Dicembre 22, 2024

403 thoughts on “UNDICI SETTEMBRE

  1. In quei giorni sarei dovuto partire per la California, ma il viaggio fallì per via della sospensione dei voli intercontinentali. È probabile che non sarei partiti lo stesso, non lo so. Ma non ha importanza.
    Questo è un piccolissimo, insignificante aneddoto su come quella tragedia ha condizionato le nostre vite nell’immediata vigilia.
    Chissà se qualcuno di voi ha anneddoti simili da raccontare!

    Poi un invito: (oltre a rispondere alle domande del post) se navigando vi capita di intercettare notizie o editoriali particolarmente interessanti “copincollateli” qui (come fanno spesso i nostri amici Ciceroni).

  2. Un’ultima cosa. Ho cercato sulla rete video idonei a controbilanciare il film “Inganno globale”, ma ho avuto qualche difficoltà.
    Magari qualcuno di voi è più bravo o più fortunato di me. In tal caso sarebbe opportuno indicare eventuali link tra i commenti.
    Altrimenti non ci resta che leggere “La cospirazione impossibile” di Massimo Polidoro, perché (ripeto) “quel video” per me è stato davvero agghiacciante.
    Attendo fiducioso vostri contributi. Di qualunque tipo.
    Buona notte.

  3. Caro Massimo, IL GRANDE PECCATO DELL’UNDICI SETTEMBRE:

    A nome di Dio
    ognuno fa male a suo modo,
    il proprio IO purtroppo
    è il vero peccato .

    Peccato, perché tutto vogliamo,
    tutto programmiamo
    per l’interesse dell’ I O.

    Ma semmai un giorno
    ci confrontiamo con DIO,
    chissà quanti all’inferno
    ci troveremo.

    Ma sempre quell’I O
    farà in modo
    di scaldarsi le mani.

  4. Caro Massimo,
    ti ringrazio per la segnalazione sull’11 settembre.
    Premetto che sulla teoria del complotto non ho idee precise. Posso solo dirti, grazie al lavoro che faccio e alle conoscenze “pesanti” che ho, che al Pentagono e alla Casa Bianca c’erano da tempo segnalazioni e rapporti che prefiguravano un evento di quella portata. Evidentemente furono ignorati o, come minimo, sottovalutati
    Enrico

  5. L’11 settembre mi ha colpito al punto da dedicare a quella tragedia un romanzo, seppur indirettamente. E’ il primo che abbiamo pubblicato io e Loredana Falcone: “New York 1920 – il primo attentato a Wall Street”.
    Le immagini delle torri che crollano mi sono rimaste impresse nella retina e nel cuore, insieme alla convinzione che quel disastro, se non voluto, di sicuro e’ stato sfruttato da Bush per garantirsi una forza di governo che alla vigilia dell’11 settembre non aveva ne’ poteva avere. Un’elezione con l’ombra inquietante del broglio, una differenza di pochi voti, un paese diviso. Ma gli americani hanno una forza che noi non avremo mai: davanti al pericolo (vero o presunto, istigato dall’interno o imposto dall’esterno) mettono i carri in circolo e fanno fronte comune sparando come un sol uomo. Bush ha giocato su questo per garantirsi una guerra inutile, quella in Iraq e due mandati presidenziali. Si sono svegliati gli americani, hanno capito? La teoria del complotto contiene, a mio modesto avviso, un seme di verita’. Forse e’ vero che la CIA aveva avuto un sentore del pericolo, forse quei quasi tremila morti erano “necessari” per una rinascita politica di Bush. Ho letto molto, consiglio “A nation challenged” edito dal New York Times e “102 minuti”, una raccolta di testimonianze e registrazioni delle telefonate e delle comunicazioni tra coloro che rimasero intrappolati, i vigili del fuoco, la polizia e tutte le autorita’ chiamate ad affrontare il disastro inaffrontabile. Ne esce un quadro disarmante di ingenuita’ ed inefficienza che mai avremmo affiancato agli Stati Uniti. Non credo che le torri siano state minate, non so cosa dire rispetto all’incidente del Pentagono con quell’aereo volatilizzato nel nulla. Ma la realta’ dei fatti e’ che, dopo l’11 settembre, la compatezza interna degli Stati Uniti e’ stata piu’ forte che mai. Almeno fino a quando i morti in Iraq non hanno ampiamente superato il numero delle vittime di Ground Zero.
    Laura

  6. Caro Massimo, stanotte ho visto il video “Inganno globale” e non ho chiuso occhio. Non sono riuscita ad addormentarmi. Quel video non è agghiacciante, è SCIOCCANTE. Per tutta la notte, fino all’alba, mi passavano per le orecchie le voci delle telefonate via cellulare dei poveri disgraziati inprigionati nelle Torri che disperatamente chiedevano aiuto.
    Troppo impressionante quel video. E troppe le domande che ancora oggi non trovano risposte.
    Però nemmeno io, come Laura, credo che le Torri si siano sbriciolate a causa di esplosivi inseriti in punti strategici ben prima dell’impatto degli aerei. Com’è possibile che qualcuno abbia inserito degli esplosivi e nessuno se ne sia accorto?
    Ma anche a non voler credere a ipotesi di complotto rimane il fatto che Bush è responsabile di fronte alla Storia, americana ma non solo, per la totale inefficienza e inadeguatezza della sua Amministrazione a far fronte con tempismo alla catastrofe.

  7. da Repubblica.it
    =
    Nel sesto anniversario degli attentati dell’11 settembre 2001 a New York e a Washington, Osama Bin Laden è apparso nuovamente su internet: lo ha reso noto il network Cnn, precisando che si tratta di un video con un fermo immagine, accompagnato dalla voce del super-latitante. Che appare con sembianze dl tutto simili a quelle visibili nel filmato diffuso in rete venerdì scorso (dopo circa tre anni di assenza).
    Il video, racconta alla Cnn l’esperta di terrorismo Laura Mansfield, che ha visionato il materiale, dura in tutto poco più di 47 minuti. Ma il messaggio del leader dura circa 14-15 minuti su un fermo immagine che lo ritrae con la barba nera, con sullo sfondo un’elaborazione di una foto che ritrae uno dei due aerei che sta per impattare le Torri Gemelle, sei anni fa.
    Il resto del messaggio è dedicato al terrorista saudita Walid al-Shehri, uno dei componenti della squadra di 19 terroristi dell’11 settembre, la cui immagine compare accanto a quella del leader. Shehri è stato uno dei dirottatori del volo numero 11 della compagnia American Airlines: l’aereo fu quello che per primo si abbattè sull’obiettivo, la Torre Nord del World Trade Center di Manhattan, alle 8,46 ora locale, quando in Italia erano le 14,46
    Secondo l’esperta Mansfield, il nuovo messaggio è indirizzato “tanto al mondo arabo che a quello anglosassone” anche se è presto per dire quali messaggi specifici contenga. Non ci sarebbe comunque alcuna indicazione temporale che permette la datazione del nuovo materiale; nel video di venerdì, invece, Bin Laden alludeva a eventi piuttosto vicini nel tempo, come l’intervista al soldato Joshua o l’elezione di Nicolas Sarkozy alla presidenza francese.
    La paternità del nuovo video parrebbe ancora una volta doversi attribuire a as-Shahab, il braccio mediatico di Al Qaeda, che trasmette immagini degli autori delle stragi del 2001, e i loro testamenti, negli anniversari delle stragi. L’anno scorso su internet fu pubblicata una ripresa in cui Bin Laden era immortalato nell’atto di incontrare i diciannove dirottatori.
    E intanto, sempre oggi, il ministro degli Esteri afgano, Rangeen Dadfar, in un’intervista all’agenzia di stampa britannica Reuters ha negato decisamente che Bin Laden possa essere nascosto nel suo Paese. “So di sicuro che non è qui, anche se non ho alcuna informazione sul suo rifugio”, ha dichiarato.
    (11 settembre 2007)
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    Fonte: http://www.repubblica.it/2007/07/sezioni/esteri/usa-osama/video-online/video-online.html

  8. Quel 11 settembre ricordo che si smise di lavorare, abbiamo acceso una vecchia tv che trasmetteva solo rai2 e si cercava di accedere alla rete intasata e ancora con il collegamento a 56k. Ricordo di essermi sentita strana. Sottosopra. Poi ore e ore di diretta, le immagini tutte uguali in ogni canale nazionale. Le prime registrazioni delle voci che chiedevano aiuto o cercavano di salutare i propri cari. Ricordo un dossier, trasmesso a notte fonda alcuni mesi dopo, dove si raccontavano alcune delle storie delle persone rimaste uccise. Ricordo una donna in cinta che coraggiosamente raccontava del marito considerato disperso (che poi voleva dire morto) e di tante altre famiglie stroncate. Ricordo le immagini di quelli che dai piani più alti si sono buttati giù e lì davvero ho perso dei battiti. Tante cose ricordo di quel giorno, tutte decisamente e violentemente sentimentali direbbe qualcuno. Ebbene si. Io ero al riparo, a casa, in un settembre mite con tutto come doveva essere. Eppure.
    Penso che qualcosa sia cambiato da allora. Almeno nella mentalità delle persone che mi trovo a frequentare. Alcune volte si tratta di mutazioni necessarie, cambi di pelle, altre volte di inutili generalizzazioni. Penso anche che sia ancora troppo presto per poter capire con freddezza cos’è successo realmente (ammesso che sarà mai possibile staccare le teorie false dai fatti oggettivamente accaduti) ed è fin troppo facile lasciarsi ‘tirare’ da questa o quell’idea che magari ha radici politiche o economiche. Io cerco di ascoltare i vari fronti, ci ragiono sopra. Ma tendenzialmente sono ancora in fase dubitativa generale.
    Poi ecco, su queste cose sono decisamente sentimentale, però quelle faccie, quelle storie, quelle immagini, i filmati del post con le veglie e le squadre che hanno spostato macerie per giorni…
    Anche qui si potrebbe obbiettare che ogni giorno muoiono persone, ogni giorno ci sono attentati da qualche parte nel mondo, ci sono omicidi, suicidi, morti sul lavoro o in strada o in casa… verissimo.
    Però non possiamo ricordare e piangere di continuo. In questo caso anch’io nel mio piccolo sono rimasta segnata e ricordo. Penso. Approfondisco.

    Barbara

  9. da Corriere.it
    =
    articolo di Massimo Gaggi
    =
    Oggi la rete televisiva Abc avrebbe voluto trasmettere, negli Usa, un’ edizione ridotta della cerimonia commemorativa dell’attacco alle Torri gemelle, senza la lettura dei nomi di tutte le 2.749 vittime dell’attentato di sei anni fa. Ha dovuto fare marcia indietro per la reazione furiosa dei familiari dei caduti che hanno minacciato di boicottare l’emittente. Rabbia e controversie lacerano per la prima volta il clima di raccoglimento che, dal 2001 in poi, ha dominato la celebrazione di questo anniversario: famiglie in lite col sindaco di New York, Michael Bloomberg, che ha spostato la celebrazione da Ground Zero a un parco adiacente e con le autorità statali, accusate di aver messo in cantiere un mausoleo nel quale i nomi delle persone morte nel crollo del World Trade Center non hanno adeguato risalto. Pompieri sempre più polemici con l’ex sindaco Rudy Giuliani, sospettato di celebrare i caduti per ottenere un vantaggio elettorale. E centinaia — forse migliaia — di persone che nel 2001 parteciparono ai soccorsi ormai decise a trascinare in tribunale lo Stato e il municipio di New York: hanno scoperto di essere state esposte senza protezione alle esalazioni velenose prodotte dagli incendi che covavano sotto le rovine delle torri e di essere state curate poco e male per le patologie contratte allora.

    Infine altri parenti — quelli dei caduti in Iraq — che cominciano a chiedersi se sia giusto celebrare solo chi è stato ucciso da Al Qaeda a New York e non anche chi è morto in combattimenti e attentati a migliaia di chilometri di distanza dalle coste americane, in una missione motivata con la volontà di evitare un altro 11 settembre.
    Il diverso clima che si respira quest’anno negli Stati Uniti non nasce da un soprassalto di cinismo, né dalla voglia di dimenticare: un sondaggio Gallup della scorsa settimana indica che per il 71 per cento degli americani quello di sei anni fa è l’evento più memorabile della propria vita, quello che l’ha cambiata di più. Ma solo il 6 per cento è favorevole a celebrare la ricorrenza ogni anno.

    Non c’è voglia di dimenticare ma di superare: per cinque anni quella di Ground Zero è stata una voragine inerte. Oggi il canyon di cemento armato, celebrato per anni come la rappresentazione fisica della ferita inferta alla città, non c’è più. L’ha sostituito un cantiere operoso dal quale spuntano le prime travi della Freedom Tower, mentre tutto intorno i quartieri della punta di Manhattan si stanno riempiendo di nuova vita: non solo uffici, ma anche condominii, scuole, ristoranti coi tavoli sui marciapiedi e, ora, anche grandi griffe, da Hermès a Tiffany.
    Comprensibilmente i parenti delle vittime che non sono mai riusciti ad avere indietro i corpi dei loro cari, polverizzati dalle esplosioni, considerano tutto questo come una dissacrazione, ma «NineEleven» dovrà prima o poi trovare una collocazione tra i grandi eventi della storia dell’ultimo secolo, come l’attacco giapponese a Pearl Harbor.
    Eventi che rimangono sempre vivi nella memoria, ma che vengono celebrati solennemente solo ogni 10 o 25 anni. In un certo senso gli americani commemorano l’11 settembre ogni volta che entrano in un aeroporto e devono togliersi le scarpe per i controlli di sicurezza, come nota Edward Linenthal, uno storico dell’Università dell’Indiana.
    Non la pensa così il capo della Cia Michael Hayden: secondo lui gli americani si sono stancati non solo di celebrare, ma anche di essere vigili davanti alla minaccia del terrorismo. Quella «massima allerta» che agli europei appariva un po’ isterica e che ha consentito agli apparati di sicurezza di introdurre senza grandi proteste controlli che incidono sulle libertà dei cittadini, per l’ex generale dell’aviazione si sta trasformando in un diffuso clima di apatia. Nessuno ha criticato la sortita di Hayden, ma è chiaro che l’impegno a evitare un altro 11 settembre diventerà argomento di acceso confronto politico nella battaglia per la Casa Bianca, visto che la lotta al terrorismo è uno dei pochi terreni sui quali i repubblicani non partono svantaggiati.
    (11 settembre 2007)
    =
    Fonte: Corriere.it
    http://www.corriere.it/Primo_Piano/Editoriali/2007/09_Settembre/11/settembre_ground_zero.shtml

  10. da La Stampa.it – 11/9/2007 – ANALISI
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    Apocalisse privata. Dalle Twin Towers a Garlasco la cronaca ha sostituito la storia
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    di ANTONIO SCURATI
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    Tra il 1914 e il 1918 la Prima Guerra Mondiale disseminò l’Europa di 12 milioni di morti perché non ci fosse mai più un’altra guerra. Tra il 1940 e il 1945 Hitler sterminò 6 milioni di ebrei per fondare sui loro cadaveri un regno millenario di uomini superiori.

    Tra il 1930 e il 1953 Stalin deportò e internò 18 milioni d’uomini in nome dell’ideale comunista. L’altroieri a Garlasco una tenera diciassettenne è stata trovata ammazzata in circostanze misteriose, si sospetta il delitto passionale; ieri a Gorgo al Monticano, provincia di Vicenza, tre immigrati clandestini hanno massacrato con dei cacciavite una coppia di anziani per derubarli di 30.000 euro; domani, chissà dove, un albanese ubriaco investirà sulle strisce pedonali un gruppetto di amici all’uscita di una discoteca. Ieri, oggi e domani un extracomunitario – macedone, marocchino o senegalese – mi ha lavato e mi laverà il vetro dell’auto contro la mia volontà. D’epoca in epoca, la violenza assume forme, modi e figure molto diverse. Il XX è stato il secolo della violenza della storia, il XXI sembra avviato a diventare quello della violenza della cronaca.

    L’attentato dell’11 settembre 2001, di cui ricorre il sesto anniversario, ha fatto da spartiacque tra queste due epoche della violenza. Appartiene per un verso alla violenza della storia, per altro a quella della cronaca. Non sarà, perciò, forse, inutile tentare di innalzare al livello di una riflessione epocale i sanguinosi fatti di cronaca che hanno scosso l’opinione pubblica in queste ultime settimane. Non lo sarà soprattutto perché una delle caratteristiche della violenza della cronaca è proprio quella di ridursi a una congerie di fatti minuti e dispersi, di negarsi al pensiero rendendo apparentemente impossibile un loro inquadramento in una visione del mondo, una comprensione che abbracci il passato, il presente e il futuro della nostra vicenda umana. La cronaca e la storia, prima ancora che aree della realtà, sono modi della sua rappresentazione. Mentre la storia colloca ogni accadimento, per quanto apparentemente insignificante, dentro il quadro di un processo più ampio che lo accoglie, lo spiega e lo giustifica, la cronaca lo abbandona a se stesso proibendo che la sua insulsa particolarità venga riscattata da un racconto più grande e, magari, anche da un futuro migliore. Il trattato filosofico, il film, il romanzo epico sono stati i modi di comunicazione della violenza della storia. Il giornale e il telegiornale sono quelli della violenza della cronaca. Il giornale non offre, infatti, nessun tessuto connettivo, logico o narrativo, per i fatti su cui informa. Le notizie di atti violenti che leggo sul quotidiano di oggi non avranno nessun nesso apparente con quelli che leggerò dopodomani, così come non ci sarà nessun nesso tra le notizie di pagina 12 e quelle di pagina 25. Nel XX secolo, la storia si presentava come un processo orientato verso un fine, che poteva e doveva rispondere a un progetto, essere piegato a una volontà politica, disegnare una figura di senso. Oggi, nel secolo della cronaca, invece, nessuna sintesi è possibile: si procede per addizioni, per successive disgiunzioni. Non vi è forma nella cronaca, solo proliferazione. La violenza della storia si scandiva in anni, decenni, secoli, millenni, quella della cronaca si enumera nel giorno dopo giorno, dopo giorno, dopo giorno… La violenza della storia ci sacrificava all’avvenire, quella della cronaca c’imprigiona in una cattiva infinità del presente.

    Sia ben chiaro: nessun’ingenua nostalgia è lecita per la violenza della storia. Come si è detto, in nome di quel progetto, di quel fine ultimo, sono stati compiuti immani massacri. Il punto, però, è che i massacri non sono cessati con la fine del XX secolo. Sono solo scivolati dai toni grandiosi della storia a quelli dimessi della cronaca. Come ha scritto Alain Badiou, il XX secolo è stato nichilista nella sua essenza (per creare l’uomo nuovo si doveva annientare quello vecchio) ed epico nella sua forma. Ma il XXI si annuncia cronachistico nella sua forma e ancora nichilista nella sua essenza. Nel XX secolo, la posta in gioco fu niente meno che la verità, e in suo nome si condussero guerre di sterminio; ora la verità è ovvia, ordinaria, quotidiana: è la banalità del mero fatto di cronaca, quasi sempre violento, e proprio per questo la verità è oramai separata dal senso. Visto nell’ottica della violenza della cronaca, infatti, il nostro mondo finisce con l’apparirci come una sterminata, nauseante, insostenibile distesa di dettagli insignificanti, di fatti diversi e sanguinolenti, irriducibili a uno scopo, a un disegno, a un’idea. Un mucchio d’immagini infrante, perfino impensabili, indicibili. Dinanzi a esse, prima di chiuderci nel silenzio, avvertiamo su di noi la desolazione di Lord Chandos: «Ho perduto ogni facoltà di pensare o di parlare coerentemente su qualsiasi argomento».

    L’11 settembre 2001, gli Stati Uniti d’America, la più grande Nazione al mondo, vennero tragicamente colpiti dalla violenza della storia. A molti parve, infatti, che dopo la sua fine annunciata, la storia si rimettesse in moto quel giorno di grande lutto ma anche di grande speranza. Purtroppo, oggi, a distanza di sei anni, pare di poter dire che, a causa di una guerra sciagurata la cui supposta violenza redentrice è presto precipitata in una litania d’episodi di morte accidentale e insensata quanto lo sono gli incidenti stradali o le rapine finite male – non a caso presto retrocessi nelle notizie brevi delle pagine interne – anche quella violenza è scaduta nel nauseabondo scannatoio della cronaca. Al punto che, sollecitati dal New York Times, gli stessi statunitensi rimettono in discussione l’opportunità di continuare a commemorare la tragedia che li colpì soltanto sei anni fa. Ma il punto è che oggi non sono trascorsi 6 anni dall’attentato dell’11 settembre 2001. Sono trascorsi 2191 giorni. Giorno dopo giorno, dopo giorno, dopo giorno…

    A ogni epoca la sua condanna. A ciascuno di noi, prigioniero della violenza della cronaca, è imposta la condanna speciale che consiste, come scrisse Camus, nel «dover accettare di vivere giorno per giorno, e solo di fronte al cielo». Forse sarà il caso di dedicarci un pensiero la prossima volta che, infastiditi dal clandestino che ci lava il vetro contro la nostra volontà, invocheremo drastiche, sbrigative, immediate misure di polizia. Il clandestino ci usa violenza, è vero, ma è anche vero che è un grande dramma storico quello delle recenti migrazioni di popoli che porta nelle strade delle nostre città uomini e donne adusi a una violenza a noi oramai estranea. E’ un fatto che non si può e non si deve sottovalutare. Non lo si può e non lo si deve sottovalutare perché quel fatto ci mette dinanzi alla dura necessità della storia. Proprio per questo merita una risposta, magari anche radicale quanto lo può richiedere una grande migrazione di popoli, ma che non si mortifichi al livello cronachistico della mera azione di polizia contro la piccola illegalità, della tattica angusta dei sindaci sceriffo. Ci vuole di nuovo uno sguardo che abbracci l’orizzonte, altrimenti la vittoria tattica di oggi si muterà nella sconfitta strategica di domani. La politica, soprattutto quella che si vuole di sinistra, non può esimersi dall’elevarsi all’altezza della storia, dal ripromettersi un racconto più grande e, magari, anche un futuro migliore. Lo merita chi ci lava i vetri contro la nostra volontà e lo meritiamo, tutto sommato, anche noi.
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    Fonte: La Stampa.it
    http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=3504&ID_sezione=&sezione=

  11. da La Stampa.it
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    11/9/2007 – L’11 settembre raccontato da chi l’ha vissuto
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    di SERGIO ROSSI
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    Lo sappiamo tutti dove eravamo l’11 settembre 2001 quando due aerei dirottati da terroristi di Al Qaeda si schiantavano contro le due torri del World Trade Center. Il Polo Grounds era pieno di gente, ricordano Francesca Rimondi e Silvia Teodosi nella prefazione del romanzo grafico del danese Henrik Rehr, «Tribeca Sunset» (Black velvet editrice, 144 pag., 13,50 euro). Gente che fin dal primo momento ha ripreso, e continuato a riprendere, la scena del dramma come se solo rivivendo quella scena indirettamente, proiettandola su milioni di schermi in contemporanea in tutto il mondo, avrebbe potuto credere che quello che accadeva stesse davvero accadendo.
    Rispetto ad altri drammi americani, come l’assassinio di Kennedy o la guerra del Vietnam (la prima ad entrare nelle case ma solo degli americani), il crollo delle torri gemelle è stato vissuto simultaneamente dalla maggior parte della popolazione mondiale. Di qua e di là dell’oceano eravamo davanti ai nostri schermi televisivi a seguire la diretta televisiva, agli schermi del computer a leggere le ultim’ora e le foto che si accavallavano una sull’altra, con il fiato sospeso fino al crollo finale. E mentre per chi non viveva nell’area del disastro la vita sarebbe continuata, lo stesso non si è potuto dire per gli abitanti di New York, la cui variazione di skyline avrebbe ricordato in perpetuo non solo cosa era successo, ma che prima o poi si sarebbe potuto anche ripetere. Rispetto ad altre tragedie che avvenivano contemporaneamente e con una conta delle vittime di qualche ordine di grandezza maggiore, il crollo delle torri gemelle ha costituito una frattura nell’immaginario collettivo. Uno spartiacque che ha segnato un prima e un dopo, come ha dimostrato la difficoltà a raccontare la tragedia da parte di scrittori e registi. Tra i primi c’è stato Art Spiegelman con il suo «All’ombra delle torri» (edito da Einaudi, ma che in originale aveva un titolo più inquietante: All’ombra di nessuna torre), in cui mette in scena l’attesa paranoica di un’altra tragedia che si propaga in ogni meandro della vita quotidiana, alimentata dalla consapevolezza che la prossima volta sarebbe potuto toccare a ognuno di loro, i superstiti, di perdere tutto, famiglia casa lavoro, all’improvviso.
    «Chi come me abitava nei pressi del World Trade Center», scrive Henrik Rehr nella postfazione al suo volume, «aveva sempre saputo che si trattava di un possibile bersaglio di terroristi, e non solo per il primo attentato del 1993: le Torri Gemelle erano un simbolo clamorosamente evidente di New York. Con tutto ciò, l’attacco dell’11 settembre, con le sue numerosissime vittime e le enormi devastazioni, fu uno shock. Anche mentre stavano bruciando, non mi passò mai per la testa che le torri potessero bruciare.» La prima parte del racconto di Rehr, Tuesday, parte da qui: da quella mattina in cui il mondo cambiò. Abitando in un palazzo vicino alle due Torri, la sua è una testimonianza di prima mano di cosa avvenne quando le televisioni di tutto il mondo si spensero a causa della nube di polvere causata dal crollo, e di come gli abitanti di New York dovettero riadattarsi a vivere tremando al minimo suono di aereo che passava sopra la loro testa, a placare i loro sentimenti di odio verso chi, chiunque fosse, gli stava facendo vivere quella situazione. La seconda parte, Tribeca sunset, si colloca mesi dopo la tragedia e mette in scena quattro amici che si ritrovano per il matrimonio, più per interesse che per amore, di uno di loro. Sullo sfondo della nuova vita all’ombra di nessuna torre, i quattro amici tracciano il bilancio delle loro vite, della difficoltà di trovare un proprio posto nel mondo anche quando le apparenze direbbero il contrario, di come sia difficile tenerlo una volta conquistato e di come sia comunque necessario tenere duro.
    Alla fine la parola torna a Rehr, che osserva una nevicata su New York dalla sua casa, la stessa in cui è tornato ad abitare dopo l’11 settembre. La Danese, trasferito nella grande mela per seguire la moglie, disegnatore della striscia «Ferd’nand» creata da Mik (un classico del fumetto danese, una raccolta fu pubblicata nei Bur nel 1976), di varie storie a fumetti tra molte storie di Paperino per la Egmont, Rehr ha deciso di restare nel posto che ha scelto come casa sua, a dispetto della paura, sempre presente, di perdere tutto da un momento all’altro, all’improvviso. Perché, come direbbe Dorothhy ne «Il mago di Oz», non c’è posto come casa. Anche con una skyline diversa.
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    Fonte: La Stampa.it
    http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/base/grubrica.asp?ID_blog=47&ID_articolo=126&ID_sezione=70&sezione=Fumetti+e+Cartoons

  12. Anch’io sono stato molto scosso dall’11 settembre e ho letto tanto sull’argomento.
    Grazie per nuovi libri segnalati. Andrò a cercarli in libreria.

  13. Non voglio entrare il polemiche politiche perchè non mi sembra il luogo nè il caso.
    Darò solo un mio giudizio sul video che avevo già visto e sulle teorie complottistiche.
    Mi sembra solo una trovata commerciale indegna che infanga la memoria delle vittime, una cosa vergognosa.
    Certo gli Stati Uniti hanno avuto delle colpe e sono stati inefficenti nel gestire quel tragico giorno ma da qui a dire che hanno organizzato l’attentato ce ne passa.

  14. L’undici settembre di sei anni fa avevo 23 anni appena fatti. Vivevo la mia età, studiavo, amavo una ragazza che ora non amo più. Quel pomeriggio ero con lei davanti la tv. Guardavamo Italia Uno. Studio Aperto interruppe i programmi e diede la notizia (cercò di darla interpretando quello che stava accadendo e che nessuno capiva, in fondo). Vidi quello che videro tutti. Che vedemmo per giorni, mesi, che ancora vediamo ossessivamente. Pensai subito a Bin Laden, non perché fossi un esperto di terrorismo internazionale, ma semplicemente perché mi ero documentato nei mesi precedenti e avevo scoperto che era uno dei massimi ricercati al mondo. I miei 23 anni mi facevano sognare la taglia di un milione di dollari per chiunque avesse fornito informazioni su di lui o suoi uomini: qualche tempo prima erano appunto stati individuati dei movimenti di appartenenti alla sua organizzazione proprio nella mia città, nella via dove abito ora. Allora avevano già fatto attentati, ma nessuno pensava mai che sarebbero arrivati a quello delle Torri.
    Venne l’undici settembre. Ricordo che uscimmo di casa perché avevamo voglia di dirlo a qualcuno.
    Quanto è triste pensare che la propria vita, alla fin fine, ha bisogno di eventi colossali per dirsi giustificata: avremmo avuto anche noi, come i nostri nonni, la nostra parte di testimonianza, – il nostro saperci presenti -, di un evento così immane. Noi cresciuti coi cartoni animati giapponesi che ritraevano alieni improbabili ad invadere la terra, la guerra manco sappiamo cosa sia stata.
    Andammo nella sede dell’associazione culturale di cui ero presidente e trovai gli altri stupiti, non realmente spaventati, più increduli. Dove stava il trucco? Dov’era la spiegazione? Dove la finzione? Il senso di irrealtà di quell’evento ancora non mi lascia. Ignorai i commenti antiamericani di tanti che conosco. Pensai al di là di ogni possibile schieramento. Iniziai a ragionare sull’esistenza di un nuovo mondo, parallelo al nostro, quello del fanatismo islamico, quello di popoli, di credenze, di situazioni che fino allora erano nell’ombra, poco studiate, interpretate. Più di tutto mi scuoteva dentro l’idea che questo nuovo mondo aveva ormai cozzato, e con quanta violenza, con il nostro. Kamikaze, suicidi disposti a tutto, che facevano crollare persone, simboli, sicurezze.
    Vennero i giorni seguenti, le interpretazioni, le stratificazioni di opinioni, visioni, teorie, studi. Venne la guerra, ovviamente. Tutti pensarono subito che ci sarebbe stata la guerra. Come una ritorsione ancestrale, come la vendetta di popoli primitivi a cui è stato distrutto il totem, violata la terra sacra.
    Vennero le restrizioni della libertà, cambiò, in fondo, l’assetto del mondo, posizionatosi in un equilibrio che pareva stabile fino alla fine del mondo, dopo il crollo del Comunismo. Tutto fu messo in discussione, ricominciò la storia. Ripartì cancellando, nella polvere, la sicurezza di un mondo finalmente libero in grado di portare benessere dappertutto. C’erano e ci sono sempre state le micro guerre certo, infiniti cancri silenziosi, ma a noi, a noi chi ci toccava? Come una fuga radioattiva, invece, la guerra iniziò e va avanti e andrà avanti ben oltre la fine ufficiale (che ancora non si vede). La nostra concezione dell’esistenza era, che lo si voglia o no, dentro quelle Torri, era anche quelle Torri. E quelle sono crollate.
    Ora, ripensando all’evento, alle migliaia di situazioni conseguenti, la cosa che massimamente mi preoccupa è vedere che dall’idea spettacolarizzata (in ogni forma) dello scricchiolamento della nostra esistenza e della sua caduta, o perlomeno della possibilità della sua caduta, non nasce dialogo. Tutto meno che dialogo. E per dialogo intendo, prima che con la problematica e misteriosa altra parte, dico con noi stessi. Comprendere quanto e come le nostre idee vacillanti debbano cambiare.
    Non sono capace di spiegarmi le dinamiche che hanno portato, sei anni dopo, ad essere dove siamo. Ovvero, credo, al punto di partenza. Non so che dirmi riguardo alle tesi di un complotto, alla veridicità ufficiale dei fatti messa in discussione, alle responsabilità. Cerco di andare oltre. E provare ad ipotizzare che si sta, comunque siano andate le cose, chiunque sia dietro le manovre assassine, in una situazione di svolta. Svolta violenta, forzata, ma pregna di verità. Così come si stava, non poteva durare. E qualcuno (ripeto: non oso pensare chi, non so pensare chi) c’è l’ha fatto capire nel modo più drammatico, crudo, definitivo.
    Sta a noi accettarlo o meno. Sta a noi lasciare quelle Torri macerie come sono o ricostruirle. Magari meno alte, ma più solide.

  15. da Repubblica.it
    =
    11 SETTEMBRE: D’ALEMA, TURCHIA IN UE LA MIGLIOR RISPOSTA
    “Oggi ricordiamo l’anniversario di una data tragica dello scontro di civilta’. Penso che la migliore risposta ai profeti della guerra di religione sarebbe avere nel’Unione Europea un grande paese democratico, islamico, come la Turchia”. Lo ha affermato il ministro degli Esteri Massimo D’Alema, concludendo i lavori di un Convegno sul Corridoio VIII alla Fiera del Levante di Bari. Secondo D’Alema, l’ingresso della Turchia in Europa “sarebbe la risposta non teorica della possibilita’ di convivere tra civilta’, religioni diverse nel quadro di una comune accettazione di valori democratici e- ha concluso- di un comune progetto di sviluppo e di affermazione dei diritti delle persone”.
    (11 settembre 2007)
    =
    Fonte:
    http://www.repubblica.it/news/ired/ultimora/2006/rep_nazionale_n_2508949.html?ref=hpsbdx3

  16. A favore della teoria del complotto ci sono diversi parenti delle vittime dei crolli. Certo, bisogna essere molto cauti nel dare spazio e credito a teorie estreme e forse azzardate, ma è pur vero che alcune domande poste dai sostenitori della tesi del complotto non hanno ancora trovato risposte esaustive.
    Ritengo sbagliato esternare sentimenti di indignazione a favore dell’una e dell’altra teoria. L’importante è conoscerle entrambe, ma con la consapevolezza che la “verità vera” è spesso un’utopia.
    Meglio mantenere un atteggiamento equidistante e disporsi mentalmente e concretamente, anche nel nostro piccolo, a favorire processi di integrazione, combattendo estremismi violenze e terrorismo, prima che sia troppo tardi e che le crepe di questo nostro vecchio mondo malato si aprano come voragini capaci di inghiottire tutto e tutti.
    Ti ringrazio, Massimo, per questo post.
    Erika.

  17. da Repubblica.it
    =
    Commemorazioni a Ground Zero e nel resto del Paese. Sei anni fa gli attentati che cambiarono la storia. I nomi delle 2.750 vittime accertate letti dalla polizia e dai vigili del fuoco uno ad uno
    =
    11 settembre 2007, il giorno della memoria: New York ricorda le vittime delle Torri Gemelle. La cerimonia ufficiale spostata a Zuccotti Park perché il sito della strage è un cantiere in attività: polemiche

    =
    NEW YORK – Sotto un cielo grigiastro e una leggera pioggia New York si è svegliata questa mattina nel sesto anniversario degli attentati terroristici dell’11 settembre che nel 2001 fecero quasi tremila vittime quando due aerei si schiantarono sulle torri gemelle di Manhattan cambiando per sempre la storia degli Stati Uniti.

    Le prime persone sono arrivate fin dalle primissime ore del mattino a Ground Zero, quello che rimane del World Trade Center, per ricordare, come gli scorsi anni.

    Oggi a New York, come nel resto del Paese, è il giorno della memoria. Ad aprire la commemorazione dell’undici settembre, rimasto nella mente di tutti a tutte le latitudini come 9/11, è stato il sindaco Michael Bloomberg, ma sono presenti anche la senatrice, ex first lady e probabile candidata democratica per la prossima corsa alla Casa Bianca Hillary Clinton e George Pataki, l’ex governatore dello stato di New York insieme a quello odierno, Eliot Spitzer. “Bisogna voltare pagina, senza rivoluzioni”, ha detto il sindaco in una intervista televisiva subito prima dell’inizio della cerimonia.

    Molti gli appuntamenti ufficiali in programma per la giornata, funestata da un nuovo messaggio di Osama Bin Laden e da minacce per un possibile attentato alle forze americane in Germania: la Borsa di New York osserverà un minuto di silenzio alle 9.29 locali, il Nasdaq alle 10:29 per ricordare la caduta della seconda torre. A Ground Zero, i parenti delle vittime ricordano i loro cari, scendendo, tramite una rampa, al sito in cui per l’ultima volta i loro familiari furono in vita. Il sindaco Bloomberg ha accolto dopo numerose polemiche le richieste delle famiglie che potranno depositare fiori in una piccola area resa disponibile per loro in mezzo al cantiere di Ground Zero, in piena attività in vista della riapertura completa del sito prevista per il 2012 con la Freedom Tower e tre nuovi grattacieli. La cerimonia ufficiale è iniziata alle 8:40 (le 14.40 in Italia) nell’attiguo Zuccotti Park, più sicuro, dove alla polizia ed ai vigili del fuoco è stata affidata la litania dei nomi delle 2.750 vittime accertate, recitati uno per uno.

    Anche nel resto degli Stati Uniti il sesto anniversario degli attentati verrà commemorato pubblicamente: il presidente Bush passa la giornata a Washington, partecipando ad una cerimonia di preghiera privata alle 7:30 alla chiesa episcopale di St. John. Alle 8:46 Bush e la first lady Laura hanno osservato un minuto di silenzio al South Lawn della Casa Bianca, il momento esatto in cui, sei anni fa, il volo 11 dell’American Airlines si schiantò sulla torre nord del World Trade Center, dando inizio alla tragedia.

    Al Pentagono il segretario alla Difesa Robert Gates sarà presente alla cerimonia di commemorazione nel luogo in cui il volo 77 della AA precipitò sull’edificio, uccidendo 184 persone. E a Shanksville, in Pennsylvania, le campane suoneranno alle 9:55 per ricordare l’altro volo dirottato, il numero 93 dell’American Airlines su cui morirono 33 persone e nove membri dell’equipaggio.

    Ma il centro emotivo delle commemorazioni è sempre Manhattan, dove 35.000 persone visitano ancora ogni settimana la St. Paul’s Chapel, un centro di sostegno per i soccorritori e volontari, dopo gli attentati.

    (11 settembre 2007)
    =
    Fonte:
    http://www.repubblica.it/2007/09/sezioni/esteri/new-york-ricorda/new-york-ricorda/new-york-ricorda.html

  18. Complotto o non complotto il fatto c’è stato. Il rapporto successivo non chiarisce nessuno dei molti dubbi e può darsi che questa nebulosità possa essere effetto del tentativo di non far apparire ufficialmente l’assoluta disorganizzazione dei servizi USA nella circostanza, oppure anche di celare un ipotetico complotto. Certo che l’edificio che collassa su se stesso, con i caratteristici sbuffi ai lati, è alquanto strano, ma può dare luogo a diverse e opposte spiegazioni. Quello che invece resta effettivamente un mistero è come sia possibile che dei terroristi non pratici di volo riescano a portare due aerei a colpire sue spilli in un pagliaio, perchè è così che appaiono le torri a distanza di miglia. Provate a chiedere a qualsiasi comandante di aereo civile se la cosa è fattibile, senza assistenza completa da terra, e vi risponderà che c’è una probabilità su un milione che ciò accada. Un colpo di fortuna, allora? Forse, ma due analoghi colpi di fortuna mi sembrano eccessivi.
    Per non parlare dell’aereo che ha colpito il Pentagono in modo fantasioso, profocando un foro nel muro ben inferiore al diametro della fusoliera, fatto che cozza contro le più elementari leggi fisiche.
    Ecco, troppe stranezze che un rapporto non è riuscito a spiegare e questo finisce per alimentare giustamente i sospetti, anche se, ripeto, mi auguro di tutto cuore che si sia trattato solo di fatti non comprensibili dall’umana ragione e di incapacità difensiva, perchè in caso contrario sarebbe troppo spaventoso.

