Non so se ci avete fatto caso, ma ultimamente pare ci sia stato un ritorno alla “letteratura di guerra”.
Giusto per farvi un esempio potrei citarvi il nuovo romanzo di Arturo Pérez-Reverte intitolato Il pittore di battaglie (tr. it. R. Bovaia, Tropea, 15 euro). Oppure Neven (tr. it. D. Brolli, Mondadori, 15,50 euro) la nuova graphic novel di Joe Sacco.
E il noto libro di Babsi Jones, Sappiano le mie parole di sangue (Rizzoli, 16,50 euro).
Ma questo post è dedicato soprattutto al nuovo romanzo di Valerio Aiolli: Ali di sabbia (Alet, 12 euro). Il romanzo è ambientato nel periodo storico della “scomoda” conquista italiana della Libia.
Ha recensito il libro Gianfranco Franchi, curatore di Lankelot e autore di questo libro.
Valerio Aiolli sarà “virtualmente” presente per partecipare al dibattito.
Alla fine del post potrete leggere un breve estratto dal testo.
Inoltre sarebbe interessante discutere di “letteratura di guerra” in generale (c’è qualche libro del passato che vi viene in mente?).
Altre due domande:
Siete d’accordo con chi sostiene che la guerra in Libia è stata dimenticata troppo in fretta? E se sì, è un bene o un male?
(Massimo Maugeri)
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Recensione di Gianfranco Franchi
Sessant’anni dopo il folgorante esordio letterario di Ennio Flaiano, “Tempo di uccidere”, vede la luce una nuova allegoria dell’esperienza colonialista italiana: “Ali di sabbia” di Valerio Aiolli, narratore italiano classe 1961. È difficile assimilare, ma non comparare, le due opere: Flaiano trasfigurava la sua esperienza, virando dal particolare all’universale con una stupenda e drammatica metafora di quel che aveva vissuto; Aiolli appartiene a un’altra generazione, quella che ha testimoniato il progressivo oblio sui tempi dell’Impero, e scrivendo di Italo Balbo, delle condizioni dei soldati al fronte, delle cause dell’avvento del fascismo, non può altro che documentarsi e immaginare, congetturare e interpretare. L’interpretazione, mi sembra, è opportunamente equidistante; o almeno all’equilibro tende.
La qualità della ricostruzione andrebbe rigorosamente vagliata da uno storico, e non da un letterato; mi limito quindi a tracciare questa emblematica continuità tra romanzieri di classe, autori di due delle poche testimonianze letterarie italiane su un periodo così inspiegabilmente rimosso. Al contempo, sollecito gli studiosi del Fascismo e del Novecento a valutare la fedeltà della ricostruzione storica, e l’opportunità di salutare nell’opera un documento dalle valenze plurime. La mia impressione è che l’opera derivi da uno studio meticoloso delle fonti.
“Ali di sabbia”, strutturato alternando flashforward e flashback (la sequenza è: 1940 Libia, 1915 Italia, 1916-1939 Italia, 1940 Libia, 1911-1915 Libia, 1940 Libia, 1915 Libia, 1940 Libia), si sviluppa su due differenti binari, progressivamente convergenti: il primo è quello della vicenda dell’aviatore Italo Balbo, eroe della Prima Guerra Mondiale, Governatore della Libia, caduto a Tobruk nel 1940 probabilmente per via del fuoco amico; il secondo è quello d’un suo secondo, e diversamente romanzesco pilota, Settimio, nato da un aviatore caduto proprio in Libia, e da un amore proibito. Aiolli rivela progressivamente i destini incrociati del grande trasvolatore e del suo secondo, aviatore già miracolato, sopravvissuto a una caduta disastrosa da trecento metri, e figlio di chi sognava, per amore del volo, di scrivere una grande storia del volo.
Intanto leggiamo di eserciti male armati, privi – nel 1940 – di autoblindo, di pezzi anticarro; ci avventuriamo nella “biografia in terza persona” dell’ex Quadrumviro, già plurimedagliato al fronte, già repubblicano e massone, mazziniano convertito al fascismo; feroce oppositore dei bolscevichi (p. 18: “Che cos’è il bolscevismo? È disoccupazione, ozio, fame, furto, assassinio. Chi ama la propria casa, la propria famiglia, chi non vuole vedere i propri figli morire di fame, è nemico del bolscevismo. E D’Annunzio, a Fiume, è un magnifico suscitatore di energie sane e gagliarde”), idolo dei cittadini, esempio per i soldati.
