fruttero, uno degli scrittori italiani più conosciuti e stimati. Nota soprattutto la sua collaborazione con Franco Lucentini, altro grande artefice della cultura del nostro paese.

    Tra le altre cose, Carlo Fruttero era anche un tifoso bianconero. Anche la Juventus si unisce quindi al dolore per la sua scomparsa e si stringe intorno alla famiglia.

  21. Credo che a molti di noi Carlo Fruttero mancherà molto anche come uomo, non solo come scrittore. A prescindere dal fatto di averlo conosciuto di persona.

  22. • Carlo Fruttero ha voluto morire a Roccamare di Castiglione della Pescaia, quel tratto di Maremma marina che lo aveva affascinato e dove da qualche anno si era stabilito, lasciando Torino. Se ne è andato alle 17.30 di ieri: ad assisterlo la figlia Carlotta e i parenti più stretti. Lui stesso aveva scritto il suo necrologio, che sarà pubblicato oggi. Nelle ultime volontà anche il desiderio di essere sepolto accanto a Italo Calvino, nel cimitero che si trova nella parte alta del paese. La camera ardente sarà allestita stamani nella sala consiliare del Comune di Castiglione

    • Nato a Torino il 19 settembre 1926, Fruttero incontrò nel 1952 Franco Lucentini, con cui costituì un eccezionale sodalizio. Tra le opere della prolifica coppia: «La donna della domenica» (1972), «A che punto è la notte» (1979), «La prevalenza del cretino» (1985)

    • Nel 2010 gli è stato assegnato il premio Campiello alla carriera. Anche per riparare alla finale perduta con il libro «Donne informate sui fatti» (2007)

  23. Erano dissacranti, divertenti, pungenti, amari.
    Mi facevano ridere i calzini colorati di Fruttero, le scarpe da tennis sotto il vestito buono, l’occhietto terso, inguaribilmente adatto a cogliere gli artifici, le ipocrisie, le falsità, i pretesti di cui ci copriamo.
    Avevano trovate narrative geniali, perchè la verità era una sola: che si divertivano da matti, si commuovevano e si raccontavano a vicenda un mucchio di storie.
    E poi erano una coppia, perchè pur essendo due, dell’unità avevano colto il lato più bello: confluire senza perdersi l’uno nell’altro, ma mantenendo un’individualità che apportava ricchezza e rimbalzava.
    Dell’uomo moderno dicevano di tutto, ma dell’umanità conservavano un’idea a modo loro sacra, infinita e liberissima.
    Come quando dicevano:
    “Le risorse dell’uomo sono infinite, purché le circostanze lo costringano a cavarsela da sé, gli strappino di dosso tutte le pellicole – educative, snobistiche, mutualistiche, culturali, eccetera – con le quali la società finge di proteggerlo e sotto le quali egli si crogiola stupidamente ignaro delle proprie attitudini e ricchezze”
    Insomma, si sono ricongiunti, e ripensarli insieme ancora una volta fa superare la tristezza.

  24. Posso dire la verità? Forse per la mia età o forse(più probabilmente) per diverse mie lacune (ahimè), conoscevo Carlo Fruttero solo di nome. Sì… Lo so… Me ne vergogno come una ladra… Dai post, dai commenti, dai link che rimandavano ad articoli di giornalisti illustri e dal video esilarante del premio Campiello 2007 ho intuito che doveva essere una persona molto ironica (e autoironica, cosa ancora più difficile), semplice, che arrivava subito al punto della situazione. Un uomo unico sicuramente, così come il suo amico Franco Lucentini.
    Non so se il mio post è fuori luogo, non avendo letto nessuno dei loro libri. Scusatemi di cuore. Ne approfitto, però, di questo luogo di discussione per chiederVi

    -QUALE LIBRO MI CONSIGLIERESTE DA LEGGERE?
    -QUAL’ E’ QUELLO CHE SECONDO VOI RISPECCHIA MEGLIO IL MODO DI VEDERE I PUNTI DI VISTA DI FRUTTERO E LUCENTINI?

    Grazie
    Ps. Spero che apprezziate la mia sincerità nel dire “so di non sapere”.

  25. Cara Alessandra, non so se Massimo e gli altri amici di questo forum saranno d’accordo, ma ti propongo di cominciare con il loro libro più famoso “La donna della domenica”, di cui Daniela Saitta qui sopra ha pure pubblicato un saggio.

  26. Ne approfitto per salutare e ringraziare: Silvia Pareschi (mitica traduttrice di Jonathan Franzen), Daniela Saitta, Antonino Flora, Annamaria, Andrea Lodi, Valeria Corciolani, Amelia Corsi, Simona Lo Iacono (ciao, cara socia di scrittura), Patrizia Debicke, Maria Lucia Riccioli, Viviana, la redazione di Juventus Club e Alessandra.

  27. @ Daniela Saitta
    Cara Daniela, se ti va… dicci qualcosa in più sul tuo saggio dedicato a “La donna della domenica” (pubblicato da Prova d’Autore).
    Magari potresti inserire qualche brano, qui tra i commenti…

  28. @ Alessandra
    D’accordo con Amelia su “La donna della domenica”.
    Su Panorama hanno consigliato 5 libri (come segnalato su uno dei link qui sopra).
    Ti ricopio il testo nei commenti a seguire…

  29. da Panorama.it

    La donna della domenica – Fruttero & Lucentini
    Scritto nel 1972, è il primo e il più celebre dei libri di Fruttero & Lucentini e può tranquillamente essere considerato come il capostipite del giallo italiano. Ambientato a Torino, segue l’indagine del commissario Santamaria sull’omicidio dell’architetto Garrone, personaggio un po’ squallido che vive ai margini della borghesia piemontese. Sullo sfondo della vicenda si muove una città apparentemente ordinata, noiosa e anche un po’ snob, ma che in realtà nasconde un’indole folle e malvagia. Nel ’75 Luigi Comencini ne fece un film con Marcello Mastroianni.

  30. da Panorama.it
    A che punto è la notte – Fruttero & Lucentini
    La sera del 25 febbraio Don Antonio Pezza, parroco della chiesa torinese di Santa Maria Liberata, è intento in una predica alquanto originale, molto più simile a una rappresentazione teatrale che a un’omelia religiosa. Improvvisamente, però, esplode una bomba e il prete rimane ucciso. Sulla sua morte indaga l’inossidabile commissario Santamaria, che in breve tempo scopre impensabili legami tra Don Pezza, industria locale e alta finanza.

  31. da Panorama.it
    Il palio delle contrade morte – Fruttero Lucentini
    Un giallo senza eccessivo batticuore, ma che riesce comunque a essere avvincente mischiando genere poliziesco e massicce dosi di fantasy. A seguito di una tempesta (ma sarà realmente così?) i coniugi Meggiorini si ritrovano in una villa nobiliari sui colli senesi, dove saranno testimoni dell’oscuro omicidio di un fantino a soli tre giorni di distanza dal Palio.

  32. da Panorama.it
    L’amante senza fissa dimora – Fruttero & Lucentini
    Anche qui il giallo, almeno in senso classico, viene accantonato per far posto a una storia dove si intrecciano noir, leggenda, romanticismo da love story e spezzoni al limite del saggio-pittorico. In una Venezia dai contorni rarefatti, seguiamo il malinconico incedere di due personaggi enigmatici, che si incontrano per dar vita a una fugace storia d’amore: lei, nobildonna romana, lui, accompagnatore da comitiva “tuttocompreso”.