  19. Molto bello l’articolo multimediale con integrazioni di testo e immagini. Ottima l’idea della rassegna stampa. E i commenti non sono da meno degli articoli.
    Sull’11 settembre la mia posizione è molto vicina a quella espressa da Erika Di Giorgio.
    In quei giorni mi trovavo in vacanza in Francia, a Parigi, con il mio attuale marito. Ci rovinammo le vacanze, come tutti del resto. Mi ricordo che l’esperienza del rientro fu tremenda. Salii su quell’aereo con la convinzione che saremmo rimasti vittima di un attentato.

  20. @Renzo, a mio parere molto viene sempre nascosto in questi casi. E ciò, come dici giustamente tu, alimenta le teorie di cospirazione. Penso che l’amministrazione Bush abbia voluto nascondere molte delle proprie incapacità, e penso anche che certe verità siano semplicemente inaccettabili dal pubblico: non credo ad esempio che sia stato l’intervento dei passeggeri a sventare il piano dei terroristi facendo schiantare il volo 93 nelle campagne della Pennsylvania. Penso sia stato abbattuto dai caccia americani, e penso anche che non vi fosse altra scelta.
    @Erika A me che non piace di queste teorie è che ho l’impressione che *alcuni* dei cospirazionisti non perseguano la verità, ma abbiano solo l’obiettivo di mettere in cattiva luce gli State.

  21. @Offender: resta il fatto della pressochè totale impossibilità di centrare le torri da parte di piloti non esperti e senza assistenza da terra. Non sono un pilota, ma ho due amici che lo sono e pilotano quei bestioni e, quando alcuni giorni dopo il fatto ho parlato con loro, tutti e due, in separata sede, mi hanno detto: “Ma com’è possibile che siano riusciti a centrare le Torri? Senza addestramento e assistenza da terra, c’è una probabilità su un milione, e ad essere ottimisti.”

  22. Che non fossero inesperti come hanno tentato di fare passare è molto probabile, anch’io ho conoscenze in quell’ambito e mi hanno confermato questa cosa, dell’assistenza da terra non mi hanno invece parlato. Comunque non è mia intenzione ingaggiare una battaglia su cospirazione sì o no, esistono già tonnellate di studi, materiali, prove e controprove a sostegno dell’una e dell’altra tesi. Io personalmente ci credo poco, pur non possedendo, come nessuno del resto, la verità.

  23. Io l’11 settembre 2001 stavo cagando.
    Quindi non ho molto da raccontare.

    Se non questo aneddoto. Che forse può servire.
    Qualche mese fa, prima dell’estate, mi sono messo a ravanare il Web, YouTube, GoogleVideo, tutto, alla ricerca di materiale sull’11/9. Ho trovato tantissimo e per ore ho guardato, esaminato, letto.

    E’ successo questo. Dopo aver visto, letto, guardato ed esaminato il materiale relativo ai complottisti, quelli che pensano che dietro gli attentati ci sia il Governo Americano, quelli che pensano che le Torri Gemelle siano crollate perché preventivamente minate, eccetera, dopo aver visto tutto questo io ho immediatamente e senza alcun dubbio preso le parti dei complottisti. Per me l’11/9 ERA un complotto e le Torri erano crollate in maniera controllata. Punto. Non volevo sapere nient’altro. Non avevo dubbi. Ero pronto a scrivere colonne infuocate.

    Ma poi che ho fatto?
    Perché sono uomo amorale e bugiardo ma deontologicamente integerrimo. Che ho fatto?
    Ho speso uguale tempo nel visionare il materiale “dell’altra parte”, quella dei garantisti, quelli che invece dicono ai complottisti di tacere. Ho visto lo stesso numero di video, letto lo stesso numero di relazioni, sentito lo stesso numero di interviste. E cosa è successo?

    E’ successo che immediatamente dopo questa seconda visione ero completamente convinto che dietro l’11/9 non c’era ALCUN complotto. Era talmente ovvio, a sentire parlare gli esperti, che quello delle Torri Gemelle NON ERA AFFATTO un crollo controllato eccetera eccetera che mi sono chiesto cosa avessi fatto fino a quel momento.

    Tempo dopo, circa una settimana dopo, ho riguardato parte del materiale dei complottisti. E non ho avuto dubbi circa il fatto che l’11/9 fosse stato organizzato dal Governo Americano. E così via.

    Bisogna sempre sentire due campane.
    Tutto questo per esprimere quest’unico concetto. Che la verità assoluta è, nella maggior parte dei casi, e quando esiste, molto più grande della nostra verità. Che è piccola. Faziosa. Di parte. Sempre due campane: altrimenti si finisce come Michael Moore. A fare documentari faziosi, bugiardi e un po’ pornografici che però passano per rivoluzionari e portatori della Verità Totale.
    Occhi aperti. Sempre.
    [Ste]

  24. a mio giudizio la teoria del complotto e` cervellotica ed assolutamente lacunosa.
    fa pero` figo crederci.
    ieri sul corriere c`era un articolo di Pierluigi Battista che in qualche modo spiegava il tutto.
    consigliabile leggerlo, forse piu` noioso di certi documentari, ma sicuramente piu` vicino alla realta`.

  25. E’ stato orribile vedere quel susseguirsi di immagini alla tv sei anni fa, o almeno lo è stato per me. Avevo solo dieci anni, e in un primo momento non avevo compreso la gravità della situazione…
    Dopo poco ho iniziato a capire, ad ascoltare quei giornalisti che commetavano immagini un pò cruente, sono scesa sotto cercando i miei genitori, ho pianto, abbracciando mio padre, per tutte quelle persone che in quel giorno hanno perso la vita.Ed ho pregato che i sopravvissuti fossero ritrovati….
    Dieci anni non erano abbastanza per capire cosa c’era dietro a tutto quel disastro, diciassette, oggi, mi aiutano a capire cosa non quadrava di quel disastro terroristico…
    Orrendo e straziante ogni anno è ricordare quante persone innocenti hanno perso la vita per soddisfare gli interessi altrui…

  26. Grazie davvero per tutti i vostri preziosissimi e interessanti commenti.
    Ne approfitto per ringraziare soprattutto il mio amico Cicerone 4 e coloro che mi hanno dato una mano a… “controbilanciare”.

  27. Vi lascio con una ulteriore domanda.
    Secondo voi nell’opinione pubblica americana ed europea (ma non solo) si sta sviluppando una forma di assuefazione al terrorismo (cosiddetto) di matrice islamica o è solo una mia impressione?

  28. caro Massimo, hai proprio ragione. Anch’io ho la stessa impressione. Da un lato il tempo tende a lenire le ferite, dall’altro è anche vero che alla lunga ci si abitua a tutto. Credo che la stessa cosa valga per il terrorismo islamico. Io almeno la penso così, non so gli altri.

  29. mah. assefuazione fino a un certo punto. assuefazione finché le cose capitano agli altri.
    riguardo al discorso complotto/non complotto non so che pensare. bush ha dimostrato di saper mentire all’occorrenza

  30. Quell’11 settembre mi trovavo a Prato per assistere a un concerto di Francesco Guccini che venne rimandato. Sulle prime non comprendemmo bene che cosa fosse accaduto. A dire il vero eravamo piuttosto contrariati perchè ci eravamo fatti Piombino – Prato per sentire Guccini ed eravamo finiti a mangiare una pizza mal cucinata insieme a una valanga di persone che non sapevano cosa fare… Non sono mai riuscito a scrivere niente sull’11 settembre, forse è un evento troppo grande per le mie modeste capacità di scrittore. Sulla teoria del complotto non so cosa pensare, ma credo che a volte si faccia un po’ troppa dietrologoia. Se il primo a parlarne è stato Moore, poi, c’è poco da fidarsi. Lui è uno che fa così tanta demagogia al punto di dire che il sistema sanitario cubano è perfetto… sì, ma per i turisti!

    Gordiano Lupi
    http://www.infol.it/lupi

  31. Mi scuso per la banalità, ma secondo me c’è solo da sperare che non accada mai più un 11 settembre. Per nessuna ragione.

  32. Io mi ricordo una cosa di Martedi 11 settembre 2001.
    Erano le otto di sera, i telegiornali dicevano già che “l’intelligence” americana aveva scoperto che gli autori dell’attentato erano di AL QAEDA, ho pensato ” ma come, non sanno e non fanno una beneamata sega per sventare l’attentato ma dopo cinque ore sanno già tutto??!!”.
    Qui non si tratta di sapere o non sapere, bisogna ragionare.
    Non dico di credere a tutte le teorie del complotto che ovviamente sono in parecchi punti lacunose, è indiscutibile però il fatto che le incongruenze ci sono e che il governo americano non ha fatto nulla per spiegare come sia potuto accadere.
    ricordiamo che stiamo parlando di un paese che ha finanziato Golpe, ha ammazzato il proprio presidente e ha compiuto nefandezze di ogni genere.
    SI, IO CREDO CHE IL GOVERNO AMERICANO ABBIA VOLUTO CHE QUESTO ACCADESSE, se si fosse trattato di una semplice incapacità di reagire come mai i vari generali o responsabili sono stati poi promossi invece di essere licenziati in tronco???
    insomma, io faccio il sorvegliante, se questa notte entrano i ladri a rubare mentre io me la dormo domani di sicuro non mi faranno direttore o non mi daranno l’aumento.

  33. Ci sono troppe leggende intorno a questa vicenda e mi sono accorta che è facilissimo farsi un’idea completamente sballata.

    inganno globale è un film finto dalla A alla Z e consiglio di leggere questo:
    http://www.crono911.net/ig/inganno.html e anche la discussione che il regista ha avuto sul forum di Crono911,
    poi leggetevi anche i siti crono911 e undicisettembre perchè meritano. ciao.

  34. Ripropongo le domande.
    Quelle immagini terribili degli aerei che trafiggono i grattacieli, pensate che abbiano mantenuta intatta la loro atrocità?

    O le trovate un po’ sbiadite (magari perché, alla fine, ci si abitua a tutto)?

  35. Non so se ‘ci’ si abitua a tutto, parrebbe di si. Io però faccio una fatica ‘bestia’ a ricordare quel 11 settembre, non mi sembra per niente sbiadito (nei miei ricordi almeno).
    Ma cos’è cambiato da allora? Me lo sono chiesta spesso. Abbiamo imparato? Disimparato? Cambiato qualcosa o è finito tutto a ‘tarallucci e vino’ come si dice in Italia?
    Qualcosa è cambiato, c’è una vocina che me lo ricorda. Forse però, non tanto quanto si doveva e poteva.
    .
    Un abbraccio caro Massimo,
    B

  36. Al di là di ogni teoria del complotto…
    Pace a chi è morto e a chi piange i morti.
    Pace a chi in questo mondo si fa portatore di pace.
    Beati gli affamati e gli assetati di giustizia, perché verranno sfamati e dissetati. Beati i portatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
    L’uomo non riesce più a dare risposte coerenti e globali a ciò che vive perché ha cancellato Dio e con lui l’idea di bene, di pace, d’amore dal proprio cuore. Il XXI secolo, o sarà spirituale o non sarà. E ci saranno altri 11 settembre, più terribili ancora di quello che abbiamo visto e grazie a Dio non vissuto. Perché la guerra a casa nostra non è quella su Internet.

  37. Ciao Massimo! E ciao a tutti!

    Mi piace la domanda sulle immagini sbiadite. Io penso che le tragedie si verifichino a due livelli. Uno è quello umano. L’altro è quello politico. Una tragedia ci appare sempre tale, anche negli anni, a livello umano. A livello politico, invece, si tende, disgraziatamente, a dare delle precedenze. Il problema è quando il livello politico prevarica quello umano. Mi spiego meglio. Le tragedie a livello umano sono sentite sempre come uguali. La capacità umana di percepire il dolore per la perdita di altri esseri umani non dovrebbe essere intaccata nonostante il tempo. Ecco, per esempio, che ancora, a distanza di 2000 anni, proviamo umana compassione per i cristiani sbranati dalle belve al Colosseo. E proviamo dolore per i morti del Titanic, della 1° e 2° guerra mondiale, la guerra del Vietnam, la Cambogia, la Somalia, il genocidio degli indiani d’america e l’olocausto degli ebrei. Ma anche per i morti in Afghanistan, Iraq, i morti delle Torri Gemelle, del Pentagono e anche del volo United 93. Dunque non dovrebbero sbiadire mai questi ricordi. Invece, alla questione umana si sovrappone quella politica. E così iniziano le teorie cospirazioniste, il revisionismo e una serie di altre fesserie. Quello fa sbiadire il ricordo. Perchè, in un certo modo contorto, ci appassioniamo a queste teorie e lasciamo in secondo piano il fatto che, a prescindere da chi le abbia uccise, le persone morte nelle torri gemelle 7 anni fa non ci sono più. E la cosa più stupefacente è che chiunque sia il responsabile, lo ha fatto per un motivo politico nel senso più elementare del termine, cioè di controllo e amministrazione del potere. Tutte le persone che sono decedute non hanno fatto altro che servire, loro malgrado, l’obiettivo politico che ha sovrastato, con la sua ignobile importanza, il significato di tutte quelle persone morte. Ecco io credo che sia qui il punto. Il significato dell’11 settembre non è sbiadito, è stato semplicemente ricoperto da una ignobile caccia al colpevole che ha tralasciato di ricordare tutte le persone che vi hanno perso la vita. Individui. Che la mattina sono andati al lavoro e contavano di tornare a casa la sera stessa. Che avevano famiglia, progetti, amori, delusioni, che giocavano a tennis e suonavano la chitarra nei momenti di relax, che se la prendevano col governo e avevano acceso un mutuo il mese prima. Ogni volta che perdiamo un essere umano, perdiamo anche la sua esperienza di vita. In un colpo, quel giorno, abbiamo perso 3000 esperienze di vita. Cose impalpabili. Identità. Individualità. Desideri. Volontà. Percezioni. Ma non una sola di queste cose verrà ricordata oggi a Ground Zero. Il Presidente Bush andrà a parlare, come ogni anno, per dire a che punto è la guerra contro il terrorismo. La componente politica che copre quella umana, appunto…

  38. Cara Gea,
    hai fatto benissimo a ricordare Salvador Allende. Grazie. Anche a lui il nostro pensiero.
    Per chi non lo sapesse dico che Salvador Allende era lo zio della scrittrice Isabel (Allende). Così troviamo anche un riferimento letterario.

  39. Cara Mari,
    grazie per il bel commento.
    Purtroppo il nome e il concetto di Dio sono stati barbaramente strumentalizzati sia dai terroristi che hanno causato la tragedia, sia da Bush che si è fatto paladino del Dio giusto per attaccare l’Iraq.
    Ti ricordi il terribile monito di Giovanni Paolo II?

  40. Grazie Miki,
    e ciao a te.
    La domanda sulle immagini sbiadite deriva dal fatto che – a mio avviso – a furia di guardarle si rischia l’assefuazione.
    E’ bene che ciò non accada, ovviamente.
    Scrivi: “Il significato dell’11 settembre non è sbiadito, è stato semplicemente ricoperto da una ignobile caccia al colpevole che ha tralasciato di ricordare tutte le persone che vi hanno perso la vita.”
    Opinione più che condivisibile.
    Immagino tu sia d’accordo con quanto si evince dal pezzo di Calabresi.

  41. L’11 settembre del 2001 mio figlio toglieva il pannolino.
    Accendemmo la tv per guardare i cartoni animati.
    Non capimmo.
    Io pensai a un film.
    Rimasi ferma e inebetita a guardare la scena.
    Nell’attimo dello schianto, un presentimento. Come un taglio, insieme alla percezione che tutto, d’ora in avanti, sarebbe stato possibile.
    Lo era, infatti.
    Non feci in tempo a cambiare canale.
    Mio figlio vide la scena.
    Tornammo al vasino solo due anni dopo. Da quella stessa sera il bambino si rifiutò di essere indipendente. Di separarsi dal calore del cotone imbevuto d’urina su di lui.

  42. A prescindere dalla/e teoria/e del/dei complotto/i (tutta/e da verificare).
    Parliamo dell’undici settembre. Anzi, no. Parliamo DI DUE undici settembre.
    11 settembre 1973
    Golpe in Cile, con la diretta responsabilità degli USA. 3000 vittime. 130.000 arrestati in tre anni. 3000 persone torturate. Muore il presidente di Unidad Popular, Salvador Allende, durante l’attacco al palazzo presidenziale.
    11 settembre 2001
    Attacco agli USA, da parte di oscure forze terroristiche arabe; nelle Twin Towers muoiono 2749 persone.
    ***
    Oggi, la maggior parte delle persone, soprattutto quelle più giovani, a sentire nominare “11 settembre 1973″ pensano:”Una data come un’altra”. Non così per l’11 settembre 2001.
    E i morti dell’Iraq? Si tratta d’una questione di simboli? Quali simboli? E creati da chi?
    6 agosto 1945. Cosa è successo? Provate a chiederlo. In pochi vi risponderanno. 140.000 morti a Hiroshima. 9 agosto 1945. Cosa è successo? 160.000 morti a Nagasaki. Bomba atomica statunitense. Si sono mai celebrate queste date qui in Italia? Se qualcuno ha visto lo splendido film di Kurosawa, “Sinfonia d’agosto”, sa di cosa parlo.
    Le vittime sono vittime, siano esse di qualsiasi nazionalità, o fede politica o religiosa.
    E i morti ammazzati mensilmente, come da scadenza statale, dalla “giustizia” cinese? Andate sul blog di Gian Ruggero Manzoni, in un post di due giorni fa, e spalancate gli occhi e il cuore al massacro. Lì dove il mondo ha festeggiato le Olimpiadi pochi giorni fa.
    ***
    Chi ricorda il genocidio di milioni di nativi americani? Si celebra qualche commemorazione in proposito? Eppure sono stati distrutti i popoli del Nord America, Centro America e Sud America. C’è una data che ricorda questa immane ecatombe?
    Umberto Eco, in un suo vecchio articolo, diceva che nei film western, quando moriva un indiano, lo faceva in una frazione di secondo: un urlo a braccia spalancate sul cavallo, e l’indiano spariva. Quando moriva un cowboy, c’erano almeno dieci minuti di agonia, di ultime parole famose, di musica commovente, di paesaggi romantici, e il grande cowboy moriva.
    ***
    Le vittime sono vittime, e io cerco di lasciare il cuore aperto alla sofferenza di tutta l’umanità. Come cerco di lasciare il cuore aperto anche alla gioia di tutta l’umanità. E cerco di restare sempre in guardia rispetto agli eventuali sintomi di indurimento del mio cuore. E il cuore non segue i comandi di ideologia o potere.
    Un pensiero di pace verso le vittime di qualsiasi 11 settembre, di qualsiasi genocidio, di qualsiasi massacro, di qualsiasi violenza.
    Un abbraccio,
    Gaetano

  43. Se andate sul sito http://www.giuntina.it, troverete una parola ebraica al giorno. Ieri c’era J-H-W-H, oggi Adonai. Il primo è il nome che Dio stesso si è dato ed è respiro, irripetibile e non imbrigliabile né da palato denti labbra né dalla mente umana e vuol dire all’incirca CHE ERA, E’, SARA’, ma è più una realtà mobilissima, sfuggente, in continuo divenire e fluire creativo. Questo nome non si poteva pronunciare se non nel tempio da parte di un sacerdote una volta l’anno. Adonai significa invece mio Signore (come My Lord…). Perché? Il rapporto sottomissione-potere, che è quello che l’uomo percepisce e riproduce, ha fatto sì che riducesse J-H-W-H alla sola dimensione di Signore, cioè di colui che può, che detiene il potere. Dimensione non errata ma non unica. L’uomo poi ha fatto un ulteriore salto: divenire il signore del mondo, di se stesso e degli altri.
    Quando parlo di Dio, mi riferisco alla sua dimensione non di potere (quella sbandierata dai governanti), ma di Creatore e Signore della Vita. Il contrario esatto di come lo concepiscono governanti e terroristi che gli tirano la giacchetta da tutte le parti.
    Per il resto concordo con Gaetano. Violenza non ha colore né epoca. Piangiamo tutti i morti che essa ha provocato. E agiamo in modo da non alimentarla nel nostro cuore.

  44. interessante anche questo. un post più bello dell’altro.
    credo che l’11 settembre debba essere ricordato a prescindere. per il semplice fatto che sono morte in un colpo solo migliaia di persone per via di un attacco vile e disgustoso.

  45. La teoria del complotto ha le stesse probabilità dell’ipotesi della totale incapacità dell’intelligence americana e quindi sono possibili entrambe. Quel che è certo è che non sapremo mai la verità (del resto la stessa cosa accade da noi per le stragi degli anni di piombo).
    Resta, però, una considerazione da fare: Bin Laden e i suoi accoliti non hanno tratto da questo atto terroristico i benefici che probabilmente si aspettavano, nel senso che non c’è stata una generale sollevazione del mondo arabo, sempre chiuso dentro le maglie che si è imposto da secoli.
    In cambio, da allora, il mondo ha continuato a essere insanguinato da guerre (come prima in verità) e al riguardo mi fa piacere che Failla abbia ricordato l’11 settembre 1973, il Golpe in Cile, in cui gli Stati Uniti hanno la stessa parte del Bin Laden dell’11 settembre 2001.
    Stranamente si ricorda e si enfatizza l’ultimo 11 settembre, eppure non vedo differenze, anzi ci sono e plateali: l’11 settembre 2001 è il gesto di una banda di folli, l’11 settembre 1973 è un’azione fredda, spietata e determinata di un governo che rappresenta un’intera nazione.
    In ogni caso non resta che la pietà per i morti dei due tragici eventi.

  46. Terribili le pagine de “La casa degli spiriti” in cui è adombrato non troppo velatamente il golpe del 1973. Leggete anche “Paula”, sempre di Isabel Allende, in cui parla anche di quei giorni tremendi. Questa figura di presidente muove a pietà e riconcilia con la politica, perché è un martire della democrazia e, chissà, dell’ideale. Pablo Neruda e il suo funerale “blindato”… Bellezza e poesia sono fiori fragili che i carrarmati si divertono a calpestare. Ma i carrarmati si rompono prima o poi. Mentre basta un filo d’acqua e di sole e torna la primavera.
    Pietà per tutti i morti. Anche per i folli e i traditori, che si ritroveranno le mani insanguinate e il giocattolo rotto delle loro folli ambizioni e della loro distruttività.

  47. @ Gaetano
    Hai scritto: “Le vittime sono vittime, e io cerco di lasciare il cuore aperto alla sofferenza di tutta l’umanità. Come cerco di lasciare il cuore aperto anche alla gioia di tutta l’umanità.”

    Credo sia l’atteggiamento più giusto, Gaetano. Speriamo che la gioia prevalga sulla sofferenza.

  48. Gli americani, a volte, si scannano tra loro. Ma di fronte ai grandi eventi e ai grandi cataclismi sanno unirsi. Questa è una cosa che gli ho sempre invidiata.
    Obama a McCain hanno sospeso la campagna elettorale per essere insieme, uniti, alle celebrazioni di ground zero.
    Noi saremmo capaci di fare altrettanto?
    Di questo dovremmo discutere.

  49. @ Massimo

    L’articolo di Calabresi non l’avevo ancora letto. Ora l’ho letto. Sì, posso dire che mi trovo piuttosto in linea con quanto afferma e sostiene Calabresi. Solo su una cosa vorrei fare un appunto. Quella frase “il terrorismo trasforma i morti in simboli”. Non è che non sono d’accordo. Ma secondo me bisogna spiegarla meglio. Il terrorismo colpisce obiettivi che sono simbolici già di per sè. La scelta delle Torri Gemelle non è stato casuale. In un qualche modo, esse rappresentavano l’emblema del capitalismo americano. Colpirle ha significato colpire al cuore un sistema simbolico, più che un obiettivo reale. Mi spiego. Se i terroristi avessero voluto iniziare una guerra con quegli attacchi, avrebbero colpito un obiettivo militare. Invece hanno scelto tre obiettivi altamente simbolici, ma che in una guerra avrebbero scarso rilievo: il simbolo del capitalismo americano (le Torri Gemelle), il simbolo della potenza militare americana (il Pentagono), il simbolo del potere esecutivo legittimo e democratico (la Casa Bianca); quest’ultimo non fu colpito per i motivi che sappiamo. Dunque che ruolo hanno le persone. Le persone, ed è la cosa più triste, sono degli “amplificatori” di notizie. Certo, se i terroristi colpissero uno stadio di calcio in un qualunque giorno della settimana lavorativa, questo avrebbe il suo peso (poco, in verità). Ma tutt’altro peso avrebbe un attacco terroristico contro uno stadio di calcio la domenica pomeriggio quando lo stadio è pieno. Il simbolo viene colpito in entrambi i casi, ma solo nel secondo la cosa assume un certo rilievo. Perchè sono morte delle persone. Quelle persone diventerebbero una sorta di attributo dell’azione terroristica, una specie di amplificatore, appunto, dell’attacco simbolico. Così succede ogni volta che i terroristi colpiscono. Quando incendiano la sede di un partito, beh, è grave, perchè colpiscono una realtà che esercita un’influenza simbolica per le persone che la frequentano, ma si tratta di un danno limitato. Quando uccidono delle persone, magari giuslavoristi o poliziotti o magistrati, allora la cosa cambia. Chiaramente i terroristi non ce l’hanno con la persona in particolare, ma con la carica e il ruolo ricoperto da quelle persone. E’ il ruolo che vogliono colpire. Ma è la persona uccisa che dà la “visibilità”. La persona diventa, in quest’ottica, un semplice attributo del ruolo che ricopre. E’ giustissimo quello che dice Calabresi: è necessario parlare delle vittime e delle loro vite, affinchè esse non siano ricordate come pedine che i terroristi possono spostare come pezzi di una scacchiera, ma come Persone con la p maiuscola. Vittime di un sistema perverso. Ma soprattutto persone.
    Infine Massimo, concludo, ricollegandomi a quanto scritto sopra, circa il tuo accenno alla immagine sbiadita. Il terrorismo gioca proprio su questo. I terroristi sanno che quelle immagini non possono sbiadirsi. Per questo scelgono ancora obiettivi umani. Come dicevo sopra, accanto all’obiettivo simbolico, c’è anche l’obiettivo umano. Che è un “rinforzo” del primo. Non sarebbe così se noi non avessimo la capacità di provare indignazione, raccapriccio, terrore, dolore. Fanno leva su cosa ci impressiona di più. Ci troviamo in una situazione paradossale: la nostra umanità ci porta (giustamente) ad indignarci di fronte a quelle immagini, anche se le abbiamo viste qualche centinaio di volte in questi 7 anni. Questo alimenta nel terrorista la consapevolezza che, se vuole colpire, lo deve fare dove può creare il grande tumulto possibile, cioè in mezzo alla gente. Se butta giù un palazzo, beh, ci dispiace, ma è una perdita accettabile. Se ammazza delle persone, invece, la nostra indigrazione ci porta verso il terrore. Quindi ha vinto!
    Come se ne esce? Proprio come ha detto Calabresi, dando dignità alle vittime, in maniera tale che la loro morte non crei terrore ma consapevolezza nella gente. Sperando che in un domani non troppo lontano, la consapevolezza di tanta gente possa portare alla formazione di una coscienza civica in grado di sgonfiare la bolla del terrorismo e della guerra che ne è seguita.

    Saluti a tutti!

  50. ogni anno al lavoro facciamo una colazione per ricordare l’11 settembre. E ogni anno raccontiamo dov’eravamo. Io ero alla University of Pennsylvania, dove avevo appena cominciato a lavorare. Stavo osservando una lezione della mia mentore, e gli studenti arrivavano tutti chi 2, chi 5 chi 10 minuti di ritardo, e si diceva solo: un incidente.
    Alla stazione dei treni di Philadelphia, sulla 30a eravamo tutti li’ ad aspettare che si potesse entrare, quando ho sentito una persona che, piangendo, ha detto: they’re gone, riferendosi alle twin towers.
    Faceva caldo, io ero seduta sul mio zaino, per terra, in mezzo a tutte queste persone che non conoscevo, ma con cui avevo in comune questa esperienza.

  51. L’11 settembre del 2001 ero ancora in vacanza. Però ero a casa mia. La sera prima avevo fatto tardi a vedere un film horror, “Cimitero Vivente 2” con Anthony Edwards, l’attore che faceva il Dottor Greene nella prima serie (e anche in 2 o 3 successive) di E.R. Siccome avevo fatto tardi, il giorno dopo vagavo per casa mezzo rincretinito. Dopo pranzo mi stendo sul divano e accendo la televisione. Comincio a cercare se c’è qualche cartone o qualche programma divertente. Non solo non c’è, ma uno dopo l’altro i canali interrompono i programmi per l’edizione straordinaria. Passo dappertutto e dappertutto i programmi sono interrotti. Così decido di vedere un telegiornale. Non mi ricordo precisamente quale ho visto, forse passavo di continuo col telecomando, comunque mi pare fosse il tg4. Sono uno di quelli che ha visto in diretta il secondo schianto. Al telegiornale fino ad un attimo prima si pensava ad un errore di volo, uno schianto accidentale, anche perchè pensare ad un attacco terroristico in quel modo era proprio assurdo. Era molto più semplice pensare che l’aereo si fosse schiantato a causa di un tragico errore del pilota. Poi l’attimo dopo si capì che così non poteva essere.

  52. Una grande tragedia? Si lo è stata certamente, ma nella storia del mondo ve ne sono state tante (come hanno ricordato Gaetano ed altri) che sembrano non godere della medesima memoria.
    La loro gravità non mi pare possa neanche compararsi col numero di vittime (peraltro alcune, vedi solo Hiroshima per fare un esempio) hanno causato perdite umane anche ben più cospicue.
    E allora invece di chiederci se credere a teorie complottiste o anticomplottiste (quali elementi abbiamo noi per stabilire dove sia la verità?) chiediamoci perchè venga quasi considerata (a sproposito?)come la catastrofe-simbolo degli ultimi cent’anni:
    – perchè è così recente?
    – perchè mezzo mondo vi ha assistito in diretta tramite i media?
    – perchè si ha paura possa ripetersi anche a casa propria?
    -perchè per la prima volta si sono palesate a tutti le falle del sistema di difesa interna americano (ritenuto quasi perfetto)?
    – perchè il terrorismo ha palesato un pericolo ben maggiore di quello che fin lì poteva sembrare?
    Queste ed altre domande mi paiono più interessanti rispetto a quelle su veri o presunti complotti cui nessuno per svariati decenni come minimo (o forse mai) potrà dare risposta. Ogni tanto si sente discutere ancora se Glenn e i suoi compari siano stati sulla luna o anche quella fosse stata una messa in scena.

  53. Fra le “altre domande” ancora queste:
    – perchè volenti o nolenti ci sentiamo ancora tutti un pò filoamericani?
    – perchè sentiamo profondamente uno scontro in essere oriente-occidente?
    – perchè NY è sentita un pò la “capitale del mondo”?
    E sicuramente ce ne sono ancora molte altre (ma tranquilli, io mi fermo qui).

  54. E’ la prima volta che scrivo qui, su questo bellissimo blog che piace tanto ai ragazzi della mia scuola. Mi ricordo quella mattina, perché tutti noi della segreteria eravamo corsi nell’aula d’ informatica e restammo lì con i professori e gli studenti. Guardavamo la tele e gli schermi dei computer e nessuno fiatava. Nemmeno una parola, non sembrava vero che un palazzo potesse disintegrarsi così, era peggio di un film. A me aveva fatto quell’impressione lì. Un film vero, con tanti morti veri, eppure non riuscivo a crederci, a pensare che fosse vero.

  55. Anch’io, come tutti, ricordo perfettamente dove ero l’11 settembre 2001 e come ho appreso la notizia – un ricordo così netto come quello di quel 16 marzo 1978 quando fu rapito Aldo Moro. Due date tragiche, in primo luogo per le vittime e le loro famiglie. Due date che hanno dato consapevolezza, la seconda all’Italia e la prima a tutto l’Occidente, del pericolo del terrorismo come qualcosa che può condizionare la vita di ognuno di noi. Le Brigate Rosse e al-Qa’ida avevano colpito altre volte, ma solo abbattendo dei simboli così importanti e con tanta violenza e ferocia hanno reso evidente la loro reale dimensione.
    Queste due date hanno inciso profondamente sula mia vita: il rapimento di Moro e l’uccisione della sua scorta mi colpivano nel pieno dell’adolescenza, che avrei trascorso nel clima terreo degli anni di piombo.
    L’11 settembre mi ha invece condizionato da un punto di vista professionale: come docente di arabo e studiosa del mondo arabo-musulmano mi sono sentita chiamata in causa, mi sono interrrogata e sono stata interrogata sul perché di quell’evento che, anche se non mi piace usare l’espressione “terrorismo islamico”, era stato prodotto da arabi musulmani. Il mese successivo, con l’inizio delle lezioni, mi sarei ritrovata con un numero di studenti doppio rispetto agli anni precedenti e con motivazioni e aspettative molto diverse da quelle che comunemente spingono gli studenti a iscriversi a un corso di lingua. Non so se sono riuscita a dar loro delle risposte, ma da quell’11 settembre il mio compito è diventato molto più difficile.
    Barbara

  56. Ci si abitua a tutto in questo mondo dove il cinismo e l’ipocrisia regnano sovrani. Non voglio citare i soliti avvenimenti del ’68 e post ’68 ma a quei tempi manifestazioni di massa riuscivano a far modificare le scelte di interi governi. Ora? Ridicoli i vari girotondi, riunioni oceaniche, ecc. fatte solo per mero opportunismo e non perché si crede veramente in una causa. Quindi ribadisco ci siamo abituati. Quanti di voi, a parte forse la prima volta, inorridiscono di fronte alle immaggini di quel incidente del camion che invade l’altra corsia?
    Per il complotto dell’11 settembre? Posso dirlo? Una balla assoluta! Sicuramente gli autori di quelle baggianate avranno donato i diritti d’autore ai familiari delle vittime! O no?

  57. Io distinguerei fra impatto mediatico ed impatto sostanziale.
    Dal punto della comunicazione mediatica credo che quelle immagini, seppur sbiadite nel tempo, conserveranno su di noi sempre un potere evocativo unico.
    Dal punto di vista invece sostanziale credo che la vera rivoluzione accaduta in questi ultimi anni sia stata la crescita esponenziale della potenza economica cinese.
    La prospettiva di una marginalizzazione dell`Europa e la creazione di una dicotomia Usa-Cina, sia un evento al cui paragone l`11 settembre sembra quasi un battito di ciglia.

  58. Cara Nunzia Lavelli,
    grazie anche a te per l’aneddoto. E salutami tanto i ragazzi della tua scuola che seguono questo blog. Tutti. Uno per uno.
    Ma di dove siete? E di quale scuola?

  59. Cara Barbara Airò,
    ti ringrazio moltissimo per il tuo racconto.
    Il fatto che tu insegni arabo e sei una studiosa del mondo arabo-musulmano mi interessa parecchio.
    Credo che ti scriverò in privato.

  60. Tecnicamente parlando, il fatto di sapere che “ci sarà un attentato” non modifica minimamente il fatto che sarà impossibile evitarlo. Il 100% degli attentati “evitati” sono frutto di talpe che ti raccontano per filo e per segno il dove-come-quando, altrimenti per quanta sicurezza tu metta in pista non ci puoi fare niente. E parlo con un minimo di cognizione di causa.
    Oggi sulla free press milanese è uscita una statistica che conferma un aumento dell’intolleranza cittadina nei confronti del mondo mussulmano, delle loro moschee, del loro obiettivo di NON integrarsi. Sottolineo, una crescita rispetto all’anno scorso, quindi quando ormai gli effetti emotivi dell’11 settembre sono sicuramente più rarefatti. Ciò dimostra che l’attentato alle twin towers ha fatto solo da trigger ad un evento tuttora in corso ed in crescita, che si autoalimenta dalla quotidianità e non già da cose spettacolari.
    Probabilmente da allora siamo tutti un pò più razzisti.
    Sicuramente da allora siamo tutti un pò peggiori.

  61. L’11 settembre 2001 mi trovavo in una stanza con alcuni colleghi, stanza in cui eravamo come confinati nell’attesa che, da consulenti che eravamo, ci arrivasse qualche commessa. In 10 in due stanze, con tre pc senza connessione internet. Chi dormiva, chi leggeva, chi mangiava, chi giocava al solitario. Mi chiamano al cell…visto che è successo?
    No, che è successo?
    Mi sono sentita in trappola, fuori dal mondo. Sono corsa a cercare un bar con televisore, non l’ho trovato. Ho visto tutto l’orrore a ore di distanza. E mi è rimasto dentro. Non sarà mai un’immagine sbiadita, è cosa del nostro tempo. Come tanti altri orrori, tante morti.
    Non ci si abitua mai, non si può. E mi sconvolge ogni volta.

  62. (partito l’invio, riscrivo)
    Tra un undici settembre e l’altro, in mezzo mi è capitato Don De Lillo Massimo. E volevo attaccare un pipone immenso qui, ma alla fine era talmente immenso che è diventato il mio post di oggi. Chi vuole pole venire a leggerlo.

    Credo che, al di la delle ipotesi complottistiche o meno “L’uomo che cade” con la sua fenomenologia del destino Americano, con la lotta e la resistenza che opponiamo con la deformazione per capire la realtà delle cose, è il più bel libro scritto sull’11 settembre. Lo consiglio.

  63. Ma allora accadde qualcosa che rese ogni lingua muta e ogni occhio attonito. Il funambolo aveva cominciato la sua opera: era uscito da una piccola porta e stava avanzando sul filo, che era teso fra due torri; sospeso lassù in alto, stava sopra il mercato e la folla. Quando giunse a metà del suo cammino, la piccola porta si aprì ancora, e un suo compagno verzicolore, simile ad un buffone, ne saltò fuori e a passi rapidi lo seguì: “Avanti, piedi dolci,” gridò la sua voce terribile “avanti, poltrone, contrabbandiere, viso pallido! Vorrei farti assaggiare il mio calcagno! Che cosa stai facendo qui fra le torri? Dentro la torre devi stare, ti dovrebbero mettere in gattabuia, tu che impedisci il passaggio a chi è migliore di te!”

    E ad ogni parola che diceva, gli si avvicinava sempre più: ma quando fu giunto ad un passo da lui, accadde la cosa più spaventosa, che fece ammutolire tutti e restare con gli occhi incantati: sibilò in aria un grido come di diavolo e quell’individuo spiccò un salto oltrepassando colui che gli impediva il passaggio. Questi, quando si vide sopravanzato dal suo compagno, perse la testa e la corda; lanciò via la stanga e precipitò, più rapido di lei, come un viluppo di braccia e gambe nello spazio. Il mercato e la folla sembrarono il mare quando la tempesta lo sommuove: fu tutto un rimescolio e un accavallarsi, soprattutto nel punto dove il corpo doveva cadere.
    Ma Zarathustra rimase fermo al suo posto, e proprio accanto a lui cadde il corpo, ridotto a maipartito e spezzato, ma non ancor morto. Dopo un poco tornò la coscienza al disgraziato, che scorse Zarathustra in ginocchio accanto a sé. “Che fai tu lì?” disse finalmente; “io sapevo da molto tempo che il diavolo mi avrebbe dato un calcio. Ora mi trascina all’inferno: vuoi vedere se ti opponi a lui?”
    “In realtà, amico,” rispose Zarathustra “non esiste ciò che tu dici: non c’è né diavolo né inferno.
    Morirà più presto la tua anima del tuo corpo: non avere paura di nulla!”
    L’altro lo guardò con diffidenza: “Se tu dici la verità,” esclamò “allora io non perdo nulla perdendo la vita. Non sono molto più di un animale, a cui è stato insegnato a danzare a forza di percosse e di bocconcini”.
    “Ma no” disse Zarathustra; “tu hai fatto del pericolo la tua professione, e su questo non c’è niente da dire. Ora tu muori in seguito alla tua professione: e io per mia parte ho intenzione di seppellirti con le mie mani.”
    Quando Zarathustra disse questo, il morente non rispose più; ma mosse la mano, come se cercasse la sua mano per ringraziarlo.