E tramite la storia del padre putativo di Settimio, l’eroico Balbo, entriamo nella storia del suo perduto padre, e della fidanzata che lo aspettava invano. E così assistiamo, da spettatori, agli eventi che trascinano l’Italia dalla Prima alla Seconda Guerra; agli scontri tra fascisti e socialisti, alla fondazione del Partito Comunista (Livorno), al clima di violenza tra le fazioni in lotta per assumere il potere. Toccante il racconto – allegorico – della fine della Grande Guerra: la fidanzata “vedova” del pilota, e madre di un figlioletto che non era suo, lo accompagna a guardare i festeggiamenti:
“Sua madre gli teneva forte la mano e lui guardava in cielo. Passavano aerei che gettavano manifestini colorati con parole di vittoria e in fondo a destra era scritto Diaz, generale dei generali, salvatore dell’Italia, e lui guardava gli aerei e quanto gli sarebbe piaciuto esserci su quegli aerei non riusciva a dirlo ma sua madre lo capì e ne fu contenta” (p. 38).
Aiolli narra un seducente e tragico spaccato di quell’epoca, e dell’entusiasmo degli italiani per il clima che si stava vivendo. Inconsapevoli, forse, degli stenti e delle difficoltà di chi si trovava al fronte. Si percepisce, qua e là, memoria dell’orgoglio di essere italiani, della dignità riservata ai morti caduti per una patria che ora si componeva anche di Trieste e della Libia; la fidanzata vedova “pensava che chi era morto per quel nome, Italia, era morto per qualcosa di unico e di grande e si sentiva meno sola” (p. 43). Era innocenza, ma era anche fede.
Diciamola tutta: da parte di Lucia, come anche da parte dei cittadini, c’era riconoscenza per questa rigenerazione: toccanti e emblematici, a questo proposito, i passi che riferiscono i discorsi di Balbo agli emigranti (cfr. p. 103: “Siate fieri di essere italiani – gridai – o gente nostra d’oltreoceano, e soprattutto voi, lavoratori dal braccio infrangibile e dal cuore semplice, perché rappresentate l’amore e l’orgoglio del Duce, voi che siete credenti e fecondi, voi che avete il genio e la pazienza dei costruttori di Roma (…) Mussolini ha chiuso il tempo delle umiliazioni, essere italiani è un titolo d’onore (…) l’Italia è l’esercito della civiltà in cammino per le vie del mondo”).
Discorsi oggi talmente impensabili da suonare grotteschi, per la nostra sensibilità. Il fallimento è stato bruciante, la delusione immensa, la vergogna degli ultimi anni del regime, e di quel che è stato post 1943 senza fine. Essere italiani è un grave disonore, da molto tempo. E non significa più niente. Siamo nazione puntinata da basi nemiche: colonizzata militarmente e culturalmente. Sfinita.
Dicevamo: di quel grande amore di Lucia, che sognava di scrivere la storia del volo, rimangono delle lettere, che la donna leggerà soltanto quando suo figlio partirà per il fronte. Sono lettere che raccontano di trincee, delle prime bombe lanciate da un aereo (p. 67), del rapporto tra turchi e arabi (aborigeni libici); della condizione delle truppe, sempre prive di munizioni e di viveri; delle torture inflitte dai nemici (p. 69: atroce) e delle rappresaglie italiane. Delle truppe eritree italianizzate, quelle degli ascari (p. 74), di stregate città d’argilla, nel deserto. Di ritirate, e di assedi. Il pilota al fronte pensa soltanto a volare, anche quando la realtà si sgretola. Sembra morire volando.
E volando muore il grande eroe dell’Impero, quell’idolo dei cittadini, valoroso soldato e coraggioso pilota; massacrato forse dall’invidia di suoi compatrioti, cittadini di quella patria che stava per morire.
La storia del volo dell’Impero termina ingloriosamente. Quella della fortuna di questo romanzo ha appena avuto inizio. Onore al merito.