  33. da Panorama.it

    Donne informate sui fatti – Carlo Fruttero
    Realizzato nel 2006, si tratta del secondo romanzo senza Lucentini (il primo è stato Visibilità Zero, nel 1999) e vale a Fruttero l’entrata nei cinque finalisti del premio Campiello. Il delitto della bellissima Milena, viene raccontato attraverso le voci di otto donne: ognuna ha il suo punto di vista, ognuna porta il suo spicchio di verità, che conferma, smentisce, confonde.

    http://blog.panorama.it/libri/2012/01/16/carlo-fruttero-5-libri-per-ricordarlo/?utm_medium=social&utm_source=twitter&utm_campaign=tweet

  34. Ricordo con molto piacere le storie di Fruttero e Lucentini. Quando Lucentini decise di andarsene (diciamo così) per me non fu piu’ lo stesso. Ora il duo si e’ ricomposto nell’aldila’, ma le loro storie rimangono per essere lette o rilette.

  35. Ho visto il video che hai proposto, Massimo Maugeri. L’ironia di Fruttero e’ semplice, leggera. Oserei dire disarmante e sorprendente. Credo sia un buon modo per ricordarlo. Grazie.

  36. Dopo gli attestati di do lore, arrivati da tutto il mondo della cultu ra e persino dalla sua squa dra del cuore, la Juventus, e dopo la programmazione speciale di Raitre e Sky an­data in onda ieri sera, si pre para l’ultimo saluto a Carlo Fruttero, l’ottantacinquenne giallista torinese e scrittore morto domenica sera che in sieme a Lucentini ha formato la coppia più interessante della letteratura italiana pur avendo un’avversione per i circoli intellettuali che si credono l’ombelico del mon do ed emanano “un’arietta da club con la cravatta d’or dinanza”. La sigla era “F&L”, detta “la ditta”, il più straor dinario sodalizio artistico fra scrittori che il Novecento ci abbia regalato: articoli di giornali, curatele di collane, traduzioni, romanzi, saggi, qualità altissima, scrittura divertente. ” C’è stato un tempo – scriveva Fruttero in ” Mutandine di chiffon” una quarantina d’anni fa, in cui qualche amico di passag gio ci paragonava scherzosa mente a Bouvard e Pécu chet”.

  37. Funerali previsti per domani o al più tardi giovedì a Casti glione. Il corpo verrà poi sep­pellito nella tomba di fronte a quella di Italo Calvino. To rino è in prima fila nel ricor do: la città organizzerà una serie di iniziative. «Nei pros simi mesi – ha detto il sinda co Fassino, intervenendo in consiglio comunale – rende­remo omaggio a lui e a Fran co Lucentini organizzando una serie di celebrazioni per rendere omaggio alla loro opera e a quanto ci hanno lasciato». Sempre ieri il con siglio comunale ha ricordato lo scrittore appena scompar so con un minuto di silenzio. «Di Torino – ha sottolineato Fassino – Fruttero ha rappre sentato i profili più caratteri stici: l’understatement, la sobrietà, il rispetto civico che si ritrovano in tante delle pagine che ha scritto».

  38. La donna della domenica è un romanzo giallo di Fruttero & Lucentini, pubblicato nel 1972.

    È ambientato a Torino e narra dell’indagine del commissario Santamaria sull’omicidio dell’architetto Garrone, personaggio che conduce una vita di squallidi espedienti a margine della Torino “bene”. L’architetto viene trovato ucciso nel suo pied-à-terre con il cranio sfondato da un fallo di pietra. Tra i protagonisti della vicenda ci sono anche gli amici Anna Carla Dosio e Massimo Campi. La prima è moglie di un ricco industriale, il secondo è un giovane della buona borghesia torinese che trascina stancamente una relazione con Lello Riviera, piccolo impiegato con velleità da intellettuale. Anna Carla e Massimo sono tra i primi sospettati, perché Garrone fa parte, insieme ad altri personaggi, di un loro “teatrino privato”, nel quale stigmatizzano i vizi, le affettazioni, il cattivo gusto dei loro conoscenti. Stanca del personaggio di Garrone, Anna Carla propone a Massimo, in una lettera risentita, poi non spedita, di “eliminarlo” dalla loro vita. Da quel momento i due saranno coinvolti, loro malgrado, nel’indagine.

  39. Anche Lello, che ha intuito che la sua relazione con Massimo è prossima alla fine, si appassiona all’indagine, per spirito di rivalsa: arriverà involontariamente vicino alla verità, senza comprenderla del tutto, e finirà ucciso dall’assassino di Garrone durante un giro al Balon, il mercatino delle pulci di Torino. Il commissario Santamaria (che al termine della vicenda avrà un’avventura con Anna Carla) arriva alla soluzione del caso attraverso un proverbio piemontese. Attorno ai personaggi principali ruotano numerose altre figure, delle più diverse estrazioni sociali: le anziane sorelle Tabusso, rintanate con la domestica nella loro villa in collina, assediata da un florido traffico di prostitute e clienti; il gallerista Vollero che, pur temendo di essere scoperto dai suoi clienti, si rifornisce di cornici al Balon; l’americanista Bonetto, un intellettuale immaturo, perso dietro improbabili, inutili (ed immaginarie) schermaglie culturali con odiati colleghi. Per tale ricchezza di personaggi e per la profondità dell’analisi psicologica il romanzo costituisce un vivido ritratto della società torinese.

  40. Il romanzo ebbe un grande successo e ne fu tratto un film con l’identico titolo: La donna della domenica diretto da Luigi Comencini nel 1975, con Marcello Mastroianni (Santamaria), Jacqueline Bisset (Anna Carla Dosio) e Jean-Louis Trintignant (Massimo Campi).

  41. Nel 2011 la Rai Fiction, con Rizzoli Audiovisivi, ha prodotto una miniserie tratta dal libro, sempre con lo stesso titolo La donna della domenica, interpretata da Andrea Osvart, Giampaolo Morelli, Ninni Bruschetta e Fabrizio Bucci.

  42. A che punto è la notte è un romanzo giallo di Fruttero & Lucentini del 1979.
    Don Alfonso Pezza, parroco della chiesa di Santa Liberata, muore durante una predica “alternativa”, ucciso da una bomba nascosta in un cero. L’indagine dei commissari Santamaria e De Palma sarà particolarmente difficile, in quanto intorno a Don Pezza gira tutta una serie di personaggi che hanno segreti da nascondere. L’omicidio di un carabiniere sotto copertura, nei panni di un venditore di matite darà una svolta alle indagini, fino a scoprire un traffico di pezzi di ricambio di automobili gestito proprio da Don Pezza insieme al sacrestano e ad alcuni dei suoi conoscenti, fra cui l’insospettabile dottor Musumanno, pezzo grosso della FIAT.