  64. Ora che nessun filo teso tra le due torri
    potrà mai più segnare l’orizzonte il passo
    e all’asta la bandiera non si in venta, non s’inarca
    come farà il moderno Zarathustra a raccogliere il corpo?

  65. Hai bevuto il sangue colato fra i monti
    e su strade di porpora e viole
    lasciasti disperate le tue orme
    lacrime raccolte in pianto
    a bagnare la terra d’uno stadio

    I fuochi nel cielo
    balbettavano fiamme
    sui volti muti dei piccoli
    le madri scotennate sugli occhi
    i padri già morti tra i fiori
    e chi gridava perse l’anima
    sguscando tra i denti il sole
    all’alba
    la cenere sparì con Dio

    Qualche anno fa, precisamente l’11 settembre del 1973, avvenne il golpe in Cile, capeggiato dal generale Augusto Pinochet. Fu in parte manovrato dagli Stati Uniti ed ebbe il benestare del Papa. Fu uno dei colpi di stato più sanguinari, con 3000 vittime e 30000 persone torturate, e fu anche uno dei più terribili e scellerati attentati alla democrazia. Allende, morto nel palazzo presidenziale durante l’assedio, era stato democraticamente eletto dal popolo, eppure, non essendo gradito agli Usa, perché Socialista, fu spazzato via. Tipico esempio della bestialità degli Stati Uniti, i portatori della Democrazia Forzata, che, però, nel caso di una Democrazia vera e spontanea si sono giustamente adoperati per distruggerla, sostiduendola con un sanguinario pazzo. In tutto ciò, il Papa non pensò affatto di protestare, visto che tutto era lecito contro il pericolo socialista! Il buon Pinochet, morto qualche tempo fa, senza aver scontato un anno di galera, ha ricevuto l’omaggio cattolico con un suntuosissimo funerale.
    Quando penso all’11 settembre, penso al 1973.

  66. tutta la mia solidarietà a un popolo democratico e a una nazione che non ha esitato a intervenire a favore dei paesi europei durante la seconda guerra mondiale.
    ci sono molti cimiteri in europa, da nord a sud, pieni delle salme dei soldati americani caduti per soccorrere un altro continente.
    a loro, in giorni come questi, pensiero gratitudine e affetto.

  67. Caro american pride,
    quello che tu chiami popolo democratico è stato il motore di gran parte dei peggiori crimini dell’umanità, negli ultimi 50 anni della storia del mondo. In quanto a democrazia (che loro così magnanimi impongono a cannonate ai popoli e agli stati, sovrani e non), dagli arresti di molte persone durante la convention repubblicana, per fare solo un piccolo e insignificante esempio, non mi sembra che ne facciano un così grande uso. hanno destabilizzato diversi paesi, hanno foraggiato guerre e fornito di armi i terroristi, tra cui gli stessi talebani durante la guerra con i russi. I casi di vietnam e cile, per fare due esempi eclatanti, dovrebbero bastare a farti riconsiderare le cose che hai detto. Oltretutto, in questi tempi di armi di distruzione di massa, gli stati uniti sono l’unico paese ad aver sganciato ben due bombe atomiche su una popolazione, perché il giappone si era già arreso, e questo la dice lunga sulla grande nazioni di cui parli. L’orgoglio tienitelo per altre, più meritevoli, cose.

  68. tutte le superpotenze, in un modo o nell’altro, hanno tentato di esercitare il loro dominio.
    l’impero romano ha devastato interi popoli.
    è inevitabile che sia così.
    rimane il fatto che soldati americani hanno perso la vita per l’europa in un momento nevralgico della storia.
    e se non fosse stato per loro credo proprio che oggi parleremmo tedesco o, forse, russo.
    dunque, signor piretti, le confermo tutto l’orgoglio.
    se ha voglia pure di rabbia, non la cerchi da me: si vada a leggere oriana fallaci.
    buone cose

  69. Caro american pride,
    a essere orgogliosi (pride) solo d’una parte, si finisce poi che si disprezzino altre parti. E così “pride” diventerà quel che il vocabolario dà come un altro significato della parola: superbia.
    Io sono per l’orgoglio mondiale (world pride, dato che fa figo l’inglese).
    World hugs (abbracci mondiali),
    Gaetano

  70. non mi sembra affatto una giustificazione, american pride, prendere come esempio l’impero romano (che ha fatto il suo tempo, credo) o qualche altra superpotenza come la russia o la cina. forse, l’accostamento che hai fatto avvalora semplicemente la mia tesi, ovvero che gli stati uniti sono stati, e lo sono anche adesso, nei confronti dell’umanità (non i capi dei paesi, ma la gente che muore, compresi gli stessi soldati di cui dici) un cancro tanto quegli altri, i nazisti e i comunisti, che la democrazia l’avevano ripudiata, se non addirittura mai conosciuta.
    quello che hai detto, “tutte le superpotenze, in un modo o nell’altro, hanno tentato di esercitare il loro dominio” e l’inevitabilità di cui parli, non giustificano l’orrore perpetrato, il sangue dei bambini e delle madri. saranno anche la conseguenza dell’esercizio del potere, ma non disturbare la democrazia (perché non sai che cosa è, evidentemente), né tantomeno l’orgoglio. ripeto, quest’ultimo sentimento tienilo per chi ha davvero cercato di cambiare le cose senza nuocere agli altri, per loro sii orgoglioso di appartenere al genere umano.

  71. hiroshima, per esempio, è stata certamente ecatombe di proporzioni gigantesce rispetto all11 settembre. ma, all’epoca dell’atomica sganciata dall’Enola Gay, non c’era la televisione. Oggi, dove anche la sbucciatura di un ginocchio di un cazzone che partecipa all’isola dei famosi diventa clamorosa, non ci può stupire se l’11 settembre, la guerra del golfo o la caduta di Saddham sembrano i fatti più eclatanti della storia dell’umanità.
    Nel merito, poi, quell’attentato fece temere (superficialmente e grossolanamente) l’inizio della terza guerra mondiale. Evento che, peraltro, nessuno ha interesse a scatenare. Salvo complicazioni.

  72. In linea di massima sono d’accordo con Piretti. Anche se , diciamo la verità, non è tanto semplice individuare superpotenze che sono un esempio perfetto di democrazia. O no?

  73. Sono d’accordo, Enrico. Ho citato l’attacco atomico al Giappone solo per fare un esempio, tra le tante contraddizioni che costituiscono gli Stati Uniti. Esempio tanto più lampante proprio perché fu inutile (non che un attacco atomico possa essere utile…) e sferrato in un momento in cui i giapponesi avevano già alzato la bandiera bianca. Infatti, alcuni sostengono che l’intenzione di Truman e del suo entourage fu quella di testare gli effetti dell’atomica sugli esseri umani, perché non aveva nessun tipo di motivazione bellica.

  74. Asteniamoci gentilmente dalle classifiche dei morti. Suppongo che quando in un sito di una persona intelligente, si decide di parlare di un evento storico, tra persone intelligenti, non si fa perchè i morti in questione sono più fichi di altri, o ci stanno più a cuore. Quanto mi incazza il cattivo gusto di “embè allora quegli altri???” che mi si propina ogni anno nel Giorno della Memoria. Come se non si avesse abbastanza sentimento per tutti, e abbastanza intelletto per capire che qualsiasi morte può farci ragionare sulla morte di tutti.
    Ora, l’11 settembre aldilà della incredibile rilevanza mediatica – ne do atto a Gregori – è un evento di notevole portata storica. Si può decidere di ricordarlo pensando agli americani morti, che sono dei poveracci esattamente come Allende e le vittime dello tzunami, perchè non è che se erano americani nun tenevano vita e famiglia. Si può pensare a loro come si può usare l’Olocausto, come si può usare ogni tragedia per digerire e fronteggiare la nostra passione per fare il male.
    Si può invece scegliere di pensare all’11 settembre pensando alla simbolica storica, che altri eventi non possono contendere. E’ il primo grosso attacco che l’America subisce in casa, è il segno forse, dell’apice di un impero che comincia a volgere al tramonto, è qualcosa di narrativamente non ignorabile.

  75. Vero è che gli americani ci hanno “colonizzati” – pensiamo alla musica, a Hollywood, alle basi Nato, ai condizionamenti nella politica e nell’economia… – però rispetto per i morti, a qualsiasi bandiera appartengano. I soldati angloamericani meritano questo, se non gratitudine.
    I Romani hanno creato un impero fatto anche di lacrime e sangue, ma la loro lingua, il diritto, l’architettura… hanno fatto la storia del mondo.
    L’11 settembre ci ha mostrato l’argilla del colosso. Le olimpiadi 2008 ci hanno fatto conoscere meglio la Cina, che con l’India scriveranno le pagine del futuro. Alla vecchia Europa secondo me il ruolo di conservare memoria, tradizioni, di riflettere sui cambiamenti con i lumi del suo glorioso passato.

  76. Io non ho cercato assolutamente di fare una gara sui morti. Non ho negato neanche la portata storica dell’11 settembre. Ritengo solo che bisognerebbe commerare tante vittime, non solo quelle fiche, perché, zauberei, purtroppo questa bipartizione esiste e mi risulta evidente, ad esempio, quando constato che non c’è una commemorazione per i morti di Falluja, per gli stessi cileni, per quelli di Panama, ecc ecc. Io ho provato orrore nell’assistere all’attacco alle Torri Gemelle, ma (escludendo per un attimo la teoria del complotto, per quanto sia molto probabile che gli aerei se li sono tirati addosso da soli per giustificare le azioni successive) è stato un attacco di guerra, molto simbolico, appunto, proprio perché colpì il monumento dell’economia americana, non molto diverso dai migliaia di attacchi sferrati dagli americani in tanti paesi. Se ammettiano che sono effetti collaterali i morti ammazzati delle aggressioni americane (e non voglio che sia così), dovremmo ammettere che le vittime dell’11 settembre sono anch’esse effetti collaterali, esseri umani sacrificabili di guerra. Ricordo Ferrara, poi strenuo difensore dell’embrione, con la faccia di chi la sa lunga, sostenere proprio che gli iracheni che saltavano in aria erano effetti collaterali.
    Purtroppo, i morti di serie A e di serie B, e anche di C a questo punto, esistono e come, e certamente gli americani appartengono, agli occhi degli occidentali, alla prima categoria.

  77. @ Zauberei
    Dici: “portata storica”. E se c’è una storia, ci sarà pure un narratore di questa storia, dato che siamo in un sito di letteratura. E se poi c’è un Narratore, con la enne maiuscola cioè, lo immagino come un tale che si prenda cura di proiettare il fascio di luce sul palcoscenico di questa storia, illuminando indifferentemente formiche, Imperi, uomini, albe, tramonti e fiori. E se si celebra “il primo grosso attacco che l’America subisce in casa”, non si capisce perchè il Narratore non debba contemplare, tra i tanti giorni, la celebrazione delle prime bombe atomiche sganciate sull’umanità, il 6 e il 9 agosto 1945. E infine la frase “…pensare all’11 settembre pensando alla simbolica storica, che altri eventi non possono contendere” ignora che un buon narratore ha a cuore tutti gli eventi, evitando che essi entrino in contesa tra di loro, ed egli, il Narratore, ha un altro simbolo, tra i tanti dei tanti giorni di questa storia: un gigantesco fungo ribollente; o il battito di ciglia d’un enorme occhio terrificante apparso in cielo, cioè il simbolo dell’orrore della Bomba portato nell’azzurro della sua “Sinfonia d’agosto” da Kurosawa. E Kurosawa forse sapeva che oltre quegli incubi, oltre i fantasmi e le delizie di qualsiasi storia, l’azzurro del cielo resta sempre incorrotto.
    Un abbraccio,
    Gaetano

  78. Ngiorno:) A tutti et a Gaetano:)
    Per la verità un buon narratore ha a cuore tutte le vite in quanto e se buon essere umano, ma in quanto buon narratore non si pole mettere a raccontarle tutte simultaneamente perchè non renderebbe giustizia. Sceglie, come dici tu Gaetano dove spostare il fascio di luce in sintonia con i propri personali affetti sentimenti e credenze e necessità. Se è un narratore migliore di altri (parere mio personale) userà una vicenda storica per una paradigmicità. Se vorrà citerà delle cose, se non vorrà no. Gerarchizzerà le sue sensazioni perchè se no la narrazione ne sarebbe impossibilitata.
    La mia sensazione sui rischi in questo tipo di discussioni, e che si combatta la guerra giusta (cioè il potere ideologico e politico e imperialista degli USa come nazione) nel modo sbagliato e nel contesto sbagliato. Siccome non ci piacicono gli Usa come soggetto politico, che in quanto tale ha fatto grandissime quantità di stronzate – non sono filo americana Gaetano manco un po’ – ci incazziamo per l’attenzione che si devolve all’11 settembre, considerando quanti ne hanno fatti crepare subito dopo in Iraq. Questa cosa almeno io, non la condivido su più piani.
    – Il primo sul piano dell’affettività e sensibilità personale è che gerarchizza le morti. Uh voi mette quanto è più drammatico un iracheno con famiglia, di un impiegato alle twin tawers con famiglia?
    – Il secondo sul piano logico: Eh caro impiegato delle twin tawers sei o non sei uno sporco americano? beh te la meriti. Cioè ci orianafallacizziamo tutti quanti, facendo di un paese immenso un unico blocco politico culturale e affettivo, senza riconoscere atteggiamenti e diversità interne. Un po’ come fa Calderoli con gli arabi: non esistono pacifisti, non esisterebbero moderati, non esisterebbe pensiero critico nel famoso mondo dei Cattivi. E tra quei poretti c’era magari l’inserviente delle pulizie della Costa Rica. O l’appassionato di cinema indipendente.
    Posso io dire che Susan Sonntag era uguale a Bush? Non credo.
    – Il terzo è sul piano storico politico. Se è nel mio interesse destrutturare e criticare il potere americano – questo per esempio è nel mio privato e zauberesco interesse – l’undici settembre è fondamentale. l’undici settembre diventa una chiave di volta storica. I morti sono tutti uguali davanti a Dio, ma ma mai credo davanti alla narrazione. Naturalmente possiamo narrare cià che vogliamo, e tutto è importante, ma io sotto il profilo storico ho a che fare con un POtere Politico che ha rotto le balle a tutto il globo terraqueo, e buona parte del globo terraqueo ha la vita gestita da quel potere politico. Dunque, nel momento in cui quel potere politico viene attaccato a casetta sua, si questa cosa ha per me politicamente e storicamente un significato nuovo e forte. All’uopo risuggerisco DOn De Lillo.

  79. No, peccato Zauberei, non ci capiamo, e così ci sono fraintendimenti, soprattutto sul fatto che tu riporti in ballo la faccenda delle gerarchizzazioni. Ma capisco che su una faccenda così enorme, e attraverso uno schermo, è difficile evitare equivoci. Mi sembrava d’essere stato chiaro, sull’eventualità d’una gerarchizzazione, oltre che nel mio ultimo commento, anche nel primo (quello dell’11 settembre alle 3:56; basta che leggi solo le ultime cinque o sei righe). Però purtroppo parli anche di tue “sensazioni”. E allora la cosa si complica davvero, tra persone che nemmeno si sono mai viste in faccia.
    Grazie del ri-sucggerimeto di Don De Lillo. Io invece ti suggerisco una ri-lettura (immagino e spero che la prima lettura o le molte riletture, per te ci siano già state) del racconto di Borges “L’Aleph”.

  80. Uh Gaetano li fraintendimenti quanto hai ragione!
    Però la sensazione è importante perchè non è una realtà e perchè non si riferisce a una cosa che tu possa aver già detto, ma a quello che si tema si possa dire ad andare avanti su una strada. Se chiama processo alle intenzioni ed è orrido lo so:)
    In ogni caso, forse siamo più d’accordo di quanto sembri. Grazie per l’idea della rilettura dell’Aleph, che lessi insieme a tutto il resto di Borges e che amo molto, ma posso dire con certezza che non ci ho capito una sega.
    :))))

  81. A caldo (2001, da una moderna e confortevole scuola su un lago tranquillo) l’11 settembre fu una enorme, mostruosa vigliaccata contro ignari civili (che non venivano da una guerra come i giapponesi) di uno stato dove CHIUNQUE poteva girare tranquillo e trovare un lavoro (sia pure in una hamburgheria e magari con licenziamento a fine settimana).
    A freddo (2008, da un soggiorno minacciato da una televisione che trasmette ininterrottamente dalle 21 alle 24, su più reti, sculettamenti di ragazzine alle quali si insegna che l’importante è apparire e che per un giusto prezzo si può rinunciare a se stessi) l’11 settembre è una gelida (come la morte) rivendicazione della possibilità di una civiltà diversa.
    Le due Torri: furono lette come il simbolo dell’arroganza; visivamente rappresentavano, anche loro, il numero 11, ossia gli anni che intercorsero dall’Egira alla morte di Maometto.
    Cosa è meglio: essere sommersi da immondizie culturali o rinunciare alla autonomia di pensiero? Una cosa mi pare certa: bisognerebbe smettere di investire enormi ricchezze per la costruzione di grattacieli, non solo nell’edilizia ma in ogni campo.

  82. “Una cosa mi pare certa: bisognerebbe smettere di investire enormi ricchezze per la costruzione di grattacieli, non solo nell’edilizia ma in ogni campo.”
    Caro Gianmario, sottoscrivo e faccio “mio” questo tuo finale architettonico ispirato all’uomo “faber”! Giusto.
    Ciao, Miriam
    ———————————————————————————————————————-
    L’11 settembre è un fatto unico e inconfrontabile, non perché quelle morti “contino” più delle altre, ma perché quel attentato ha l’aspetto della rivelazione, la più importante e significativa, per la nostra contemporaneità. Importante come la cometa di Betlemme che annunciava all’uomo l’Avvento, l’arrivo (scrivo da laica) di una forma di pensiero nuova e “concreta” , l’immagine di Cristo. Con la distruzione “spettacolare” delle Torri, trasmessa in contemporanea in tutto il mondo, l’ uomo nuovo è arrivato alla sua curva finale, dietro l’angolo possiamo solo verificare che solo un passo ci trattiene dalla caduta ultima. O ci si ritrae oppure il destino è certo., perché anche la tecnica non ci “appartiene” e nemmeno ci difende. Dovremmo fare il famoso passo indietro, ”E’ un passo che richiede una durata e una costanza, la cui portata noi non conosciamo ancora. Intanto una cosa è certa, e cioè che tale passo esige una preparazione, una disposizione esistenziale che non può essere più rimandata.”

  83. Caro Gianmario,
    so bene che la tua era una provocazione.
    Tuttavia, per quanto mi riguarda, l’11 settembre non può essere considerato come una gelida rivendicazione della possibilità di una civiltà diversa.
    Si tratta di un attentato terribile, vergognoso e sanguinario. Come tutti gli attentati dove muoiono persone… a prescindere da chi sia stato l’attentatore e da chi siano state le vittime.

  84. Rientro adesso. Vi ringrazio per i commenti pervenuti sugli altri post. Sono un po’ stanco: li leggerò con calma domani.
    Intanto mi sono ricordato che oggi è l’undici settembre…

    Ripropongo il vecchio post per eventuali vostri interventi.
    E auguro a tutti buonanotte.

  85. Le immagini restano e saranno sempre tragiche: ogni tanto mi ritrovo a guardarle e provo a trovare il senso di tutto questo ma senza riuscirci.
    E si, ne parlavo proprio stamattina con mia sorella, sembra sia successo ieri…

  86. una ferita immane che mai, secondo me, potrà davvero cicatrizzarsi. credo sia giusto e doveroso commemorare l’undici settembre.

  87. un ricordo che mi ferisce oggi come allora.
    anche per altri motivi.
    il 2001 è legato [per me] ad avvenimenti tragici ma anche alla Vita.

    Tu, Massimo, ci chiedi se troviamo sbiadite le immagini dell’11 settembre 2001 e aggiungi “forse perché si fa l’abitudine a tutto?”.
    Spero che all’orrore e alla violenza non ci abitueremo mai. Spero che le troveremo sempre aberranti e che riusciremo a ‘vedere’ anche oltre quello che ci mostreranno.

    Grazie.

  88. Sinceramente? A furia di guardare quei video diciamo che mi sono abituato e non mi fanno più impressione.

  89. sperando di fare cosa gradita segnalo alcuni degli articoli sull’11 settembre, di questo 11 settembre 2009.

  90. Carissimi,
    non c’entra niente, o può entrarci, non lo so, ma in questo momento, per un delizioso serendipity, dormono sotto il mio tetto (anzi sono svegli e stanno svuotandomi il frigo), mio genero iracheno e mio nipote americano. Ieri sera hanno parlato di pace universale facendo fuori 3 litri di Coca (Cola) e, per quello che sono riuscito a capire d’inglese, sono convinti che la libera circolazione delle idee e l’abbattimento delle povertà renderà questo mondo più pacifico.
    Questo è un buon 11 settembre per me, ma quello del 2001, insieme a Bush, ha bloccato per tre lustri le lancette della storia.
    Ora esco, porto in giro questi due per Napoli sottobraccio,
    cosa potrebbe desiderare di più il mondo adesso?
    Un abbraccio a tutti

  91. Bello rileggere i commenti già fatti un anno fa. E se non commento ancora oggi le nuove domande di Massimo è perchè non ho nulla da aggiungere quel poco che scrissi qui allora, nè a quanto scrivono i nuovi amici di oggi, soprattutto sulla tesi del complotto (ribadisco la mia convinzione che su questi veri o presunti complotti nessuno per svariati decenni come minimo, o forse mai, potrà dare definitiva risposta).
    Ma ho apprezzato molto, nella sua semplicità, quest’ultimo commento di Didò. E pertanto ricambio il suo abbraccio con affetto sincero. Sì: cosa potrebbe desiderare di più il mondo adesso?

  92. Ricambio anch’io l’abbraccio di Didò che mi ha fatto assaporare un mattino di fratellanza universale.

  93. Io ricordo con una precisione incredibile, di solito mi dimentico tutto, la mia giornata dell’11 settembre 2001. Ero a Niscemi, faceva ancora un caldo pauroso, ero stanca ma era stata una giornata ottima, finito di lavorare in macchina la radio ha dato la notizia e ho capito che da quel giorno il mondo sarebbe cambiato. Le immagini sono rimaste impresse nella mia memoria, non si sbiadiscono per niente. Non credo che si sbiadiranno, col passare degli anni.

  94. Ancora una considerazione (anche se, forse, un po’ OT) sul commento di Didò: nessuno che non sia capace di farci ridere è in grado di farci talvolta realmente commuovere.

  95. Caro Massimo, sull’undici settembre ho scritto anni fa un lungo racconto, che rievoca un mio viaggio in Afghanistan, proprio alla vigilia dell’invasione russa. E’ davvero troppo lungo perchè lo possa rendere accessibile sul mio sito. Ti invio la conclusione, nata dal confronto tra il ricordo di Bamyan e le attuali rovine. Credo che la meditazione o preghiera che conclude il racconto sia ancora un modo degno di ricordare.

    “Come sapete, quelle statue giganti, scavate con tanta pazienza nella montagna, oggi non esistono più: sono state sbriciolate dai colpi di mortaio dei talebani. Dopo essere sopravvissute allo scorrere dei secoli e al succedersi delle invasioni, sono svanite d’un tratto nel nulla. E al loro posto, a sorvegliare la valle, sono rimaste soltanto le nicchie vuote. Tuttavia per me quelle nicchie hanno ancora una forma ed è come se continuasse ad abitarle una presenza ineffabile. Ma lo scempio è grave ed è ormai consegnato alla memoria come il preludio di un altro strazio, quello delle Torri Gemelle, anche se nel cratere di New York, con le sue migliaia di vittime, non aleggia di certo qualcosa che possa sembrare un sorriso.
    La polvere non ha dappertutto lo stesso colore. Quella delle nostre città è grigia: a Bamyan la polvere è rossa e ad ogni tramonto e ad ogni alba si accende oggi come allora. E non so se sia un’immagine o un pensiero, ma ogni volta che torno con la mente laggiù, vi trovo una specie di conforto.
    Il tempo, il colore che il tempo assume in certi giorni di luce, fu proprio questo ad affascinarmi.
    “Nello sgretolarsi c’è una forma dell’eterno” pensavo, passeggiando ai piedi delle grandi statue o salendo per i cunicoli e le salette interne, come i monaci che un tempo le abitavano, per ammirare dall’alto la vallata quasi con gli occhi del Budda. E mi tornavano alla memoria le strofe di Khayyam sul nulla, la polvere e il vino. Tutto passa, ma un conto è dirlo e un altro percepirlo con lo sguardo, da lassù.
    Così, nell’osservare le grotte scavate in quelle stesse montagne e ancora miseramente abitate dai discendenti di Gengis Khan, provavo un’emozione fortissima. Di quel popolo, che aveva dominato la terra, restavano solo pochi stracci colorati, ma quegli stracci, Dio mio, come gridavano al sole.
    I bambini, soprattutto. Uscivano a frotte dalle spelonche per chiederti ridendo il bascisc, caramella o soldino, e capivi che era solo una splendido gioco, un’occasione di festa, se riuscivi a viverla con la stessa innocenza. O quegli altri, più grandicelli e già segnati dalla tristezza, che aspettavano il passaggio dei cammelli per seguirli sulla strada polverosa. Portavano delle ampie ceste sul capo e in quelle raccoglievano, camminando accoccolati, lo sterco che cadeva.
    “Afghanistan, addio” pensai da lassù. Capivo che non avrei desiderato vedere altro. Nemmeno i laghetti, un poco più in là, verso i quali correvano, come a una meta obbligata, i fricchettoni più avventurosi.
    No, per quanto mi riguardava avevo visto abbastanza. E non voglio dire di avere intuito allora la rovina che stava per abbattersi sull’intero paese, sino a completarsi, simbolicamente, su quelle statue senza tempo. Intuivo invece l’esatto contrario: il risorgere della vita, per un dono misterioso che anima la polvere e la fa divenire materia che si plasma nelle mani del vasaio. La forma dell’eterno, come prima dicevo.
    Così il mio viaggio, le emozioni condivise con Paola, la sua malattia, l’apparizione notturna del demonio: all’indomani saremmo ripartiti, lasciando ogni cosa alle spalle. Sapevo già che avremmo finto di nulla, la mia compagna e io, fino al ritorno a Milano. E forse avremmo fatto un’altra volta l’amore, magari a Istanbul, una finestra aperta sul Topkapi e il grido agonizzante delle rondini. E che infine, tornati a casa, ognuno avrebbe proseguito da solo per la sua strada.
    Ma la luce, lo sguardo, la fede confusa che mi sentivo, quella purezza insomma che adesso mi abitava, quella avrei voluto portarmela dentro per sempre.
    Non ci sono riuscito. Nessuno può vivere, credo, in uno stato di ebbrezza costante o in una purità così assoluta. Non in questa vita, almeno. Così mi sono portato dentro, per anni, una specie di nodo, simile al rimpianto. E mi pareva che i carri dei russi prima, e le mine che facevano strazio dei bambini, e le guerre fratricide poi, per concludere con il buio dei talebani, i Bin Laden e le bombe americane, mi pareva che tutte queste cose mi lasciassero un segno nell’anima, oscurandola e deturpandola come quei luoghi che avrei voluto innocenti per sempre.
    Per questo ho deciso di scrivere il racconto: per ritrovare quella stessa polvere e quella stessa luce. E so, dai sentimenti che ho provato, di esserci riuscito.
    Credo anche di avere compreso, nel rivivere quei giorni, che non siamo noi a custodire la purezza. E come potremmo, con queste povere mani?
    E’ la purezza, invece, che ci accompagna, così come il cielo segue il nostro cammino. Piano piano ci si abitua a sollevare lo sguardo e questo scambio, tra noi e gli orizzonti lontani, possiamo forse chiamarlo speranza.
    Così spero che anche tu, Paola, abbia a tuo modo compreso che nessuno di noi è degno dell’amore dell’altro, se non c’è un terzo che ci assiste. Non il diavolaccio dell’ultima notte. Quello venne, credo, perché il posto era vuoto. Non fu colpa tua né mia, come non fu merito nostro il bene che ci scambiammo. E allora, siamo dunque innocenti?
    No, nessuno è innocente. Non lo è Bin Laden, ma non lo è neppure Bush. Una cosa è la giustizia dell’uomo e un’altra quella di Dio: lo diciamo sempre, salvo comportarci ogni volta come fossimo Dio. Ecco, questa presunzione è una colpa e l’umiltà che le si oppone un merito.
    E noi, per tornare a una dimensione più modesta, come fummo? E come siamo oggi? Umili, presuntuosi? No, non mi rispondere, ti prego. Lasciami per un istante l’illusione che qualcosa o qualcuno ci abbia purificati. E ci purifichi ancora, per ogni giorno e ogni notte che avanza.
    Ho detto illusione? Volevo dire speranza. Lasciami per un istante la speranza che l’Afghanistan stesso possa risorgere nel ricordo di quello che era. E’ una debole luce, lo so bene, ma quando un vento improvviso ed oscuro ci avvolge, non possiamo far altro, mia cara, che accendere le nostre fiammelle nel buio”.
    (da “I giardini delle vite disperse”, ilmiolibro.it

  96. effettivamente anch’io, sempre sbadata, mi ricordo l’11 settembre 2001…. è una sensazione strana, sembra ieri e nello stesso tempo sembra un’eternità, come se fosse stato solo un brutto sogno.

  97. No, il ricordo dell’11 settembre 2001 non lo ritengo sbiadito anche perchè le conseguenze di quell’avvenimento sono tutte qui in mezzo a noi. La guerra in Iraq e in Afghanistan, il disastro dell’Occidente,la stessa crisi economica che è in parte anche una conseguenza delgi avvenimenti successivi, l’eredità pesantissima che pesa sull’Amministrazione Obama piena di buone intenzioni. Tutto è qui! Le fotografie non sono sbiadite però sono talmente filmiche, spettacolari come se le telecamere fossero state lì promnte a filamre l’evento, che questo genera in me un sentimento contraddittorio. Ero sgomento allora lo sono ora, ma se devo commuovermi al destino di chi era sugli aerei o dentro le torri non devo guardare quelle foto ma leggere le testimonianze, oppure affidarmi a qualche fiction ben fatta. Quelle foto sono le foto di una diritta televisiva, mi sono chiesto dal primo momento come potessero essere lì pronte così precise nel documentare, così ben posizionate da riprendere tutto perfettamente, specialmente il primo aereo. Ho seguito in modo non sistematico le varie ipotesi sul comlotto, ho letto la testimonianza del custode e la sua denuncia che mi ha impressionato: ma a me bastano quelle foto per dire che qualcosa non va.

  98. Ricordo ancora sei anni fa: misi per caso su Canale 5, immagine delle Torri Gemelle in fumo, pensavo fosse uno dei soliti film catastrofici… poi ho visto il logo del Tg5 e ho capito che qualcosa non tornava… Ieri su Repubblica c’era un lungo articolo dedicato all’11 settembre: mi ha colpito molto la mappa in cui si indicavano i principali (pongo in evidenza: i principali e basta) attentati con la firma di Al Qaeda, dopo l’11 settembre. Sono: Bali, 12 ottobre 2002; Instanbul, 15-20 novembre 2003; Madrid, 11 marzo 2004; Londra 7 luglio 2005; Sharm El Sheik, 23 luglio 2005; Amman, 9 novembre 2005; Mumbai, 11 luglio 2006; Islamabad, 20 settembre 2008; Mumbai, 26 novembre 2008…

  99. Ciao Massimo,
    pareva uno scherzo. La scena di un film. Molte cose e nessuna. Non credo ai complotti. Solo alla malvagità di poche menti criminali, che sono talmente malefiche da sembrare un complotto. I singoli uomini sono spesso artefici delle azioni peggiori.
    un abbraccio
    Elisabetta

  100. Ciao Massimo, sono nuovo qui, ogni tanto seguo e leggo.

    Un altro libro che potrebbe essere interessante è “lo sguardo e l’evento”
    di Marco Dinoi (1972-2008), “dal sembra vero con cui gli spettatori accoglievano le proiezioni dei Lumière al sembra un film con cui molti spettatori televisivi hanno reagito alle immagini dell’attentato”.

    Per il resto, mi pare che giocoforza viviamo una enorme e perenne dissociazione mentale, se così si può chiamare. Al di là dei lutti personali che ci colpiscono e che ci obbligano a soffrire, gli altri sono lutti indotti, dipendono dalla possibilità di esserne informati. Noi non abbiamo una memoria collettiva, non ancora e non so se l’avremo mai e soprattutto se ci serve. Gli americani che parlano di orgoglio, di democrazia e di ferita sono gli stessi che non sanno di aver vissuto e prosperato sopra un suolo un tempo casa di popoli sterminati scientemente dai grandi padri fondatori, festeggiati ogni anno tra fanfare e sventolii di bandierine.
    Senza contare il fatto che gli Stati Uniti sono il paese, se non sbaglio, che ha compiuto più guerre offensive in giro per il mondo negli ultimi 150 anni. A cosa serve commemorare? a parte il diritto delle vittime ad unirsi e partecipare assieme ai rituali di lutto, noi Italiani, il nostro paese a cosa si unisce? Di che parla Napolitano? NOn abbiamo accolto nel nostro paese Gheddafi, dittatore terrorista? non lasciamo morire in mare profughi e richiedenti asilo politico? non li stiamo consegnando alle carceri libiche? ripeto, di che parla Napolitano?

    Zauberei diceva giustamente che non si può ogni volta che si commemorano delle vittime dire ” e allora gli altri?”, io non vado ai funerali a chiedere che si pianga per gli altri, finché si piange va bene,
    è il teatro perpetuo che non sopporto. Io quando vedo le immagini amatoriali dell’attentato, con le voci delle persone che stanno riprendendo ho la pelle d’oca, se vedo qualche servizio con le storie e le interviste mi posso anche commuovere, ma l’attentato in sé non ha valenze storiche, né politiche. Una cosa ritengo importante: per le persone che conosco e frequento, i discorsi che ascolto, i dibattiti pubblici a cui assisto sia personalmente che in tv. La nostra memoria che penso sia importante costruire. Noi, io spero di no, ragioniamo con gli stessi concetti che hanno portato gli sterminii nel passato. vi chiedo: a cosa serve ricordare l’olocausto? E’ una lezione per le generazioni future giusto? L’Italia oggi è ancora un paese razzista, la lezione non l’ha imparata e di conseguenza non la può insegnare, fra un po’ l’olocausto non avrà sopravvissuti viventi e affogherà nel mare della storia.

    per finire, e scusatemi, l’11/9 viene raccontato come un attacco che l’Occidente, l’America, anche noi abbiamo subito. E’ un errore.

  101. Interessante il ragionamento dell’amico soprastante @paperino…,
    fa pochissime pieghe. Infatti.
    L’olocausto. perchè diavolo i cari amici ebrei continuano a costruire sui “territori”? Per accentuare “lo scontro di classe”, come dicevano le BR? Per creare le occasioni affinchè i Palestinesi non debbano mai calmarsi? Vogliono pareggiare l’olocausto?

    I miei amici americani, insieme alla dottrina “Petreus”, relativamente efficace, hanno rimosso le question’s che creano problemi, e cioè la ricostruzione di un tessuto economico e industriale, che sotto il satrapo coi baffi comunque esisteva.
    I curdi, che sono un popolo onorevole, hanno avuto un potere più grande di quello che gli spetterebbe.

    Afghanistan.
    Karzaj è uno dei signori, degli sceicchi che si dividono il potere in Afghan.
    Non è una semplice marionetta, ma uno stratega attento dello scacchiere nazionale: il paese va’ diviso e forse federato, tanto è già diviso comunque. Poi vorrei che mi fosse spiegato come si fa a perdere una guerra con la tecnologia satellitare di oggi: forse non si vuole vincerla. E non sarebbe stato meglio non farla?

  102. @Romanò: dubbi ce ne sono, perchè si possono ammettere solo due ipotesi: o i servizi di sicurezza americani sono costituiti da dilettanti improvvisati, oppure si è trattato di un complotto. Del resto ricordo quello che mi ha detto un amico, comandante Alitalia ora in pensione: è estremamente difficile per un aereo, anche se condotto da piloti d’esperienza, di mutare la rotta prefissata e di centrare una torre, un po’ come cercare un ago nel pagliaio, a meno che non sia orientato da terra. Ora se è difficilissimo per un aereo, condotto da uno ben poco esperto, fare quel che ha fatto, i dubbi aumentano quando gli aerei sono due.
    Del resto, da allora è iniziata una sistematica guerra di aggressione da parte degli USA, ricorrendo a menzogne. Ricordiamo la scena madre all’ONU di Powell che esibisce la fialetta e che dice che l’Iraq ha armi di distruzione di massa.
    Insomma, la vicenda non è certamente chiara e poi questo Bin Laden che è come l’Araba Fenice, che non si riesce mai a prendere, mi sa un po’ di romanzo d’appendice.

  103. Una data triste che, senza retorica, ci ha segnato tutti. Quel pomeriggio non credevo ai miei occhi.
    Realtà o finzione?
    Per un attimo ho sperato di sognare…E invece no, era purtroppo tutto VERO.
    Un caro saluto.
    ale

  104. Salve. Legge inglese? C’e’ una narrativa dall’undici settembre che dovresti leggere. E’ una storia di sopravvivenza, lotta e illuminazione. Si prega di condividere questa storia con i tuoi amici di lingua inglese. [ thehappeningstory(punto)blogspot(punto)com ]

  105. non credo al complotto. credo più ad un misto di dilettantismo ed improvvisazione di chi doveva badare alla protezione. ritengo strano che alla guida di un aereo non si riesca a centrare un grattacielo. piuttosto, molte vittime si sarebbero salvate se fosse stato evacuata la seconda torre. fosse successo in Italy, sarebbero scappati tutti immediatamente; ma negli Usa chi abbandona il posto di lavoro senza autorizzazione viene licenziato…
    ritengo altrettanto assurdo che con 100.000 uomini si possa occupare un paese, l’Afghanistan, grande diverse volte l’Italia ed aspramente montuoso.

  106. Powell sarebbe stato più sincero se nella fialetta avesse mostrato del petrolio, che avrebbe spiegato meglio il motivo del nostro intervento.
    Quelli che dicono di laciare l’Iraq sono gli stessi che poi hanno sete di petrolio per le loro auto, moto, etc.

    Powell dev’essere un po’ italiano: ricordo bene quando lui, uomo di Bush-McCaine, all’ultimo momento saltò sul carro del quasi-vincitore fratello Obama…

  107. a proposito dell’improvvisazione degli americani, ricordo la dichiarazione tragicomica resa, a cose fatte, uno degli istruttori di volo di uno dei terroristi arabi: “Ah! Ecco perché quel tizio era l’unico che non mi faceva domande sull’atterraggio!”.