Gianfranco Franchi
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(aggiornamento del 19 dicembre 2007)
Brano estratto dal libro
28 giugno 1940, ore 17
aeroporto di Derna, Libia
primo pilota
Mi è toccato scriverglielo, a Badoglio. Il generale, il capo di stato maggiore del Duce. Ti mando settantaquattro di questi pezzi anticarro, dice. E settantaquattro ne arrivano, però poi c’è la bella sorpresa che diciotto non li possiamo montare perché i numeri di matricola non corrispondono, e altri quarantanove li montiamo, solo che mancano gli strumenti di puntamento, e così alla fine i pezzi che possiamo utilizzare sono sette. Ti mando i perforanti da venti, dice. Che sono la cosa che più ci serve, i perforanti da venti, però poi quando arrivano gli aerei e andiamo a spacchettare c’è la bella sorpresa che troviamo perforanti da sessantacinque e contraerei da venti, e dei perforanti da venti neanche l’ombra, cristo.
A vèg par la mì strè. Io vado per la mia strada.
Eppure la conosce bene la situazione, Badoglio. Abbiamo dei carri d’assalto vecchi come il cucco e armati solo di mitragliatrice, che le autoblinde inglesi li crivellano e li passano da parte a parte, e di autoblinde noi neanche l’ombra. Ci basterebbe poco, basterebbe un minimo di mezzi corazzati e di autoblinde e gli inglesi li faremmo a pezzi, ci ritroveremmo in tre giorni al Canale di Suez e sarebbe un altro andare, ora che dalla Francia non abbiamo più da temere sorprese. Ora che la Francia è stata schiacciata, invasa. Ora che i tedeschi se la sono presa. E poi mi dà dei consigli, cristo, Badoglio mi dà dei consigli che sono impossibili da seguire, oppure quando mi arrivano li ho messi in pratica da giorni. Crea delle fortificazioni, dice. E come faccio a creare delle fortificazioni in pochi giorni, mica salgono su da sole le fortificazioni. E poi non ho carri pesanti, non ho pezzi anticarro. Comunque stai sicuro che se attaccano Tobruk ci trovano pronti, anche se sono più di cinquanta chilometri di perimetro da difendere. Le comunicazioni difettano, dice. Ovvio che difettano, ma non è certo mia la colpa. Non abbiamo mezzi radio e le comunicazioni a filo sono inesistenti perché non abbiamo filo, e poi c’è questo nuovo sistema cifrato che è lungo pesante incerto, cristo, ci ho impiegato quattro ore per decifrare quel suo telegramma di una settimana fa, e alla fine non ero neanche ben sicuro di averlo decifrato a dovere.
Ma l’ho scritta quella lettera, prima di uscire? “Gentile signora Mahieu, conto di farle cosa gradita comunicandole…” Sì che l’ho scritta. Almeno iniziare l’ho iniziata.
«Non mi toccare, son debole, son verginella d’amor» canta Settimio con la sua voce fessa.
A vèg par la mì strè.
Un giorno bisogna che mi decida a scriverla, questa benedetta autobiografia in terza persona. Pizzo di Ferro nel 1920 aveva ventiquattro anni, scriverò.
Io vado per la mia strada.
Pizzo di Ferro nel 1920 era tenente, scriverò, aveva fatto la guerra. Era tenente degli Alpini, scriverò, aveva fatto la Grande guerra in montagna.
«Non mi toccare, son debole, son verginella d’amor» ancora Settimio con quella sua vocetta.
Pizzo di Ferro nel 1918, sull’Altissimo, si era guadagnato la sua prima medaglia d’argento, scriverò. “Comandante di un plotone di Arditi, dimostrò sempre grande coraggio personale e brillanti qualità di soldato e di comandante. Spesso per assolvere il proprio mandato s’impegnò anche contro un nemico superiore in forze, attaccandolo con tale impeto da rendere necessario l’intervento delle nostre mitragliatrici e anche delle nostre artiglierie per disimpegnarlo.”
«Non ti tocchiamo, sei debole, sei verginella d’amor» canto con la mia voce che vorrei fosse di baritono. E invece è sottile e fessa quasi come quella del buon vecchio Settimio.