  43. Mi sono ritrovata sola nella città dei passi. E’ un suono che oramai si sente solo qui, e Raimondo sostiene che proprio per questo – più che per le sue bellezze naturali, i suoi tesori d’arte eccetera – Venezia è tanto amata e visitata. L’inconscia nostalgia del bipedismo, la chiama lui. E per la verità, queste note cos’ individuali, ora pressate tra muri strettissimi, ora smorzate dall’acqua, ora amplificate da una volta, un’arcata, ora dilaganti in un vasto spazio aperto, hanno tutte come una sfumatura orgogliosa; ecco sono qui, sono sceso dagli alberi, e con questi tacchi conquisterò la terra. Mi piacerebbe poter pensare di aver pensato a Mr. Silvera, di aver intuito il suo passo parallelo o trasversale al mio nel notturno labirinto veneziano. Ma posso dire se non altro che a quegli amabili echi sparsi intorno a me ero intensamente, stranamente sensibile. Pensavo a tutte le città del mondo dove una donna che cammini da sola dopo il crepuscolo non può sentire dei passi senza un brivido d’allarme, e provavo gratitudine, contentezza e un’eccitata leggerezza di bipede.

  44. E’ questione di un attimo. L’inesperto Luigi esita, calcola, misura. Oreste Nava lo vede valutare il vecchio impermeabile, la vetusta valigia sdrucita, l’aria logora del nuovo venuto. Vede la risposta emessa dal computer della scuola alberghiera: poveraccio, specie di occasionale segretario o più umile sottoposto, possibile questuante, nessun interesse. E vede Luigi schizzare verso la volpe, impadronirsi della sua sacca di plastica col prescritto sorriso di premurosa deferenza. “Imbecille, no!” vorrebbe gridargli Oreste Nava, che in quello stesso attimo ha visto, invece… Ma cosa ha visto, esattamente? E’ difficile spiegare. L’uomo ha posato la valigia e si guarda intorno, guarda Oreste Nava nel modo appena divertito, appena incuriosito, di uno che qui c’è già stato, che rinasce, che ricorda. Quest’uomo, chiunque sia, è di quelli che sono a casa loro dovunque, qui o sotto un ponte della Senna o in un Club di Piccadilly o un una traballante carrozza delle ferrovie indiane; che possono fare a meno di tutto, che non si lamentano mai per il fatto che piove o fa troppo caldo; che non fanno scene perché il gin-and-lime è tiepido; che non alzano mai la voce, che ti chiedono il servizio e ti danno la mancia con quella minima alzata di spalle, quella implicazione tra ironica e quasi affettuosa di chi è abituato a considerare la vita una lotteria in cui le parti potrebbero benissimo essere invertite. Un uomo non di mondo, ma del mondo, uno che non ha niente da dimostrare, anche lui con un suo album ricchissimo, prezioso, unico; un uomo di una volta. Quando l’uomo tira su la sua valigia e fa per avviarsi verso l’ascensore, Oreste Nava esce impulsivamente dal banco, e in due salti rapidi presenta la sua duplice fila di bottoni dorati. “May I help you, sir?” dice, con l’aria di confermare un dovere reciproco. E tende la mano verso al vecchia valigia che chiamerebbe la valigia del suo e di tutti i passati. “Ah”, ringrazia l’uomo col suo sorriso impercettibile.

  45. In questo momento avviene il sacrilegio. Il colpo arriva dal rosso Presidente che finisce di dire qualcosa alla padrona di casa, rivolge brevemente la parola alla sua vicina di destra e poi dedica la propria attenzione alla tazza di ambrato consommè che ha sul piatto. Esita un momento. Dov’è il cucchiaio? Oreste Nava rabbrividisce, se potesse si coprirebbe gli occhi con una mano. Perché quello infatti lo trova, il cucchiaio, lo impugna contento, lo immerge, lo porta alla bocca. Ma è un delicato, squisito, piccolo cucchiaio di vermeil! Un cucchiaio puramente di figura! Il cucchiaio del dolce, che non andrebbe mai usato nemmeno per il dolce! Oreste Nava vede la padrona di casa afflosciarsi per un istante sotto lo choc, poi rialzare le spalle e la testa, impettirsi tutta e far scorrere lungo l’ovale del tavolo uno sguardo imperioso. E via via gli ospiti, chi per amicizia, chi per acquiescenza, chi per divertimento, cominciano anche loro a prendere il cucchiai di vermeil e a immergerlo nel consommè, uno dopo l’altro. Una grande prova di forza, una grande prova di tatto. Ma no! Qualcuno non si sta, qualcuno tiene duro!… Oreste Nava non ha mai tanto desiderato di disporre della telepatia, perché senza dubbio il denso Luigi si lascerà sfuggire la grande lezione offerta da Mr. David Silvera, il quale ora solleva come si deve la tazza per i due manici e se la porta alle labbra, appena dischiuse per bere, ma che sembrano atteggiate a un sottilissimo sorriso.
     

  46. Il quarto libro della fantascienza, curato da Carlo Fruttero e Franco Lucentini e pubblicato da Einaudi nel 1991, è un’antologia di racconti di fantascienza, e costituisce il quarto elemento della serie iniziata nel 1959 ad opera di Sergio Solmi con Le meraviglie del possibile. Contiene 22 racconti di 19 diversi autori.

  47. Nell’introduzione Fruttero e Lucentini suggeriscono un parallelismo tra la fantascienza e il jazz che fa da filo conduttore dell’intera raccolta. I curatori evidenziano che i due generi – l’uno letterario e l’altro musicale – hanno in comune data e luogo di nascita (gli anni venti del XX secolo, negli Stati Uniti) e condividono una storia di “origini popolari e nobili ascendenze” nella quale la loro popolarità, un tempo enorme, ha conosciuto un declino tale da relegarli oggi a generi quasi elitari.

  48. Pur sottolineando che nella selezione dei racconti si sono attenuti al criterio della qualità dell’invenzione e della scrittura, Fruttero e Luncentini evidenziano come l’ordine cronologico possa suggerire delle corrispondenze, ad esempio tra il racconto d’apertura di Daulton (del 1908) e le composizioni pre-jazzistiche di New Orleans, o tra La lotteria della Jackson e il country, oppure ancora tra i due testi di Ballard e il cool jazz, eccetera.

  49. Ancora un grande scrittore che ci lascia e che potremo ritrovare solo nei ricordi, nei suoi intriganti libri e nelle storie costruite con duttile ironia e certosina pazienza. Il Suo spirito acuto e sottile così simile al nostro, di ” maledetti toscani”, aleggerà di nuovo fra noi e tutti lo ricorderrmo per aver onorato la nostra incantevole terra con la Sua cara presenza.
    Tessy

  50. e tutti lo – ricorderemo-, al solito ho sbagliato!
    Mio caro Massi e dolci amici, poiché sono già a buon punto…. e avete avuto la pazienza di sopportarmi da diversi anni, ricordatemi almeno per la folta fioritura di errori che seminato nei miei commenti.
    La Vostra Tessy

  51. Con piacere, pubblico una parte del saggio relativa alla vera protagonista del romanzo: Torino.
    “Grande protagonista del romanzo, “straordinario oggetto narrativo” nelle mani degli autori, la città di Torino acquista nella Donna della domenica una fisionomia nuova ed estremamente moderna, geometricamente ordinata e funzionale, ma con un’anima profondamente ambigua, caotica, enigmatica.