    In sostanza, credo che il risiko non avrà mai fine: gli integralisti vogliono comandare in ogni stato musulmano, dal marocco alle filippine. noi dobbiamo invece mettere a capo di ogni stato un amico nostro.
    E conquistare 24 territori e il sudamerica.

  108. Salve. Legge inglese? C’e’ una narrativa dall’undici settembre che dovresti leggere. E’ una storia di sopravvivenza, lotta e illuminazione. Si prega di condividere questa storia con i tuoi amici di lingua inglese. [ thehappeningstory(punto)blogspot(punto)com ]

  109. Un anno dopo, torniamo a riflettere: anzitutto saluto il Navigero, che spero non abbandoni mai il timone, anche se i venti calano e le bonacce aumentano, lasciandoci stanchi e impotenti, in attesa di venti nuovi… che ci portino da qualche parte, verso qualcosa. Qualcosa che non si è mai verificato in questi anni e lascia sgomenti per l’assurdità che rivela: otto anni dopo, il numero delle persone che pretendono di insegnare agli altri cosa pensare (di più, vogliono impedire che gli altri pensino) è aumentato, in tutto il mondo; gli apostoli della morte si moltiplicano, non accorgendosi, da ignoranti, di non essere altro che pedine di un gioco, di una partita che (alla base) è la natura stessa a proporre, condurre e vincere sempre; dall’altra, aumentano anche coloro che si credono più furbi, i cinici convinti di manovrare il mondo con i soldi, a spese di tutti, ignoranti ancor di più; come coloro che producono vino tossico, tanto (ragionano furbescamente) loro non lo bevono perché sanno che è avvelenato e non pensano che un altro (altrettanto furbo) gli renderà prima o poi la pariglia. Nel frattempo, continuiamo ad aumentare di varie decine di milioni all’anno: nuovi arrivi che, nella maggior parte, saranno disperati che non avranno neanche il modo di pensare, assillati dalla fame, dalla mancanza d’acqua, dalle malattie e dalle guerre e rovinati da chi li ha preceduti. Insomma, l’11 settembre, quell’evento abnorme e enorme, avrebbe dovuto servire a chiudere un’epoca di becero capitalismo e stupido consumismo, per aprirne una nuova più illuminata, e invece… Invece continuiamo con gente che gioca, senza alcun barlume di intelligenza, con la finanza, il potere fine a se stesso, la sottomissione dei sessi, la produzione fine a se stessa e quindi l’inquinamento irresponsabile, e si continua ancora a giocare con il presunto possesso della parola di Dio e con le bombe. L’11 settembre purtroppo non ha lasciato alcun insegnamento: non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.

  110. se guardiamo alla storia vicina e lontana, credo che ogni giorno sia il giorno giusto per commemorare questo o quell’eccidio. l’ 11 settembre e’ vicinissimo a noi, e’ spettacolare nella sua ferocia, un’apocalisse da Kolossal americano. Se accettiamo l’idea del complotto, hanno pagato gente comune, il nostro vicino di casa, il nostro compagno di viaggio al mattino per andare a lavoro ma, se non accettiamo l’idea del complotto, hanno pagato sempre le stesse persone. l’inviolabilita’ americana e’ stata appunto violata e tuttavia, come e’ stato possibile violare un tale inviolabile sistema? La mente umana e’ un tale abisso di contraddizioni, di umanita’ e di ferocia che potrebbe anche elaborare un piano per giustificare un’ ecatombe con un eccidio e, viceversa. forse Munch, quando ha dipinto ” L’urlo”, aveva di fronte questa immagine. Magari aveva avuto in visione la bambina nuda che corre urlando con la nube tossica della bomba atomica che incombe su di lei o, chissa’ quale altra atrocita’. Moore, non e’ diverso dai soliti sciacalli che rubano nelle case abbandonate solo qui si profana un dolore per farne quatrini.

  111. Grazie, Nicoletta. Mi hai fatto venire in mente i “quatrini” di Trilussa.

    Ché quer covo d’assassini
    che c’insanguina la terra
    sa benone che la guerra
    è un gran giro de quatrini
    che prepara le risorse
    pe li ladri de le Borse.

  112. Ottimo Trilussa, ma continuiamo anche a parlarne perchè l’11 settembre non è finito e riguard anche noi. Non per quello ceh ha detto Napolitano, ma per le consegiuenze politiche e non solo che ha avuto e continua ad avere. Del resto avete visto cosa è successo al Ministro di Obama che due anni fa fece domande impertinenti che rivelavano il su pensiero, complottista? Costretto a dimettersi.

  113. Il dibattito dimostra quanto contino, oggi, le due torri: ne parlano ancora due gatti. Il tempo ha inglobato tutto nel suo calderone e l’11 settembre andrà a finire, forse, sulle targhe stradali, insieme all’8 settembre e al XX settembre, giorni che ai giovani non dicono più nulla. Siamo alle prese con problemi che ci fanno vedere con molto distacco e da molto lontano quello che dovrebbe essere il sigillo di un epoca. Quanto alle stragi, purtroppo, in Italia siamo abituati a parlarne a vuoto, senza che si sia mai accertato un vero colpevole a monte. E Bin Laden? Dov’è? Morto o vivo? Boh, la cosa non interessa, presi come siamo con i quattrini, a buttarli in decoder e televisori (imposizione di stato) e a cercare di farli. E cresce l’ammirazione per i corsari che dilagano senza pagare il dazio per le loro scorrerie, dalle banche alle corse, ufficialmente autorizzati.

  114. No Massimo, quelle immagini nella mia mente non sono affatto sbiadite: sono più vivide ed atroci che mai. Ogni volta che appaiono in tv mi viene un groppo in gola, non ci farò l’abitudine, MAI!

  115. Così come il senso di quelle domande:
    È così anche per voi?
    E quelle immagini…

    Quelle immagini terribili degli aerei che trafiggono i grattacieli, pensate che abbiano mantenuta intatta la loro atrocità?

    O le trovate un po’ sbiadite

  116. per me è uguale. non è cambiato granché.
    certo in quei giorni ci pensavo spesso, oggi molto di meno.
    però quando ci penso i brividi vengono lo stesso.
    grazie per il post.

  117. Quelle immagini mi scioccarono: stentavo a credere che fosse tutto vero! E nel giro di pochi secondi pensai che ci saremmo trovati nel mezzo di una “guerra”! Per fortuna così non è stato, ma quanta paura, quanta preoccupazione, quante lacrime per tutti quei morti!
    Credo che ci siano cose a cui non ci si possa abituare e una di queste è proprio l’atrocità trasmessa dalle immagini di quel giorno.
    Ciao e …grazie per avermi consentito questa riflessione

  118. No, non ci si abitua.
    Niente è più come prima
    “M’hanno fottuta la gioia…”
    Il cielo non è perennemente azzurro
    e il grigio non è fatto solo di nuvole.
    La vita per certi è come una cicca di sigaretta
    che ti capita sotto i piedi
    I pompieri sono dei santi
    e i corpi volano come farfalle
    ma tutti, proprio tutti, siamo anima e polvere…
    e l’11 settembre continuerà ad essere un
    perenne desiderio di Pace
    un voler sentire silenzio per ricordare
    in un mondo dove suonino le campane
    e dove uomini operosi costruiscono
    fontane dove zampilla l’acqua trasparente
    del perdono misto a sorella nostalgia per
    chi se ne è volato via senza saperlo e senza volerlo.
    Dear america and dear friends
    it must to continue to love Freedom and Peace for ever over the world!

  119. Vabbè, certo. L’impressione rimane… ma per me quelle immagini hanno perso mordente.
    E quella paura che c’era allora, oggi non c’è più.

  120. Il primo aereo, assolutamente inaspettato, quasi non si è visto e il fuoco che usciva dal grattacielo è sembrato l’esplosione di una bomba; ma il secondo, il secondo che si infila di traverso come una lama, veloce e spietato, affondando come una lama nella carne, la lama di una scimitarra, quello non lo si può dimenticare. Quelli che, come me, non sono cresciuti con le immagini virtuali sparate negli occhi dagli schermi, credo che continueranno a sussultare nel vedere quella tremenda ferita, a vedere il Davide arabo che abbatte il Golia, Giuditta che taglia la testa a Oloferne, e proveranno un senso di ribrezzo e tristezza pensando che tutti, tutti questi episodi, da un remoto passato a oggi son stati e sono assassinii e che nihil sub sole novum, purtroppo.

  121. condivido il pensiero di gianmario… e mi vengono i brividi.
    come dimenticare?
    anzi, è bene ricordare. per quanto male faccia.

  122. Ho riflettutto sul mio ricordo dell’ 11 settembre ma anche, leggendo i commenti, sulla “bella carrellata” della nefandezza umana: lo sterminio degli indioamericani, il golpe che uccise Salvador Allende e la democrazia cilena, il consumismo forsennato. la fame del terzo e quarto mondo, la contras americana conto il Nicaragua che si era appena liberato di Somoza. Mi è venuta l’ angoscia e mi chiedo quando verrà, se verrà, l’ uomo inedito, cioè fratermo e solidale di cui parlava Ernesto Balducci.

  123. @elektra (“Bush è responsabile di fronte alla Storia, americana ma non solo, per la totale inefficienza e inadeguatezza della sua Amministrazione a far fronte con tempismo alla catastrofe”). E’ grazie a Bush e alla war on terror se oggi al quaeda è sulla difensiva e non colpisce piu da qualche anno in Occidente.

  124. Ricordo perfettamente dove ero:avevo appena aperto il pc…. ci stava l’immagine del primo aereo, non si parlava di attentato, rimasi di sasso pensavo come il breve articolo fosse un disastro aereo.
    Ho acceso subito la tv. Mentana commentava, ero incredula ho visto l’altro aereo in diretta e stentavo a credere a quanto stava accadendo.
    Quel giorno e quelle immagini non le ho dimenticate, e ancora oggi rivederle è un colpo al cuore per la ferita ad una città e per le vittime.
    Sara

  125. volevo rivedere il video qui sopra riproposto del tg uno ma dice che è stato rimosso.
    Dove posso trovarlo?
    grazie
    ( ho sbagliato a postare la mia email quella esatta è questa)
    Sara

  126. Caro Massimo,
    io sono dell’idea che è stato talmente perciso e perfetto nell’esecuzione, talmente significativo nel bersaglio, che questo attentato rimarrà nella storia dei secoli “il” tragico capolavoro che non sbiadirà certamente, manterrà la sua carica “esplosiva” nei cuori degli uomini, a perenne ricordo di un conflitto assurdo, come tutti i conflitti, ma soprattutto a perenne ricordo dell’arrogante monito di un pugno di guerrglieri rivolto alla più grande potenza del mondo proprio al centro di quella mela che si riteneva presuntosamente invulnerabile.
    Estremamente tragica e mostruosa, ma una bella lezione per l’umanità e talmente appagante per chi l’ha data, che io ritengo non si voglia più ripetere. Perché un’altra non potrebbe mai arrivare a competere con questa.
    Così la penso io. Ciao.
    pierluigi

  127. Quella dell’11 settembre è una sciagura indimenticabile per l’umanità. Secondo me è impossibile pensare il contrario

  128. Non so giudicare la veridicità del video, che tra l’altro avevo visto anni fa in TV, e sopratutto non ho conoscenze tecniche per contestarlo o accettarlo.
    Mi è venuto in mente più volte però uno scenario di questo tipo: Al Qaeda voleva fare un attacco, anzi, molteplici attacchi spettacolari negli Stati Uniti. Colpire le ambasciate sparse nel mondo ecc… non soddisfaceva più i loro interessi. C’era questa volontà di colpire il nemico occidentale “al cuore”. Dall’altra parte c’era la volontà da parte dei governanti americani di colpire Al Qaeda e i Paesi ostili e dententori di preziose fonti di energia. Di fondo forse c’era un interesse comune a che accadesse qualcosa di spettacolare.
    Chi ci è andato di mezzo, come sempre, il popolo delle vittime innocenti!
    Posso solo cercare di condividere il dolore delle vittime alle quali è stata strappata la vita ingiustamente, e dei loro parenti.
    Rimango comunque convinta che stiamo vivendo una guerra tra due mondi e due modi di vivere diversi, una guerra di culture. La maggior parte dei Paesi produttori di petrolio, si sentono minacciati dalla nostra cultura occidentale. A questo s’innesta molta ignoranza. E’ vero che molti dei dirottatori dell’11 settembre non erano poveracci, ma è anche vero che molti kamikaze che si fanno saltare in aria provengono da famiglie poverissime e hanno frequentato solo scuole islamiche.
    In questo periodo sto leggendo Nadeem Aslam, ho appena finito “La veglia inutile” e sto leggendo “Mappe per amanti smarriti”. Credo sia un autore di valore, e oltre alla bellezza della prosa, la profondità dei personaggi, i dialoghi magistrali, l’analisi approfondita dei rapporti interpersonali, c’è una pittura del mondo islamico attraverso gli occhi di un mussulmano (non so se sia credente, ma la religione influenza comunque la nostra formazione) colto ed equlibrato che ci permette di capire meglio un mondo che ci rimane ostile.
    Ho scritto capire, perché si tratta di capire le ragioni profonde che spingono un ragazzo di 15 anni a suicidarsi ammazzando altre persone innocenti, per poter poi intervenire e forse cercare di cambiare la situazione con le “politiche” giuste. Chi indottrina i bambini per far sì che si suicidino, li indottrina fin dalla più tenera età, non vuole istruirli, non vuole il bene di nessuno. Li strumentalizza e basta per la sua causa. Ma questo lo sappiamo tutti.
    La domanda è: che possiamo fare? Come sottrarre i bambini a questi criminali vestiti da benefattori? Cosa possono fare i nostri governi?
    Non ho la risposta, purtroppo.
    Questo riguarda gli adolescenti terroristi. Ma che dire degli adulti nei nostri Paesi, come il fenomeno delle Brigate Rosse o l’IRA? Il discorso è complesso.
    Ma una cosa è certa, il terrorismo falcia le vite di gente innocente che andrebbe ricordata più spesso.

  129. la scena dell’aereo che trafigge il grattacielo è una delle più terribili e angoscianti della storia dell’umanità, proprio perché è stata immortalata nei video. in quanto tale rimarrà imperitura.
    grazie per l’impegno profuso con questo blog.

  130. ho ancora le idee molto confuse . Chi ci ha rimesso la vita sono stati dei civili innocenti….come succede in tutte le guerre.

  131. Ancora mi rattristano quelle scene di una esplosione nella normalità della vita di New York. Ho pianto a suo tempo nel vederle. Era troppo forte l’emozione. Vite innocenti disperse per deliri di vendetta. Questo è il male che fanno le religioni. Tutte. Ai massimi livelli di esaltazione. Ma il cristianesimo e il giudaismo sono usciti dal medioevo, mentre l’islamismo ha ancora dentro la carica esplosiva del suo fondatore. Non dimentichiamo. Sono arrivati in silenzio. E ci stanno riducendo al silenzio.

  132. Caro Massimo, ricordo l’11 settembre del 2001 con un misto di distacco, stupore, come un evento lontanissimo e pure sempre presente che cambiò la vita dell’Occidente.
    Accesi la tivù, era un pomeriggio per noi in Italia, il mio bimbo non aveva nemmeno due anni, mi apprestavo alla solita passeggiatina, avevo preso decisioni importanti dal punto di vista della mia vita personale (lasciato un lavoro, iniziato da pochi giorni un altro più compatibile con i miei impegni familiari).
    Il fumo, lo speaker, il susseguirsi di notizie. Mio marito era al lavoro, non avevo nessuno con cui parlare, ebbi bisogno di condividere con qualcuno l’angoscia che mi assaliva, come se la certezza di avere vissuto (nel bene e nel male) sotto l’egida di un’America che sembrava garante di una sicurezza (forse illusoria) crollasse come un gigante dai piedi d’argilla.
    Come se al mio bambino non potessi trasmettere la stessa fiducia in un mondo – sono nata negli anni Sessanta – a cui i miei genitori avevano dato fiducia, mettendomi al mondo.
    Andai all’edicola sotto casa, mi fermai a commentare con il mio edicolante, per sciogliere quel senso di inquietudine, che in un pomeriggio di fine estate dal tempo incerto, nella mia città del NordItalia, aveva invaso anche il cielo sulla ia testa, un cielo che sembrava annebbiato da quel fumo, da quelle ferite.
    Il peggio venne dopo, nella consapevolezza dei morti, a cui si mischiarono le storie di eroismo. Anni dopo, con più distacco, vidi film, anche delle versioni non ufficiali.
    Il mio ricordo più nitido, però, è di un giorno di fine settembre: lavoravo come insegnante di sostegno in una scuola media inferiore e vidi realizzare, nell’ora di tecnologia, dei modellini di cartone del tragico evento dai ragazzini di undici dodici anni. Ragazzi che oggi hanno 20 anni.
    Alle domande che loro non posero non avrei saputo dare risposta.
    Buon pomeriggio, tra poco andò in edicola ad acquistare una rivista, il mio edicolante è sempre lì, il senso di inquietudine e di insicurezza si ripresenta ad ogni anniversario. Testimoni del tempo vediamo scorrere gli eventi che trasformano il nostro mondo, a volte pedine a volte artefici. Dovremmo imparare dagli errori /orrori della Storia.
    Francesca Varagona

  133. Ricordo benissimo quel pomeriggio.Anch’io come la Francesca che ha scritto sopra ero a casa con i miei figli e mentre parlavo sconvolta con mio marito a telefono vidi con la coda dell’occhio il secondo aereo conficcarsi nella seconda torre.Per un attimo pensai di aver visto male fra la confusione del fumo e delle fiamme, poi purtroppo sentendo le notizie seduta ed inorridita ho provato solo un enorme spavento. Non credo che si possa dimenticare.Non credo che sia giusto dimenticare.E’ stato uno degli atti più vigliacchi e mostruosi della storia degli ultimi venti anni del mondo intero.Ricordare sempre e comunque, anche se crea angoscia dolore e dispiacere.E’ un tributo dovuto alle vittime innocenti, alle vite spezzate così brutalmente senza un motivo. Ci sono tanti eventi che nella storia anche del nostro paese resteranno senza risposte ma guardarsi indietro è sempre necessario per costruire una consapevolezza del male così come del bene, parlarne ai più piccoli, e trovare sempre il coraggio di andare avanti e vivere il dono prezioso della vita.
    un abbraccio a tutti gli amici di letteratitudine

  134. Obama: “Il modo migliore per onorare le vittime è restare uniti” 21 –”Il modo migliore per onorare le vittime e per portare avanti con i nostri ideali è quello di restare uniti e combattere le intolleranze. Non bisogna permettere ai terroristi di rinnegare i nostri valori. Sono qui per ringraziare le persone di tutte le razze e tutte le fedi, che sono americane. L’11 settembre ci ricorda quante lacrime dovremmo ancora condividere”.
    11/9/2010

  135. 11 settembre 2001. Qualche settimana prima ero rientrata da Los Angeles. Avevo ancora sull’epidermide l’America, anzi di più, me ne sentivo impregnata.
    Sono sempre stata molto critica nei confronti degli americani, o meglio della “vita americana”, forse l’ho già scritto, tutto parte dalla concezione architettonica dei grattacieli in opposizione alla cupola. . .
    Ma le torri erano gemelle, metabolizzate come oriente ed occidente, l’una di fronte all’altra, un crollo senza precedenti.
    Saluti
    Rossella

  136. Quel giorno, l’11 settembre del 2001, ero in ufficio, precisamente nella saletta “relax”, provvista di televisore in quel momento acceso, che stavo tranquillamente parlando con un collega. Vedemmo le immagini degli aerei schiantarsi contro la prima torre gemella. Ricordo che ebbi una sensazione terribile: una sorta di scossa elettrica mi attraversò il corpo; in quel momento mi sembrava di non avere più sostegno sotto i piedi. Eravamo tutti allibiti. Nessuno riusciva a proferire parola. Una cosa, tra le tante emozioni che provai, mi toccò nel profondo: mio padre mi telefonò per chiedermi come stavo …

  137. Dimenticavo. Dopo un paio d’ore dalla tragedia, avevo sete, sentivo il bisogno di bere (acqua). Andai al bar di sotto. Trovai il barista che piangeva; un pianto sommesso, profondo. Una sola altra volta lo vidi piangere, ma di gioia, quando il centro sinistra vinse le prime elezioni. Ma questa è un’altra storia.

  138. Difficile dimenticare quanto successo l’11 settembre, questi sono eventi terroristici a cui l’animo umano non si può abituare e mai si abituerà.
    Per quanto riguarda l’idea del complotto ho visto un paio di anni fa una trasmissione in cui si sosteneva questa tesi e ricordo ancora adesso in modo molto chiaro il filmato in cui veniva mostrata l’implosione delle torri.
    Quello che lasciava a bocca aperta era il fatto che durante il crollo le torri ebbero lo stesso identico comportamento di quello che hanno i palazzi che vengono abbattuti in modo “controllato” con cariche di esplosivo fissate lungo i pilastri portanti. Anche i vari anedotti che facevano da contorno a questa dimostrazione erano molto convincenti nel far immaginare che tutto era stato preparato ad hoc in precedenza con il coinvolgimento degli americani stessi. Il risultato di tutto ciò, come sappiamo, permise a Bush, e quindi all’America, di iniziare la tanto sospirata guerra per il petrolio………

  139. Quel giorno, all’ora dell’attentato, ero in volo da Lisbona a Roma. Non ci avevano informato, naturalmente dell’accaduto. Ma l’aereo continuava a girare sul cielo di Sardegna e non capivamo come mai. Solo a Roma comincia a trapelare qualcosa…ma niente di preciso. L’aria che respiravamo era di interrogazione ma certamente non di sgomento. Non sapevamo nulla. Solo arrivata a Napoli, con un altro aereo e con un po’ di ritardo, una volta preso il taxi, vengo a sapere che c’è stato un attentato. Ma è la ripresa diretta in televisione che ci fa precipitare nell’angoscia. Di botto ho avuto cancellato tutto il ricordo della vacanza in Portogallo; la mia vita mi tornava come irrilevante rispetto a quanto stavano vivendo quelle persone colpite così duramente.
    Ancora oggi, risento tutto lo strazio di quelle voci, di quelle vite arrivate fino a me dal televisore.
    Non so dire cosa è cambiato. Forse, direi in maniera sintetica, tutte le nostre certezze. La guerra e le atrocità che credevamo superate o lontane erano qui davanti ai nostri occhi. Ed oggi? oggi siamo solo più coscienti di quanti disastri abbiamo intorno. Perchè solo questo è cambiato.: la coscienza che siamo ancora nella barbarie. Noi che ci sentivamo al sicuro, grazie alla nostra presunta razionale modernità, sappiamo oramai che la nostra civiltà per essere tale deve fare ancora molta strada.

  140. Al di là del fatto emotivo, del tutto comprensibile, restano ancora insoddisfatte troppe domande e da chiarire numerosi punti oscuri. Temo che lo scontro fra teorie complottistiche e solo terroristiche proseguirà senza vincitori. E così, come per le stragi italiane, anche questa avrà ogni anno la sua commemorazione, senza che per questo si abbiano conclusive certezze sul come andarono i fatti.

  141. Ai numerosi dietrologi che ancor oggi ricercano testi che “dimostrano” il contrario dell’evidenza, ricordo che chiunque, con supposti calcoli e fantomatiche interviste può costruire qualunque tesi, ma così facendo non si arriva da nessuna parte. Il testo citato e linkato gentilmente da Claudio, pur riportando la verità sostanziale, cioè che il nucleo dei due grattacieli era, per la prima volta, costituito “da due pozzi cavi di acciaio” vale a dire da cilindri portanti (e quindi fornendo la risposta alla cosiddetta stranezza del collasso delle torri) arzigogola con centinaia di supposizioni su un abnorme evento mai prima verificatosi. Si può arrivare così a qualunque conclusione, perfino a quella aberrante (e comoda agli attentatori) che, sotto sotto ci siano gli ebrei. Quando basta pensare: a quello che è l’orgoglio americano; alle enormi perdite di vite umane e (va considerato) anche di ricchezze e di immagine; alle immagini che non sono di un videogioco (purtroppo) per non andare dietro a coloro che sostengono, ad esempio, che gli americani non hanno mai raggiunto la luna e cose ancora peggiori che leggiamo tutti i giorni.

  142. Aggiungo che gli USA non sono l’Italia, dove sappiamo quante persone “remano contro” per abitudine e vocazione (ugualmente presenti in ogni parte politica), che i Bin Laden erano e sono una famiglia di costruttori e che c’è anche uno dei progettatori arrestato, reo confesso e tuttora detenuto.

  143. Massimo, riguardo a questo avvenimento ho la tua stessa sensazione, e cioè mi sembra che sia accaduto davvero una vita fa…anche perché nove anni non sono pochi. Certo questo non significa dimenticare tutto completamente, perché un fatto del genere ha segnato la vita di tutti noi,anche se noi che eravamo lontani di certo non abbiamo provato direttamente il dolore di tanti newyorchesi che hanno perso i loro cari così, senza un motivo…io credo che il fatto che nonostante ciò dobbiamo continuare a vivere non significhi dimenticare;forse, più che altro, dobbiamo continuare a vivere in un modo un po’ diverso.
    Sara

  144. Cari amici, rimetto in primo piano il post dedicato all’undici settembre.
    Come sempre ritenetevi tutti invitati a lasciare un contributo in qualunque forma: un pensiero, una considerazione, un ricordo, una citazione, ecc.

  145. Credo sia giusto e importante ricordare l’undici settembre. Una strage che ha segnato la storia recente dell’umanità, anche e soprattutto per le modalità con cui si è verificata.

  146. Non saprei come rispondere alle domande poste. Per me, comunque, quelle immaagini che anche in questi giorni girano ossessivamente su Tg e speciali, quelle degli aerei che penetrano i grattacieli, rimangono attualissime e angoscianti.
    Non credo che ci si possa mai abituare a immagini come quelle.

  147. Forse un’altra considerazione degna di nota è che quest’anno, oltre al “decennale”, c’è la novità dell’assenza di Osama bin Laden.
    Verrebbe da chiedersi fino a che punto la sua uccisione è stata determinante nella sconfitta al terrorismo internazionale.
    Complimenti per il blog.

  148. ciao massimo. accolgo il tuo invito.
    La Stampa sta pubblicando articoli interessanti sull’11 settembre. Ne propongo qualcuno nel forum

  149. La guerra civile islamica ha sconfitto la jihad (fonte: La Stampa)
    —-
    di VITTORIO EMANUELE PARSI

    Pochi fatti come gli attentati dell’11 settembre e pochi personaggi come Osama Bin Laden sono stati in grado di conquistarsi una fama, per quanto sinistra, altrettanto planetaria da essere immediatamente associati da chiunque nel mondo all’idea stessa di jihadismo e al terrorismo di matrice islamista.

    Un’associazione talmente stretta da averci fatto sovrapporre totalmente terrorismo e jihadismo al radicalismo islamista nel suo complesso. Difficile che potesse andare diversamente, d’altronde, se proprio in conseguenza dell’incubo che si materializzò in diretta tv, in una soleggiata mattina della costa atlantica degli Stati Uniti, abbiamo vissuto per quasi un decennio l’era della «war on terror», concretizzatasi nella decisione americana di combattere due guerre in terre musulmane.

    Di questi 10 anni di conflitto sono stati fatti tanti bilanci, tutti di necessità ancora provvisori, e però quasi tutti immancabilmente critici.

    Troppe vite sono andate perdute e molti degli obiettivi politici che gli interventi militari si proponevano non sono stati raggiunti. È opinione diffusa che, almeno in parte, proprio la presenza militare occidentale in Afghanistan e Iraq abbia concorso ad alimentare il jihadismo e a rinfoltirne le file. Lo si è detto in particolare del conflitto iracheno, ingiustificabile rispetto ai fatti dell’11 settembre.

    Eppure, proprio la guerra in Iraq, rapidamente degenerata in un’insorgenza di vaste proporzioni contro l’occupazione americana e in una feroce guerra civile tra sciiti e sunniti, ha contribuito ad alienare ai jihadisti molte delle simpatie di cui inizialmente godevano. Così è successo a mano a mano che gli adepti di Bin Laden ammazzavano un numero crescente di musulmani a fronte dei «crociati» uccisi. Parafrasando Gilles Kepel, «la fitna ha preso il posto della jihad», cioè il conflitto intra-islamico per la purificazione della società ha sostituito gradualmente la lotta contro gli infedeli. Se oggi ci chiediamo che cosa resti del jihadismo globale e soprattutto della sua manifestazione più inquietante per noi, il terrorismo globale di matrice islamista, la risposta è ben poco.

    Per evitare di montarci la testa occorre subito precisare che un simile risultato non è stato raggiunto per merito nostro, ma semmai nonostante i nostri errori. Sono state le rivoluzioni arabe di quest’anno a sottrarre terreno al terrorismo jihadista, grazie alla loro capacità di ridare speranza alle fin qui disperate masse arabe e a borghesie politicamente alienate, conseguendo il risultato di rovesciare despoti corrotti o regimi privi di legittimazione attraverso la lotta politica pubblica: talvolta ricorrendo alla forza delle armi, ma rifiutando la logica della clandestinità e degli atti dimostrativi violentemente spettacolari.

    Può ben darsi che a novembre, in Egitto, i Fratelli musulmani vincano le elezioni, come era accaduto con Hamas a Gaza, o che lo stesso accada in Tunisia o magari in Libia. Ma confondere le formazioni islamiste radicali con i gruppi terroristici jihadisti è un errore grossolano che a Washington è costato e sta costando carissimo in termini politici.

    Diverso è il discorso sulla tenuta del jihadisno per quanto riguarda i fronti di guerra ancora aperti con l’Occidente (come l’Afghanistan) e i Paesi coinvolti in questi conflitti (come il Pakistan). Lì, proprio la presenza militare occidentale e l’elevato numero di «vittime collaterali» della nostra guerra tecnologica continua a produrre reclute per il jihadismo, che spesso è però la coloritura prevalente della lotta contro la presenza straniera, interpretata da molti come una occupazione militare.

    Altra cosa ancora è quella legata all’irrisolto conflitto israelo-palestinese, dove lo jihadismo è solo l’ultima forma assunta da una lotta di liberazione nazionale andata sempre frustrata, nella sostanziale indifferenza della comunità internazionale. Evidentemente compiere strage di civili innocenti per uccidere alcuni «riservisti» di Tsahal (così come per assassinare un fedayn palestinese) è un atto criminale e inaccettabile. Ma definire tutto ciò jihadismo o persino terrorismo islamista non è di nessuna utilità e arreca solo confusione.

    Un’avvertenza, quest’ultima, da tenere bene a mente nell’eventualità che movimenti politici di ispirazione islamista possano vincere le prossime elezioni in Egitto o Tunisia, per evitare di incorrere nello stesso errore che già abbiamo commesso in Algeria e a Gaza, di non riconoscere un risultato perché non era quello da noi auspicato. A meno che non si voglia contribuire a ridare linfa a una pianta che il vento della Primavera araba sta decisamente seccando.
    http://www3.lastampa.it/focus/web-stories/11-settembre-2011/articolo/lstp/418884/

  150. I kamikaze sono la nuova arma tattica del decennio (Fonte: La Stampa)
    —-
    MARCO BARDAZZI

    Il decennio seguito al più devastante attentato suicida di ogni tempo ha segnato una svolta anche nel ricorso agli «ordigni umani». Dopo l’11 settembre è cominciata un’era in cui gli eserciti devono fare i conti con una nuova «arma di guerra»: il nemico che si fa esplodere per uccidere quante più persone possibile. Ne è convinto il professor Diego Gambetta, docente di sociologia a Oxford, che da anni studia il fenomeno degli attacchi suicidi.

    Prima del 2001, quanto era diffuso il ricorso agli attentati terroristici con kamikaze?
    «C’erano pochissimi casi, e non erano particolare oggetto di studio, con l’eccezione forse di Israele. Se uno analizza la curva che racconta l’andamento degli attacchi suicidi nel mondo, si accorge che comincia a crescere nel 1999, un paio di anni prima dell’11 settembre».

    Cosa le suggerisce l’analisi dei dati sugli episodi di questi 10 anni dopo il World Trade Center?
    «I numeri parlano chiaro. Il maggior numero di attacchi suicidi si è verificato in Iraq dopo l’inizio della guerra voluta dagli Usa. Tra il 2003 e il 2010, ci sono stati 1760 attacchi di questo tipo, con un picco di quasi 500 episodi nel 2005, l’anno peggiore».

    Oggi la situazione sembra migliorare a Baghdad e dintorni.
    «Nel 2010 siamo scesi a 44 attentati in Iraq. Nel frattempo però è cresciuto l’allarme in Afghanistan, con 629 attacchi suicidi tra il 2003 e il 2008. E in Pakistan, dove se ne sono verificati 205 tra il 2002 e il 2009».

    Che caratteristiche hanno questi attacchi? Cosa li differenzia da quelli dell’11 settembre?
    «Seguono il modello di campagne contro l’occupazione straniera. Sono diventati un’arma tattica molto importante in qualsiasi conflitto che veda impegnate realtà islamiche. È una nuova arma di guerra di cui gli eserciti dovranno d’ora in poi tener conto: centinaia di uomini e donne senza volto che scelgono di immolarsi. È difficile fare paragoni con il passato, perché un fenomeno con queste caratteristiche è storicamente nuovo».

    Gli attentati suicidi con una chiara matrice terrorista, però, si sono verificati anche nelle città occidentali, lontani dai campi di battaglia.
    «Sì, per esempio con gli attentati di Madrid e Londra. Ma si tratta di eccezioni rispetto alla mole dei dati disponibili. Ci sono un gran numero di attentati falliti, a fronte dei pochissimi riusciti. E questo ci dice che, nonostante gli effetti devastanti che possono avere su scala internazionale, questo tipo di eventi sono casi isolati, spesso opera di dilettanti».

    Anche l’11 settembre è stato un caso isolato?
    «Direi di sì, quello che sono riusciti ad eseguire è un attacco di una complessità tale che risulta quasi irripetibile. È quello che statisticamente si chiama “outlier”, un caso che differisce dal resto dei dati. Quello che avviene sui campi di battaglia invece è diverso: dovremo convivere a lungo con il fenomeno del suicidio come arma di combattimento».

    http://www3.lastampa.it/focus/web-stories/11-settembre-2011/articolo/lstp/418881/

  151. E solo ora appare un video del volo 93 (Fonte: La Stampa)

    PAOLO MASTROLILLI

    INVIATO A NEW YORK
    Ci sembra di sapere tutto sugli attentati dell’11 settembre, e invece pezzi di verità continuano a riemergere in continuazione. Adesso è la volta di un video che mostra le prime immagini del volo United 93, poco dopo lo schianto in un campo della Pennsylvania, vicino Shanksville. Probabilmente sono le più recenti, riprese quando la nuvola di fumo nero provocata dall’esplosione aveva appena iniziato ad alzarsi in cielo.

    Difficile dire se possano aggiungere qualcosa alla dimanica del dirottamento che aveva fallito il suo obiettivo a Washington, a causa della rivolta dei passeggeri a bordo. Di sicuro aggiungono emozione al 10˚ anniversario che arriva domenica prossima.

    Quella mattina il volo United 93 era partito da Newark, nel New Jersey, per raggiungere San Francisco. A bordo c’erano sette uomini di equipaggio e 37 passeggeri. Quattro di loro erano terroristi di al Qaeda incaricati di dirottare l’aereo e farlo schiantare su un obiettivo di Washington, ancora oggi non identificato con precisione: forse Capitol Hill, forse la Casa Bianca.

    A causa di un ritardo dovuto al traffico a terra, il volo 93 era decollato quando ormai gli altri aerei attaccati da al Qaeda erano già arrivati o si avvicinavano ai loro obiettivi. Quindi i passeggeri, chiamando i parenti con i cellulari, avevano potuto capire esattamente quale sorte li aspettasse. Si era ribellati, decidendo di riprendere il controllo dell’apparecchio, e il grido di Todd Beamer «Let’s roll» era diventato il simbolo dell’eroismo di quelle persone e della determinazione degli americani a reagire.

    Proprio in quei minuti Dave Berkebile si trovava con la moglie Cathy nella loro casa di Berlin, che guardava in direzione del campo dello schianto. Sentito il rumore dell’impatto, Dave aveva preso una piccola telecamera che teneva sempre a portata di mano, ed era andato sul patio a riprendere.

    Le immagini mostrano una nuvola nera che si alza da terra e poco dopo riempie il cielo. In sottofondo la voce incredula di Dave: «L’esplosione ha scosso la nostra casa. Sono uscito fuori e ho visto il fumo. Non so cos’altro stia accadendo: alcuni arei sono andati contro il Pentagono e il World Trade Center. Stavamo guardando la tv, quando è successa questa cosa. Forse c’era una bomba a bordo».

    Berkebile non poteva immaginare la battaglia avvenuta sul volo 93, ma il suo sgomento descrive bene lo stato d’animo dell’intera America. Per anni la sua famiglia ha tenuto il video per sè. A febbraio, però, Dave è morto, e la moglie Cathy ha deciso di darlo agli storici del National Park Service.

    Forse non servirà a risolvere alcuni misteri di quella mattina, ad esempio se i passeggeri fossero riusciti ad entrare nella cabina. Ma riaprirà le ferite di chi in quella nuvola nera rivedrà la fine dei propri cari.
    http://www3.lastampa.it/focus/web-stories/11-settembre-2011/articolo/lstp/418879/

  152. Le Torri e Lehman Brothers due crolli che marchiano un’epoca (Fonte: La Stampa)

    BILL EMMOTT

    Gli storici passano la vita a discutere se i grandi eventi, guerre, omicidi, cambi di regime, dovrebbero essere visti come riflessi di tendenze di lungo periodo, anche se a volte amplificano o rafforzano quelle tendenze, o veramente come cause del cambiamento, come punti di svolta. Nel caso delle atrocità dell’11 settembre 2001, il loro giudizio dipenderà da cosa accadrà nei prossimi decenni. Ma proprio ora, 10 anni dopo, la conclusione sembra metà e metà: l’11/9 in politica ha riflesso delle tendenze, ma in economia ne ha generato di nuove.

    I due giudizi sono legati, ovviamente: la politica e l’economia non possono mai essere completamente separate. Ma forse la differenza può essere percepita se ci si pone questa domanda: quale data vi sembra sia stata la più importante e consequenziale, l’11 settembre, la caduta delle Torri Gemelle, o il crollo, il 15 settembre 2008, della Lehman Brothers?

    La mia ex collega a «The Economist», Emma Duncan, ora vicedirettore, si è posta questa domanda in un editoriale del «Times» di Londra il 20 agosto, e la sua risposta è stata che il 15 settembre risulterebbe essere la data più importante. Questo nonostante il fatto che, nel 2001, quando gli aerei colpirono il World Trade Centre e il Pentagono, il titolo sulla copertina di «The Economist» fosse «Il giorno in cui il mondo è cambiato». Sì, è cambiato quel giorno, ma col senno di poi sono d’accordo con Emma: non tanto quanto l’ha cambiato il 15/9, che ha portato conseguenze economiche che potrebbero durare per decenni.

    Eppure io ho un elemento di disaccordo, o forse è solo un pensiero aggiuntivo. E cioè che l’11/9, in effetti, ha portato al 15/9. Senza il trauma di quell’atrocità, e la sensazione diffusa in tutto il mondo che l’America fosse in guerra con nemici nascosti, la politica economica sia in America sia in Europa non sarebbe stata così lassista e espansionistica, e per così tanto tempo. Né ci sarebbero state la bolla del credito e il boom immobiliare che hanno portato, alla fine, al crollo di Lehman Brothers e alla stagnazione economica.