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secondo pilota
Non mi toccare son debole son verginella d’amor, non ti tocchiamo sei debole sei verginella d’amor. A Balbo piace essere stuzzicato che io canto e lui risponde, lo fa sentire padrone e comandante e buono e cattivo e fermo. La fermezza è la virtù che maggiormente gli si addice. Come il patrigno di David Copperfield, si chiamava Murdstone o qualcosa del genere, che non faceva che predicare la fermezza come virtù dei forti e in nome della fermezza costringe la mamma di David Copperfield a non mostrargli più il suo amore di madre. Ora che ci penso è stata una fortuna che mamma non si sia risposata, mi sarebbe potuto capitare un patrigno tipo Murdstone o come si chiama, magari un Merdston, e questa l’avrebbe potuta dire lui, Balbo, e se l’avesse detta tutti avremmo riso forte, perché quando lui dice una facezia tutti ridiamo, non è mica che ci stiamo lì a pensare, ridiamo e basta, ridiamo forte perché così dev’essere e così è. Ho fatto controllare i livelli i freni gli alettoni, il Gobbo è a posto per quanto possa esserlo un aereo in zona desertica, dove sabbia e terra si infiltrano ovunque e ti puoi ritrovare d’improvviso con i filtri otturati. L’importante è controllare ogni volta con attenzione ed è proprio ciò che ho fatto. Non mi ci avranno messo per caso qui a fare da secondo al comandante, al governatore della colonia libica.
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primo pilota
Iniziare l’ho iniziata. Ma l’ho finita, poi? “Gentile signora Mahieu, conto di farle cosa gradita comunicandole di aver incaricato l’ambasciatore italiano a Bruxelles di prender cura…” Mahieu sì, che era un grande aviatore.
Pizzo di Ferro nel 1918, sul Valderoa, si era guadagnato la sua seconda medaglia d’argento, scriverò. “Segnava la via luminosa del dovere ai reparti del proprio battaglione nell’attacco di una posizione nemica strenuamente difesa dalle mitragliatrici, riuscendo primo tra tutti a porre il piede nella trincea nemica.”
A vèg par la mì strè, incontr’a la mì guera. Io vado per la mia strada, incontro alla mia guerra.
Pizzo di Ferro nel 1920 era tenente, aveva fatto la guerra, scriverò. E una domenica pomeriggio fu introdotto da un amico nella casa dei conti Florio a San Daniele, sulle colline del Friuli. Sia il benvenuto in casa mia, disse il conte Florio. Lo guardava salire la scalinata della villa. Venga che le presento mia moglie, disse stringendogli la mano.
Bisogna che mi ci metta a scriverla davvero, la mia autobiografia in terza persona.
Forza che saliamo sull’aereo. Sul nostro s.79.
“Gentile signora Mahieu, ho incaricato il nostro ambasciatore a Bruxelles di prendersi cura della sua casa contro eventuali vandalismi tedeschi.”
Pizzo di Ferro li odia, i tedeschi. Li ha sempre odiati, fin dai tempi della Grande guerra. Erano nemici, allora, i tedeschi. Vent’anni fa. Venticinque. Erano i nostri nemici, i tedeschi.
«Non mi toccare, son debole, son verginella d’amor» insiste Settimio.
Manù nel 1920 aveva diciott’anni. Era magra, lo sguardo dolce. Il naso pronunciato, ma non grande. Aveva occhi nerissimi, Emanuela Florio. La mia Manù.
Ma l’ho firmata, quella lettera? La lettera alla vedova di Mahieu.
L’s.79 è un trimotore. Un trimotore da bombardamento. Il suo nome sarebbe Sparviero. Ma i soldati lo chiamano il Gobbo. Ha una gobba appena dietro la cabina. Dentro ci stanno due mitragliatrici.
No che non l’ho firmata.
Pizzo di Ferro è ai comandi. Accanto a lui il secondo pilota, Settimio. Uno che dall’aereo ci è già caduto, da trecento metri d’altezza. Uno che si è fratturato non si sa quante ossa. Uno che cammina tutto storto. Uno che di quando in quando dice che tanto dobbiamo fare tutti quella fine. Settimio, il mio secondo pilota.
«Non mi toccare, son debole, son verginella d’amor.»
«Non ti tocchiamo, sei debole, sei verginella d’amor.»
Perché Cagna non c’è. Si è arruolato, poi, e alla fine abbiamo fatto anche pace. Ma non c’è, qui sul Gobbo, a farmi da secondo. Cagna, uno dei migliori piloti italiani, non c’è. C’è Settimio, la verginella d’amor.