    Una doppia immagine di ordinata noia, come se […] la dinastia dei Savoia, costruendo le sue piazze geometriche e i suoi viali ripetitivi, avesse intuito la dinastia degli Agnelli e presagito, con la tipica clairvoyance dei poveri di spirito, la continuità delle catene di montaggio Fiat: la grande tradizione del prevedibile.

    Non era mai finita; non succedeva mai che, per almeno una settimana, un giorno, la città fosse in ordine perfetto, senza una facciata da dipingere, senza un albero da potare, senza una conduttura da coprire.

    Così Fruttero e Lucentini ci presentano la Torino dai netti rettifili e dalle prospettive ordinate, con le facciate tutte uguali e i quartieri tutti rassomiglianti. Una Torino che risulta, per questo, noiosa e monotona. La tradizione del prevedibile è, però, spezzata dai continui lavori in corso che invadono ogni angolo della città. Il caos degli itineranti lavori pubblici, necessari per mantenere l’ordine delle geometrie torinesi, introduce così un elemento di squilibrio e disordine nella città, che sarà origine di turbamento non solo estetico, ma anche e soprattutto psicologico e materiale per i cittadini.
    Una sensazione di attrazione/repulsione nei confronti del caos cittadino è quella ben esposta nei pensieri di Massimo Campi, il quale passeggiando per le vie di Torino, sente “da una parte, il risentimento ‘civilizzato’ contro quel chiasso infernale e quel probabile spreco di denaro pubblico; dall’altra, il fascino ‘primitivo’ della distruzione per la distruzione, l’orripilata ma complice venerazione di fronte alla sacra bestialità del mostro” , la ruspa gialla.
    Questo contrasto tra “civilizzato” e “primitivo” connota peraltro la stessa Torino. Una Torino grande, dilatata, convulsa e ringhiosa ma ancora non abbastanza grande, abbastanza metropoli, secondo la teoria dello stesso Campi. Territorio di contrasti, ancora per poco percettibili, tra città e collina, tra spazio urbano tetro, sgradevole luogo di lavoro, e la superstite natura del contado, sede della passione e dell’istinto. Qui si trovano le residenze dei ceti altolocati: la villa dei signori Campi, la Conca di Sogno dei Botta e la valle delle Buone Pere delle Tabusso. E qui hanno luogo gli idilli sentimentali fra il commissario Santamaria e Anna Carla, e il vagheggiare romantico di Lello. È cosi che la collina acquista una dimensione idealizzata, in cui sembra garantito il ritorno a forme di vita genuine. Ma anche a qualcosa di più, per così dire, primitivo, poiché la collina è anche il ritrovo di “tutta la puttaniera di Torino Sud! Tutto il Rotary delle troie!” , come dirà Ines Tabusso parlando del suo vallone. Quindi, il contrasto prima delineato sopravvive anche all’interno dello stesso ambiente. La città è infatti, a sua volta, luogo antropologico-culturale per eccellenza, sede di gallerie Vollero, di cinema Le Arti, degli atelier alla moda, ma è pure la sede di due delitti selvaggi persino nella scelta delle due armi falliche – l’itifallo e il pestello di pietra.
    Questa coesistenza forzata di civismo, spesso ipocrita e snobistico, e di istinto primordiale, talvolta delittuoso ed osceno, produce in tutti i torinesi “la schizofrenia del dottor Jekyll e del signor Hyde, di Caino e Abele” , come ci riferisce il Campi nella sua acuta e, direi, profetica visione della città.
    La Torino degli anni ’70 non ha ancora compiuto del tutto il trapasso alla modernità socioeconomica: da una parte, troviamo la grande simbolica azienda della Fiat che, con i suoi ritmi di lavoro e di produzione, ha reso la città un colosso industriale, arricchendola e deturpandola allo stesso tempo; dall’altra, resiste ancora la Torino sabauda con il suo “ambiente” altolocato, i suoi perbenismi e snobismi, i suoi rimpianti dei bei tempi andati. Ben lontana dalla Torino deamicisiana, la nuova città contemporanea deve vedersela con gli immigrati, le prostitute, i delinquenti, l’inquinamento, la mancanza di verde.
    (…)
    Particolare attenzione è prestata agli interni delle case torinesi, quasi tutti appartenenti a palazzi antichi e senescenti, e spiccatamente claustrofobici. La cameretta di Bonetto e di Regis, lo studio di Vollero, l’appartamento della famiglia Garrone, ma anche la villa delle Tabusso, danno tutti un senso di oppressione e frustrazione, nelle atmosfere cupe come nel mobilio o nei numerosi oggetti souvenir di una vita passata, quasi ad indicare le vite anguste e deprimenti dei loro proprietari.
    Si trovano poi gli ambienti labirintici, tortuosi degli uffici cimiteriali e degli uffici tecnici, gestiti dai vari Triberti e Pellegrini, i custodi delle misteriose complicazioni burocratiche che si muovono con naturalezza e maestria – se non con ostentato orgoglio – tra corridoi, porte, camere, anticamere e alti schedari.
    Il tema del labirinto si ritrova anche nello spazio esterno del Balùn, il vasto mercato delle pulci torinese, dove merci di ogni tipo, vecchie e sfasciate, sono accatastate sino a formare le alte pareti tra le quali avverrà il secondo omicidio. Se quindi i labirintici archivi degli uffici comunali rappresentano non solo la pedante lentezza della burocrazia ma anche lo stallo delle indagini, la complicazione topologica del Balùn è l’essenza del disorientamento esistenziale di tutta una società. Al Balùn non si reca solo chi come il gallerista Vollero, diviso tra l’animo artistico e il guadagno senza scrupoli, compra di nascosto cornici di seconda qualità per le sue opere da rivendere a prezzi più che maggiorati. Al mercato delle pulci si recano i Lello che non si sentono mai all’altezza di niente e di nessuno, i Bonetto pseudo-acculturati che sperano in un riconoscimento dai circoli accademici, le signore Dosio che vagheggiano trasgressioni di ogni sorta pur di dare una svolta alle loro vite piatte. Ed infine tutte le Ines Tabusso che si fanno giustizia da sole, credendo di fare la cosa più utile e sbrigativa a dispetto dell’inefficienza della polizia.
    Questa città confusa e incasinata, in cui “niente è quello che sembra, niente sembra quello che è” , ricorda la Milano di Scerbanenco, a cui Fruttero e Lucentini devono molto, soprattutto per la descrizione realistica della realtà urbana dell’Italia contemporanea. Non è sicuramente una giungla inestricabile né il male è cosi dilagante come nella Milano dello scrittore di Venere privata. Nella Torino di Fruttero e Lucentini, l’odore non è di morte, al massimo è odore di fritto .
    (…)

  52. Purtroppo il post non mi permette di differenziare le citazioni dal resto. Spero non risulti troppo confusionario.

  53. Posso dire una cosa? E’ un grande piacere leggere i vostri commenti, le vostre impressioni. Grazie Massimo per questo splendido blog, che permette di arricchirsi tanto. Detto col cuore e con grande stima

  54. Ho letto solo “La donna della domenica” di Fruttero e Lucentini. Adesso ho voglia di leggere altro.

  55. Grazie a Maugeri per questo blog che Repubblica ha considerato tra i tre piu’ importanti in Italia.

  56. Di Carlo Fruttero mi piaceva anche la bontà dello sguardo e la limpidezza del suo parlare. Una persona positiva: semplice, ma profonda; colta, ma alla portata di tutti. I suoi libri sono un patrimonio della narrativa italiana del secondo Novecento. Come tale vanno tutelati e divulgati.