    Questa idea ha bisogno di ulteriori spiegazioni. Quando c’è stato l’11 settembre, naturalmente i pensieri di tutti sono andati subito alle conseguenze politiche. Questo è stato un evento sconvolgente, il primo attacco su suolo americano dopo l’incendio britannico della Casa Bianca nel 1814, il primo su un territorio appartenente all’America dai tempi di Pearl Harbor nel 1941. Il presidente George W. Bush aveva detto durante la sua campagna elettorale l’anno precedente che l’America avrebbe dovuto essere «umile ma forte». In effetti gli eventi successivi, in Afghanistan come in Iraq, l’hanno umiliata e resa sorprendentemente debole.

    Il lascito di queste due guerre perse è ancora con noi, e ci rimarrà per molto tempo a venire. Ma uno storico, guardando indietro dal 2050 o dal 2100, non lo tratterà come una nuova rivelazione manifestatasi improvvisamente nel 2001. Quello storico dirà che la guerra del Vietnam aveva da tempo dimostrato che anche la più grande superpotenza del mondo non può vincere una guerra contro i guerriglieri, che nel 1992 la Somalia aveva già reso l’America riluttante a intervenire nei conflitti stranieri, una riluttanza che orientò le sue reazioni in Ruanda come nell’ex Jugoslavia durante quel decennio, che gli attacchi terroristici nello Yemen e in Africa orientale, e l’attentato contro il World Trade Center del 1993, avevano dimostrato che Al-Qaeda aveva da tempo preso di mira gli americani e, soprattutto, che il potere nel mondo era già diventato più diffuso, grazie alla globalizzazione, all’ascesa di Cina e India, e alla ripresa economica del Brasile e, in un modo piuttosto diverso, della Russia.

    Le guerre gemelle dell’America, insieme alla caccia a Osama bin Laden in Pakistan, certamente hanno accelerato queste tendenze, rinnovando il fenomeno dell’«espansione imperialistica» che lo storico di Yale Paul Kennedy aveva già descritto nel 1987 nel suo bestseller «L’ascesa e la caduta delle grandi potenze». Nulla di ciò che è successo negli Stati Uniti dopo quel libro è uscito dal quadro che il professor Kennedy aveva tracciato in quello studio, anche se ha assunto nuove forme. Il vero grande cambiamento, tuttavia, è l’effetto economico di quello sforzo espansionistico. Queste due guerre hanno aggiunto qualcosa come un trilione o un trilione e mezzo di dollari al debito americano, che ha ormai superato i 14,3 trilioni di dollari. Il «dividendo di pace» degli Anni 90 si è trasformato in un «fardello di guerra».

    Altrettanto importante, lo shock di dover combattere le guerre, e di doversi preoccupare di ulteriori attacchi terroristici, potenzialmente usando armi di distruzione di massa, ha prodotto altre due conseguenze economiche: in primo luogo, la trasformazione del presidente Bush in un «grande conservatore», disposto a spendere ingenti somme di denaro pubblico per la sicurezza nazionale, e desideroso di premiare i suoi elettori con tagli fiscali, in secondo luogo, la mancanza di volontà della Federal Reserve di rischiare che la recessione del 2000-01 post-bolla dotcom si trasformasse in una crisi prolungata proprio mentre stava iniziando una guerra.

    Non possiamo essere sicuri di tutto questo, come non possiamo dire cosa sarebbe successo in assenza dell’11 settembre. Forse Alan Greenspan, presidente della Fed, avrebbe ancora proseguito una politica monetaria ultra-sciolta e avrebbe ancora ignorato i pericoli di una bolla immobiliare. Forse i repubblicani avrebbero ancora hanno aumentato il deficit, tagliando le tasse, opponendosi (insieme a influenti democratici) a una stretta regolamentazione di Wall Street.

    Forse, quindi ci sarebbero comunque stati la stretta creditizia occidentale del 2007 e lo shock Lehman del 2008. Forse, ma dubito che la bolla del credito, che si è estesa a tutto il mondo occidentale, sarebbe stata così grande, né che lo sarebbe stato il deficit fiscale degli Stati Uniti. Senza il crollo dei mutui sub-prime, le banche europee sarebbero state più forti, i debiti sovrani europei più ridotti e per l’euro sarebbe stato più facile sopravvivere.

    Le conseguenze economiche del 15 settembre, del collasso della Lehman, sono ancora in corso, ma promettono di essere gravi per i decenni a venire. Le conseguenze politiche dell’11 settembre non saranno dimenticate, ma si stempereranno nelle tendenze che sono in corso almeno dal 1970, e soprattutto dopo la fine della guerra fredda nel 1989-91. Senza l’11/9, tuttavia, l’America e l’Europa non sarebbero finite nella trappola economica in cui si trovano ora.

    Quando i Navy Seals americani hanno ucciso Osama bin Laden nella sua casa di Abbottabad, in Pakistan, all’inizio di quest’anno, poco dopo hanno diffuso le immagini di Bin Laden seduto a guardare la televisione. E’ un pensiero cattivo, ma forse non stava guardando le notizie politiche, dopo tutto. Forse stava guardando Cnbc o Bloomberg.

    Traduzione di Carla Reschia
    http://www3.lastampa.it/focus/web-stories/11-settembre-2011/articolo/lstp/418614/

  153. Le scarpe che misero le ali ai piedi di Linda (Fonte: La Stampa)

    GLAUCO MAGGI

    NEW YORK
    Ci sono vittime e vittime, tra le 3mila sepolte dalle Due Torri. Per i 1400 che lavoravano nei 19 piani più alti della Nord, la prima ad essere colpita, la sorte era già stata segnata alle 8.46, il minuto dell’impatto del primo aereo tra il 94˚ e il 98˚ piano. Nessuna via di fuga, solo la scelta tra il volo suicida e la fine tra le fiamme. Ma quelli che lavoravano nell’altra Torre, la Sud, hanno deciso loro se vivere o morire.

    Linda Lopez scelse la vita d’istinto, fuggendo a rotta di collo nel marasma degli ordini discordi che venivano dalle stesse autorità. Lavorava in un ufficio al piano più alto di quelli occupati dalla Fiduciary Trust Company, società di consulenza finanziaria, che ne aveva cinque, il 90˚ e i quattro tra il 94˚ e il 97˚ di Linda. Tutti nella seconda Torre avevano sentito il tremendo botto, qualcuno aveva addirittura visto dalle finestre l’aereo che volava bassissimo e che si stava infilando nella Gemella accanto. Per quelli che lavoravano sopra il 78˚ piano era scattato, da quello choc, un drammatico conto alla rovescia di 16 minuti e mezzo. Tanti ne dovevano passare prima del secondo jet, ma chi poteva saperlo? Linda stava rivedendo le carte del suo lavoro e non le ha neppure raccolte quando ha deciso per la salvezza. Vestiva un elegante paio di scarpe gialle, dalla linea classica e dal tacco medio-alto. Non l’ideale per una corsa contro il tempo, rampa dopo rampa, a spintonarsi con gli altri in fuga. Dei 2mila che lavoravano sopra la linea dell’impatto, solo 1400 sono ancora vivi.

    La grande maggioranza alla Fiduciary Trust ha avuto il suo stesso fiuto e ha dato retta al panico, che a volte fa miracoli. Dei 650 dipendenti in 79 hanno perso la vita, malgrado ci sia stato chi lanciò l’allarme giusto, quello che salvò Linda mettendole le ali ai piedi. Tom Sullivan, analista fresco di servizio militare, e viceresponsabile per la sicurezza antincendio del suo piano, il 97˚, stava dicendo al suo capo Anthony Ventura che la moglie aspettava due gemelli. In quell’istante, con la coda dell’occhio, vide il lampo di fuoco del primo aereo che aveva appena toccato la Nord. Urlò subito a Linda e agli altri colleghi «via dalle finestre, lasciate il piano». Ventura pensò d’avere il tempo d’avvisare la suocera, anche lei dipendente della stessa ditta che era in un’altra parte del piano: ma il ritardo fu fatale, entrambi perirono.

    Linda non si fermò mai, invece. Al 61˚ piano fu scaraventata contro il muro. Il secondo aereo aveva colpito anche la sua Torre, ma più in alto di dove si trovava lei ora. Fu lì che si tolse le scarpe e scese a piedi nudi, per fare più in fretta. Non sentiva il dolore e le piaghe sanguinanti che si stavano formando via via nei secondi del «si salvi chi può». Solo quando fu a terra, salva sul piazzale, qualcuno le disse: «Signora, i suoi piedi stanno sanguinando». Si rimise le calzature e i rivoli di sangue le sporcarono subito. Quei rivoli, e la storia di una vita afferrata con la disperazione, sono oggi un pezzo da museo. Il Memorial dell’11 Settembre, che sarà aperto domenica, espone le scarpe di Linda insieme ad elmetti dei pompieri, a portafogli sgualciti, a bamboline di pezza: galleria di oggetti di tutti i giorni entrati nella Storia americana.

    http://www3.lastampa.it/focus/web-stories/11-settembre-2011/articolo/lstp/418609/

  154. 10 anni dopo: quello che resta

    GIANNI RIOTTA

    Credevamo che il mercato avrebbe arricchito i poveri, Cina, India, Brasile, senza impoverire noi ricchi d’Europa e America. Credevamo che la tecnologia fosse sorella, Internet una piazza soleggiata dove discutere, negoziare, innamorarsi. Il presidente Clinton aveva creato 10 milioni di posti di lavoro, l’euro era invulnerabile, i buoni del tesoro greci valevano i tedeschi. Credevamo che la guerra fosse finita, la silenziosa, subdola Guerra fredda che aveva logorato due generazioni, tra lunga pace in Occidente e battaglie, dittature e povertà nel resto del mondo. Credevamo che, caduto il Muro a Berlino, un nuovo ordine fosse possibile e la grande coalizione che il presidente Bush padre aveva messo in campo contro Saddam Hussein, sotto la bandiera dell’Onu in Kuwait con italiani, tedeschi, arabi, fosse monito finale ai despoti. Alle Nazioni Unite, per la prima volta, i seggi delle democrazie erano maggioranza assoluta.

    Questo credevamo fino al 10 settembre del 2001 e l’entusiasmo per un Terzo millennio libero da fantasmi, ideologie e odio del XX secolo, ci nascose i pericoli. Il populismo che fa saltare il Federal Building a Oklahoma City nel 1995, un terrorista americano contro l’America. Le bombe che i fondamentalisti di al Qaeda fanno esplodere in Africa nell’estate ‘98 contro obiettivi Usa e che non vediamo, distratti dal flirt tra Clinton e Monica Lewinsky.

    La professoressa Condoleezza Rice scrive sulla rivista «Foreign Affairs», primavera 2000: la politica estera di Bush figlio sarà moderata, niente spallate. Viviamo – ecco il nostro comune errore – di futuro, e sul futuro scommettiamo, persuasi che porterà pace, prosperità, integrazione: o che forse la Cina non è entrata nel Wto, dedita ai commerci non le rivoluzioni?
    Quando Osama bin Laden, con un perfetto raid di guerra asimmetrica, Davide contro Golia, l’Orazio superstite contro i tre Curiazi, atterra le Twin Towers gentili nel cielo azzurro di Manhattan, colpisce a Washington lo stato maggiore del nemico, il Pentagono, e manca un terzo bersaglio, forse la stessa Casa Bianca, perché i passeggeri dell’ultimo volo kamikaze aprono la I Guerra globale e si lasciano precipitare in Pennsylvania, la breve stagione di speranza si chiude. Dopo la Guerra fredda 1945-1989, arriva l’alba livida del XXI secolo. «Come abbiamo fatto a non vedere?» mi chiese una volta Robert Oakley, lo zar dell’antiterrorismo. Già, come?

    Così arrivammo al Giorno che ha cambiato le nostre vite, 11 settembre 2001. C’è chi, come Richard Hass, presidente del più importante centro diplomatico del mondo, il Council on Foreign Relations, sostiene che infine no, l’11 settembre non ha davvero mutato il mondo. Altri sono gli eventi cruciali, la crisi economica 2007, la Cina superpotenza, i social network con mezzo miliardo di esseri umani pronti a discutere su Twitter, abbattere governi via Facebook, vivere la vita un filmato di YouTube alla volta. Lo «scontro di civiltà» che il professore Huntington aveva preconizzato, noi in trincea contro l’Islam, non c’è stato. La vita continua.
    Certo la vita continua, i commerci son ripresi, la politica fa chiasso, gli affetti familiari scaldano tutti, tranne i cari delle tremila vittime del 9/11, americani e cittadini di altri 115 Paesi, l’Onu del dolore.

    «Tutto passa» dice lo scrittore russo Grossman, testimone di Stalingrado, lager nazisti, gulag sovietici. Tutto passa, ma passando, ci cambia per sempre. E l’11 di settembre del 2001, a riguardarlo 10 anni dopo, ricordando la cenere soffice che cadeva downtown Manhattan, cemento, carte, cadaveri umani, diventa specchio fatale. Abbiamo visto nuda la nostra immagine, abbiamo incontrato il bene e il male della nostra civiltà senza più maschere. I giorni della tolleranza, Bush che dialoga con i leader musulmani, Obama all’università al Azhar. I giorni dell’odio nel carcere di Abu Ghraib. I giorni dell’unità, il titolo del quotidiano Le Monde «Siamo tutti americani», e i giorni della diaspora, Washington, Parigi, Londra, Roma, Berlino, Madrid a litigare sull’attacco a Saddam del 2003, tra vetrine di McDonald’s sfondate e champagne francese versato nei tombini. I giorni del lutto quando i terroristi salafiti attaccano Nassiriya, Madrid, Londra. I giorni del coraggio, con le forze multinazionali di pace a Kabul da 10 anni. I giorni dell’opportunismo, da Guantanamo ai ricatti su petrolio e dintorni. Lo specchio dell’11/9, immagine della nostra forza e delle nostre idee, delle nostre debolezze e mediocrità, ci ha per sempre cambiati, nel bene e nel male.

    In quello specchio, però, hanno dovuto guardare anche i nostri nemici, e ne sono rimasti impietriti, come dalla mitica Medusa. Il califfato sognato da Osama bin Laden voleva cancellare l’incontro tra Islam e modernità, negare diritti, democrazia, libertà, avallare il razzismo di chi dice «Musulmani e democrazia? Incompatibili». Ha fallito, già prima di cadere a Islamabad. In 20 giorni, usando i social network, i ragazzi arabi hanno abbattuto regimi che al Qaeda combatteva invano da vent’anni. La strada è lunga, non c’è neppure narrativa condivisa su quel giorno, la maggioranza dei musulmani, dice uno studio dell’università del Maryland, non crede che le Torri siano state abbattute da al Qaeda (come i faziosi sui nostri siti e talk show). Il carisma di Obama stenta: nel 2008, prima della sua elezione, 10 musulmani su 100 avevano un giudizio favorevole sull’America, dopo tre anni con il Presidente cresciuto in Indonesia, solo otto islamici su 100 amano Washington.

    Il vero, radicale, scontro di civiltà è stato, in Occidente come nella «umma», la comunità islamica, tra tolleranza e intolleranza. 12 mila musulmani uccisi in Iraq dagli attentati non hanno reclutato nuovi kamikaze ad al Qaeda, l’hanno isolata. Dieci anni dopo «noi» ci ritroviamo con la crisi finanziaria e la fine dello sviluppo, «loro» con il difficile laboratorio democratico e l’agonia dei dittatori, in Siria e Iran. I qaedisti inseguono lo scacco matto dell’attacco nucleare, persuasi che le nostre democrazie non reggeranno. Dieci anni fa portai mia figlia al primo giorno di asilo, con una piccola compagna in grembiulino. Sono ora due ragazze, due signorine. Ma il papà che teneva per mano l’altra scolara e che chiacchierava con me garbato e fiero, è caduto al World Trade Center, negli uffici Cantor Fitzgerald. La strada per il futuro non cambia, dialogo e tolleranza, forza in campo contro i terroristi irriducibili. Tutto passa, tranne il dolore per chi non c’è più: ma, diceva Eschilo, «per grazia di Dio e nostro malgrado, il dolore si distilla in saggezza».

    http://www3.lastampa.it/focus/web-stories/11-settembre-2011/articolo/lstp/418560/

  155. L’11 settembre e’ una ferita al cuore dell’occidente che non si rimarginerà mai. Giusto e doveroso ricordarlo, soprattutto in occasione del decennale.

  156. Ricordo come fosse oggi il momento in cui appresi la notizia, l’incredulità che segui’ alla visione delle immagini. Una strage in diretta, con una copertura mediatica internazionale. Non si era mai visto nulla di simile, prima. E spero che qualcosa del genere non possa piu’ ripetersi.

  157. L’uomo con la valigetta vuole solo dimenticare (Fonte: La Stampa)

    PALO MASTROLILLI

    INVIATO A WATCHUNG (NEW JERSEY)
    Edward Fine si è accorto di essere diventato famoso quando ha ricevuto la telefonata di un amico: «Ed, credo proprio che il tipo sulla copertina di “Fortune” sei tu». Aveva preso in mano il giornale e gli era bastato un attimo per capire: quell’uomo coperto di polvere, con un fazzoletto premuto sopra il naso e la borsa da lavoro stretta in mano, era proprio lui. La Fama, la peggiore che si sarebbe mai potuto augurare, lo aveva scovato e raggiunto. Da allora in poi, la sua vita sarebbe diventata un inutile tentativo di sfuggirle.

    La mattina dell’11 settembre 2001, come le altre mattine, Edward era partito da Watchung, nella campagna del New Jersey, per andare al World Trade Center. Aveva 58 anni e lavorava per la Intercapital Planning Corp. come consulente finanziario. Alle 8 e 46 minuti stava aspettando un ascensore al 78° piano della Torre Nord, quando aveva sentito un’esplosione: il volo American Airlines 11 aveva appena colpito il grattacielo, circa 15 piani più in alto. Fine non poteva saperlo, né immaginarlo, ma pensando ad una bomba aveva deciso di scendere subito in strada usando le scale d’emergenza. Una scelta d’istinto, fatta in mezzo secondo, che poteva determinare la differenza tra la vita e la morte.

    Nel tempo che ci aveva messo a scendere, il volo United Airlines 175 si era schiantato contro la Torre Sud, alle 9 e 3 minuti. Quando Edward era arrivato in strada, aveva alzato gli occhi e visto l’incredibile: il World Trade Center in fiamme sopra di lui. Non c’era tempo per stupirsi, però. Qualcuno gli aveva passato un fazzoletto bagnato e gli aveva urlato di correre verso Nord. D’istinto, ancora una volta, Fine aveva ubbidito. Si era incamminato pensando solo una cosa: «Devo sopravvivere, devo muovermi, devo andare avanti».

    Alle 10 e 5 minuti aveva capito perché. Dietro alle sue spalle aveva sentito un rumore strano e terrificante: si era girato, e aveva visto la Torre Sud che si accasciava al suolo. Puntando verso di lui. La nuvola dei detriti lo aveva investito, facendolo cadere. Il suo vestito grigio scuro da broker era diventato bianco di ceneri, come la sua faccia. Ma Ed si era alzato: «Ero molto concentrato e mi ripetevo: devi andare “uptown”, verso Nord, devi continuare a sopravvivere, devi camminare».

    Un orologio dietro di lui si era fermato, con le lancette sulle 10 e 14 minuti. Un fotografo davanti a lui, Stan Honda della France Presse, aveva ripreso l’intera scena senza che Fine se ne accorgesse: «Ero concentrato, pensavo solo a sopravvivere». E a sopravvivere era riuscito, camminando testardamente verso Nord, col fazzoletto in una mano e la borsa nell’altra. Diventando poi un simbolo della tragedia e della determinazione a non arrendersi, per merito o colpa di quella foto scattata da Honda.

    Dieci anni dopo Edward non lavora più per la Intercapital Planning. Ha fatto consulenze finanziarie per la società Carpe DM (sì, è proprio un gioco di parole pensato apposta per pronunciare in inglese il verso di Orazio «Carpe diem») e per il Sepa Capital Group. Ha collaborato con la compagnia Unilife Medical Solutions per costruire una siringa pensata allo scopo di prevenire la diffusione dei virus.

    «Forse – pensa lui – questo progetto a cui mi sono appassionato è la ragione per cui non sono morto l’11 settembre». Ha avuto una nipotina, Selena: «È la mia gioia. La sua innocenza mi ricorda i tempi più spensierati». Il vestito scuro che era diventato bianco lo tiene nell’armadio e ha cambiato la borsa da lavoro solo perché la moglie lo ha costretto.

    Trovarlo, però, non è più facile. Ha cambiato casa e, quando arriviamo al vecchio indirizzo di Johnston Drive, un vicino ci scoraggia: «Edward Fine? Mai sentito». Neppure l’agente Warwick, alla stazione di polizia, sa di cosa stiamo parlando: «Un sopravvissuto famoso delle Torri Gemelle? No, quella foto non me la ricordo. Però, se avete un indirizzo, potreste scrivergli: magari vi risponde». Un altro indirizzo in effetti lo abbiamo, Stanie Glen Road, ma non c’è numero civico e nessuna certezza che sia là.

    Per capire dove ci troviamo, bisogna immaginare la «casa di pietra» nel New Jersey dove abitava lo «Svedese», il protagonista di «Pastorale americana» di Philip Roth. Le villette sono rade e i pochi abitanti non sanno nulla. Un vicino che si chiama Cassiano, però, torna a cercarci: «Mia moglie dice che forse abita in cima alla strada, sulla destra. Ma io non vi ho detto nulla, eh?».

    In cima alla strada c’è una villa con colonnato greco all’ingresso. Sul campanello non c’è alcun nome, ma un indizio favorevole sta steso davanti alla porta: un tappetino con una «F». Dentro al giardino si intravedono giochi per bambini, che potrebbero essere di Selena.

    Suoniamo il campanello, ma non risponde nessuno. Bussiamo alla porta, niente. All’ingresso del viale c’è la cassetta della posta, senza lucchetto. La apriamo, e dentro troviamo un paio di lettere indirizzate a Mister Edward Fine. Sul fondo c’è anche la nota che le poste americane lasciano quando qualcuno cambia casa: «Informate il mittente del nuovo indirizzo».

    Torniamo a guardare dentro il giardino e sdraiati davanti alla piscina vediamo un uomo e una donna. Bussiamo ancora e lei si alza. Viene all’ingresso, risponde senza aprire la porta. «Edward? Non c’è. Se lasciate una nota, riferisco io». Prendiamo il taccuino intestato del giornale e cominciamo a scrivere il biglietto. Ma la porta si riapre e dietro compare Fine, con i pantaloncini da bagno: «Lasci stare, sono qua. Tutto quello che ha sentito sulla mia vita, i cambiamenti, la voglia di sparire, è tutto vero. L’11 settembre mi ha fatto capire quanto sia transitoria e fragile la nostra esistenza: in un momento tutto può essere spazzato via. Per questo sono cambiato. Prima lavoravo anche quando ero in vacanza, telefonate, computer, e non sapevo neanche chi fosse mia moglie. Ora conosco e apprezzo le cose della mia vita che contano. Però la prego, ci lasci. Non faccio più interviste, voglio solo dimenticare».
    http://www3.lastampa.it/focus/web-stories/11-settembre-2011/articolo/lstp/418566/

  158. Il capo dei pompieri: “Siamo tutti in bilico” (Fonte: La Stampa)

    MAURIZIO MOLINARI

    CORRISPONDENTE DA NEW YORK
    Al 16632 della 24ª Avenue di Whitestone, Queens, in una villetta con giardino sventola una piccola bandiera americana. Sull’entrata campeggia la scritta «Famiglia Nigro». È la casa di Dan Nigro, il «Chief» dei pompieri dell’11 settembre. Nipote di un immigrato da Valva, in provincia di Salerno, e figlio di un capitano dei pompieri, Dan Nigro l’11 settembre vide dal quartier generale del «Fire Department» a Brooklyn l’impatto del primo aereo, salì in auto con Peter Ganci, di cui era il vice, e dopo pochi minuti era con lui sotto le Torri a dirigere i soccorsi. Il crollo della Torre Sud uccise Ganci e in quell’istante Nigro divenne il capo dei pompieri e delle operazioni. Per riassumere le trasformazioni avvenute a New York negli ultimi 10 anni dice: «Da quel momento viviamo tutti in bilico».

    Quel giorno morirono 343 pompieri, incluso Ganci. Perché vi furono così tante vittime fra di voi?
    «Se abbiamo perso tante persone è perché eravamo accorsi in grande numero a Ground Zero. Era il momento del cambio del turno, ci andarono quelli del turno appena finito e quelli del nuovo turno. I nostri uomini stavano salendo verso l’alto nella Torre Nord quando cadde e rimasero intrappolati. Mentre nella Torre Sud era stata scelta la hall di ingresso come base delle operazioni e, quando venne giù, improvvisamente li travolse. Molti corpi non sono stati mai trovati. Ciò che ci sorprese, e che determinò un bilancio di vittime così alto, fu il crollo delle Torri: fino a quel giorno un edificio di tali dimensioni non era mai caduto in quella maniera».

    In cosa le operazioni di soccorso non ebbero successo?
    «Quasi tutte le persone che si trovavano nei piani inferiori a quelli investiti dall’impatto degli aerei si sono salvate, mentre fra coloro che si trovavano nei piani superiori i sopravvissuti sono pochissimi. Credo solo nella Torre Sud, appena sei».

    Perché la gente si lanciava dall’alto?
    «Non abbiamo avuto il tempo per salvarli. Gli ascensori non funzionavano. Servì troppo tempo per salire. Il fuoco e il calore erano devastanti».

    Avevate un piano per salvare chi stava nei piani superiori?
    «Sì, nella Torre Sud alcuni dei nostri uomini arrivarono a piedi fino al 78° piano, ma ci misero 40 minuti. Avevano dei feriti che si accingevano a portare giù, quando ci fu il crollo. Se l’edificio non fosse caduto, il piano era di usare una delle tre scale di servizio e far scendere le persone attraverso l’incendio nei piani inferiori. C’era troppo fuoco per spegnerlo. L’unica maniera era costruire un varco e venne fatto. Ma non ci fu tempo a sufficienza per sfruttarlo».

    Perché la gente nei piani inferiori si salvò?
    «Per il ricordo dell’attentato del 1993. Molti andarono via d’istinto. Nella Torre Sud, la sede di Morgan Stanley aveva un responsabile della sicurezza molto bravo, fece uscire tutti prima ancora che l’aereo colpisse quella torre. C’erano persone sulle sedie a rotelle e con stampelle che sono riusciti a salvarsi».

    Quali lezioni avete tratto da quella giornata?
    «Le lezioni sono due. Primo: serve cautela sul numero dei pompieri da impiegare, perché bisogna fare attenzione a non eccedere. L’imperativo è aiutare la gente ma anche limitare l’esposizione. Secondo: la questione dei crolli. Un grattacielo non era mai venuto giù in quella maniera, era un’ipotesi che non avevamo preso in esame. Ora viene fatto. Non avremmo dovuto tenere così tante persone in un’area ad alto rischio, avrebbero dovuto stare più lontane. Pensavamo che una “hall” sarebbe stata più sicura delle strade ma è stato un errore. Sono tali considerazioni che spiegano perché la Freedom Tower e il Seven Tower Trade Center sono edifici nuovi, costruiti in modi diversi, i più solidi del mondo».

    Cosa è cambiato nei pompieri di New York?
    «È diventato un lavoro diverso. Abbiamo nel terrorismo un nemico in più che ci impone di considerare scenari di soccorso differenti. E poi vi sono i pericoli dovuti ad armi radiologiche, chimiche e batteriologiche. Di conseguenza l’addestramento è differente e questo è servito a Times Square nel maggio del 2010, quando i pompieri arrivarono per primi dopo l’allarme sull’autobomba: anziché intervenire, hanno aspettato, osservato, e ciò ha aiutato a salvare molte vite. Se fossero intervenuti subito, gettandosi sull’auto, vi sarebbero state molte vittime».

    Cosa è avvenuto alle famiglie delle vittime?
    «Conoscevo almeno 50 dei pompieri morti ed altri 25 sapevo bene chi erano. Incontro ancora i loro famigliari. Le ferite e il dolore restano ma la vita è ripresa, anche se con qualche differenza. Le giovani vedove si sono risposate ed hanno avuto figli, mentre a soffrire di più sono i genitori che hanno perso i figli. E poi ci sono i nostri colleghi che continuano a morire. Penso a Steve Marcielo, che l’11 settembre guidò l’auto che portò me e Ganci alle Torri. Ha 50 anni e sta morendo a causa delle inalazioni di sostanze nocive. Fra i tre passeggeri di quell’auto presto l’unico ancora in vita sarò io».

    Come si è trasformata New York in questi 10 anni?
    «È cambiata la popolazione. Una buona parte di chi vi abita oggi allora non c’era, perché New York ha un ricambio di abitanti frequente. Ma tanto che si tratti di nuovi o vecchi abitanti, la gente è più consapevole dei rischi. Viviamo in bilico. Più qui che in ogni altro luogo degli Usa. Sappiamo che il pericolo di nuovi attacchi continua ad incombere».

    Bush e Obama hanno descritto Ground Zero come la Pearl Harbor del nuovo secolo. Si sente un veterano?
    «Sono un sopravvissuto. C’è chi è sopravvissuto all’attacco di Pearl Harbor nel 1941 ed io sono sopravvissuto a Ground Zero. Non comprendo la gente violenta, ma non credo che la scomparsa di Osama Bin Laden farà venir meno il pericolo: la guerra continua e questo anniversario può essere l’occasione nella quale cercheranno di vendicarsi».

    Quali sono i valori dei pompieri di New York?
    «Il rispetto per il prossimo: servono la città e la comunità. Salvatore Cassano, “Fire Commissioner”, ha riassunto la nostra missione dicendo che, “se qualcuno ha bisogno, noi andiamo”. Per questo non si possono chiudere le stazioni di pompieri: ogni singolo quartiere ne ha bisogno».

    Cosa pensa delle teorie cospirative che continuano a circolare?
    «Sono teorie accattivanti ma senza fondamento. Mi è capitato di discuterne. Dall’assassinio di Kennedy a Ground Zero, sono tesi che si basano sull’idea che il governo sa tenere bene i segreti e questo non è vero. Chi pensa che il governo sia una macchina gigante, segreta ed efficiente si sbaglia. La verità è che si tratta di un miracolo se il governo funziona. Come la verità è che un edificio simile alle Torri non era mai crollato prima. C’è chi dice che i botti sembravano esplosioni: certo, era forte ed aveva un suono simile a un’esplosione, ma non lo era. Gli ebrei a Ground Zero non c’erano? Ma scherziamo, abbiamo avuto pompieri ebrei morti sotto le macerie. Sono tesi prive di senso».

    Ci parli delle sue radici. In cosa si sente italiano?
    «Sono molto legato alla mia eredità italiana: per me è la famiglia, il tempo passato fra noi, stare assieme, mangiando e bevendo del vino, parlando a lungo, di tutto».
    http://www3.lastampa.it/focus/web-stories/11-settembre-2011/articolo/lstp/418567/

  159. RUDOLPH GIULIANI: Il giorno più lungo del Sindaco d’America: (Fonte: La Stampa)

    MAURIZIO MOLINARI

    CORRISPONDENTE DA NEW YORK
    Ho visto un uomo gettarsi dal 101° o 102° piano, è stata l’esperienza peggiore della mia vita». Rudolph Giuliani rivive l’11 settembre 2001 in un’intervista al «National Geographic Channel», anticipata a «La Stampa». È la prima volta in dieci anni che ricostruisce attimo per attimo il suo 11 settembre 2001.

    Giuliani è nato a Brooklyn e diventa sindaco di New York nel 1994, un anno dopo il primo attacco alle Torri Gemelle, l’autobomba jihadista nel seminterrato che causa sei vittime. Da sempre sa che la sua città è un obiettivo dei terroristi: «La possibilità di un attacco è sempre stata molto concreta, ricevevamo spesso informazioni su terroristi arrestati in altre parti del mondo che avevano piani per colpire la metro di New York, i ponti, le gallerie, la Borsa. Per sette, otto anni abbiamo fatto progetti per fronteggiare tutti gli attacchi possibili».

    È la memoria dell’attentato del 1993 che porta Giuliani, appena divenuto sindaco, a istituire un nuovo ufficio per la Gestione delle emergenze. «Una struttura più grande e sofisticata rispetto al passato per affrontare pericoli come attacchi al gas nervino, attentati all’antrace, l’eventualità di attacchi nucleari». L’11 settembre 2001 l’ufficio Gestione emergenze è operativo nella sede al numero 7 del World Trade Center. Quella mattina i newyorchesi sono chiamati alle urne per le primarie, primo passo per l’elezione del nuovo sindaco.

    «Di solito iniziavo la giornata da sindaco con il meeting delle 8, ma poiché era il giorno delle primarie avevo deciso di fare colazione al Peninsula Hotel alle 7,45, con tre amici, ex colleghi della Procura Federale». Al termine della colazione una poliziotta si avvicina a Denny Young, avvocato di Giuliani, e dice «c’è un grosso incendio al World Trade Center, sembra che un bimotore si sia schiantato contro la Torre Nord».

    Il vecchio amico Bill Simon prende la mano di Giuliani e gli dice: «Dio ti benedica». Il sindaco esce dal Peninsula, vede un «bellissimo cielo azzurro» e pensa: «È una giornata perfetta». In auto verso il World Trade Center ragiona sul fatto che «non poteva trattarsi di un incidente» perché «nessun aereo avrebbe potuto perdere la rotta in un giorno simile». Doveva essere un atto intenzionale.

    La scelta di Giuliani è di andare sul luogo perché «un’emergenza bisogna vederla, una cosa è che qualcuno te la descriva, un’altra vederla in prima persona». Arrivato al World Trade Center, si rende conto che «i cellulari non funzionavano in maniera costante» e dunque cerca linee telefoniche fisse per poter contattare la Casa Bianca, il Pentagono, il Governatore.

    Alle 9 del mattino, 14 minuti dopo lo schianto, Giuliani è abbastanza vicino da poter dare un’occhiata alla Torre Nord: «Mi sono reso conto che era peggio di quello che mi era stato detto». Arriva al St Vincent’s Hospital al Greenwich Village. «Vedo medici e infermieri, per strada, nelle divise da sala operatoria, come in un ospedale da guerra». È il momento in cui sente «una grande esplosione, non sapevo cosa fosse». Alle 9,03 il volo 175 della United Airlines colpisce la Torre Sud. «Dopo pochi secondi abbiamo ricevuto una chiamata della polizia, ci hanno detto che si era schiantato un secondo aereo. A quel punto siamo stati certi che si trattava di un attacco terroristico» ricorda Giuliani, secondo cui «la prima impressione è stata che ci trovassimo in una specie di guerra».

    Nella fiumana di gente che evacua la zona c’è anche la squadra di Giuliani, che lascia l’auto a tre isolati dal World Trade Center. «Sarebbe stato impossibile per me prendere decisioni se non avessi continuato a vedere tutto con i miei occhi».

    L’aereo infranto sulla Torre Sud ha reso impossibile lavorare nell’ufficio Gestione emergenze e Giuliani deve stabilire una nuova postazione di comando, proprio come fa la Polizia, che si insedia in un edificio di uffici dove dispone di linee telefoniche fisse. «Ho detto in quel momento di andare al posto di comando dei vigili del fuoco, da lì avremmo preso le informazioni necessarie e poi saremmo tornati sul luogo dell’impatto».

    Giuliani cammina per due isolati verso il World Trade Center. Vicino a lui il vicesindaco Joe Lhota gli indica la cima della Torre dicendo: «C’è gente che si sta lanciando». Giuliani guarda in alto: «Vedevo solo detriti, non persone». Poi rimane scioccato. «Speravo che Lhota stesse esagerando, che si sbagliasse. Mi sono fermato, ho visto un uomo gettarsi dal 101°o 102° piano, proprio in cima alla Torre, e sono rimasto a guardarlo. Ci saranno voluti tre o quattro secondi… All’improvviso ho capito che ci trovavamo dentro qualcosa che non avevamo mai vissuto. Non si trattava solo di un’altra emergenza, eravamo coinvolti in qualcosa che andava oltre. Non avevamo un piano per aerei usati come missili che ci attaccavano. Dovevamo fare il meglio».

    Milioni di persone restano impietrite dall’immagine di uomini e donne che si gettano nel vuoto per non affrontare l’orrore nelle Torri. «Ma non c’era tempo per la paura – dice Giuliani – avevo circa 3 o 4 secondi per pensare cosa significava lanciarsi dall’edificio, dovevo andare al posto di comando dei vigili del fuoco». Il sindaco incontra il cappellano dei pompieri, padre Michael Judge, che corre verso la Torre Nord, dove morirà. «Ho allungato la mano, l’ho afferrato e gli ho detto: “Padre, preghi per noi”. Lui mi ha risposto: “Lo faccio sempre”. Ma ho visto sul suo volto una tensione senza precedenti».

    Alle 9,20 Giuliani raggiunge il comando dei pompieri fra West Street e Vesey Street. Chiede: «Possiamo far salire un elicottero?». Il comandante Gansey ribatte: «Non posso mandare i miei uomini sopra l’incendio. Posso tirar fuori quelli al di sotto, non c’è modo di andare sopra e non possiamo mandare un elicottero».

    Non è possibile salvare dal tetto chi si trova sui piani alti. Giuliani si rende conto che «quelle persone lassù sono condannate a morte» e prova «una sensazione orribile». «In una simile condizione non c’è possibilità di riflettere, bisogna passare alla decisione successiva» ed è la richiesta al comandante Gansey di «tenere le strade libere per i mezzi di emergenza», seguita dalla richiesta alla Polizia di «spostare la gente verso Nord, lontano dalle macerie che cadono».
    «Vedevo la gente colpita dai detriti»: Giuliani abbraccia Gansey a va verso Nord per un isolato e mezzo dove la Polizia ha allestito la postazione di comando. «Temevamo non solo per il World Trade Center ma anche per altri possibili attentati».

    «C’erano altri sette aerei di cui non sapevamo nulla, temevamo potessero attaccare l’Empire, la Statua della Libertà, la Borsa, le metropolitane, i ponti» e dunque la Polizia doveva «dividere la risposta all’incendio dalla difesa del resto della città».

    Il Dipartimento di polizia si insedia al piano terra della banca Merrill Lynch. A Giuliani viene detto dell’attacco al Pentagono, cerca il presidente Bush senza successo e alle 9,58 la Torre Sud crolla. Giuliani ricorda «una scrivania davanti a me che tremava» e «una nube che sembrava tossica con tutto quel fumo grigio verso di noi, volavano detriti in strada, all’improvviso è diventato tutto buio».

    Il sindaco è a Barclay Street, pensa al padre «che mi ha insegnato a mantenere la calma nelle situazioni di emergenza perché ciò aumenta la possibilità di sopravvivere». Ma uscire dall’edificio diventa difficile, tutte le uscite sono bloccate. Si sente in trappola. Sono due uomini della manutenzione che gli mostrano il cammino verso l’uscita. Alle 10,15 esce per strada, cammina verso una caserma dei pompieri e si imbatte nella folla di chi fugge. «I newyorckesi sono così: per una questione minore possono farti parecchi problemi ma se la situazione è grave sanno reagire, con grandissimo coraggio». Si allontanavano dalla zona di pericolo «in modo da non fare male a nessuno, fermandosi ad aiutare gli altri, e dietro di loro c’era quella nube».