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secondo pilota
Mi studia ogni volta che saliamo a bordo con quelle sue occhiate indagatrici. Ancora non si fida di me, mi paragona a Cagna, lo so, l’uomo che lo ha accompagnato in tutte le trasvolate, che gli ha tolto le castagne dal fuoco chissà quante volte, che lo ha tradito passando all’aviazione civile. E io dovrei ringraziarlo, Cagna, per aver liberato questo posto che poi chissà perché è stato assegnato a me, nonostante l’incidente o può darsi proprio grazie all’incidente, che quando tornai al reparto dalla convalescenza tutti erano così gentili e mi guardavano in quel modo strano, come se non se l’aspettassero proprio di rivedermi così presto, anzi come se non si aspettassero proprio di rivedermi in assoluto. Magari dopo un colpo di quel genere pensavano che uno potesse soltanto abbandonare l’aeronautica o morire. Io non ero morto e non avevo alcuna intenzione di rinunciare alla carriera di pilota e questo forse li spiazzava, i miei colleghi e i superiori. Ero come un monumento vivente al rischio e alla paura, se ce l’avevo fatta io avrebbero potuto non farcela loro, vita tua mors mea, e sai bene quanto conta tener lontana la paura quando voli. La paura è un morso che ti stringe dentro, una volta che ti ha infilato le ganasce nella carne sei finito, puoi scendere dall’aereo per sempre se sei ancora in tempo a scendere. Il segreto è tenerla lontana, impedirle di aggredirti, ma se hai lì davanti a te un monumento vivente che suo malgrado te la soffia in faccia ogni mattina allora è dura, forse è per questo che alla fine hanno deciso di liberarsi di me e mi hanno proposto per questo posto di secondo del comandante. Così dovrei ringraziare anche i miei superiori, oltre a Cagna, per essere finito quaggiù nella colonia libica. Ma io non ho ringraziato e non ho intenzione di ringraziare nessuno. A me bastava volare. Mi basta volare. Con chi e per quali scopi non mi interessa. Voglio volare ed è quello che faccio ed è tutto.
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primo pilota
Paolino ha compiuto dieci anni. L’abbiamo festeggiato stamattina a colazione. Paolo. Dieci anni. Chissà che cosa sarà, da grande. Cappannini, il motorista, mi ha detto che suo figlio vuole occuparsi d’arte, in qualche modo. Chissà Paolo quale strada troverà. Manù, Valeria, Giuliana, Paolo. Con Manù, nel 1920, al quarto incontro ci dichiarammo. E poi comunicammo la decisione di sposarci al conte e alla contessa. Il conte sorrise. Mi prese sottobraccio, uscì con me dalla portafinestra del salone. Scendemmo la scalinata e ci inoltrammo sulla ghiaia del giardino, verso la vasca con i pesci. Caro Balbo, disse il conte. Aveva un tono conciliante, paterno. Caro Balbo, mia figlia non gliela do. Non gliela do perché non è buona a nulla. Lei è un uomo d’azione, lei ha fatto la guerra. Lei ha bisogno di una donna forte e combattiva, Manù sta sempre a leggere. Non è adatta a lei, mi creda, Balbo, disse. Allora cominciammo a vederci di nascosto, complici le sorelle, gli amici. E intanto io fondavo “L’Alpino”. Traditori, scrissi. Quanto mi piaceva, scrivere traditori. Traditori gli operai che avevano scioperato a Torino nel 1917. Traditori gli internazionalisti. Traditori i deputati contrari alla guerra. “Non si permetta mai più” scrissi, “che si sputi sulla nostra divisa. Che cos’è il bolscevismo? È disoccupazione, ozio, fame, furto, assassinio. Chi ama la propria casa, la propria famiglia, chi non vuole vedere i propri figli morire di fame, è nemico del bolscevismo. E D’Annunzio, a Fiume, è un magnifico suscitatore di energie sane e gagliarde”.
Forza, che dobbiamo andare. Saliamoci, su quest’aereo.
«Tu sei troppo grasso» grido al Tellera. Il generale Tellera, il capo di stato maggiore delle forze armate in Libia. Sorridendo, glielo dico, mica sono fesso. E Tellera sorride, a sua volta, e accetta di spostarsi sull’aereo gemello, quello guidato da Porro. Tu sei troppo grasso, e al posto di Tellera faccio salire sul Gobbo mio nipote Lino e mio cognato Cino.