  57. Le mie parole di sopra credo che si possano accostare anche al video che è stato messo in questo post.

  58. Caro Carlo Fruttero, grazie per tutti i libri che hai scritto insieme a Lucentini. Uno di questi, in particolare, mi ha tenuto compagnia durante una brutta degenza ospedaliera di qualche anno fa.

  59. Il famoso scrittore Carlo Fruttero nato a Torino il 19 settembre 1926 (ma con casa nel Monferrato astigiano, Passerano) è morto a Castiglione della Pescaia domenica 15 gennaio. Sarà seppellito nella tomba di fronte a quella di Italo Calvino scomparso a Castiglione di Pescaia nella notte fra il 18 e il 19 settembre 1985 (e compagno di stanza di Fruttero alla Einaudi).
    – In uno dei nostri ‘Viaggi d’autore’ (3 luglio 1988) avevamo recensito un capitolo di Fruttero dal titolo «Santa Maria delle Congetture», inserito in un bel volume dell’Allemandi sull’Abbazia di Vezzolano. A corredo pubblicavamo una intervista con lo scrittore. La riproponiamo: Nel 1942 la famiglia Frutture è «sfollata» a Passerano nella casa avita sotto il castello dei Radicati di Marmorito («la casa della nonna con a fianco una piccola vigna»). Indirizzato dagli amici «più vecchi di me son quasi tutti scomparsi…» ha accesso alla biblioteca del castello. «Fuori c’erano Tedeschi e partigiani, rastrellamenti e io chiuso dentro con Flaubert e Maupassant; in quella biblioteca è incominciato il mio amore per la letteratura…».

  60. Nel suo carnet, citiamo «La donna della domenica», famosissimo del 1972, «A che punto è la notte», «Il palio delle contrade morte», «La prevalenza del cretino» (dove Casale ha unacitazione), «L’amante senza fissa dimora», «Enigma in luogo di mare», tutti con Lucentini con cui ha composto anche la commedia teatrale «La cosa in se», una raccolta di poesie «L’idraulico non verrà» e la direzione della collana di fantascienza Urania. Bene. Lo scrittore torna spesso al paese monferrino, tra gli amici ci cita il pittore Leonardo Mosso («mi ha fatto un bellissimo ritratto, una vanitas, con teschio e simboli letterari»).

  61. Ricorda anche Sandro Doglio che cerca di instradarlo all’enogastronomia. Fruttero ama il Monferrato: «che colline meravigliose, recentemente ero in quel piccolo paese che si chiama Olivola a sentire un concerto invitato da un manager nel settore editoriale, Cane (figlio del giornalista Gigi e nipote di Chessa); anche di Casale ho un bel ricordo, case stupende ma voglio ritornare in visita presto, son rimasto affascinato dal libro della Debenedetti sulla Sinagoga degli argenti…».

  62. L’ultimo libro di Fruttero (Mondadori 2010) è stato ‘‘Mutandine di chiffon’’. L’apertura è dedicata al castello di Passerano, alla vendemmia arrivando da una strada sterrata attraverso Castelnuovo don Bosco. Ma un intero capitolo, a mo’ di intervista dal titolo ”Il banchiere e lo scrittore” riguarda l’amicizia con il noto banchiere (e coetaneo) Vittorio Venesio, figlio del casalese Camillo.

  63. Salve, vorrei scrivervi due aforismi molto belli di Carlo Fruttero.
    Il primo dice così: “Il cretino è imperturbabile, la sua forza vincente sta nel fatto di non sapere di essere tale, di non vedersi né mai dubitare di sé”.

  64. Il secondo aforisma è questo: “Tranne forse gli animali delle favole di La Fontaine, nessuno è mai stato bravo come gl’italiani nell’arte d’inventare nobili pretesti per eludere i propri doveri e fare i propri comodi”.
     

  65. Grazie mille anche a: Teresa Santalucia Scibona (grande, Tessy!), Giovanna, Alessandra Leone, Riccardo Sanno, Mirella Di Pasquale, Alessandra e tutti gli altri anonimi che hanno lasciato contributi.

  66. Sto rileggendo le migliori opere del mitico duo della donna della domenica. E’ il miglior modo per omaggiare Fruttero.

  67. Funerale di Fruttero a Castiglione, sulla bara le sue sigarette e i suoi libri: Pinocchio, Manzoni e Le fiabe popolari italiane di Calvino…

  68. medico racconta che invece di fare la passeggiata, Fruttero si nascondeva a fumare.
    Al ritorno per non deludere le figlie: sto molto meglio…

  69. Fruttero, i funerali: addio col sorriso

    Grosseto, 20 gennaio 2012 – La sala del consiglio comunale di Castiglione della Pescaia ha fatto da scenario per l’ultimo saluto a Carlo Fruttero, il grande scrittore morto a 85 anni domenica. E’ stato un “funeral party” come lui voleva. Tra gli amici per l’ultimo saluto, anche Fabio Fazio, che ha pubblicamente ricordato lo scrittore. Intorno alla bara, centinaia di libri. Fruttero è stato tumulato a Castiglione della Pescaia, proprio vicino alla tomba di Italo Calvino.

  70. Castiglion della Pescaia (Grosseto), 20 gen. – (Adnkronos) – Si e’ conclusa con un party, con tanto di brindisi a base di spumante e di prosecco e pizzette e salumi, la ”festa di addio” a Carlo Fruttero, lo scrittore morto domenica scorsa all’eta’ di 85 anni nella sua casa immersa nella pineta di Roccamare, nel conune di Castiglion della Pescaia (Grosseto). Al ”funeral party”, come aveva chiesto piu’ volte Fruttero negli ultimi mesi di vita, hanno preso parte circa 300 persone, che si sono radunate oggi pomeriggio nella sala del Consiglio comunale all’interno della Biblioteca Civica intitolata allo scrittore ed amico Italo Calvino.
    Davanti alla bara, sulla quale spiccavano una trentina di copie di ”Pinocchio”, libro amatissimo dallo scrittore defunto, Fruttero e’ stato ricordato dalla figlia Maria Carla, dal sindaco Giancarlo Farnetani, dallo scrittore Ernesto Ferrero, dalla direttrice della Biblioteca Patrizia Guidi e dal suo medico personale Ianetta Giannetti. Fabio Fazio e Mario Calabresi hanno letto il ”Decalogo dei vantaggi della vecchiaia” scritto da Fruttero per una delle serate del programma tv di grande successo ”Vieni via con me”, condotto dallo stesso Fazio con Roberto Saviano. Poi a tutti i presenti e’ stata donata una chicca letteraria postuma di Fruttero, una ballata di sette pagine dal titolo ”La linea di minor resistenza”, tirata in un’edizione limitata di 300 copie dall’editore Carlo Gallucci.
    Dopo le orazioni funebri, le figlie Maria Carla e Federica hanno invitato tutti i presenti a brindare alla memoria di loro padre e ad assaggiare le specialita’ gastronomiche della Maremma: dai salumi ai formaggi, dalla schiaccia alla soprassata. Infine la bara e’ stata tumulata nel cimitero comunale davanti alla tomba di Italo Calvino.