    Alle 10,28 frana anche la Torre Nord. «All’improvviso sono stato afferrato da dietro e mi sono sentito spinto a correre». Vede la nube di fumo che gli va incontro. Giuliani è ad appena 800 metri dal crollo che uccide anche il comandante Gansey. Il governatore George Pataki teme sia disperso, molti newyorchesi non sanno se il sindaco è ancora vivo e lui reagisce scegliendo di andare in tv a dare istruzioni concrete: «Se vi trovate nel Lower Manhattan andate a Nord, oltre Canal Street».

    E infonde coraggio: «La gente di New York deve essere d’esempio, il terrorismo non ci fermerà». Da quel momento diventa la guida per la città aggredita, aiutandola a ritrovarsi e risollevarsi con una forza d’animo che «Time» riassume coniando per lui la definizione di «Sindaco d’America».
    http://www3.lastampa.it/focus/web-stories/11-settembre-2011/articolo/lstp/418568/

  160. di quel maledetto 11 settembre ricordo tutto.
    stavo lavorando alla mia tesi di laurea, mi sarei laureata qualche mese dopo, ma in quei giorni tutto sembrava vano, inutile.
    il mio ragazzo, oggi mio marito, si trovava a new york. non riuscii a contattarlo subito.
    piansi, perché credetti di averlo perso.
    mi organizzai per andarlo a trovare, ma fu impossibile: i voli intercontinentali erano bloccati.

  161. quelle immagini le ricorderò per sempre, altro che sbadite!!!
    grattacieli di burro infilati da coltelli con le ali.
    ed era tutto vero!!!

  162. cosa ricordare della tragedia?
    direi, soprattutto, che sono morte migliaia di persone che hanno lasciato migliaia di vuoti incolmabili. questo, sopra tutto.

  163. mi sento più sicura di dieci anni fa?
    forse sì. ma so anche che ciò che è accaduto potrebbe ripetersi.
    mai abbassare la guardia, dunque.

  164. osama bin laden? credo fosse più un simbolo che il vero e proprio capo.
    non credo che la sua morte sia stata risolutiva nell’ambito della guerra al terrorismo.

  165. i video e le campagne mediatiche che fanno riferimento a una specie di “inganno globale” secondo me sono una pagliacciata!!!

  166. Ricordo in quei giorni la fatica cognitiva nell’integrare due ordini mentali opposti, la faccenda iconografica mediatica e persino cinematografica, l’evento che era un nuovo standard – per usare una metafora jazzistica – letterario e politico, qualcosa da rinarrare e spiegare e utilizzare per dire molte cose diverse – tutte cose che mi provocavano un interesse freddo e molto intellettuale, e la faccenda mortale e sanguinosa, degli umani, dei corpi, della morte, e il bisogno di salvare quei nomi e il dolore empatico dall’angherie della prima corrente, e della rivalsa mediatica. Le orribili gare sui morti – ah ma per ir bangladesh non piagne nessuno, le orribili false solidarietà – le magliette con I love New York che avrei bruciato in un sol colpo.
    L’11 settembre l’America perse la verginità di chi non ha mai avuto la guerra in casa, ma noantri abbiamo avuto il battesimo psicologico di un nuovo tipo di contatto con il male.

  167. in quei giorni mi trovavo in Inghilterra. Guardai quelle immagini attonito, con un senso di sgomento. Pensai che sarebbe stato l’inizio di una nuova guerra mondiale. rividi quegli aerei che penetravano le torri gemelle nei miei incubi, per molte notti.

  168. non so se oggi posso dire di sentirmi piu’ sicuro. di certo il mondo e’ cambiato ed il ground zero segna in negativo una delle pietre miliari di questo cambiamento

  169. Sono passati dieci anni e sembra ieri, ma anche un secolo fa, e’ vero. Questa giornata di lutto mondiale sara’ ricordata per sempre. Penso al giorno in cui morirà l’ultimo testimone della videodiretta della strage. Non so perché ma questa cosa mi fa impressione.
    Titolo dei giornali: muore a 99 anni l’ultimo videotestimone della catastrofe delle Torri Gemelle. L’ultimo uomo che ha visto la strage in diretta tv.

  170. LA NUOVA NEW YORK (Fonte: La Stampa)

    di MAURIZIO MOLINARI

    CORRISPONDENTE DA NEW YORK
    E’ all’incrocio fra Liberty Street e West Street che Ground Zero mostra il nuovo volto. Dando le spalle a Battery Park ci si trova davanti alle 400 querce del World Trade Center Memorial che si inaugura l’11 settembre. A 10 anni dagli attacchi è il primo risultato della ricostruzione. Oltre le prime file di alberi le due «piscine della riflessione»: sui bordi bronzei che circondano le cascate sono incisi i nomi delle vittime, dove sorgevano le Torri Gemelle.

    Lo sguardo corre in ogni direzione, si vede anche il profilo della St. Paul Chapel affacciata su Broadway, lontana tre strade. Se gli aerei-kamikaze di Al Qaeda trasformarono il World Trade Center in una voragine di morte e detriti, dieci anni dopo questo spazio rinasce, vibrante di vita attorno alle querce della memoria.

    È la più grande piazza dell’intera Manhattan. Delimitata a Nord da Vesey Street, dietro la Freedom Tower arrivata a 80 dei 104 piani finali, a Sud da Albany Street, a Est da Church Street, a Ovest da West Street. Albany Street costeggia il cantiere dove sorgerà il World Trade Center 5.

    All’angolo con Greenwich Street i poliziotti incaricati di vegliare sulla incontenibile folla di turisti e curiosi non resistono alla tentazione di guardare all’insù, verso le gru appollaiate sulla vetta della Freedom Tower, mentre 50 metri più avanti gli operai della Union Build all’ora del pasto affollano O’Hara’s, un pub irlandese che serve birra e zuppa di piselli. Superata la stretta Cedar Street, si trova sulla destra un lungo muro bronzeo.

    È la parete esterna della stazione dei pompieri numero 10. Sul muro un altorilievo ripercorre l’eroismo dei pompieri: l’arrivo fra le macerie, la sfida alle fiamme, le Torri ferite e la ricerca dei superstiti dentro una montagna di detriti. La scritta «Dedicated to Those Who Fell and to Those Who Carry On» (Dedicato a chi è caduto e a chi continua) è seguita da un «We May Never Forget» (Non potremo mai dimenticare) sopra la scritta 343, il numero dei pompieri caduti. I nomi e le foto sono a fianco, fra fiori e lumini votivi posati da famigliari, amici e gente comune.

    Molti passanti si fermano in raccoglimento anche se non sempre è possibile farlo: i venditori ambulanti di souvenir dell’11 settembre li assediano, offrendo cappellini, bandiere, opuscoli e perfino «testimonianze personali» su cosa avvenne, con dettagli che cambiano in continuazione. Voltando a destra su Liberty Street si trova la saracinesca alzata della stazione dei pompieri, che accolgono chiunque e consentono di indossare caschi e divise, firmano autografi e accettano di farsi fotografare davanti alle insegne del battaglione 10.

    È qui che si entra nella dimensione del bazar. I turisti trovano in rapida successione il World Trade Center Gallery – dove si prenotano tour guidati – pizzerie, negozi di souvenir, tè asiatici proteici e, arrivati a Trinity Place, gli ammaestratori di serpenti che per pochi dollari offrono l’emozione di coprirsi con tre giganteschi rettili. Le bancarelle di vestiario e oggettistica a stelle e strisce sono gestite da immigrati africani che parlano male l’inglese ma fanno affari d’oro.

    Mentre sul lato opposto di Trinity Place, all’angolo fra Liberty Street e Church Street, c’è l’altra versione del commercio patriottico: il negozio di Brooks Brothers con imponenti bandiere americane alle vetrine, sui cui vetri è stampata la scritta «We Remember Those We Lost, We Honor Those Who Protect, We Look Toward The Future With Hope» (Ricordiamo chi abbiamo perduto, onoriamo chi ci protegge, guardiamo al futuro con speranza).

    Una imponente «Old Glory» sventola sul massiccio palazzo in pietra di Century 21st, i grandi magazzini che dopo il crollo vennero invasi da tonnellate di polvere, con davanti la stazione della metro di Cortland Street coperta di cartelli «Wet Paint» a indicare che è stata riverniciata a fresco. Church Street è lo struscio di una folla incontenibile di visitatori provenienti da ogni angolo d’America e del mondo. Superata Dey Street, i gradini del Millennium Hilton consentono di gettare lo sguardo fino al giardino d’inverno di Battery Park, tagliando la Memorial Plaza da Est a Ovest, dove sorgerà il World Trade Center 3 e il Visitor Center da cui sarà possibile scendere nelle viscere di Manhattan.

    Siamo arrivati a Fulton Street, ovvero alla Trinity Church miracolosamente scampata ai crolli, sulle cui grate rimasero affisse per settimane le foto delle persone scomparse, in un estremo gesto di speranza. Sotto il piccolo portico della Chiesa episcopaliana dove George Washington pregò nel giorno dell’insediamento a primo Presidente degli Stati Uniti, il 30 aprile del 1789, si ricordano le preghiere per le vittime delle Torri Gemelle.

    Uscendo dalla St Paul Chapel, c’è l’incrocio dove è in costruzione l’avveniristico Fulton Street Transit Center, che sarà collegato al Trasportation Hub disegnato da Santiago Calatrava a forma di aquila bianca, destinato a sommare 11 linee della metro, l’accesso ai traghetti e mezzo milione di metri quadri di spazi commerciali. Basta affacciarsi sul Path, la stazione provvisoria della metro su Vesey Street, per avere un’idea del traffico umano in una delle zone più trafficate di New York.

    Vesey Street è la strada del Memorial Preview Site dove è possibile rivivere ciò che avvenne e farsi un’idea di come sarà la ricostruzione una volta ultimata. Qui il protagonista è Michael Arad, il 42enne architetto israeloamericano che nel 2006 ha vinto la gara alla realizzazione del National September 11 Memorial & Museum. Arad è orgoglioso delle «piscine della riflessione» perché la cascata d’acqua artificiale più grande mai realizzata negli Stati Uniti rappresenta il «vuoto creato da chi ci ha lasciato» ed è un «fiume di nomi» che testimonia l’inarrestabile forza della vita.

    Cappellino da baseball, occhiali leggeri e voce pacata, Arad spiega l’anima del Memorial con la stessa pacatezza con cui ha guidato i lavori di centinaia di operai, a cominciare dalla «scelta di disporre i nomi delle vittime non per ordine alfabetico ma per gruppi di appartenenza» ovvero «l’ufficio dove lavoravano, i nuclei famigliari, i pompieri e gli agenti» per sottolineare che le vittime «non sono un numero freddo, ma singole vite».
    http://www3.lastampa.it/focus/web-stories/11-settembre-2011/articolo/lstp/418569/

  171. Il laboratorio che dà nome ai fantasmi (Fonte: La Stampa)

    PAOLO MASTROLILLI

    INVIATO A NEW YORK
    C’è un posto a Manhattan dove nulla è cambiato. Le lancette degli orologi sono ferme alle 8 e 46 minuti dell’11 settembre 2001, istante del primo impatto contro le Torri Gemelle, e ogni mattina succede sempre la stessa cosa. Cinque scienziati prendono frammenti ossei delle vittime, li frantumano e li analizzano, nella speranza di trovare una traccia, un «match», un appiglio che consenta di dare un altro nome ai resti umani raccolti negli anni a Ground Zero. Nel frattempo alcuni colleghi escono e vanno al cantiere della Freedom Tower per supervisionare i lavori di ricostruzione: se durante gli scavi, nel movimento delle macchine, nelle colate di cemento, intravedono qualcosa che potrebbe essere parte di un corpo umano, bloccano tutto e cominciano le analisi.

    Questo posto si trova al numero 421 della 26ª Strada, all’angolo con la Prima Avenue. Si chiama Office of Chief Medical Examiner, ossia il dipartimento di Biologia forensica della città di New York. Ogni volta che c’è un omicidio, uno stupro, un evento orribile di cui gli esseri umani sono sempre capaci, la parte più penosa dell’inchiesta comincia qui. In questo luogo arrivano i cadaveri, i resti, gli indizi: qui si studiano le tracce, i minimi dettagli, i profili del Dna, nella certezza che la scienza possa servire la giustizia. Proprio così c’è scritto all’entrata, tra la bandiera americana e quella della città: «Science Serving Justice». Ovvio che qui sia il cuore, il punto di partenza per l’inchiesta sul crimine più terribile mai commesso a New York.

    All’ingresso ci viene a prendere Mark Desire, assistente direttore del Dipartimento di Biologia forensica, che già da solo avrebbe da raccontare una storia che vale un libro. Immaginate un poliziotto alto quasi due metri, con le spalle e il petto larghi come una lavatrice: «L’11 settembre io e la mia squadra partimmo subito per Ground Zero: dopo il primo impatto si era pensato all’incidente, dopo il secondo era chiaro che si trattava di un crimine. Quindi andammo di corsa per fare quello che si fa in questi casi: assicurare e analizzare il perimetro del reato».

    Il perimetro era grande quanto mezza città, e il reato era la distruzione dei due grattacieli più alti di New York: «Folle, no? I nostri colleghi poliziotti e i pompieri correvano sulle scale per cercare di salvare i sopravvissuti, mentre spazzolavamo il suolo per cercare indizi. La prima torre ci è caduta quasi addosso, ma abbiamo continuato. Quando è venuta giù la seconda ci hanno evacuato via mare. Siamo rimasti tutti feriti, e per parecchio tempo ho pensato che un collega fosse morto per colpa mia».

    La voce di Mark trema, mentre mostra le foto: si vede lui con la maglietta lacerata e un piede rotto, che corre senza scarpe. Sostiene per le spalle il collega che pensava morto, e invece se l’era cavata, nonostante avesse preso un mattone sulla testa coperta di sangue: «Quando entriamo in polizia, ci insegnano che bisogna essere neutrali in tutte le investigazioni, ma su questo caso è impossibile».

    Mark ci accompagna al 12° piano, dove ci sono i laboratori: «Questa è una struttura nuova, l’abbiamo aperta nel 2007. I resti trovati a Ground Zero erano stati portati tutti sotto quella tenda bianca che vedete laggiù, dove si trovano ancora. All’inizio li analizzavamo nella sede sulla Prima Avenue, poi è stato costruito questo palazzo apposta per tutto il lavoro forensico della città. Pensate che il penultimo e l’ultimo piano sono occupati interamente dal reparto ingegneristico: colleghi che hanno il compito di purificare l’aria, tenere lontana l’umidità, evitare la formazione delle muffe, mantenere l’ambiente nelle condizioni migliori possibili affinché nessun reperto possa essere corrotto».

    Dall’11 settembre ad oggi sono stati trovati 21.817 resti umani a Ground Zero. La ricerca continua ancora, ogni giorno, e l’ultimo ritrovamento di frammenti ossei è avvenuto ad aprile all’incrocio tra North Plaza e Liberty Street, durante gli scavi per la ricostruzione. In totale, sono state identificate 1629 vittime su 2753. L’ultima ad agosto: Ernest James, newyorchese di 40 anni, impiegato presso la compagnia di servizi Marsh & McLennan.

    Lavorava nella Torre Nord e di lui era rimasto poco più che polvere, ma le nuove tecniche del Dna hanno permesso di dare un nome alle sue ceneri. A giugno, invece, era stato identificato Jerry Borg, 63 anni, morto per le complicazioni polmonari dovute all’inalazione delle polveri provocate dal collasso del World Trade Center.

    Il Dna dei resti trovati a Ground Zero viene confrontato con quello rimasto sui pettini, gli spazzolini da denti, i capelli delle vittime, portati qui dai famigliari. Trovare un punto di incontro vuol dire restituire l’identità ad un fantasma. Nel 2006 il capo del laboratorio, Charles Hirsch, aveva scritto alle famiglie dicendo che la scienza era pronta ad arrendersi: con la tecnologia a disposizione non c’erano molte speranze di fare altri riconoscimenti. I famigliari dei morti senza nome e senza corpo risposero che no, non poteva finire così. «Ci adeguammo – dice Desire – e decidemmo che saremmo andati avanti all’infinito, nella speranza che la scienza progredisse». Così è stato.

    La tecnologia è migliorata e i riconoscimenti continuano. «Quando dai la notizia di un’identificazione ai parenti delle vittime, è il momento più bello e più terribile del mio mestiere. Ti abbracciano, ti ringraziano, piangono: perfetti sconosciuti si mettono a singhiozzare sul mio petto, dicendo che abbiamo aiutato i loro padri, madri, figli, mariti, sorelle a tornare un poco in vita. A tornare ad essere persone, anche se da morti».

    Mark ci indica lo scaffale dove dobbiamo prendere il camice bianco, il cappello e i guanti, per entrare nel laboratorio: «Non offendetevi. Preleviamo anche un campione di Dna da tutti i visitatori, perché così se ci fosse una contaminazione dei resti sapremmo individuarla».

    Desire ci scorta al bancone con i microscopi e ci presenta Michael Mosco, italiano d’origine, uno dei cinque scienziati che lavora sui resti di Ground Zero: «Ogni settimana – spiega – ne prendiamo 100 dal deposito. Alcuni sono nuovi, ma la maggior parte sono frammenti già analizzati con esito negativo. Torniamo ad esaminarli con tecniche nuove, nella speranza di trovare qualche traccia di Dna. Ripetiamo queste analisi ogni giorno».

    A chi non capisce potrebbe sembrare solo una scocciante routine. «Ma io – spiega Mosco – sono nato a New York. Ho 23 anni e l’11 settembre 2001 andavo ancora alle scuole medie. A causa di quell’attacco ho deciso di studiare Biologia forensica all’università, prendere un master, e fare domanda per questo laboratorio. Per me è un onore essere qui». È incredibile l’emozione con cui Michael spiega il significato del suo lavoro, e il distacco con cui lo descrive: «Polverizziamo le ossa, cercando di renderle sempre più fini, perché questo aiuta l’individuazione delle cellule. Poi, con tecniche sempre più raffinate, facciamo analisi per scoprire tracce di Dna. Quando le troviamo, le confrontiamo con la banca dati costruita attraverso i campioni portati dai parenti, e cerchiamo i match per individuare la vittima».

    C’è persino una specie di cappella, accanto al laboratorio, a disposizione dei parenti delle vittime che volessero pregare per i loro cari mentre i resti vengono tormentati. «I famigliari – spiega Desire – sono i nostri veri capi. Ogni anno li incontro per spiegare gli ultimi sviluppi delle analisi. Qualunque cosa chiedono, noi la facciamo. Alcuni non ci avevano dato campioni per identificare i loro cari, ma poi ci hanno ripensato. Altri li vogliono indietro per celebrare i funerali. Bene, noi siamo qui per loro».

    Non c’è una data prevista, per la fine di questo lavoro: «Quando il Memorial per le vittime a Ground Zero verrà aperto, i resti saranno trasferiti tutti là, sempre in condizioni di perfetta preservazione scientifica. Così i nostri specialisti potranno continuare le analisi all’infinito». C’è una ragione profonda, che spinge Desire e i suoi colleghi ad andare avanti: «È la stessa sensazione che ho provato quando ho saputo che avevano ucciso bin Laden: sollievo e giustizia. Ecco, la giustizia ha bisogno di tempo, per compiersi. Ma noi resteremo qui, fino a quando sarà

    http://www3.lastampa.it/focus/web-stories/11-settembre-2011/articolo/lstp/418572/

  172. riguardo me posso dirti che sono stata tra i pochissimi che non hanno visto le immagini in diretta o poco dopo. mi trovavo in una casa in campagna, isolata dal mondo.
    ho appreso tutto dopo un paio di giorni.

  173. Caro Massimo,
    più passa il tempo più dimentico la tragedia dell’11 settembre di dieci anni fa. Il fatto è che ogni giorno nel mondo accadono tragedie gravissime, forse più gravi di quella dell’11 settembre, che mettono in ginocchio persino le speranze degli uomini di buona volontà. Anche la mia, detto sottovoce.
    Una nazione contro l’altra, un popolo contro l’altro, gruppi di persone contro altri gruppi di persone ispirati dall’odio delle ideologie, ovvero dalla lotta per la supremazia economica e politica, e dalla fame, dall’ignoranza, dalla volontà di riscatto o di vendetta mai soddisfatte o sopite.
    Non sto parlando solo della Libia e dei paesi balcanici o del Medio Oriente. No!
    In ogni parte del mondo si annidano tragedie immani di cui pochi sanno o parlano. Pochi per non dire nessuno.
    I moti della violenza atroce aumentano vorticosamente, divulgati in modo spropositato dai mezzi di comunicazione di massa, dandoci così l’impressione che la violenza medesima sia connaturata all’uomo.
    Mi vengono in mente le “voci” dei profeti di pace e di giustizia, antichi e contemporanei, e le loro opere. Ma queste voci e queste opere vengono il più delle volte ignorate, soffocate o coperte, perché non fanno notizia o ne fanno poca, e non impressionano più di tanto. Purtroppo.
    Un saluto cordiale.

  174. pienamente d’accordo con Ausilio Bertoli. mi viene in mente un’altra considerazione. la tragedia delle twin towers la abbiamo vista tutti. come qualcuno ha detto: abbiamo assistito in diretta. per questo, in quanto testimoni, abbiamo sviluppato un senso di colpa di massa. Può essere? cosa ne pensate?

  175. “Quando si ama si deve partire” (Oscar Mondadori) è un romanzo che fa dello scenario dopo l’attacco alle torri gemelle occasione di incontro e cifra di una condizione esistenziale. L’ho scritto perché avevo bisogno di coraggio. All’indomani dell’11 settembre Tamara e Angela si incontrano nel web, per caso, commentando la tragedia, come potrebbe succedere in questo blog. Ma il caso tesse le sue trame per rilevarsi senso, traccia dentro cui un legame prende il via. L’attrazione tra le due donne diventa potente, abitano in città lontane, conducono vite differenti, Angela è libera, Tamara è accerchiata da legami familiari complessi, che segnano i sui gesti e i suoi comportamenti. Lei trova respiro solo nella segretezza, nelle libertà dell’altrove. Il senso dell’amore diventa per entrambe trasformazione, possibilità di fronteggiare il doppio interiore che assilla e sprona, doppio di cui le torri gemelle sono l’emblema. Alla fine partire sarà un imperativo. Sullo sfondo c’è un’Italia ferma, divisa tra perbenismi e rare autenticità, tra speculazioni e solitari candori, in attesa del suo via.

  176. @ Delia Vaccarello
    Molto interessante il tuo romanzo. Voglio leggerlo. Mi intriga l’impianto narrativo sullo sfondo del crollo delle torri

  177. Sono d’accordo con Annalisa. La visione quasi in presa diretta della tragedia e’ come se ci avesse resi testimoni innalzando il nostro senso di coinvolgimento

  178. Non è che io non consideri l’importanza delle altre guerre, questioni, morti, conflitti. E’ il contrario anzi. Siccome la morte è una vicenda tragica e incomparabile, non tollero distrazioni, non tollero comparazioni. Quando parlando di una tragedia che ha assunto un valore simbolico arriva quello che mi dice – eh beh de quell’altri però non ne parla nessuno – perdonatemi io entro in un’area di sospetto. Come se si fosse invidiosi dell’attenzione, come se si potessero fare delle gare di morti, come se un solo morto non potesse essere uguale a quell’altro. E’ un po’ come quando vi girano le palle e chiedete a un amico di ascoltarvi, e quello non riesce a starvi a sentire, deve subito dire ah come è successo all’amica mia, anzi peggio! Ecco a me i discordi alla Bertoli mi fanno questo effetto. Ci hai quel morto? Occupati di quello cazzo! Rispetterai così anche l’altro. Non è il tema – è il momento. Io sospetto che i comparativisti della morte infatti raramente si occupano degli altri se non in via strumentale. Non è una convinzione – è appunto un sospetto.
    Sulla questione di Annalisa – penso di no, penso che la riproduzione mediatica dell’evento abbia simbolizzato l’evento enormemente e paradossalmente disumanizzato. Di sto passo non distingueremo più il sangue dalla pummarola.

  179. Zauberei, capisco cosa intendi. Secondo me però Ausilio Bertoli non intendeva sminuire la tragedia delle Torri. Infatti anche lui la definisce tragedia.

  180. Sul discorso di Annalisa invece continuo ad essere d’accordo con lei. La tragedia riprodotta in televsione è stata shockante per tutto il mondo. Ha angosciato tutti, molto di più rispetto all’ipotesi di non vederla coi propri occhi.

  181. IDIOTEQUE di Alessandro De Filippo (Bonanno editore)

    Un ricordo condiviso tra tutti i cittadini del pianeta, per un’immagine globale, anzi globalizzata, della paura e del dolore. Da New Delhi a Kinshasa, da Teheran a Bejing a Oslo, tutto il mondo sogna lo stesso incubo, partecipa alla condivisione di un’immagine comune. Un’immagine che si solidifica in un ricordo collettivo e indelebile della morte di massa, inattesa e imprevedibile, che lascia tutti senza difese, senza risorse. E lascia a tutti la stessa irragionevole angoscia. Il cinema non sarà più lo stesso. Perché lo sguardo non potrà più essere lo stesso. L’11 settembre 2001 la catastrofe si è guardata allo specchio.
    http://www.bonannoeditore.com/it/scheda_libro.php?id=1224

  182. Segnalo altresì (per chi si trovasse in zona) che IDIOTEQUE di Alessandro De Filippo sarà presentato presso la libreria Feltrinelli di Catania il 16 settembre 2011, h. 18.
    Interverranno con l’autore, Antonio Di Grado e Fernando Gioviale

  183. @ Alessandro De Filippo
    Alessandro, per prima cosa ti porrei una domanda sul titolo: perché “Idioteque”?

    Poi… come nasce questo libro?

    E perché sostieni che il cinema non sarà più lo stesso dopo la catastrofe dell’11 settembre?

  184. L’altro libro segnalato è quello di Delia Vaccarello, che è già intervenuta.
    (Delia mi ha scritto una mail segnalandomi questo suo libro e io l’ho invitata, con molto piacere, a partecipare alla discussione).
    Quello di Delia è un testo di narrativa, un romanzo, che ha sullo sfondo l’11 settembre.
    Si intitola: “Quando si ama si deve partire” (Oscar Mondadori)
    http://www.ibs.it/code/9788804578017/vaccarello-delia/quando-si-ama-si.html

  185. @ Silvia Tessitore
    Sei la direttrice di “Zona”, la casa editrice che hai fondato nel 1998 con Piero Cademartori.
    Perché hai scelto per questo suo nuovo lavoro la formula del self-publishing? Spiegaci meglio, se puoi…

  186. @ Annalisa
    @ Leo

    Credo come voi che la tragedia delle Torri ci abbia coinvolti a tal punto – specie per mezzo dei media in “presa diretta” – da provocare nel nostro animo come un che di colpa e di angoscia collettiva, che ancora giacciono nel profondo dell’inconscio. E giaceranno per sempre, anche se – magari – un velo di polvere potrebbero offuscarle con l’andar del tempo.

    @ Massimo

    Capita anche a me – delle volte – che l’immane tragedia dell’11 settembre sia accaduta una vita fa. Ma penso sia l’effetto del tempo e della sua polvere.

    @ Zauberei

    Lungi da me la banalizzazione o la distrazione! Tutte le tragedie, anche quelle che avvengono nelle famiglie, tra le pareti domestiche, mi sgomentano e mi si imprimono tremendamente nell’inconscio, nell’anima.

    Vi rinnovo il mio saluto cordiale.

  187. Caro Massimo, ti ringrazio innanzitutto per aver segnalato il mio “Eleven in September”.

    L’idea di questo libro è nata nel 2005, quando ho sentito l’urgenza di andare (per la prima volta) a New York – la città che ho sempre amato più di ogni altra – quasi come si trattasse di un pellegrinaggio. L’11 settembre per me è morto un sogno: quello di salire in cima alle Torri Gemelle. Ne ho seguito la nascita e la costruzione quand’ero ragazzina, proprio mentre – grazie a “Il Grande Gatsby” di Francis Scott Fitgerald – scoprivo per la prima volta la città. La fascinazione fu, direi, completa quando nel 1974 un funambolo francese, Philip Petit, decise di tendere un cavo tra le due torri ed esibirsi a 415 metri d’altezza per circa un’ora, senza protezione, sotto gli occhi di migliaia di newyorkesi. Quell’impresa è stata ricostruita qualche anno fa dallo stesso protagonista e dal regista James Marsh in “Man on Wire”, un docufilm che ha ricevuto nel 2009 l’Oscar come miglior documentario: in Italia lo ha pubblicato Feltrinelli nella collana Real Cinema, e ve lo consiglio caldamente, è davvero emozionante.

    Come racconto nel libro, l’11 settembre il mio sogno è morto per sempre: mi sono trovata per la prima volta – a 41 anni – davanti al “mai più”, alla tragica evidenza di non poter “mai più” realizzare sogni e desideri che avevo lasciato inascoltati troppo a lungo, come se la vita dovesse essere infinita. E invece no. Nel corso della vita posso accadere cose, piccole o enormi, che t’impediscono per sempre di vivere esperienze, fare cose, realizzare aspirazioni che hai tenuto da parte in un cassetto, pensando “prima o poi”… E così ho deciso di andare a New York per incontrare chi quella tragedia l’aveva vissuta dal di dentro, da vicino, perché pensavo che al cospetto di quei “grandi” dolori il mio “piccolo” dolore mi sarebbe parso così insignificante da poterlo finalmente superare. E invece no. Sapevo fin dall’inizio che ne avrei scritto – come se la scrittura potesse essere una specie di cura, di medicina. In effetti, in certo qual modo la scrittura mi è servita a elaborare quel dolore, ma non a superarlo. Quando vedo le immagini delle torri colpite, che crollano, piango ancora. Come dieci anni fa.
    Un caro amico italoamericano che vive a New York – Peter Carravetta, che all’epoca insegnava alla City University e oggi insegna a Stony Brook – mi offrì ospitalità e sostegno: volevo incontrare testimoni e sopravvissuti, sentire dalle loro voci il racconto di quella giornata. E così è nato “Eleven in September”. Un romanzo-reportage, nel senso che la struttura narrativa è quella di un romanzo, ma la vita che contiene – gli undici personaggi, le loro storie – è assolutamente vera e reale.

    Per quel che riguarda invece la mia scelta del self-publishing, vi rimando a un mio intervento in proposito su Nazione Indiana – che trovate all’indirizzo http://www.nazioneindiana.com/2011/08/13/note-book-silvia-tessitore/ – e a una intervista che il collega giornalista Giovanni Zambito ha realizzato per il sito fattitaliani.it – disponibile all’indirizzo http://www.fattitaliani.it/index.php?mact=News%2Ccntnt01%2Cdetail%2C0&cntnt01articleid=4453&cntnt01returnid=102
    Penso ci troverete tutte le risposte del caso.

    Grazie ancora, caro Massimo, e grazie a chi mi leggerà.

  188. caro Massimo,
    grazie per aver segnalato il mio libro e la sua presentazione presso la Feltrinelli di Catania (venerdì, 16 settembre).

    “Idioteque” è un titolo rubato a un brano dei Radiohead, che ha un testo che mi fa pensare al “clima” emotivo dell’11 settembre. Non ci sono riferimenti diretti all’attentato, perché la canzone è stata scritta un anno prima. Però c’è la stessa atmosfera, c’è quel senso di smarrimento e di angoscia che ci ha colpito tutti quando abbiamo visto in televisione l’attacco alle Twin Towers.

    Il libro nasce dalla visione di due film, a distanza di qualche giorno l’una dall’altra. Il primo è “Cloverfield”, diretto da Matt Reeves (2008); il secondo è “The happening” di M. Night Shyamalan (2008). Due film che hanno poco in comune, per quanto riguarda le rispettive trame, e tantissimo invece per quanto concerne l’immaginario a cui fanno riferimento. Mi sono chiesto il perché di tanti elementi comuni nello sguardo dei due registi e se ci fossero altri film che potessero essere associati a questi due. Dopo 24 ore ne avevo rintracciati 12, tra quelli visti nei mesi precedenti. Dopo due anni di lavoro, sono diventati oltre 200 titoli, tutti di produzione occidentale. Ho trovato una linea interpretativa, un discorso che fosse in grado di legarli e collegarli. Ma ciò che li mette in relazione è soprattutto l’immaginario che li pervade. Che è lo stesso della canzone dei Radiohead e che appartiene in maniera sempre più prepotente a quello che definiamo l’Occidente.

    Il cinema ha “sperato” l’11 settembre, l’ha anticipato tante volte con mirabolanti disaster movies (pensiamo solo alla produzione di Roland Emmerich). Tutti, quando abbiamo visto le immagini televisive dell’attentato, abbiamo pensato che si trattasse di un film. Almeno per due motivi: il primo è che non accettavamo di veder morire veramente davanti allo schermo, in diretta, tremila innocenti. Il secondo motivo è che eravamo stati abituati a vedere tante morti e tanta distruzione disperata in decine di blockbuster cinematografici. La domanda che mi sono posto inizialmente è stata perché? Non perché Al Quaida avesse compiuto la strage, ma perché era stata questa la reazione di noi tutti telespettatori. La prima domanda è sullo sguardo di chi vede e sulla percezione della realtà attraverso i media audiovisivi (cinema e tv, senza differenze). “Idioteque” parte da qui.

  189. Non ricordo se e cosa ho scritto in precedenza in questo post. So solo che vedendo in tv, in questi giorni, i vari servizi sull’11 settembre mi si è raggelato il sangue. Mi sono sentita male.

  190. Credo che la Tv abbia giocato un’effetto devastante in tal senso. Sembra cinema, ma non lo è. E lo sappiamo!

  191. Furono giorni terribili, caro dottor Maugeri, e mi sembrò come quando arrivò notizia delle bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Stesso sbigottito dolore. Stessa raffica di pensieri sull’innocenza trafitta.
    Rimasi davanti alla TV per ore quell’11 settembre. E sì che ho visto due guerre, caro ragazzo, ho perduto amici ebrei, e conosco il male.
    Ma quell’immergersi degli aerei sul ferro delle torri fu strabiliante, e senza ritorno.
    Da allora comprendo cosa sia il peccato originale. Quell’abominio che sempre può riprenderci, che sempre è in agguato a impadronirsi di noi.
    E dunque, ricordiamo, con questa ferita ancora aperta a pulsare sulle immagini di questi giorni. Voci nelle segreterie telefoniche registrate per un ultimo saluto. SMS disperati. Cellulari allertati per congedarsi dalla vita, dall’amore, dall’ultima sciabolata di luce che sembrava sottrarsi alla morte.
    Che Dio ci aiuti, caro Dottor Maugeri a trasformare questo orrore in umiltà, in profonda consapevolezza sulla fragilità di questa esistenza. Precaria e trasparente, purtroppo. Come quelle torri che sembravano sfidare il cielo.
    Mi abbia suo
    Professor Emilio

  192. Professor Emilio, mi sorprende e commuove sempre questa sapienza della vita che lei riesce ad esprimere sempre con tanta umiltà e semplicità.
    Io non ho vissuto le due guerre – cosa che è stata risparmiata alla mia generazione – e l’attentato delle torri insieme alla minaccia dei missili di Gheddafi su Lampedusa è stato quanto di più vicino alla guerra io possa aver provato.
    Lo sgomento, la sensazione che qualcosa negli equilibri internazionali stesse cambiando, la percezione netta che la pace dopo il 1945 sia da considerarsi non un fatto acquisito ma un bene fragilissimo.
    La memoria è rendere presente, attualizzare. Per non ritenerci mai sicuri e orgogliosi. Ma umili costruttori di pace ogni giorno. Per capire cos’è l’inferno ed insegnarlo a chi non l’ha vissuto perché lo eviti e lo combatta.

  193. Belli gli interventi di Silvia Tessitore e Alessandro De Filippo.
    Ecco, l’11 settembre è stato un punto di non ritorno. Un mai più ideale e concreto insieme.
    The End of the World as We Know It, come diceva una profetica canzone.

  194. A dieci anni dagli attacchi dell’11 settembre, per il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, un dato è certo: «l’America è più forte e Al Qaeda è sulla via della sconfitta». E quanto sta succedendo in Medio Oriente dimostra che «il futuro appartiene a coloro che vogliono costruire, non distruggere». In questi termini Obama ricorda oggi il senso dell’11 settembre nel suo consueto discorso del sabato via radio e YouTube, anticipato dalla Casa Bianca. Rivolgendosi direttamente agli americani, Obama mette in evidenza che «grazie agli sforzi costanti» di tutte le forze di sicurezza americane, la capacità operativa di Al Qaeda è stata minata in modo irreversibile, e il mondo è cambiato in modo irreversibile.

    «Grazie al lavoro senza sosta del nostro personale militare e della nostra intelligence, delle nostra sicurezza, delle nostre forze di polizia – prosegue il presidente americano – non ci sono più dubbi: oggi l’America è più forte, e Al Qaeda è sulla via della sconfitta». Secondo Obama, è verosimile ritenere che Al Qaeda non cesserà nei suoi tentativi di pianificare attacchi contro gli Stati Uniti, «e non dobbiamo commettere errori: cercheranno di colpirci ancora. Ma, come stiamo ancora una volta facendo vedere in questo fine settimana, noi non abbassiamo la guardia. Stiamo facendo tutto ciò che è in nostro potere per proteggere la nostra gente, e qualunque cosa noi troveremo sul nostro cammino, continueremo ad andare avanti». Il presidente degli Stati Uniti ha invitato tutti i suoi consiglieri per la sicurezza a non abbassare la guardia anche nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. Lo rende noto la Casa Bianca.

    Obama, che domani sarà alle cerimonie in programma a Ground Zero e al Pentagono, riferendosi sempre agli attacchi dell’11 settembre 2001, aggiunge quindi: «Volevano trascinarci in guerre senza fine, minare la nostra forza e la nostra fiducia come Nazione. Ma noi, pur continuando a dare la caccia in modo implacabile ad Al Qaeda, stiamo ponendo fine alla guerra in Iraq e abbiamo cominciato a ritirare le nostre truppe dall’Afghanistan». «Dopo un decennio difficile di guerra – prosegue – è tempo per il Paese di costruire qui a casa». Obama, che nel suo intervento fa anche un breve accenno alla morte di Osama Bin Laden, riferendosi infine alla ’primavera araba’ che sta attraversando il Medio Oriente, conclude: «Abbiamo rafforzato nuove alleanze con Paesi del mondo per rispondere a sfide che nessun Paese può vincere da solo. In Medio Oriente e nel Nord Africa una nuova generazione di cittadini sta facendo vedere che il futuro appartiene a coloro che vogliono costruire, non distruggere».
    http://www3.lastampa.it/focus/web-stories/11-settembre-2011/articolo/lstp/419587/

  195. Caro Massimo e gentili lettori,
    ho appena ricevuto dall’amico giornalista e artista Antonio Gregolin un’email in cui mi informa che a Vicenza – città in cui il legame con gli Usa è storico, anche se a volte piuttosto turbolento o tormentato – viene esposto nell’ambito di una mostra allestita nel Municipio (Loggia del Capitanio) un pezzo in acciaio dello scheletro della Torre Uno del Word Trade Center di New York. Mostra curata dallo stesso Antonio Gregolin, con il sostegno dell’assessore Tommaso Ruggero, per ricordare l’immane tragedia.
    Non è – sottolinea Gregolin – una reliquia, ma un pezzo di acciaio che serve a non dimenticare chi innocentemente è morto e seguita a morire ogni giorno e in ogni parte del mondo”.
    Ma commenti e immagini su quella tragedia “che ha cambiato la storia moderna” sono riportati nel sito, che vi consiglio di visitare, Inx.storiecredibili.it
    Grazie, cordialmente.