Badoglio si è permesso di fargli quella sfuriata, al povero Tellera. «Ti sostituisco se non mi farai avere quelle informazioni puntualmente» dice. Ma gliele ho cantate chiare, a Badoglio. “Tu devi prendertela con me” gli ho scritto, “io sono responsabile”. Perché Badoglio quella sfuriata avrebbe voluto farla a me ma non ne ha avuto il coraggio, e allora l’ha fatta al povero Tellera, a quel grassone.
A vèg par la mì strè, incontr’a la mì guera; s’a casc a casc in tèra. Se cado cado in terra.
Mentre ero il fidanzato segreto di Manù, studiavo a Firenze per prendermi la laurea. Istituto di scienze sociali Cesare Alfieri, via Laura. A due passi da piazza Santissima Annunziata. Archi di pietra, fontane in bronzo. Città che ti accoglie silenziosa, senza abbracci. Finanze: diciotto. Economia politica: ventitré. Studiavo diritto, studiavo geografia. Studiavo il pensiero di Mazzini. Ci scrissi la tesi, sul pensiero di Mazzini. “Le classi capitalistiche” scrissi, “debbono aprire il cuore ai patimenti delle classi operaie, comprenderne i bisogni, fiancheggiarne il cammino di redenzione. Combattere l’ingiustizia e l’errore non è un diritto ma un dovere. Lo scopo della vita non è quello di essere più o meno felici, ma quello di rendere sé e gli altri migliori”. Mi laureai con settantotto ottantesimi. Chiamatemi fesso.
Rulliamo sulla pista di Derna alzando nubi di polvere.
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secondo pilota
E via ai motori, allora, a tutta forza. Quando vanno su di giri i motori del Gobbo urlano con un tono cupo, un tono che poi perdono appena ti alzi in volo. Anche se il frastuono rimane forte e ti costringe ad alzare la voce, quando sei in volo non c’è più quel tono cupo che ora ci si infila dentro le orecchie e si propaga per tutte le ossa e i muscoli, e il paraorecchie filtra ma non abbastanza o forse, chissà, è proprio il paraorecchie ad assorbire i suoni acuti e a lasciar passare quelli cupi. Ora che Balbo ha mollato il freno va già meglio, prendiamo velocità su questa pista di terra battuta che non si riesce mai a tenerla liscia come si dovrebbe, e sobbalziamo, e dietro c’è silenzio, nessuno parla più, né Cappannini, Berti, né Cino e Lino con i nomi che sembrano una coppia da album a fumetti, che anche questa se la dicesse Balbo staremmo tutti lì a ridere forte. L’aria che sbatte contro il vetro della cabina si fa sempre più solida e fra pochi secondi, non più di tre o quattro ormai, ci solleverà come una grande mano invisibile, perché è l’aria che tiene su gli aerei come è l’acqua che tiene a galla le navi. L’uomo ha capito in fretta come sfruttare la forza dell’acqua con le navi, ma ci ha messo millenni per arrivare a utilizzare quella dell’aria con gli aerei. Sono Settimio la verginella d’amor, mio comandante. Spetta a lei tirare la cloche, quando desidera.
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primo pilota
Il 29 novembre del 1920 mi laureai. Ma il 20 dicembre io non c’ero, a Ferrara. Ero a Lugo di Romagna, io. Il 20 dicembre del 1920, a Ferrara, trecento fascisti si scontrarono in piazza con i socialisti. Pugni, bastonate, inseguimenti. Io non c’ero. Ero a Lugo, a tenere comizi mazziniani. Pugni, bastonate, inseguimenti. E dal castello partì una scarica. Una scarica di fucileria. Pugni, bastonate, inseguimenti. E cinque morti in terra. Io ero a Lugo, a tenere comizi mazziniani. Non mi sporcai le mani, quella volta, e quasi mi dispiacque. Meno di due mesi dopo fui nominato capo del Fascio di Ferrara. Restituii la tessera di repubblicano, diventai uno dei capi del fascismo. Avevo quasi venticinque anni, ed ero fidanzato di nascosto con Manù. Nella Grande guerra mi ero guadagnato due medaglie d’argento e una di bronzo. Non avevo neppure venticinque anni, e chiesi e ottenni millecinquecento lire al mese, una bella cifra, per fare il capo del Fascio di Ferrara. Capii che non agli industriali ci si doveva legare, ma agli agrari. In Romagna erano loro ad avere i soldi. Avevo quasi venticinque anni, era il 1921, e iniziai a mettere a ferro e fuoco le sedi socialiste. A uccidere. A far uccidere. Ero mazziniano, diventai fascista. Pugni bastonate inseguimenti spari. Soldi dagli agrari. Ero fidanzato di nascosto con Manù. La sposai nel 1924. Ero appassionato di aeronautica.