  71. L’addio con il sorriso al grandissimo Fruttero
    21/01/2012 MARIO BAUDINO
    Se n’è andato con le espadrillas gialle, quelle comprate al mercatino della Crocetta, che avevano fatto un po’ discutere quando le indossò per salire sul palco veneziano del Campiello, tra una giungla di smoking. Nel cimitero marino di Castiglione della Pescaia lo aspettava Italo Calvino, dietro un fitta siepe di rosmarino fiorito. Ora, se si sporgeranno un poco alla sinistra, potranno vedere le onde e la spiaggia, ma non è detto che lo faranno. Carlo Fruttero non ha lanciato indicazioni. Quanto al resto, aveva disegnato tutto per benino, con la sua serietà ironica e apparentemente distratta, e tutto è stato eseguito.

    La camera ardente nella Biblioteca Civica (intitolata a Calvino) era come la sua camera da letto nella vicina pineta di Roccamare, con libri ammassati dovunque intorno alla bara su due lunghi tavoli, e poi ancora sotto e sopra la cassa di legno chiaro. In prima fila, ai suoi piedi, «Pinocchio», i «Promessi Sposi» e la «Fiabe italiane» di Calvino, gli occhiali, le sigarette (i fiammiferi da cucina erano nella cassa).

    Il «Funeral party» è perfettamente riuscito, anche se è difficile negarsi qualche lacrima. Ci sono venuti tutti: gli abitanti di Castiglione della Pescaia, di cui Fruttero era cittadino onorario; i suoi editori da Riccardo Cavallero, direttore generale di Mondadori, a Antonio Riccardi, Piera Cusani, Francesco Anzelmo, con Mauro Bersani per l’Einaudi e Carlo Gallucci, che ha curato una bella plaquette in300 copie, con una sua ballata inedita.

    Tra gli amici di antica data c’erano Ernesto Ferrero e Lodovico Terzi, cui sono dedicate pagine memorabili di «Mutandine di chiffon», autore quasi coetaneo – è del 1925 – di quel «Due anni senza gloria» (Einaudi) che per Fruttero è un capolavoro assoluto. Assente per indisposizione Pietro Citati.

    Il party vero e proprio si è celebrato al primo piano della biblioteca, nella sala ragazzi: prosciutti toscani, pecorino, soppressata, salame e buon vino, come l’aveva organizzato, a distanza, Fruttero stesso. «Franco (Lucentini) mi avrebbe detto: e che sarà mai. Papà avrebbe aggiunto: come viene viene. Ed eccoci qui – ha detto la figlia Carlotta – : non per un funerale, ma un saluto come voleva lui». E come era lui, soprattutto.

    Ernesto Ferrero ha letto un’altra poesia, che culmina con due ironici versi: «Non a me la dama grigia/consegnerà la coppa», per ricordare che in fondo Carlo «non ha bisogno di coppe, e neanche della nostra gratitudine e del nostro affetto. Proprio per questo continuremo a dargliele con tutto il cuore».

    Il suo medico curante, Jannetta Giannotti, ha ricordato quando lo trovò nascosto dietro un pino con i nipoti, allora bambini. Le spiegò che le figlie lo «buttavano fuori casa» perché facesse una salutare passeggiata, ma lui se ne stava lì e dopo un bel po’ ricompariva annunciando che aveva camminato, dunque stava molto meglio. «Non mi sento di deluderle». Disse anche che per morire si deve scegliere il momento adatto. Le sue preferenza erano per i periodi elettorali: quando i giornali avrebbero messo solo un trafiletto. Non è andata esattamente così, pazienza.

    In compenso, tutto si è svolto come aveva immaginato nel monologo sui «Vantaggi delle vecchiaia». Lo hanno riletto, un pezzo per uno, Fabio Fazio e Mario Calabresi direttore della Stampa, il suo giornale. Si conclude così: «Passati gli ottant’anni nessuno osa più scrivere di te “il vecchio Fruttero”, ancor meno “l’anziano Fruttero”. Così si passa a un sinonimo lusinghiero: “il grande Fruttero”. Per far capire che è solo un modo di dire, si può ricorrere a un superlativo: “il grandissimo Fruttero”, che qui saluta e lascia la scena col suo più bel sorriso».

  72. Un bel gesto ricordare Carlo Fruttero. Io lo sto riscoprendo in questi giorni, anche rileggendo i libri scritti con Lucentini.

  73. Sono nata a Torino, in una luminosa giornata di metà luglio. Mi hanno raccontato che fin da subito ho dato forti segnali di testardaggine, non volevo uscire dal mio rifugio per niente al mondo e ho fatto dannare mia madre, l’ostetrica e i medici fino alle nove di sera. Mio padre era fuori per lavoro e quando si presentò in ospedale la nonna Silvia, suocera da lui amatissima, gli corse incontro esclamando: «Carlo, è nata finalmente!».

    «Ah, sì?!? E come si chiama?» chiese lui.
    Per anni in famiglia abbiamo riso di questo aneddoto che in realtà riassume, ora lo so, un modo di pensare e vedere la vita che mi ha in qualche modo contaminata fin dall’inizio della mia avventura nel mondo. […]

    Una mattina, a un’ora inconsueta, mi mandò a chiamare: «Vieni qui. voglio scrivere una cosa». Pensavo a una lettera, a un pezzo al vetriolo contro qualche nefandezza politica e invece mi spiazzò fin dalla prima riga: «Lungo la linea di minor resistenza / siamo in marcia da gran tempo, stanchi / ormai, ingobbiti e tuttavia grati, nell’insieme».
    Era una ballata sulla vita, La linea di minor resistenza, che si era costruito in testa per vent’anni – mi confessò – ma che solamente da poco era riuscito a «chiudere». Dettava veloce, senza pause, per non perdere il filo, credo, o forse per liberarsene una volta per sempre.
    Un testamento. Una confessione. Attraverso quelle righe rivelava a me per prima e poi a chiunque le avesse mai lette, cosa avesse significato per lui vivere. E mi faceva anche capire quanto fosse consapevole del poco tempo che gli rimaneva.

  74. «Allora? Che ne pensi?».
    «Papà, è bellissima! Un capolavoro!».
    «Sì, vabbè, adesso non esagerare come tuo solito. Non è male, mi è venuta abbastanza bene. Ma devi promettermi che non la farai pubblicare prima della mia morte».
    «E come potrei? Viviamo sotto lo stesso tetto ventiquattr’ore al giorno, come farei a pubblicarla a tua insaputa?».
    «Sì, è vero, ma con te non si può mai sapere. Prometti!».
    «Prometto, prometto. Però lasciami dire che è bellissima!».
    Ho mantenuto la promessa. La linea è stata stampata in trecento copie numerate che abbiamo regalato il giorno del suo funerale a tutti gli amici presenti e poi è stata pubblicata ad aprile da Gallucci, impreziosita dalle deliziose illustrazioni di Giuliano Della Casa. Non è un testo di facile comprensione, le metafore utilizzate sono l’esempio di una straordinaria padronanza e conoscenza della nostra lingua e di una rara capacità di incastrare mirabilmente le parole tra loro, creando immagini cupe ma anche delicatissime, riuscendo a emozionare con un solo aggettivo.
    La «linea» di papà è quella di tutti noi che, come lui, rincorriamo continuamente qualcosa senza sapere veramente «cosa».