  196. Oggi ho provato a vedere un servizio sull’11/9. Ne hanno dati tanti in tv in questi giorni, soprattutto oggi.
    Non ce l’ho fatta. Ho dovuto cambiare canale. Ci sono stata male. Non se questa cosa è capitata solo a me od anche ad altri………….
    ditemi, vi prego.

  197. Grazie per aver riproposto il post. Ho letto con curiosità anche i vecchi commenti. Mi sembra il diario di bordo degli effetti di una tragedia, aggiornato di anno in anno. Grazie anche per l’impegno portato avanti con il blog.

  198. Caro Massimo, grazie per aver segnalato “Quando si ama si deve partire”. E grazie per questo blog così interessante.
    Vuoi sapere qualcosa in più delle due protagoniste? La tragedia dell’11 settembre è per entrambe occasione di incontro. Ne parlano, come ne parliamo noi qui, ma c’è un motivo per cui c’è chi desidera incontrare gli altri e chi no. La tragedia si fa discorso, aprendo altre narrazioni per evocazione. La distruzione richiama altre distruzioni, su cui ciascuno ancora ha bisogno di riflettere. Angela ha due sorelle gemelle, vede in quelle torri violate la possibilità di perderle. Le sue gemelle sono anche il doppio che lei non è mai riuscita a coniugare, un rapporto con qualcosa di potente e misterioso che la agisce dentro come una seconda occulta personalità. Anche Tamara ha più di una personalità, è personaggio dinamico che si muove soggiogato dal “come tu mi vuoi” all’apparenza, alla luce degli ufficiali legami familiari; ma è libero in una sfera tenuta segreta, a parte, protetta dal resto. L’incontro amoroso, segnato da conflitti, passioni, rivolgimenti, attrazioni sarà per entrambe percorso trasformativo, che svelerà anche il vero volto delle situazioni sociali e familiari che le circondano. Il finale è aperto.

  199. grazie a te, Massimo, per l’ospitalità.

    Mi trovo in sala di montaggio, in queste ore (ormai da 20 giorni consecutivamente), per ultimare il nuovo documentario che abbiamo girato con il laboratorio della facoltà di lettere, la.mu.s.a.
    La sala di montaggio è un posto fuori dallo spazio e dal tempo. Quando entri lì dentro è mattina ed esci che è già sera. Eppure sembra che il tempo non passi mai o che sia troppo lento o che si incanti come un disco rotto. Fissiamo uno schermo per ore e perdiamo il contatto con la realtà.
    Ma a pensarci bene, siamo lì a costruirla la realtà, a costruire la sua immagine, la narrazione che utilizziamo per raccontarla. Raccontare noi stessi e ciò che pensiamo, amiamo e odiamo.
    Costruire un film (fiction o documentario, poco o nulla cambia) significa costruire un’immagine del mondo. Si può essere sinceri. Oppure si può barare. In ogni caso si finge, quando si racconta.
    In questo documentario ho utilizzato delle immagini di Ugo Saitta, girate ad Acicastello nel 1953. Ma le musiche sono di Carlo Natoli, scritte appositamente in questi mesi di lavoro sul documentario. Quelle immagini con queste musiche assumono altri significati. C’è la mediazione del nostro sguardo (mio, di Carlo, di Carmelo Emmi che sta montando) che influenza e modifica quelle riprese. Entra in campo la nostalgia. Non c’era; e adesso c’è.

    Rivedere lo scorso fine settimana tutti quei servizi sull’11 settembre, i documentari sulle vittime, sui parenti delle vittime, sugli agenti di polizia e sui vigili del fuoco, sul presidente Bush e sul presidente Obama, su Osama Bin Laden e sulle guerre in Afghanistan e in Iraq, quell’accumulo di immagini e dolore e spirito di vendetta e perdono e malinconia mi ha fatto pensare a quanto quello dell’attacco alle Twin Towers sia un Evento mediatico. A quanto il dolore sia trasfigurato nell’immagine del dolore. L’immagine della catastrofe è fatta di paura e di desiderio. Dopo 10 anni questi sono gli unici elementi immutati. La paura e il desiderio. Si sono radicati, anzi, consolidati, stratificando immagini su immagini, storie su storie. Ma resta solo questa traccia sicura e inconfondibile, 10 anni dopo, paura e desiderio. Paura di morire e desiderio di uccidere. Oppure e pure paura d’uccidere e desiderio di morire.

  200. Slavoj Zizek, Benvenuti nel deserto del reale, Meltemi, Roma 2002, p. 21: «Il fatto che l’attacco dell’11 settembre fosse oggetto di fantasie di massa molto prima di avvenire veramente ci fornisce tuttavia un altro esempio della logica distorta dei sogni. È facile dar conto del fatto che i poveri del mondo sognano di diventare americani, ma cosa mai sognano gli americani benestanti, immobilizzati nel loro benessere? Sognano una catastrofe globale che sconvolgerà la loro vita. Perché?».

  201. gentile alessandro de filippo, trovo molto interessanti le sue affermazioni e sono più che intenzionata a leggere il suo libro.
    secondo lei le ripercussioni che le immagini dell’11 settembre ha esercitato nella nostra percezione sono destinate a scemare e rimarranno immutate? grazie

  202. Le domande di Zizek riportate da Alessandro De Filippo sono quelle vere che ci possono aiutare a capire molto di più il nostro tempo, la realtà in cui viviamo, molto di più che non sciogliere ipotesi di fantapolitica che da dieci anni periodicamente ci vengono riproposte. E’ da mezzo secolo che aspettiamo ancora delle soluzioni chiare e definitive agli omicidi dei 2 Kennedy. Da noi poco meno per le stragi di Piazza Fontana, di Bologna, l’omicidio Moro. Verità che non verranno mai completamente a galla.

  203. cara Giulia Manfredini,
    ci sono degli studi in corso su queste ripercussioni. Qualche mese fa abbiamo seguito un ciclo di seminari che metteva insieme gli storici (del cinema, dell’arte, del cristianesimo, della musica, della lingua) e i neurologi, umanisti e scienziati. Si cercava di capire il funzionamento della memoria e la relativa attendibilità delle fonti storiche e delle testimonianze. Il prof. Mario Zappia, primario di neurologia presso il Policlinico Universitario di Catania, sostiene che probabilmente la vicinanza di amigdala (regolatrice dalle emozioni e in special modo della paura) e ippocampo (regolatore della memoria e, di conseguenza, delle amnesie) probabilmente genera questa relazione tra evento traumatico generatore d’angoscia e capacità di ricordarlo nei dettagli e necessità di continuare a portarlo dentro, come una cicatrice.
    Dal mio punto di vista, di studioso dell’immaginario cinematografico, è interessante capire quanto sia viva (anche a distanza di 10 anni) quest’esigenza di continuare a raccontare e rappresentare la catastrofe e il senso d’angoscia ad essa correlato. Quanto cioè il cinema, come avviene nei sogni, rielabori le immagini, intese come singoli frammenti di realtà, e le faccia significare in una narrazione generatrice di paura e di aggressività. Film come “The happening” o “Cloverfield” parlano apparentemente di altre catastrofi (le spore prodotte dalle piante inducono al suicidio di massa, nel primo caso, e un fantascientifico attacco alieno, nel secondo esempio), eppure, per quanto concerne l’immaginario di cui entrambi questi film sono portatori, c’è una analogia evidentissima con l’attacco alle Twin Towers e per questo decisamente inquietante.

    L’unico elemento chiaro, al momento, è proprio che l’11 settembre sia stato percepito da tutti gli spettatori dell’Occidente, come un segnale apocalittico. Questo avviene soprattutto per la sua portata simbolica, che travalica la morte degli innocenti. Il problema non è che ci sia stato l’11 settembre e che abbia prodotto la morte di 3.000 innocenti. Il problema è che potrebbe accadere ancora, a tutti noi, in ogni luogo, in ogni momento. L’elemento destabilizzante non è la portata dell’Evento in sé, ma quella della Minaccia.

  204. @ carloesse: nel mio libro, lo scrivo chiaramente. La lettura che il cinema offre dell’11 settembre può prestarsi ad analisi di carattere economico, sociale, politico e perfino morale. Ma io non sono in grado di condurre queste analisi. Non è il mio mestiere. Io mi occupo esclusivamente di tecniche e di linguaggio audiovisivo. E per questo, credo anche per una forma di onestà intellettuale, ho cercato di evitare sconfinamenti. Uso i miei strumenti, che padroneggio con cura. Per il resto, propongo al lettore solo una serie di domande.
    La tesi complottista, nelle sue derive fondamentaliste (di un fondamentalismo antiamericano un po’ superficiale) non mi convince; d’altra parte ci sono elementi di debolezza anche delle versioni ufficiali delle agenzie statunitensi C.I.A. e F.B.I.
    Sono d’accordo con Zizek (e anche Lei lo è), quando si interroga su come siamo in grado di reagire a quel lutto, senza perdere di vista i nostri valori di democrazia e di rispetto per la vita dell’uomo. Non si può accettare la guerra preventiva, non si può accettare la tortura sistematica di Abu Ghraib, di Bagram, di Guantanamo. Perché queste sono ferite inferte al nostro stesso senso di umanità. E invece proprio su questo fronte, tutto interno, stiamo perdendo la guerra.

  205. Volevo ringraziare Alessandro De Filippo per i suoi interessantissimi interventi. Grazie molte. Il suo libro mi incuriosisce tanto.

  206. Buon giorno, le immagini dell’11 settembre per me, oggi come allora, sono tragiche, ma detto questo credo che l’attentato sia la logica conseguenza di un momento politico che con l’uscita di scena di Bush non si ripeterà.
    Osama bin Laden non era il problema, ma la conseguenza di una situazione incancrenita come la situazione israelo palestinese, finchè questa non si risolverà il mondo non sarà sicuro. Nonostante tutto.

  207. Diciamo la verità. Di undici settembre se ne è parlato poco o nulla.
    Persino in America, le commemorazioni sono state portate avanti con un tono minore rispetto agli altri anni.

  208. Hai ragione Massi. Memoria troppo corta. Che non ci dovremmo permettere.

    Ad Auschwitz e nei campi della memoria sta scritto che chi non ricorda la storia è condannato a ripeterla.

  209. Io vivo negli Stati Uniti: strano a dirsi, ho avuto la stessa sensazione. Del resto le nostre emozioni sono regolate dai media, e i media son regolati da cio’che emozionalmente e’ piu’ commerciabile. In questo momento la sfida Romney-Obama eccita piu’della memoria; se non vi fosse, forse ci sarebbe stata una commemorazione piu’ intensa.

  210. Carissimo Emanuele, grazie mille per il tuo commento e per aver messo in comune con noi la tua sensazione.
    Un saluto a te e a tutta la Florida (dove attualmente risiedi). 😉

  211. Quel giorno ero in casa con mia madre ultracentenaria e malata ( sarebbe morta a dicembre). Telefonò mio marito e mi disse di accendere il televisore.
    Non ricordo molti dettagli di quelle tragiche , quasi surreali immagini. Oggi a ripensare a quella tragedia e a tante altre avvolte nel mistero, provo tanta pietà per le vittime e tanta indignazione. Perché non sapremo mai la verità?
    Perché la democrazia è violentata tanto spesso? Mi viene in mente la caduta del dittatore Somoza in Nicaragua. Appena prese il potere il partito sandinista, che, tra le altre cose abolì la pena di morte, gli Usa gli scagliarono
    contro la Contras. Scusate, non riesco proprio ad essere filoamericana.

  212. E’ la prima volta che intervengo e non nascondo la mia emozione. Vi leggo sempre, però, e questo 11 settembre mi ha dato il coraggio di scrivere qualcosa.
    Ricordo benissimo, perchè ero reduce da un brutto intervento e non potevo camminare. Vedendo i corpi imprigionati, il fuoco che dilagava, la disperazione…mi chiesi cosa avrei mai potuto fare io, sulla mia sedia a rotelle, in un labirinto simile.
    Piango ogni 11 settembre quel ricordo doloroso, e lo rivivo sulla mia immobilità e sulla mia pelle.

  213. Mio caro dottor Maugeri,
    ma lei ci pensò che questo “uomo che cade”di Don DeLillo, appare collegato a “Tutti quelli che cadono” di Samuel Beckett? Lo conosce?

  214. Si tratta di un testo scritto per la radio.
    L’estate del 1956 segna infatti il primo impegno dell’autore in campo radiofonico.
    La rete radiofonica inglese BBC era alla ricerca di autori di spicco cui affidare la programmazione di prosa e – tra questi – si era rivolta anche a Samuel Beckett divenuto recentemente celebre grazie ad Aspettando Godot. Beckett colse subito l’occasione per scrivere una storia irlandese piuttosto macabra sfruttando le potenzialità che il nuovo mezzo gli metteva a disposizione e in particolare i rumori. C’è un grande uso di rumori di fondo in Tutti quelli che cadono, versi di animali, cigolii, clangori meccanici e atmosferici. L’idea – piuttosto insolita per l’epoca – fu quella di ricreare in studio i rumori necessari anziché ricorrere a quelli già presenti in archivio e registrati dal vivo. Sembra che il Radiophonic Workshop della BBC nacque proprio in seguito a questa sperimentazione.

  215. Al di là di questo substrato rumoristico, la vicenda di Tutti quelli che cadono (il titolo è ripreso dal Salmo 145) è di impianto convenzionale: la signora Rooney va, come tutti i giorni, alla stazione del piccolo centro irlandese in cui vive (tutto lascia presagire che si tratti proprio di Foxrock, la periferia di Dublino in cui nacque Beckett) per andare a prendere il marito, pendolare, di ritorno dall’ufficio. Ma il treno porta ritardo. Quando finalmente arriva, il signor Rooney (il quale è cieco) afferma di non aver capito il motivo del ritardo del treno su cui stava viaggiando. Ma sul finale, mentre l’anziana coppia di coniugi rincasa sotto un temporale, un ragazzo incontrato lungo la strada rivela che il ritardo del treno è stato causato da un terribile incidente. Un bambino che si trovava sul treno è infatti accidentalmente caduto dal finestrino ed è rimasto schiacciato dai vagoni. Sebbene nulla confermi i sospetti in tal senso, chi ascolta il radiodramma resta con l’idea che la tragedia sia stata in realtà causata arbitrariamente dal signor Rooney per pura cattiveria o per noia.

  216. Il salmo biblico che dà il titolo all’opera è “Il Signore sostiene quelli che vacillano / e rialza chiunque è caduto“…

  217. Dall’undici settembre sono passati undici anni, dai tempi di Beckett oltre cinquanta. Ma se rivedo quelle macchioline nere che precipitano dalle Torri penso che in un presente senza certezze, vissuto con la netta sensazione di un futuro già trascorso, l’uomo che cade, tutti quelli che cadono, siamo anche noi.
    I testi di Don DeLillo e Beckett hanno in comune il dramma dell’uomo della post-modernità, il crollo di un sistema di valori, schemi e convenzioni le cui fondamenta hanno ceduto ben prima che le Torri venissero colpite.
    Beckett lo anticipa con sconcertante attualità, Don DeLillo lo rivive alla luce del destino compiuto.

  218. Mi perdoni questi paralleli, buon Maugeri, ma lei lo conosce il mio amore per la riflessione letteraria.
    Me ne torno al mio angolo di mondo, dove le dieci del mattino sono già metà giornata e dove alle 12 al massimo metto sul fuoco la pignata (per fare la rima).
    Ci butto i maccheroni e li vedo scivolare sul fondo…in fondo, anche i cocci di pasta, sono cose che cadono.
    Mi abbia sempre suo,
    Professor Emilio

  219. se letteratitudine non ci fosse, bisognerebbe inventarlo già solo per leggere emilio il prof, a cui vanno i miei omaggi.

  220. da un lato e’ bene che l’undici settembre sia passato in sordina (vuol dire che la ferita va rimarginandosi), dall’altro e’ preoccupante (la memoria corta non e’ buona amica della storia).

  221. NEW YORK – Undici anni. Tanto è passato da quell’11 settembre del 2001 che sconvolse l’America e il mondo intero. Quel giorno persero la vita 2.983 persone. E oggi, a distanza di 11 anni, gli americani ricordano le vittime del più grave attentato mai compiuto negli Stati Uniti. Quel giorno non fu colpito soltanto il cuore di New York: mentre due aerei dirottati da kamikaze di Al Qaeda si schiantavano sulle Torri Gemelle, un altro colpiva il Pentagono e un quarto precipitava su un campo della Pennsylvania.

  222. Come ogni anno da quel giorno, una cerimonia ha commemorato le vittime i cui nomi sono stati letti a voce uno ad uno a Ground Zero. E poi un minuto di silenzio nel momento esatto in cui i quattro aerei precipitarono e altri due minuti di silenzio osservati nel momento in cui i due grattacieli crollarono. Una cerimonia senza fasti e in tono minore, rispetto agli anni precedenti. E se Barack Obama e Joe Biden hanno sospeso la campagna elettorale, Bill Clinton ha fatto sapere che sarà oggi a Miami, in Florida, come da programma. La natura dell’anniversario è segnata anche dal fatto che i parenti delle vittime hanno chiesto l’assenza di politici alle celebrazioni. Così il presidente non ha partecipato alla cerimonia, ma ha osservato il silenzio davanti alla Casa Bianca per poi visitare il memoriale del Pentagono. L’America oggi è “più forte e più sicura”, ha detto Barack Obama, sottolineando che gli Usa da allora hanno sferrato “un colpo durissimo ad al Qaida”, decapitandola
    e indebolendola. “Osama bin Laden non ci minaccerà mai più”, ha detto, “un giorno nei libri di storia ciò che rimarrà dell’11 settembre non saranno né l’odio, né le divisioni, ma un mondo più sicuro, più forte e più unito”. Mitt Romney, candidato repubblicano alla Casa Bianca e avversario di Obama nella corsa alle presidenziali, ha affidato il suo commento ad una nota: “Gli Usa sono una nazione unita, guidata da Dio e determinata a fermare i terroristi e proteggere la libertà a casa e in tutto il mondo” ha scritto. “Gli Stati Uniti”, ha aggiunto l’ex governatore del Massachusetts nel comunicato, “non dimenticheranno mai le vittime degli attentati”.

  223. Il Museo alla memoria.
    Intanto si discute ancora sull’apertura del Museo della memoria a Ground Zero, costato più di un miliardo di dollari e la cui inaugurazione è stata rinviata al 2014. Lo scontro è su chi dovrà pagare, gestire la struttura e occuparsi della sorveglianza. La controversia tra la fondazione che controlla il memoriale e l’Autorità Portuale di New York e New Jersey, che sta costruendo la struttura sotterranea, ha bloccato per mesi la realizzazione del progetto. L’intesa, però, pare sia stata raggiunta ieri, alla vigilia delle celebrazioni: “Sono molto soddisfatto che alla vigilia di questo importante anniversario, siamo in grado di annunciare un accordo che garantisca il completamento del Museo dell’11 settembre – ha dichiato Micheal Bloomberg, sindaco di New York – L’accordo assicura che verrà riavviata molto presto la costruzione e non si fermerà fino a quando il museo non sarà completato”.

  224. È vero quei ricordi sembrano sbiaditi, ma credo che in realtà sono radicati nell’animo di ciascuno di noi.

  225. Oggi accadrà questo.
    New York ricorderà gli attentati con minuti di silenzio proprio nelle ore in cui gli aerei, uno dopo l’altro, centrarono i loro obiettivi. Una cerimonia sarà celebrata nel Memorial Plaza, il luogo dove più di un decennio fa, sorgevano le Twin Tower e dove ora sono posizionati due grandi riflettori che illuminano il cielo della ‘Grande mela’.

    Il Memorial Plaza è un cantiere aperto. Nel progetto c’è la costruzione di un nuovo World Trade Center, un edificio che sarà il più alto in Occidente (541 metri). Ci sono anche dei progetti per la costruzione di due edifici e un museo.
    http://www.repubblica.it/esteri/2013/09/11/news/oggi_l_america_ricorda_gli_attentati_dell_11_settembre_a_bengasi_esplosione_un_anno_dopo_la_morte_di_stevens-66293432/?ref=HREC1-2

  226. E come si fa a dimenticare una tragedia simile che tutti noi abbiamo vissuto praticamente in presa diretta e con un impatto mediatico senza precedenti?

  227. Secondo me se qualcuno ritiene che il proprio ricordo su 11/9 sia sbiadito è perché la mente tenta in qualche modo di rimuovere.
    Onore al ricordo delle vittime.

  228. BAGDAD – Dopo una politica apparsa esitante, Barack Obama accelera. Alla vigilia del tredicesimo anniversario degli attacchi dell’11 settembre 2001, stasera alle 21 (ora americana) il presidente americano annuncerà la sua strategia impegnandosi a colpire l’Isis “dovunque siano i suoi obiettivi strategici”, secondo le parole dell’ex sottosegretario alla Difesa, Michele Flournoy. Lo scopo è “neutralizzare e distruggere” lo Stato islamico in Iraq e nel Levante: raid aerei a tutto campo a cavallo della frontiera tra Iraq e Siria e offensiva diplomatica per costruire una coalizione anti-Isis. Sul piano interno, una serie di sondaggi ha mostrato che una vasta maggioranza di americani è ormai apertamente a favore di una robusta politica contro l’Isis. Fermo restando che di americani sul campo non se ne parla.

  229. Dopo aver ricevuto ieri i leader del Congresso nell’Ufficio Ovale, oggi il Commander in Chief ha convocato nella Situation Room della Casa Bianca una riunione con il National Security Council, di fatto una sorta di ‘vertice di guerra’ con tutti i massimi responsabili della sicurezza nazionale, dal Pentagono alla Cia all’antiterrorismo. La comunità internazionale non resterà a guardare lo Stato islamico (Isis) mentre cresce e si diffonde, ma lo eliminerà. Lo ha ripetuto anche il segretario di Stato americano, John Kerry, parlando da Bagdad nel corso di una visita a sorpresa in Iraq . “Gli Usa e il mondo non staranno semplicemente fermi a guardare il male dell’Isis che si diffonde”, ha aggiunto. “Abbiamo tutti interesse nel sostenere il nuovo governo dell’Iraq in questa congiuntura particolarmente critica”, ha ribadito il capo della diplomazia americana, promettendo che “la coalizione che sta al cuore della nostra strategia globale continuerà a crescere e allargarsi nei prossimi giorni”. Perché “l’Is è l’anti-Islam e nel mondo moderno non c’è spazio per la loro barbarie e la loro brutalità”, ha continuato Kerry che ha definito “incoraggiare” la costituzione di un nuovo governo iracheno “più inclusivo”, un passaggio fondamentale per rendere efficace l’intera strategia.

  230. Visita a sorpresa a Bagdad. Stamattina Kerry ha incontrato il nuovo primo ministro iracheno, Heidar al-Abadi, dicendosi “impressionato” dai piani del suo interlocutore per la ricostruzione delle forze armate irachene e per l’impegno sul piano delle riforme politiche.

    Il capo della diplomazia Usa ha in agenda incontri con i suoi colleghi di Egitto, Giordania, Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar, Kuwait, Barhein e Oman. Al-Abadi ha appena formato il governo delle larghe intese e ha di fatto avviato quella condivisione del potere tra sciiti, sunniti e curdi che Washington considera necessaria per potersi impegnare in maniera attiva contro l’Isis. “In Iraq si sta facendo un duro lavoro”, gli ha dato atto Kerry, aggiungendo che però “siamo solo all’inizio”. Un riferimento al fatto che in realtà i fondamentali ministeri della Difesa e degli Interni rimangono ancora da assegnare, e non sarà facile.

    Il segretario di Stato Usa ha voluto sottolineare soprattutto la disponibilità di Abadi a “muoversi rapidamente verso la firma degli accordi sulla gestione delle risorse petrolifere necessari per risolvere le dispute con i curdi e verso una maggiore presenza e partecipazione dei sunniti nel governo”. Le riforme annunciate da Abadi nel suo discorso di insediamento sono “necessarie all’Iraq per portare attorno a un tavolo tutti i segmenti della società irachena”, ha affermato Kerry.

  231. La via diplomatica. L’impegno degli Stati Uniti è quello di organizzare un’ampia coalizione di oltre quaranta nazioni per sconfiggere le milizie jihadiste ultra-radicali dell’Isis. Il capo della diplomazia Usa sarà in Arabia Saudita per incontrare i ministri degli Esteri di sei Paesi appartenenti al Consiglio di cooperazione del golfo (Ccg), dell’Iraq, della Giordania e dell’Egitto. L’incontro si svolgerà a Gedda. Per Kerry non sarà facile convincere alcuni degli alleati chiave ma recalcitranti a collaborare attivamente alla coalizione anti-Isis.

    A cominciare da Riad, che non sembra disposta a sbilanciarsi troppo in una guerra contro lo Stato Islamico perché potrebbe provocargli contraccolpi con gli integralisti sunniti all’interno del regno. Non a caso, Kerry andrà a parlare con la leadership saudita direttamente da Bagdad, mentre Obama oggi ha personalmente telefonato a re Abdallah bin Abdul Aziz. E non sembra semplice neanche la partita con la Turchia, che non vede di buon occhio la fornitura di armi ai curdi, e che teme rappresaglie da parte dei miliziani dell’Isis sui 49 turchi che ha catturato quando lo scorso giugno si è impadronito della città irachena di Mosul. Nei giorni scorsi, il capo del Pentagono Chuck Hagel è stato ad Ankara per chiedere alla Turchia di bloccare le cosiddette ‘autostrade della jihad’ che attraverso il suo territorio hanno consentito l’arrivo in Siria e Iraq di migliaia di jihadsiti. Non è chiaro cosa abbia ottenuto, ma non ci sono stati impegni ufficiali.

  232. Merkel: “Faremo fronte”. Mentre Pechino non fa promesse su un suo possibile coinvolgimento nella lotta contro i jihadisti in Iraq, il pieno appoggio a un’ampia alleanza internazionale per contrastare la minaccia dello Stato islamico è stato espresso da Angela Merkel durante un intervento oggi al Bundestag. “La lotta contro l’Is deve essere decisa e senza incrinature da parte di tutti coloro che si oppongono alla repressione di quanti la pensano diversamente e alla barbara distruzione delle minoranze”, ha affermato. “Tutti noi, persone di tutte le religioni, faremo fronte agli estremisti ed islamisti”, ha poi assicurato Merkel avvertendo i parlamentari che la lotta contro il terrorismo dello Stato Islamico sarà lunga. “Non si risolverà dalla sera alla mattina”.

  233. La posizione francese e italiana. Chi è disposto a partecipare anche ai raid aerei è invece la Francia: Parigi prenderà parte “se necessario a un’azione militare aerea” sull’Iraq contro lo Stato islamico, ha detto infatti il ministro degli Esteri Laurent Fabius. Mentre l’Italia no: “Gli Usa hanno deciso di fare raid aerei, noi abbiamo scelto un’altra strada”, ha spiegato il ministro della Difesa Roberta Pinotti, sottolineando che “l’idea di oggi è che dobbiamo sostenere e rafforzare gli attori locali che possono fermare l’Isis all’interno dei loro territori”. E a questo proposito Pinotti ha citato l’invio di armi ai curdi “in accordo con le autorità irachene”, aerei da rifornimento e capacità addestrative. Oltre questo Roma non andrà.

  234. Attentati a Bagdad. Solo oggi nella capitale irachena è salito a 19 morti il bilancio di un attentato compiuto contro un checkpoint della polizia con due autobombe vicino a un mercato di animali. La polizia ha riferito che l’assalto è cominciato quando un attentatore suicida ha lanciato il suo veicolo pieno di esplosivi su un posto di blocco sorvegliato da vigili nel quartiere sudorientale della capitale, uccidendo cinque poliziotti e ferendone altri nove. Alcuni secondi dopo, l’esplosione di un’autobomba vicino al mercato ha ucciso 14 clienti e passanti, ferendo altre 35 persone e uccidendo decine di uccelli. Diverse vetture sono rimaste danneggiate nell’esplosione. Le forze di sicurezza hanno isolato tutte le strade che portano al luogo dell’attacco. Fonti mediche hanno confermato il bilancio delle vittime. Tutti i funzionari hanno parlato a condizione di anonimato perché non autorizzati a parlare con i giornalisti.

  235. Il male per operare si serve di meccanismi occulti subdoli crudeli e terribili. I crimini perpetrati per sconquassare ogni via di progresso verso la civiltà e dell’evoluzione democratica sono sempre in agguato come i puma lo sono per la notte. Per non dimenticare guardiamoci da ogni lato ma custodendo la personale intelligenza del cuore che lotta usando l’attenzione e la prudenza consapevole che “abbassare la guardia” può essere già consegnarsi in mano al nemico “armato” che altro non aspetta.
    Un grazie sentito a te caro Massimo che anche qui non ti sei kasciato sfuggire l’opportunità per ricreare una cordata di sgomenti umanità si ma unite da sincera profonda commozione. Mirka

  236. Il 9/11 Memorial, Museo dedicato downtown Manhattan alle vittime della strage dell’11 settembre 2001, è ogni giorno popolato da turisti commossi, bambini delle scuole non ancora nati il giorno dell’attacco alle Torri Gemelle. Ma la guerra al terrorismo, dichiarata dal presidente George W Bush 13 anni or sono, non è roba da museo, purtroppo. Il presidente Barack Obama, eletto per voltare pagina, deciso a ritirare le truppe da Afghanistan e Iraq per occuparsi di Pacifico, Cina, crescita economica, ha pronunciato un discorso strategico – nella tarda notte italiana – che deve esser stato per lui amarissimo scandire e che chiude per sempre l’illusione che la I Guerra Globale sia una parentesi violenta ma effimera.

  237. Obama ha dovuto abbandonare la politica scelta dopo la rielezione 2012, quando si oppose ad armare i ribelli moderati in Siria che combattono contro il regime alawita di Assad e più tardi quando – incautamente – minimizzò la minaccia dell’Isis in Iraq, paragonandola a una squadra da basket di dilettanti. Il Presidente deve ora impedire che i pochi, e malmessi, guerriglieri filoccidentali rimasti in Siria vengano sterminati e, al tempo stesso, bloccare l’avanzata fondamentalista di Isis in Iraq. Conquistando le dighe strategiche, impossessandosi di nuovi campi petroliferi e assediando i curdi nella zona autonoma al Nord del Paese, la minaccia del Califfato da efficace propaganda sul web diventerebbe concreto pericolo in Medio Oriente.
    Certo con personale senso di sconfitta, il Presidente torna a mobilitare l’opinione pubblica americana per una «guerra speciale», che non sarà l’avanzata con carri armati di Bush padre in Kuwait 1991, i raid aerei di Clinton, né la guerra costata 1000 miliardi di dollari di Bush figlio in Iraq 2003, e neppure la trionfale cavalcata contro i talebani in Afghanistan 2001. Il nuovo piano di battaglia di Obama è stato delineato dalla consigliera Lisa Monaco a quel che resta degli alleati in Medio Oriente, Giordania e Arabia Saudita: non solo offensiva militare, ma anche diplomazia, supporto economico, intervento delle Nazioni Unite, blocco dei passaporti ai presunti terroristi in Europa, taglio dei finanziamenti arabi, condanna ferma dalle autorità religiose islamiche, insomma manovra complessa per isolare, impoverire e colpire militarmente le milizie Isis.

  238. A Cernobbio domenica, al Forum Ambrosetti, il senatore repubblicano John McCain, battuto da Obama nel 2008 come candidato repubblicano, era amareggiato da certi interventi europei: «Danno tutte le colpe agli americani, non parlano altro che di status quo, da Putin in Ucraina all’Isis in Iraq, ma siamo tutti nel mirino! E attenti, perché l’opinione pubblica americana era sì stanca di guerra, ma dopo le decapitazioni feroci online di Isis ha capito che, sia pur a malincuore, deve tornare a prendere l’iniziativa nel mondo».
    McCain coglie bene l’umore nazionale, ma il Congresso, dove i repubblicani detestano il Presidente e i democratici sono spesso delusi, non vuol dare carta bianca nell’attacco in Iraq senza un dibattito e un’autorizzazione formale. Riuscirà il Presidente, a poche settimane dal voto di Midterm e a due anni dalla fine del secondo mandato, a unire il Paese, il Congresso e delineare la strategia efficace contro il terrorismo? La Storia parla di Jimmy Carter che, partito da pacifista convinto, conclude il mandato intervenendo in Afghanistan contro l’Armata Rossa e in Iran in un disastroso blitz per liberare gli ostaggi catturati a Teheran, e non è certo esempio brillante.

  239. Ma la Storia ha anche un passo lunghissimo, se è vero che ucraini, russi e polacchi combattono dai tempi dei cosacchi di Taras Bu’lba, gli scozzesi vogliono lasciare il Regno Unito dopo tre secoli e sunniti e sciiti combattono l’ancestrale guerra civile dei successori del Profeta. Gli scolaretti che sfilano compunti davanti alle vetrine e ai monitor del Museo dell’11 settembre credono dunque di star studiando il passato. Non sanno, e lo si scrive con il cuore pesante, di avere davanti il loro presente e futuro, perché la Guerra Globale non darà tregue. Un sondaggio pubblicato ieri – poco prima che Obama parlasse, conferma che il 93% dei cinesi ha un’opinione negativa del Giappone e il 53%, folla sterminata di esseri umani, ritiene inevitabile la guerra contro il Sol Levante. Per tornare all’ordine serve che l’America guidi il pianeta, forte ma realista con la Cina, scrive nel suo ultimo saggio «World Order» lo statista Henry Kissinger. Giusto, ma chi guida l’America Paese leader? Obama ha pochissimo tempo per dare la sua risposta.

  240. Sono d’accordo con il commento di Bianca e trovo interessante l’analisi di Riotta.
    Un saluto a tutti.

  241. Grazie Amelia. @Riotta se si volesse fare un passo avanti per cambiare una mentalità incancrenita da pregiudizi e abitudini vuote di significato,si scoprirebbero radici che affondano in multipli inserimenti di razze culture ed etnie,e da ognuna si prendesse qualcosa,del meglio, si andrebbe incontro a una svolta veramente epocale e finalmente di pace evoluta dall’intelligenza. Saluti a tutti. Mirka Bonomi (Bianca 2007)

  242. I giornali ne parlano sempre meno. Anno dopo anno. Sembra quasi che il ricordo di quella immane tragedia sia stato in qualche modo digerito.
    Non so se esserne lieto o rattristato.
    Voi che ne pensate?

  243. L’ultima vittima, poche settimane fa, è stata Marcy Borders, la giovane soprannominata “Lady Dust” perché fotografata ricoperta di cenere subito dopo il crollo di una delle torri del World Trade Center. È morta di tumore come molti altri sopravvissuti all’11 settembre: secondo le stime, i casi di neoplasia da allora sono stati tra 2500 e 3700.
    A 14 anni di distanza, l’attacco all’America continua a stroncare vite e fa ancora male a una nazione che non vuole dimenticare quel giorno drammatico che ha sconvolto il mondo.

  244. Migliaia di persone alle celebrazioni
    Anche quest’anno migliaia di persone sono attese sui luoghi della tragedia: New York, Washington e Shanksville. Scenderanno in strada per ricordare le quasi 3mila persone morte quando quattro aerei di linea dirottati si schiantarono rispettivamente sulle Torri Gemelle (alle 8.46 e alle 9.03 locali), sul Pentagono (alle 9.37) e su un campo in Pennsylvania (alle 10.03).

  245. Le cerimonie a New York
    A New York la cerimonia principale si svolgerà al Memoriale dell’11 settembre, con minuti di silenzio nei momenti degli schianti e del crollo delle torri e con la lettura dei nomi delle vittime. Inoltre, come ogni anno, nelle ore serali 88 proiettori genereranno delle colonne di luce che uniranno terra e cielo. In condizioni meteo ideali, il cosiddetto “Tribute in Light” è visibile a quasi 100 chilometri di distanza.

  246. Obama atteso a Fort Meade
    Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, insieme alla first lady e al suo staff parteciperà ad un momento di silenzio nel giardino della Casa Bianca e incontrerà i militari della base di Fort Meade. “Il presidente – ha riferito il portavoce Eric Schultz – non vede l’ora di parlare con uomini e donne patriottici che lavorano ogni giorno per mantenere l’America sicura e onorare i sacrifici dei soldati e delle loro famiglie”.

  247. Un giorno che ha cambiato la Storia
    Gli attentati, rivendicati da Al Qaeda, hanno modificato il corso della Storia. Gli Stati Uniti – e più in generale l’Occidente – si scoprirono più vulnerabili e impararono a conoscere il volto di un nuovo nemico, quell’Osama Bin Laden che sarebbe stato ucciso quasi 10 anni dopo, nel maggio 2011, con un raid delle forze armate statunitensi ad Abbottabad, in Pakistan. In meno di un mese ci sarebbe stato l’attacco statunitense all’Afghanistan e da lì una spirale di eventi che hanno cambiato il mondo.
    – See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/11-settembre-anniversario-gli-Stati-Uniti-ricordano-una-tragedia-che-fa-ancora-male-a6ef3d78-5bac-4e7b-a846-4d8fe7c02115.html

  248. Sono passati quattordici anni dai terribili eventi dell’11 settembre 2001, ma l’America non accenna a dimenticare. Non può e non vuole. Una dolorosa ferita che gli Americani non dimenticheranno mai. Così, in occasione di questo anniversario importante Obama ha decretato tre giorni di preghiera e di commemorazione nazionale, un modo per stare vicino alle tante famiglie colpite da questo attentato terroristico da parte di Al-Qaeda. Il presidente americano ha affermato che adesso l’America è più forte che mai. Da questa lacerante esperienza gli Stati Uniti hanno imparato a conoscere il volto di un nuovo nemico, quello di Osama Bin Laden. Ogni giorno la guerra al terrorismo è sempre più forte e mi auguro che l’Isis venga finalmente sconfitta, perché queste persone che appoggiano la Gihad, la guerra santa non dovrebbero giare per il mondo e distruggere patrimoni architettonici dell’umanità né tantomeno destabilizzare i governi in Africa e dell’area Medio Orientale, rendendo così impossibile la vita delle popolazioni di quel territorio e spingendole ad abbandonare il proprio Paese d’origine, con il rischio continuo di morire inghiottiti dal mare alla ricerca di condizioni di vita migliori e la cosa più grave è che le vittime principali dell’immigrazione sono soprattutto bambini, che hanno ancora tutta la vita davanti e, me lo auguro, una lunga storia da scrivere.