Ci stacchiamo dalla pista di Derna. Il tempo è splendido. I greci di Batto i alla fine avevano scelto proprio un posto meraviglioso per fondare la loro città a pochi chilometri da qui, verso il mare. Quando gli archeologi avranno finito il loro lavoro Cirene diventerà la nuova acropoli.
S’a casc a casc in tèra, ’zident a chi’m to so. Se cado cado in terra, accidenti a chi mi tira su.
Il telegramma
giugno 1915, Italia
A metà pomeriggio di una domenica di giugno, una giornata particolarmente calda, un uomo e tre donne siedono sotto un pergolato nel giardino di una villa da cui si può godere uno scorcio inusuale sul centro della città.
Sulla strada che porta alla villa, qualche centinaio di metri più in basso, un fattorino arranca in salita, in sella a una bicicletta con qualche problema alla catena. Il fattorino deve consegnare un telegramma.
L’uomo, l’unico uomo sotto il pergolato, è già da un po’ che insiste sulla disciplina. Sostiene che il mantenimento della disciplina sarà fondamentale. Nel dirlo tiene gli occhi fissi sul cane di casa, Buck, addormentato di fianco alla cuccia addossata alla parete esterna della cucina dove una cuoca, che la domenica svolge anche la funzione di domestica, stende la pasta per le tagliatelle sul tavolo di marmo.
Il fattorino esce da una curva, intravede in cima alla salita il cancello della villa.
L’uomo sotto il pergolato dice che è giunto il momento di dimostrare al mondo il nostro valore, e che è necessario reprimere sul nascere ogni ipotesi di disfattismo o peggio ancora di diserzione.
Buck, il cane che dorme, è un labrador di sei anni che sbava molto, soprattutto d’estate. Negli ultimi mesi ha iniziato a perdere il pelo a ciuffi e gli è stato proibito di entrare in casa. In vita sua non ha mai morso nessuno, sarebbe un perfetto compagno di giochi per un bambino. Ma nella villa non ci sono bambini.
La moglie dell’uomo sotto il pergolato sospira e si fa vento con la manina grassoccia sollevando un tintinnio di braccialetti d’oro. Ama poche cose nella vita: andare all’opera (ma l’opera in se stessa poi la induce al sonno), mangiare pasticcini all’ora del tè nei freddi pomeriggi d’inverno, giocare a ramino con amiche dalle mani ingioiellate quanto le sue. E poi ama suo figlio. Ama il suo unico figlio, che è alla guerra.
Alle pareti della grande cucina stanno appese decine di pentole in rame. D’inverno, quando il camino è acceso, le pentole riflettono e allo stesso tempo assorbono il guizzo della fiamma. Ora, d’estate, contribuiscono a mantenere fresca la cucina. Milena, la cuoca che la domenica svolge anche la funzione di domestica, smette di guardarle, appoggia il mattarello sul tavolo e afferra il coltello a punta quadra col manico in legno scuro. Si ferma un istante per concentrarsi: le tagliatelle devono venire dritte. Il signor barone la prende in giro, quando le tagliatelle non vengono dritte. Le mangia, certo, ma la prende in giro. E dopo, in cucina, la signora baronessa le fa la ramanzina: «Dove ce l’hai la testa, Milena? Tanti anni e non sai come si fanno le tagliatelle».
Il fattorino calcola che mancano più o meno cinquanta pedalate al cancello. È l’ultima consegna della giornata. Il direttore dell’ufficio postale gli ha fatto quella faccia, mentre gli passava il telegramma. Lui la conosce, quella faccia. Speriamo che la catena regga, pensa mentre comincia ad avvertire il bruciore della fatica nelle cosce.