  75. Da novembre a febbraio Castiglione va in letargo. Alberghi chiusi, ristoranti sprangati, negozi serrati, resta qualche bar, un paio di alimentari, l’erboristeria, la libreria, il Vótapentole, l’enoteca di Luciano, il Sax e il Guru dove prendere l’aperitivo. Se non sei più che strutturato, un simile deserto può mandarti alla neuro. Ma noi abbiamo sempre trovato il modo per goderci anche quello.
    Per papà invece era diverso. Lui non si poteva muovere, quindi bisognava che si muovessero gli altri. Fu così che chiesi a Lodovico Terzi di venire a passare qualche giorno da noi.
    Quella visita fu cruciale. Papà si rianimava, raccontava, si faceva raccontare e si godeva la compagnia del suo amico fraterno. E fu proprio in quella occasione che Lodo gli raccontò un episodio della sua vita che affascinò talmente papà da volerne scrivere un racconto. Ma non poteva essere un racconto tout-court, bisognava inserirlo in un contesto più ampio, ma quale?
    A poco a poco prese corpo l’idea di un’autobiografia sui generis, fatta di ricordi personali, episodi vissuti, ritratti di amici. Il materiale era già tutto pronto, bastava metterlo insieme, selezionarlo, arricchirlo di cose nuove e il libro era fatto. Papà e Lodo decisero che, dopo una prima selezione, si sarebbero rivisti a Passerano (luogo ideale per lavorare) e avrebbero buttato giù una specie di scaletta. E la prima selezione, naturalmente, toccava a me.

  76. In tutti quegli anni di «Temperini» avevo salvato gli articoli nel mio computer, così cominciai a rileggerli e a mettere da parte quelli che raccontavano le storie di vita di papà. Poi li stampai, li rilegai e li appoggiai sul suo comodino. Intanto lui ogni giorno mi dettava un pezzetto della storia di Lodovico.
    I mesi passavano, l’inverno finiva, potevamo cominciare a pianificare Passerano. Decidemmo di andarci a fine aprile e, dopo aver informato Lodo, chiamai la Mondadori e dissi a Franchini e a Riccardi che papà stava lavorando seriamente a questa inconsueta autobiografia e che per portare a termine il progetto bisognava dargli delle scadenze precise, altrimenti c’era il rischio che si demoralizzasse strada facendo e smettesse del tutto. Non volevo mettergli ansia, ma non volevo neppure che si sentisse troppo libero. Decidemmo quindi di fissare come data ultima di consegna la prima metà di febbraio 2010, con la pubblicazione del libro ad aprile. Un anno di tempo.

  77. Le due settimane di ritiro a Passerano furono estremamente proficue. Con Lodovico rilessero tutto, scartarono alcune cose, pianificarono nuove aggiunte e suddivisero per argomenti i vari brani: amici, famiglia, luoghi e così via.
    La definizione del canovaccio è fondamentale per la stesura di un libro, se hai le idee chiare lavori meglio, con metodo e organizzazione mentale. E papà aveva proprio bisogno di questo. Lo osservavo lavorare insieme a Lodo con una commozione profonda, era un po’ come tornare ai tempi di Franco, anche se Lodo è completamente diverso.
    Ma loro due seduti uno su un divano, l’altro sull’altro, con i grissini arrotolati nel prosciutto appoggiati sul tavolo, il bicchiere di vino rosso per Lodo, la birretta per papà, erano uno spettacolo rincuorante. In sottofondo le campane del paese a segnare il tempo e i ritmi di lavoro, le immancabili tortore e il profumo di salvia e bergamotto che entrava dalle finestre aperte sul giardino. Fu quella l’ultima volta che papà vide Passerano, ma io ancora non lo sapevo: in quel momento ero felice.

  78. Quando incontrai la prima volta Fruttero era, da alcuni mesi, mancato Lucentini. Non conoscevo personalmente né uno, né l’altro, ma ero cresciuta abbeverandomi dei loro testi, come autori e curatori. Avevamo un amico in comune, Malcom Sky, che ci aveva lasciato prima del tempo ed era stato mio Maestro nell’universo del Fantastico. Non ricordo esattamente il mese, ma eravamo all’inizio del 2003 e mi venne in mente di istigarlo a scrivere un libro tutto suo. Così andai a trovarlo. Mi innamorai di lui dal primo istante, non era possibile altrimenti. Fu squisito, come un gentiluomo d’altri tempi, un po’ sornione e molto schivo, da bravo piemontese. Al tempo lavoravo a Roma e cominciai a inondarlo di invii di testi, e anche quando passai a lavorare per un’altra casa editrice, e ci rivedemmo più volte, a cambiare fu solo il logo dell’editore, non quel che gli chiedevo. Cominciò a intessere le fila di un lungo racconto, dove raccontava di un signore piuttosto anziano che camminava lentamente nelle strade intorno via Juvarra, fermandosi in ogni bottega e illuminando con storie vere quel che vedeva, ma «sa un po’ di Balzac, non so, vediamo», ripeteva. «Non mi mancano gli editori, mi manca la voglia di scrivere.» Invece poi la realtà ha felicemente contraddetto ogni previsione e dopo un po’ iniziò a regalarci un testo più bello dell’altro. Era una persona speciale, e quando si mise a scrivere con un altro mio autore, lo sentii di nuovo vicino, grazie al tramite di amicizia. Di lui ricordo soprattutto il rigore e la vicinanza quasi fisica con cui parlava di Letteratura. In quel salottino torinese che sembrava uscito da un testo di Henry James, mi ha regalato momenti bellissimi sul senso dello scrivere che conservo nel cuore, e di cui resto debitrice a vita.

  79. molto bello anche il ricordo di Manuela La Ferla (ho letto la bella intervista di Massimo Maugeri su LetteratitudineNews sulla sua Casa dell’autore. Complimenti!)

  80. Di Fruttero ho letto solo un romanzo scritto a 4 mani con Lucentini. Vorrei leggere uno dei nuovi romanzi scritti da solista. Chiederò consiglio al mio libraio, ma si accettano suggerimenti anche da qui.

  81. pensare a Carlo Fruttero mi dà l’idea del Novecento letterario italiano che se ne è andato via. però , come ha detto qualcuno, i libri rimangono.

  82. Ciao, mi piacerebbe riportare alcuni passaggi dell’intervista che Fruttero rilasciò ad Antonio Gnoli su Repubblica del 16 aprile 2012, quando uscì il libro “Mutandine di chiffon”

  83. Gnoli sottolinea come dentro le pagine di questo libro scorrano i ricordi: la famiglia, la scuola, la guerra, gli amici cari, i personaggi illustri, i libri letti, storie a volte allegre a volte dolorose. Siamo di fronte a una piccola autobiografia, senza pretese cronologiche o di importanza, sorretta da uno stile cui non fa difetto né la grazia né l’ acume.

  84. Da tempo Fruttero – sottolinea Gnoli – non viveva più a Torino, ma nella sua casa marina di Roccamare.
    Ecco cosa dice di Lucentini: «Franco non amava il mare, non poteva soffrire il vento che qui è forte,e poi era coperto di nei che sconsigliavano l’ esposizione al sole. Quando arrivava, alloggiava in un albergo su una collina non lontana. Ma si vedeva che era insofferente, desideroso di tornarsene nelle sue terre. Ero soprattutto io che lo andavo a trovare».