  249. L’11 settembre 2001 il cuore dell’America si è fermato. E da allora il mondo non è stato più lo stesso. Quindici anni dopo, alla stessa ora (le 8.46 a New York, le 14.46 ora italiana) iniziano le celebrazioni per ricordare quella triste data.
    (da “La Repubblica”)

  250. A dare il via alla cerimonia, un minuto di silenzio in omaggio alle circa 3mila vittime degli attacchi dell’11 settembre: alle 8.46 il primo aereo dirottato dai terroristi si schiantò contro la torre nord del World Trade Center. Il primo è stato seguito da altri 5 minuti di silenzio per ricordare l’impatto degli aerei contro la seconda Torre gemella, contro il Pentagono e lo schianto in Pennsylvania. Grande commozione durante la lettura dei nomi delle vittime del crollo delle Twin Towers, tra cui molti vigili del fuoco e forze dell’ordine.
    (da “La Repubblica”)

  251. Migliaia le persone, tra parenti e amici delle vittime, arrivate a Ground Zero. Sul posto anche Hillary Clinton e Donald Trump, che, applaudito al suo arrivo, ha preso posto in tribuna, dopo essersi intrattenuto con l’ex sindaco di New York e suo sostenitore Rudolph Giuliani. La Clinton si è allontanata prima della fine della cerimonia della lettura dei nomi, a causa di un malore, secondo l’emittente Fox. Lo staff della Clinton ha fatto sapere che si è trattato di un colpo di calore e che la Clinton si è ripresa: “Ora sta meglio”.
    (da “La Repubblica”)

  252. Trump ha affidato a un comunicato le parole per le celebrazioni: “Questo è il giorno del ricordo ma anche il giorno della risolutezza. Perché il nostro solenne dovere è quello di lavorare insieme per rendere il Paese sicuro di fronte a un nemico che non cerca nient’altro che distruggere il nostro modo di vivere.
    (da “La Repubblica”)

  253. Il presidente Barack Obama, dopo aver osservato il primo minuto di silenzio alla Casa Bianca, si è spostato alla cerimonia al Pentagono, sul cui quartier generale si abbattè un aereo che provocò 189 vittime: 64 sull’aereo e 125 a terra. “Le scritture ci dicono che non dobbiamo mai dimenticare l’amore e fedeltà, dobbiamo inciderle nel nostro cuore” ha detto Obama. “Per questo ai sopravvissuti e alle famiglie delle vittime voglio dire che è un onore trovarmi con voi oggi durante questa ricorrenza. Non dimenticheremo mai le 3mila vittime che ci sono state sottratte. In questa giornata ostica e difficile vogliamo onorare il coraggio di coloro che si sono messi in pericolo per salvare degli estranei. Siamo grati alla forza dei soccorritori e rinnoviamo l’amore e la fede che ci uniscono come un’unica famiglia americana”.
    (da “La Repubblica”)

  254. Obama è tornato a parlare dell’Isis: “Anche se le cose sono evolute, il terrorismo continua a colpire”, ha affermato il presidente. “Al Qaida e l’Isis sanno che non riusciranno mai a distruggere la nazione americana. Per questo cercano di terrorizzarci mettendoci l’uno contro l’altro”, ha detto il presidente Usa. “Per questo il migliore gesto è di restare l’America, fedeli a noi stessi, a quello che c’è di meglio in noi senza permettere a nessuno di dividerci. La nostra diversità non è una debolezza, essa è e resterà sempre una delle nostre forze principali”.
    (da “La Repubblica”)

  255. Grande successo di pubblico nel ventennale del Festivaletteratura che si conclude con 135 mila presenze complessive. In particolare sono stati 70 mila i biglietti staccati per gli eventi a pagamento (3 mila in più rispetto alla scorsa edizione) e 65 mila le persone stimate agli eventi gratuiti (7 mila in più dello scorso anno). In aumento anche la partecipazione e l’interazione nella piazze virtuali del Festival con 750 mila contatti via Facebook e oltre 400 mila via twitter.
    Il Festival, che si è inaugurato il 7 settembre, è stato preceduto da un’anteprima, il 3 settembre, con un pubblico di 800 persone per lo scrittore Jonathan Safran Foer in piazza Castello, mentre in altre 600 hanno assistito al concerto inaugurale nel Duomo. Già fissate le date della prossima edizione, dal 6 al 10 settembre 2017.
    (Fonte: Ansa)

  256. Sono passati 16 anni dall’11 settembre 2001 quando due aerei si schiantarono contro il World Trade Center di New York uccidendo 2.997 persone. Come ogni anno centinaia di persone rendono omaggio alle vittime a Ground Zero, dove sorgevano i grattacieli abbattuti. Commemorazioni anche alla Casa Bianca, dove il presidente Donald Trump e sua moglie Melania hanno osservato un minuto di silenzio
    http://www.repubblica.it/esteri/2017/09/11/foto/new_york_sedici_anni_fa_l_attacco_alle_torri_gemelle-175196121/1/

  257. “L’uomo che cade” di Don Delillo (Einaudi)
    Keith Neudecker lavora nelle Twin Towers e sopravvive al crollo di una delle due. Si ritrova coperto di cenere, vetro e sangue, in mano stringe una valigetta non sua. Scioccato, si fa portare a casa della moglie Lianne, dalla quale si era separato da oltre un anno. Keith e Lianne cercano di riavvicinarsi, con loro c’è il figlio Justin, che passa le giornate scrutando il cielo alla ricerca di altri aerei mandati da Bill Lawton (così, con i suoi amici, Justin storpia il nome di bin Laden). Dalla valigetta Keith risale a Florence, un’altra sopravvissuta, che inizia a frequentare all’insaputa della moglie. Una relazione, anche sessuale, retta sul trauma che li accomuna. Nella seconda parte compare Nina, la madre di Lianne. Da dopo il suicidio del marito sta con Martin, un uomo ambiguo che ha vissuto tra gli Stati Uniti e l’Europa: un miscredente, un occidentale, un bianco, ma forse anche un terrorista. Tre anni dopo, il tentativo di ricostruire la famiglia è fallito: Keith trascorre lunghi periodi in viaggio, da Parigi a Las Vegas, immerso nei tornei di poker, assorbito in una vita che lo riduce quasi una cosa; Lianne aiuta con corsi di scrittura creativa anziani affetti dall’Alzheimer e si è avvicinata alla religione cattolica. Le loro vite sono intersecate dall’uomo che cade, un performer che si lancia in caduta statica da vari punti della città, assumendo le posizioni di un uomo che si era buttato dalle Torri prima del crollo: “a testa in giù, con le braccia tese lungo i fianchi, un ginocchio sollevato”.

  258. “NY 11 settembre 2001” di Steve McCurry – DJ Morvan – Jung Gi Kim (Mondadori Comics)
    Narrata dallo stesso grande fotografo con il supporto di due talenti del fumetto internazionale, la storia di come Steve McCurry ha testimoniato la tragedia dell’11 settembre. Tavole a fumetti e fotografie si alternano in un intreccio narrativo che ripercorre le vicende storiche che hanno portato al più grave attacco terroristico di sempre, testimoniando attraverso la lente di un maestro indiscusso della fotografia e le tavole di due talenti del fumetto internazionale (un coreano e un francese), decenni di storia dai più lontani angoli del mondo, uniti dall’instancabile volontà di testimonianza di Steve McCurry (ci sono sezioni dedicate a tutti i suoi viaggi più importanti dall’Afghanistan dei Mujaheddin alla New York sotto attacco del 2001).

  259. “Il secondo aereo. 11 settembre: 2001-2007” di Martin Amis (Einaudi)
    Quando, quella mattina dell’11 settembre 2001, il secondo aereo – una massa orrorifica di tonnellate d’acciaio lanciate a più di novecento chilometri orari sopra Manhattan – si conficcò con la lucida volontà dell’intenzione nel corpo della Torre Sud del World Trade Center, l’America non potè fare altro che prendere atto dell’implacabile odio rivolto verso di lei. Gli attacchi terroristici, l’ascesa del fondamentalismo islamista, le guerre in Afghanistan e Iraq, i balordi sillogismi di Donald Rumsfeld, l’assalto alla razionalità illuminista, la trasformazione profonda e violenta del nostro orizzonte emotivo. Ma anche la condizione femminile, la crisi della mascolinità, le frustrazioni dello scrittore, l’inatteso legame tra terrore e noia. Tanto è stato scritto su quello “schianto morale” che è stato il crollo delle torri, nondimeno lo sguardo di Amis in questi saggi e racconti riesce a essere sorprendentemente spiazzante, coraggioso, senza timore di risultare scomodo e provocatorio. “L’11 settembre ha accorciato la distanza che separa la realtà dal delirio. Perciò quando ne parliamo, chiamiamolo con il nome che gli compete; non diamo a intendere di aver incassato e archiviato quell’evento, quel fenomeno, senza frizioni. Non è vero. L’11 settembre continua, va avanti, con tutto il suo mistero, la sua instabilità, e il suo atroce dinamismo”.

  260. “Molto forte, incredibilmente vicino” di Jonathan Safran Foer (Guanda)
    A New York un ragazzino riceve dal padre un messaggio rassicurante sul cellulare: “C’è qualche problema qui nelle Torri Gemelle, ma è tutto sotto controllo”. E l’11 settembre 2001. Tra le cose del padre scomparso il ragazzo trova una busta col nome Black e una chiave: a questi due elementi si aggrappa per riallacciare il rapporto troncato e per compensare un vuoto affettivo che neppure la madre riesce a colmare. Inizia un viaggio nella città alla ricerca del misterioso signor Black: un itinerario ricco di incontri che lo porterà a dare finalmente risposta all’enigmatico ritrovamento e ai propri dubbi. E sarà soprattutto l’incontro col nonno a fargli ritrovare un mondo di affetti e a riaprirlo alla vita.

  261. “Uomo nel buio” di Paul Auster (Einaudi)
    August Brill ha 72 anni, ora vive nel Vermont a casa della figlia per rimettersi da un grave incidente d’auto. Nelle notti d’insonnia tiene occupata la mente immaginando storie che lo conducano lontano dalla sua vita, da ciò che vorrebbe dimenticare: la recente morte della moglie e l’orribile assassinio in Iraq del fidanzato della nipote che laggiù lavorava in un impresa di costruzioni. Sdraiato nel buio, immagina un’America dilaniata dalla guerra civile scoppiata nel 2000 durante la prima contestatissima elezione di Bush; un’America parallella nella quale non è avvenuto l’attentato dell’11 settembre. Mentre il destino del protagonista della storia fantapolitica diventa sempre più incerto, la nipote, anch’essa insonne, raggiunge il nonno e August capisce che non può più sfuggire ai racconti veri, alle vicende della sua vita.

  262. In un giorno normale è accaduto ciò che di normale non aveva assolutamente niente. Non ho compreso, non ho capito ho assistito impotente alla tragedia cogliendo insieme alla mia fragilità la mia stoltezza di persona che si riteneva al sicuro. Il mio dispiacere non aver fatto nulla prima per impedire, fatti così devastanti non hanno soltanto colpevoli che agiscono alla luce del sole è ciò che si nasconde dietro di loro che va svelato. Ciò che è rimasto è il dolore, il pianto, l’angoscia. Su tutto però ha vinto e vince e deve vincere la solidarietà tra gli uomini sempre oltre il tempo, oltre i pregiudizi e le divisioni-

  263. aggiungo solo che lo spazio dato sui media (tg, ecc.) è ogni anno più ridotto.
    forse perché il tempo risana le ferite?

  264. Diciotto anni dopo, uno scrittore ha raccolto 5 mila testimonianze e ne ha scelte 480 per un nuovo libro (in uscita negli Usa il 10 settembre) per mettere su carta la memoria orale del giorno più lungo del nostro secolo, l’11 settembre 2001 a Manhattan

    Su 7 L’11 settembre raccontato da chi c’era: gli ultimi «Ti amo» e i corpi infuocatishadow

    testi raccolti da GARRETT M. GRAFF

    Centodue minuti è durato il giorno più lungo del nostro secolo. Sono le 8 e 46 dell’11 settembre 2001 a Manhattan quando il primo aereo dirottato dai terroristi di al Qaeda si abbatte contro la torre Nord del World Trade Center; alle 9 e 03 il secondo aereo entra nella torre Sud; alle 9 e 37 un terzo aereo colpisce il Pentagono; la torre Sud collassa su se stessa alle 9 e 59; alle 10 e 03 il volo United 93 si schianta a Shanksville, Pennsylvania, mentre i passeggeri cercano di riprenderne il controllo; alle 10 e 28 crolla in una nuvola che avvolge tutta Manhattan anche la torre Nord. Duemilaseicentosei persone muoiono dentro quello che verrà ribattezzato Ground Zero; centoventicinque al Pentagono; duecentosei sugli aerei American Airlines Flight 77, United Airlines Flight 175, American Airlines Flight 11, le cui sigle verranno per sempre ritirate dai cieli; quaranta a Shanksville. Seimila persone restano ferite. Tremila bambini perdono un genitore; cento, nati nei mesi successivi, non conosceranno mai il loro papà.

    Le immagini nella memoria e le ultime frasi
    Di quella giornata portiamo dentro decine di immagini: gli aerei che spariscono nelle torri, i newyorchesi ricoperti di una spessa coltre di polvere bianca, i pompieri, le macerie, le bandiere. Diciotto anni dopo, vogliamo dare spazio invece alle voci, alle parole senza filtro di chi era lì, minuto per minuto: i soccorritori, i controllori di volo, i militari, gli impiegati delle torri, i consiglieri del presidente George W. Bush sull’Air Force One, gli uomini e le donne le cui speranze si sono infrante davanti alle ultime frasi della persona amata giunte da un aereo o dai grattacieli in fiamme. I testi che seguono, sono tratti dal libro «The Only Plane in The Sky» dello scrittore Garrett M. Graff (in uscita negli Usa il 10 settembre). La traduzione è dello studio Brindani. A New York, Marilisa Palumbo ha incontrato Graff: potete leggere l’intervista completa su 7 in edicola.

    Quel cielo così blu su Manhattan
    «In tutto il mondo, l’11 settembre iniziò come qualsiasi altro giorno. Il Congresso si stava rianimando dopo la pausa estiva. (…). A Washington, D.C., il neodirettore dell’FBI Robert Mueller aveva assunto l’incarico solo una settimana prima, il 4 settembre, e si apprestava a tenere la sua prima riunione, prevista per le 8, dedicata alle indagini in corso su un gruppo terroristico noto con il nome di al-Qaeda e il bombardamento della USS Cole nell’autunno del 2000. (…) A New York era giorno di primarie, con i cittadini chiamati a decidere quali candidati si sarebbero fronteggiati per raccogliere il testimone dell’uomo che aveva governato la città per otto anni, Rudy Giuliani. Milioni di persone, lavoratori, studenti e pendolari, si erano svegliate e iniziavano a prepararsi per affrontare la giornata, affollando treni, traghetti, metropolitane e autobus per dirigersi verso Lower Manhattan».

    Bruno Dellinger, presidente della Quint Amasis North America, Torre Nord, 47° piano: «Il cielo era così limpido. L’aria così frizzante. Era tutto perfetto».
    Capitano Jay Jonas, unità di soccorso Ladder 6, Dipartimento dei Vigili del Fuoco (FDNY): «Era come se l’aria fosse stata tirata a lucido».
    Luogotenente Jim Daly, Dipartimento di Polizia della Contea di Arlington (Virginia): «Un blu meraviglioso».
    Joyce Dunn, insegnante, Distretto scolastico di Shanksville-Stonycreek (Pennsylvania): «Un blu puro».
    Brian Gunderson, capo di gabinetto di Richard Armey, leader di maggioranza alla Camera (R-Texas): «Un blu profondo»

    IL PRIMO AEREO
    «Alle 8:46 del mattino, il volo American Airlines 11 romba in direzione sud nel cielo sopra Manhattan, attraversando l’isola in tutta la sua lunghezza e sorprendendo chi camminava per la strada, prima di schiantarsi contro la Torre Nord, conosciuta come World Trade Center 1, a circa 465 miglia orarie»

    Anthony R. Whitaker, comandante in servizio al World Trade Center, Dipartimenti di Polizia Portuale (PAPD), Torre Nord, atrio a piano terra: «Con la coda dell’occhio ho visto due persone alla mia sinistra. Stavano andando a fuoco. Correvano verso di me e poi mi sono passati a fianco. Non emettevano alcun suono. Tutti i vestiti erano bruciati, e loro erano divorati dalle fiamme».
    Harry Waizer, consulente fiscale della Cantor Fitzgerald, Torre Nord: «L’ascensore cominciò a cadere, incendiandosi. Sono stato colpito al volto da una palla di fuoco che era entrata dallo spazio tra le porte e la cabina dell’ascensore. Ho visto questa palla arancione arrivarmi in faccia e poi ho avuto la sensazione – non posso chiamarlo bruciore – che mi toccasse e poi è sparita».
    Michael Lomonaco, executive chef presso Windows on the World nel complesso commerciale delle Torri: «Pensai, Dio mio, stiamo tutti lavorando. Cosa sta succedendo al 106? Poi mi dissi di stare calmo, che sarebbero scesi dalle scale antincendio. Avevo piena fiducia che tutti sarebbero riusciti a scendere».
    David Kravette, broker di borsa della Cantor Fitzgerald, atrio a piano terra, Torre Nord: «Il fatto che io sia vivo è un puro caso del destino. Quel giorno tutti i miei colleghi su in ufficio hanno perso la vita. Erano intrappolati, non c’era modo di uscire».

    IL SECONDO AEREO
    «Alle 9:03, il volo United Airlines 175 si schianta contro la Torre Sud, WTC 2, a circa 590 miglia orarie».

    Capitano Jay Jonas, unità di soccorso Ladder 6, FDNY, in attesa di ordini nel posto di comando dell’atrio al piano terra della Torre Nord: «Ero lì in piedi. Come si può immaginare c’era un gran chiasso, l’acustica nell’atrio del World Trade Center non era delle migliori, c’era molta eco. Poi, tutto d’un tratto, calò il silenzio. Uno dei vigili del fuoco della squadra speciale Rescue 1 guardò verso l’alto e sentenziò: “Potremmo non arrivare a domani”. Lo guardammo e poi, scambiandoci un’occhiata, ammettemmo che aveva ragione. Ci stringemmo la mano augurandoci buona fortuna e ripetendoci a vicenda “Spero di rivederti, dopo”. Per me è molto commovente perché eravamo tutti coscienti che probabilmente quello sarebbe stato il nostro ultimo giorno ma affrontammo comunque il nostro dovere».
    Juana Lomi, paramedico del New York Beekman Downtown Hospital: «In quel momento le cose si volsero al peggio. Dissi ai miei ragazzi: “Ascoltatemi bene, le persone per cui non potete fare un triage immediato, tutti quelli che hanno problemi respiratori, dolore al petto, gambe fratturate, qualsiasi problema alle gambe che non permetta di correre, vanno caricati in ambulanza. Tutti gli altri dovranno correre, dovranno usare le gambe o quel che vogliono».


    SCUOLA ELEMENTARE EMMA BOOKER, Sarasota (Florida)
    Andy Card, capo di gabinetto della Casa Bianca: «Stavo recapitando un messaggio che nessun Presidente vorrebbe mai ricevere, lo sapevo. Avevo deciso di riportare due dati concreti e un commento. Non volevo intavolare una conversazione dato che il Presidente era davanti alla classe. L’insegnante chiese agli studenti di tirare fuori i libri, così colsi l’attimo e gli dissi all’orecchio: “Un secondo aereo ha colpito un’altra torre. L’America è sotto attacco.” Ho fatto qualche passo indietro in modo che non potesse farmi domande».
    Gordon Johndroe, vice addetto stampa, Casa Bianca: «Io ero presente in aula e mi rendo conto che sarebbe stato strano se all’improvviso fosse uscito di corsa, cosa che prima del documentario di Michael Moore, Fahrenheit 9/11, non aveva mai suscitato clamore. Non è affatto parsa un’eternità, ha terminato il libro e poi si è ritirato in un’altra stanza».
    Andy Card: «Ha rilasciato una dichiarazione molto concisa e si è incamminato, ma io ero dubbioso. “Torno a Washington D.C.”, aveva detto, ma io pensavo che non lo sapeva, come noi non lo sapevamo. Non sapevamo dove saremmo andati a finire».


    IL TERZO AEREO
    «Alle 9:37, il volo American Airlines 77 si schianta contro l’Ala 1, la parte occidentale del Pentagono, a 530 miglia orarie».

    Ted Olson, procuratore generale del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti: «Uno dei segretari è entrato di corsa e ha detto: “Barbara al telefono.” Ho preso subito la cornetta, felice di sentire la sua voce, ma mi ha detto che il suo volo era stato dirottato, e i passeggeri erano stati radunati in coda all’aereo. I dirottatori erano armati di coltelli e cutter. Poi ci siamo rassicurati a vicenda, perché dopotutto l’aereo era ancora in quota, stava ancora volando. Si sarebbe risolto tutto. Mi ha detto “Ok, ti amo.” Sembrava molto, molto tranquilla».
    Victoria “Torie” Clarke, vicesegretario della Difesa per gli affari pubblici: «Davo per scontato che fosse stata un’autobomba. Quello che mi sembra assurdo è che sapevamo che due voli di linea avevano colpito il World Trade Center, che era un attacco terroristico, e quelli più svegli già ipotizzavano che si trattasse di al-Qaeda. Ma poi quando è successo qui, non ci è venuto in mente che potesse essere un altro aereo, tanto l’evento andava oltre la nostra comprensione. Non ci è mai passato per la testa che potesse essere un altro aereo…».

    VOLO 93 IN PERICOLO
    Deena Burnett, di San Ramon (California), moglie di Tom Burnett, passeggero del volo United Airlines 93: «Vidi sullo schermo il numero di Tom. Ero sollevata, pensavo che se mi stava chiamando dal cellulare doveva essere al sicuro in un aeroporto. Gli chiesi se stava bene ma rispose “No, sono su un volo dirottato. È lo United Airlines 93”. Mi raccontò cosa stava succedendo. “Hanno già accoltellato un tipo. Credo che uno di loro abbia una pistola”. Iniziai a tempestarlo di domande ma mi fermò: “Deena, ascoltami”. Ripeté tutto di nuovo, pregandomi di contattare le autorità prima di riagganciare. Un’ondata di terrore mi invase, come se fossi stata colpita da un fulmine (…). Gli dissi del World Trade Center. Non lo sapeva ancora, e informò anche gli altri passeggeri. “Oh mio Dio, è un attacco kamikaze”».
    Lyzbeth Glick, moglie di Jeremy Glick, passeggero del volo United Airlines 93: «Ha percepito il panico nella mia voce, e abbiamo iniziato a dirci “Ti amo”. Saremo andati avanti per 10 minuti, fino a che non ci siamo tranquillizzati. Poi mi ha spiegato cosa era successo…»
    Deena Burnett: «Il telefono suonò ancora: era sempre Tom, che disse soltanto “Deena”. Pensai che fosse sopravvissuto allo schianto sul Pentagono, e gli chiesi se stesse bene, ma mi rispose di no. “Hanno appena colpito il Pentagono” lo informai, e in sottofondo mi giunsero le voci dei passeggeri che riportavano la notizia. Ne percepivo la preoccupazione e li sentivo annaspare di stupore e sgomento. Poi Tom si rivolse di nuovo a me: “Sto architettando un piano”, mi disse, “Ci riprendiamo l’aereo”. Gli chiesi chi lo stesse aiutando, e mi rassicurò dicendo che erano coinvolte alcune persone, un gruppo, e di non preoccuparmi. Mi salutò con un “Faremo qualcosa, ti richiamo”, e riagganciò.

    DENTRO LE TORRI E NEL VUOTO
    Bill Spade, vigile del fuoco della squadra speciale Rescue 5, FDNY: «Nella Torre Nord c’erano delle porte automatiche, che continuavano ad aprirsi e chiudersi per i corpi che cadevano giù».
    William Jimeno, agente della PAPD: «Una persona mi ha colpito più di tutti, era come se potessi concentrare lo sguardo solo su di lui: era un signore biondo con i pantaloni color cachi e la camicia rosa tenue. Si gettò da lassù, e quando lo fece ricordava quasi Gesù sulla croce, dalla posizione, perché mentre precipitava era rivolto verso l’alto».

    CONTINUANO LE OPERAZIONI DI SOCCORSO AL WTC
    Beverly Eckert, moglie di Sean Rooney, viceresponsabile della gestione del rischio presso la Aon Corporation, Torre Sud, 98° piano: «Sean mi ha chiamato verso le 9:30 di mattina. Ha detto che era al piano 105, e capii subito che non sarebbe tornato a casa. Sotto i suoi piedi c’era un intero edificio in fiamme, e lui non batté ciglio. Mi parlava senza mai perdere la sua compostezza, come in un giorno qualsiasi, e per questo suo modo di affrontare la morte avrà per sempre la mia ammirazione. Non c’era in lui ombra alcuna di paura, nemmeno quando le vetrate tutto intorno si erano surriscaldate ed era impossibile toccarle, e il fumo aggrediva i polmoni. (…) A un certo punto, quando sentii che faceva più fatica a respirare, gli chiesi se sentiva dolore. Dopo un attimo di pausa rispose di no. Mi amava tanto da mentirmi. Alla fine, quando la nube di fumo divenne troppo densa, continuò semplicemente a sussurrarmi “Ti amo” all’infinito».


    IL PRIMO CROLLO
    «Alle 9:59, dopo nemmeno un’ora dall’attacco la Torre Sud, il secondo obiettivo colpito, collassa soccombendo alle fiamme alimentate dalle migliaia di litri di carburante contenute nel velivolo».

    Donna Jensen, residente nel quartiere di Battery Park City: «Si sentiva il rat-tat-tat-tat-tat-tattat-tat degli scoppi che si susseguivano perfettamente ritmati, un rumore potente, secco e crepitante».
    Bruno Dellinger, presidente della Quint Amasis North America, Torre Nord, 47° piano: «Ho sentito un rumore che ora non riesco a ricordare: è stato così forte, un frastuono talmente assordante che la mia mente l’ha bloccato. Mi ha spaventato a morte, e l’ho rimosso, non riesco a riportarlo alla coscienza».
    Detective Steven Stefanakos, mezzo mobile 10 dell’unità speciale emergenze ESU, NYPD: «Come lo schianto di mille treni merci».
    Kenneth Escoffery, vigile del fuoco dell’unità di soccorso Ladder 20, FDNY: «Come se ci avesse colpiti un missile».
    Catherine Leuthold, fotoreporter indipendente: «Come trentamila jet che decollano in contemporanea».

    IL BUIO DENTRO LA NUBE
    Tracy Donahoo, agente del reparto trasporti, NYPD: «Il colpo fu talmente violento che sono stata sbalzata lontano. Non so a quale distanza, ma mi staccai letteralmente da terra, sentivo di essere sospesa in volo. Atterrai sulle ginocchia e su una mano. Non c’era più luce, era tutto buio pesto, non vedevo nulla e non riuscivo a respirare. Era soffocante».
    Bruno Dellinger, presidente della Quint Amasis North America, Torre Nord: «Credo nel giro di cinque secondi, su di noi calò l’oscurità con una violenza incredibile. Ma, cosa ancora più singolare, non c’era alcun rumore. I suoni non riuscivano più a propagarsi perché l’aria era troppo densa».

    NEL BUNKER DELLA CASA BIANCA
    Dick Cheney, vicepresidente degli Stati Uniti: «Nonostante gli avvenimenti dell’11 settembre fossero davvero terribili, alcuni di noi avevano svolto esercitazioni per affrontare circostanze molto più pericolose e difficili, come un attacco nucleare sovietico diretto contro la Nazione. È stato utile, quella mattina l’addestramento ha dato i suoi frutti».

    IL QUARTO SCHIANTO
    Deena Burnett, moglie di Tom Burnett, passeggero del volo United Airlines 93: «Nel silenzio sentivo il cuore battere all’impazzata. Tom disse che stavano aspettando di sorvolare una zona di campagna, e che avrebbero ripreso il controllo dell’aereo. La cosa mi spaventò enormemente e iniziai a supplicarlo: “No Tom, no. Stattene seduto tranquillo e non attirare l’attenzione”. Ma non volle saperne, disse “Se vogliono far schiantare l’aereo, dobbiamo fare qualcosa”. Allora proposi di lasciar fare alle forze dell’ordine, ma rispose: “Non possiamo aspettare l’intervento delle autorità, e in ogni caso non so cosa riuscirebbero a fare, dobbiamo pensarci noi. Penso che possiamo farcela”. Rimanemmo in silenzio per qualche istante, poi fui io a riprendere: “Cosa vuoi che faccia? Cosa posso fare?” gli domandai. “Prega, Deena, prega e basta”. Dissi che l’avrei fatto e che l’amavo, e prima di riagganciare Tom ripeté di non preoccuparmi, che non sarebbero rimasti con le mani in mano. Non ha mai richiamato».


    DOPO IL CROLLO
    Steven Bienkowski, unità aeree, NYPD: «Lower Manhattan era completamente avvolta da un’immensa coltre di polvere bianca. Quando ci siamo riavvicinati in elicottero alla Torre Nord si vedevano ancora le persone buttarsi e precipitare giù, ma stavolta la scena era meno cruenta perché non li si vedeva rovinare al suolo, anzi c’era quasi un’aura di pace perché sparivano in questa nuvola bianca».

    «Il crollo sorprende anche i vigili del fuoco che stanno scendendo dalla Scala B con un civile ferito, Josephine Harris, e un agente PAPD evacuato con loro, David Lim».

    Billy Butler, vigile del fuoco dell’unità di soccorso Ladder 6, FDNY: «Ti controlli subito per vedere se hai ancora tutte le dita delle mani e dei piedi, le muovi per assicurarti che non ci sia niente di rotto. Ero malandato ma stavo bene. Stavo cercando di liberarmi spostando quegli enormi pezzi di cartongesso che mi erano caduti addosso quando a un tratto Josephine apparve tra la polvere, come il Blob che esce dalla palude. Mi sono spaventato a morte».

    LE OPERAZIONI DI SALVATAGGIO A SHANKSVILLE
    Norbert Rosenbaum, vigile del fuoco della Stoystown Volunteer Fire Company: «Ci avvisarono che dovevamo uscire per una missione di recupero e soccorso. Quando vidi i pezzi e tutto quanto, confidai agli altri: “Dubito che salveremo qualcuno. Quel cratere è enorme”. Tante delle cose che vidi non mi erano nuove, ero stato in Vietnam. C’erano solo parti di corpi. Tutto lì, pezzi».
    James Broderick, agente della Polizia della Pennsylvania: «Ricordo l’odore. Una volta che respiri l’odore di carburante che si mescola a quello della carne umana, non te lo dimentichi più».


    IL SECONDO CROLLO
    Monsignor John Delendick, cappellano, FDNY: «Un poliziotto mi si avvicinò e mentre correva al mio fianco mi disse: “Padre, può confessarmi?”. Gli risposi: “Questo è un atto di guerra, darò assoluzione generale a tutti”, e così feci».
    Rudy Giuliani, sindaco di New York: «Sentii che qualcuno mi afferrava e mi trascinava via, obbligandomi a correre come si fa con gli animali o i cavalli, “ANDIAMO VIA!”. Avremo corso per circa un terzo di isolato, e io non sapevo nemmeno cosa stesse succedendo. Mentre mi trascinava via gli dissi di fermarsi. Ci girammo e vidi un’immensa nube salire dal cratere. Sembrava davvero un attacco nucleare».

    DOPO IL CROLLO
    Sharon Miller, ufficiale della PAPD: «C’era un grande silenzio, come se tutto fosse coperto di ovatta, o di marshmallow».
    Alan Reiss, direttore dell’Autorità portuale al World Trade Center: «Solo un rumore rompeva il silenzio: gli allarmi PASS».
    Detective David Brink, mezzo mobile 3 dell’unità speciale emergenze ESU, NYPD: «Questi allarmi, che i pompieri usano quando non riescono a muoversi e si trovano bloccati in situazioni di emergenza, hanno un suono molto penetrante. Non si sentiva altro, gli allarmi si succedevano senza tregua, e non si riusciva a distinguere da dove provenissero».

    SULLA COSTA
    Rick Schoenlank, presidente dell’associazione di beneficenza United New Jersey Sandy Hook Pilots Benevolent Association: «C’erano imbarcazioni commerciali, rimorchiatori, traghetti, pescherecci, lance, navi ristorante che confluivano a Lower Manhattan per procedere all’evacuazione».
    Capitano James Parese, Staten Island Ferry: «Non ho mai visto così tanti rimorchiatori tutti insieme».

    MEZZOGIORNO A NEW YORK
    Ian Oldaker, membro del personale di Ellis Island: «Era ora di mettersi in cammino verso casa. Insieme a una fiumana di gente, iniziammo a risalire la rampa verso il Ponte di Brooklyn. La cosa più spaventosa fu vedere le persone mettersi a urlare improvvisamente. C’erano momenti di silenzio, silenzio, silenzio, poi a un tratto le urla di chi veniva a sapere di avere perso un amico. L’uomo che camminava al mio fianco mi chiese dove si trovasse, e gli dissi che eravamo sul Ponte di Brooklyn. Indossava un completo e mi chiese cosa fosse successo. Gli risposi: “È crollato il World Trade Center” ».

    LE RICERCHE
    Denise McFadden, moglie di Paul McFadden, vigile del fuoco, FDNY: «Quando mi telefonò, Paul era nel bel mezzo del caos. Non capivo cosa mi diceva, stava facendo un elenco di nomi di conoscenti seguiti dall’aggettivo “morto”. Sbottai: “Smettila. Cos’è, uno scherzo di pessimo gusto?”. Ma non si fermò. Continuava a pronunciare sequenze di nomi intervallati dalla parola “morto”, non riusciva a dire altro».

    LA FINE DELLA GIORNATA
    Tenente Michael Day, Guardia costiera degli Stati Uniti: «Entrai a Ground Zero e ricordo che c’erano resti umani ovunque. Ricordo di aver pensato di essere in guerra. Abbassai lo sguardo e vidi un piede in una scarpa. Rimasi a guardarlo per qualche minuto. Sembrava un assedio: sulle strade di Manhattan si incontravano i militari della Guardia Nazionale con i fucili d’assalto, era saltata la corrente in tutta la zona, in molti altri edifici erano divampati incendi e ovunque pioveva un’inquietante polvere grigiastra».
    Beverly Eckert, moglie di Sean Rooney, viceresponsabile della gestione del rischio presso la Aon Corporation, Torre Sud, 98° piano: «Ci siamo incontrati a soli sedici anni, al ballo della scuola; quando è morto ne avevamo cinquanta. Per quanto terribile fosse quella giornata, ricordo che non volevo che finisse, non volevo andare a dormire: finché fossi rimasta sveglia, quel giorno condiviso con Sean non sarebbe finito. Mi aveva salutato con un bacio prima di andare al lavoro, e potevo ancora dire che era successo poco tempo prima, la mattina di quello stesso giorno».

  265. NEW YORK – Gli Stati Uniti celebrano il 19esimo anniversario dell’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 che costò la vita a tremila americani e per un giorno Donald Trump e Joe Biden sospendono (o quasi) la campagna elettorale. Niente comizi, niente spot televisivi per il voto del 3 novembre. Il presidente e il candidato democratico visitano il memoriale di Shanksville, in Pennsylvania, dove cadde il volo United 93, uno dei tre aerei dirottati dagli uomini di Al Qaeda. Ma vanno in ore diverse e non si incontrano.

    Biden incrocia al mattino il vicepresidente Mike Pence a New York, alla cerimonia per le vittime del crollo delle Torri gemelle. Tutti e due con la mascherina, solo un rapido saluto col gomito.

    Anche in un giorno di tregua, comunque, si notano le differenze: Biden non pronuncia discorsi ufficiali, anche perché non ha cariche di Stato, ma parla coi parenti delle vittime, dice di voler cercare di portare conforto, offre dolci e birre ai vigili del fuoco che per primi arrivarono dove cadde il jet con 40 passeggeri e i terroristi, punta sull’empatia. Trump, invece, pronuncia un breve discorso come è giusto che faccia il presidente. Esprime cordoglio per le vittime, ma punta soprattutto sull’orgoglio, la forza, la capacità di reazione dell’America: «Non importa quanto grave è la minaccia, l’America si rialza sempre, si erge con la sua forza, reagisce».

    Poi un appello all’unità, come dopo l’11 settembre, ma in una logica soprattutto conservatrice: «Uniti nell’amore familiare, la lealtà tra cittadini, l’orgoglio della bandiera, la fede in Dio, la gratitudine per la polizia e per chi presta soccorso».

    E, poi, l’enfasi sul «rifiuto di piegarci alle forze depravate della violenza, dell’intimidazione, dell’oppressione». Qui arriva, nell’unico passaggio che può essere interpretato in chiave elettorale, la rivendicazione di aver combattuto con durezza il terrorismo eliminando il capo dell’Isis, Al Baghdadi e il generale iraniano Soleimani.

  266. Biden preferisce dedicarsi al rapporto con le famiglie, dice di ammirare quelle che hanno ancora la forza di venire a celebrare la loro tragedia, ma anche lui, parlando coi giornalisti, tesse l’elogio di una nazione «che non molla mai».

    L’11 settembre, uno spartiacque per l’America, lo è stato anche per la politica. Le differenze tra Trump e Biden non vanno cercate nelle parole di ieri: emergono da come i due leader hanno reagito alla tragedia nell’arco di vent’anni. Gli attacchi spinsero subito Trump, allora un semplice imprenditore, a sviluppare una vera islamofobia, ad accentuare scetticismo e diffidenza per gli altri popoli, alleati degli Usa compresi. È la stessa tendenza all’isolazionismo, la sfiducia nelle alleanze come la Nato e l’ostilità nei confronti delle organizzazioni internazionali — dall’Onu al Wto (commercio), passando per l’Oms (sanità) — che ha poi portato dentro la Casa Bianca.

    L’11 settembre, con la risposta compatta dell’Occidente a fianco degli Usa, ha, invece, convinto sempre più Biden dell’importanza del legame con gli alleati all’esterno e di una cooperazione bipartisan all’interno.

    Con un paradosso: Trump, che esalta sempre la forza anche militare dell’America, condanna gli interventi Usa in Afghanistan e Iraq e cerca di ritirare i soldati americani anche dall’Asia centrale, dopo aver abbandonato i curdi nel conflitto siriano. Biden, che sull’altare dell’unità dopo l’attacco del 2001 votò in Congresso a favore delle guerre di Bush, viene ora messo alla berlina per questo da un altro presidente repubblicano. E deve vedersela anche coi pacifisti della sinistra democratica perché, a differenza dell’isolazionista Trump, vuole mantenere una forza militare americana in Medio Oriente, anche se limitata a 2000 soldati.

  267. Dichiarazione del Presidente della Repubblica in occasione del ventesimo anniversario degli attentati dell’11 settembre 2001 ha detto:

    Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione del ventesimo anniversario degli attentati dell’11 settembre 2001, ha rilasciato la seguente dichiarazione:

    «In occasione del ventesimo anniversario dell’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, desidero anzitutto esprimere la vicinanza del popolo italiano alle famiglie delle vittime di quel feroce attentato e a tutto il popolo degli Stati Uniti, nel segno della profonda e storica amicizia che lega i nostri due Paesi.
    Rivolgo un pensiero particolare ai connazionali e alle persone di origine italiana che persero la vita in quella dolorosa circostanza, vite spezzate da un fanatismo vile e cieco che colpì uomini e donne innocenti.
    Quella tragedia ci ha uniti nel segno del dolore.
    La memoria della barbara aggressione di vent’anni or sono ci spinge con sempre maggiore vigore a proteggere quella cornice comune di valori che risponde ai princìpi di libertà e pacifica convivenza tra popoli.
    La drammatica vicenda afgana che ne è seguita, sino al recente gravissimo attentato presso l’aeroporto di Kabul, ultimo di una sequela di brutali attacchi terroristici susseguitisi negli anni in tanti Paesi, conferma quanto sia impervia la strada della affermazione dei diritti dell’uomo. Libertà, democrazia, pace e sicurezza sono valori indivisibili che non possono mai essere considerati acquisiti, bensì devono essere preservati e alimentati dalla comunità internazionale.
    L’impegno dell’Italia in questo ambito non verrà mai meno, a partire dal contributo alla definizione di una cornice di sicurezza che sappia sconfiggere il terrorismo e i suoi inganni.
    L’Italia è solidale con gli Stati Uniti e gli altri alleati per fronteggiare ogni minaccia terroristica, spegnere i focolai di guerra che le fortificano e per rafforzare un ordine mondiale incentrato sul diritto, sulla giustizia sociale ed economica, attraverso la cooperazione, il dialogo multilaterale, nella profonda convinzione che tale impegno consentirà di affrontare le nuove decisive sfide che si profilano sullo scenario globale per lasciare un futuro migliore alle nuove generazioni».

    Roma, 11/09/2021

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