  85. Quando Gnoli gli chiede se gli mancano le telefonate quotidiane, gli incontri, la presenza di Lucentini, lui risponde? «A un certo punto devi adattarti a quello che è accaduto. La vecchiaia è un aggiustamento continuo con cacciavite e chiave inglese. Tiri avanti. Anche la morte di Franco l’ ho dovuta mandar giù e adesso quando scrivo, quando penso è come se mi sdoppiassi. Ho provato a vedere con il suo occhio questo mio libro e non sono sicuro che lo avrebbe del tutto approvato. Alcune cose non le ho inserite proprio perché gli sarebbero parse fatue».

  86. Ecco qualche altra bella citazione di Carlo Fruttero presa da questa intervista.
    «Mi spaventano le persone sicure di ciò che dicono, che parlano di politica, di economia, di letteratura imponendoti cosa occorre o non occorre fare. Mi tengo alla larga dai gestori della verità. Leggendo da ragazzo Monsieur Teste, trovai una frase che allora mi colpì molto: Teste, scrisse Valéry, n’ avait pas d’ opinion. Questo è sempre stato il mio ideale al quale mi sto avvicinando da vecchio».

  87. E poi questa, sul fatto che leggere, viaggiare, ascoltare corrisponda anche formarsi delle opinioni.
    Dice Fruttero: «Viviamo in uno stato di confusione permanente, in giro c’ è molto chiacchiericcio e poca verità umana. La passione dei libri è stata soprattutto fine a se stessa: un divertimento, prima di ogni altra cosa».

  88. E poi bello questo ricordo di Fruttero sul primo libro letto
    «Mi pare fosse Il corsaro nero: “Uomini del vascello! Alt o vi mando a picco”, credo cominciasse così il romanzo di Salgari. Avrò avuto cinque anni, me lo leggeva una domestica veneta di nome Palmira. Da allora ho vissuto di libri e devo dire che questa curiosità di leggere tutto, di infilare il naso in ogni pagina, la considero una fortuna immensa. Ancora oggi mi arriva una quantità rilevante di libri: dalla storia di Roma al giallo svedese, non c’ è testo che non mi incuriosisca».

  89. Passiamo ai ricordi legati alla casa editrice Einaudi…
    «La casa editrice fiancheggiava il Pci. Einaudi si era forse persuaso che il comunismo fosse una forma di nuovo illuminismo. Pensa te! Tanti in buona fede hanno creduto a questa favoletta. Ma non ho mai capito le scelte misteriose di personaggi quali Italo Calvino o Giulio Bollati. Come potevano dirsi comunisti? Non vedevano, loro in genere così acuti e intelligenti, che in Unione Sovietica e nei paesi vicini si passava da una censura all’ altra, da una repressione all’ altra?».

  90. Carlo Fruttero ricorda Giulio Einaudi.
    «Indubbiamente fu un eccellente editore. Ma anche un divoratore di persone. Tipico dei sovrani: sceglieva uno, gli concedeva i suoi favori e poi senza una ragione precisa lo distruggeva. Conosceva l’ arte, chiamiamola così, di mettere l’ uno contro l’ altro: divide et impera. Praticava queste cose d’ istinto, non credo che le avesse imparate. Devi essere tagliato per esercitare il potere. E nel potere conta soprattutto il lato meno nobile».

  91. Il rapporto di Fruttero con il “potere culturale”…

    «Ho evitato di diventare come quegli intellettuali carichi di onorificenze, invitati a tenere seminari in prestigiose università, a fare i giurati dei maggiori premi, contesi dai giornali e dalle televisioni; di essere parte di un mondo esclusivo e inebriante. Non eravamo, posso dirlo anche a nome di Franco, posseduti dal demone della visibilità e del successo. Il successo non lo abbiamo cercato. È venuto e lo abbiamo accettato senza perdere la testa. E non ci piacevano le consorterie, le adulazioni, i veleni. Sorvegliavamo la situazione, spalla a spalla, con le pistole all’ erta. Ci siamo difesi benissimo. Siamo rimasti esclusi da tante cose, ma nello stesso tempo abbiamo condotto una vita tranquilla. Una vita in parte fortunata, con i soliti disguidi, non ultimo quello della vecchiaia».

  92. Sulla vecchiaia…
    «Speravo di scivolare pian piano, solo che questo scivolare arriva e vedi che ha degli aspetti insopportabili che finisci con il sopportare lo stesso. Sono molto accudito: le figlie, la badante, i nipoti. Mi procurano tutto quello che chiedo. È un sollievo poter contare su di loro. Ma la vecchiaia non è un gran divertimento. Per fortuna ci sono ancora i libri. Ho appena finito di rileggere Cuore, un testo ben combinato. Sembra un manuale di propaganda sovietica che De Amicis scrive in perfetta buona fede immaginando una possibile coesione sociale dell’ Italia dopo l’ unità. Il tipo di italiano che immagina è esattamente agli antipodi da quello descritto da Collodi in Pinocchio che è un capolavoro straordinario, attraversato da una voracità geniale. Per Collodi ‘ italiano è furbo, scatenato, goloso, mentitore, cuore d’ oro ma traditore: con quel naso! È pronto a ogni avventura, anche la più improbabile: promesse a non finire e mai mantenute. Mentre invece l’ italiano di De Amicis va a scuola, rispetta i compagni, è solidale con i poveri: da Cuore proviene il severo monito, da Pinocchio il marameo. Ho l’ impressione che oggi a prevalere sia quest’ ultimo».

  93. Alcune riflessioni sulla vita e sulla morte…
    «A metterla molto semplice posso dire che ho sempre seguito un unico principio: io speriamo che me la cavo. Non ho mai pensato al di là di questo. E adesso che la morte si avvicina spero solo che non mi faccia male. Non mi fa paura, ho un po’ d’ ansia per il fatto che al momento possa soffrire e dopo non so. Con Franco ne discutevamo. Lui diceva: “Guarda Carlo, non se ne può parlare in senso proprio. Va considerata come un viaggio”. Ecco, stiamo a vedere che cosa sarà questo viaggio. La morte è inverosimile. Perché quello che succede dopo non è raccontabile. E allora fino a quando non senti bussare i primi colpi, non ci credi, non ti sembra possibile». (…) «Ho il tormento di lasciare figlie e nipoti a soffrire per colpa mia. Ma non posso cambiare niente: così è la vita e così finisce. Sono stato fortunato, ma al tempo stesso ho incassato colpi terribili. E per dirla come un pugile: non sono caduto al tappeto, ho continuato il mio incontro di boxe. E alla fine “io speriamo che me la cavo” è stato un buonissimo lume che mi ha accompagnato e mi ha fatto dire: intanto questa cosina ce l’ ho e per il resto si vedrà. Ho vissuto senza aspettarmi molto, anzi senza aspettarmi niente. E se ti convinci che non ci sono speranze e che il mondo è impazzito, da quel momento in poi puoi vivere benissimo. Scherzi, ridi, conversi, perché quel problema lì lo hai chiuso. Non ci puoi fare niente e allora ti resta tutto il bello della vita»

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