L’uomo sotto il pergolato, il barone, è un barone in disgrazia. A suo tempo aveva ereditato vigne e oliveti, terreni incolti e qualche palazzo all’interno della cerchia dei viali di circonvallazione, ma negli ultimi dieci anni ha perso quasi tutto. Speculazioni sbagliate, superficialità amministrativa. Il vizio del gioco. Gli è rimasta la villa o poco di più. È piccolo, magro, con la punta del naso che gli sporge dal volto come un’escrescenza. Dice che sarebbero sufficienti un paio di scrolloni e l’Austria ci restituirebbe con tante scuse quello che è nostro. Intende Trieste e i territori circostanti. «L’importante è che l’esercito si muova come un sol uomo» dice. E quel sol uomo, nella sua testa, è suo figlio. Anche se suo figlio non è sul Carso a combattere gli austriaci. Anche se suo figlio la guerra la combatte da più di quattro anni. Una piccola guerra coloniale, di grande fatica e scarsa gloria.
Sotto il pergolato, a marcare il confine tra il barone e la baronessa da un lato e le altre due donne dall’altro, su un tavolino di ferro battuto stanno accostate due caraffe di limonata ghiacciata, e una è già vuota. Accanto ci sono due vassoi di panini tagliati a metà e spalmati di confettura di albicocche e di prugne. La più anziana delle due donne di fronte al barone e alla baronessa è grande e grossa, vestita di nero si direbbe per far dispetto alla calura, il volto quadrato simile a una pietra da costruzione appena sbozzata. Non mangia, non beve, non sorride, non sospira. Ha un tumore che le sta devastando rapidamente l’intestino ma ancora non lo sa. Di tutti e quattro è l’unica a non sudare, nonostante un’acconciatura massiccia e scura che le pesa sghemba sul capo. Guarda dritto davanti a sé e quello che vede è un cielo azzurro chiaro, quasi bianco, sopra colline verdi e, più in basso, i tetti di una città che solo con qualche sforzo riconosce come la sua. Le capita ogni volta, nelle rare occasioni in cui viene invitata in quel giardino, di non riconoscere la città. La città dove è nata e dove è vissuta sempre. I nobili, dice quel suo sguardo opaco, i nobili e quel loro diritto di vedere le cose in un modo diverso da quello in cui le vedono gli altri. Un modo diverso e migliore, quello dei nobili. Un modo che la irrita. Non sorride e non sospira, la più anziana delle due donne ospiti. Si chiama Doris e non si è ancora abituata alla sua condizione di vedova.
Il fattorino calcola che al cancello mancheranno trenta pedalate. Purché la catena regga. Le cosce non ce la fanno quasi più. Ma poi la discesa, una sciacquata alla faccia e via all’osteria per un bicchiere con gli amici. L’espressione del direttore dell’ufficio postale quando gli ha passato il telegramma. Pedala e pedala, pensa il fattorino. Pedala e non pensare.
Milena ripone il coltello a punta quadra nel cassetto sotto il tavolo di marmo e si impolvera le mani di farina. «Dritte» dice ad alta voce, e sbattendo i palmi l’uno contro l’altro cosparge le tagliatelle di un sottile velo bianco. Sorride. Dritte come sempre, pensa. Solo quella volta le sono venute storte. Non riusciva a smettere di piangere e di tremare, quella volta. Non riusciva, il giorno in cui la levatrice le aveva confermato che era incinta. Non sapeva neanche come faceva di cognome il muratore che aveva detto di chiamarsi Gino, ma anche se l’avesse saputo non avrebbe trovato il coraggio di andare a cercarlo. E il giorno in cui la levatrice le aveva confermato che era incinta e le tagliatelle le erano venute storte, aveva anche pensato di raccontare tutto alla signora baronessa, ma poi il signor barone l’aveva presa in giro e la signora baronessa l’aveva rimproverata in cucina, e allora si era resa conto d’improvviso che sarebbe stato uno sbaglio terribile raccontarglielo. E raccontare cosa? Che lui, il muratore che aveva detto di chiamarsi Gino, non si era più fatto vivo? Quella sera prima l’aveva avvicinata, poi invitata a cena in una trattoria all’aperto e infine quasi costretta a fare l’amore sull’argine del fiume dove lei aveva accettato di seguirlo a passeggiare, un po’ immaginandosi e un po’ no come sarebbe andata a finire. No, sarebbe stato uno sbaglio terribile raccontarglielo. L’avrebbero cacciata di casa. Così non aveva detto niente. Si era sentita scoppiare, ma non aveva detto niente. E la vecchia, quella che la levatrice le aveva indicato, con certi ferri aveva risolto il problema. Al prezzo di un po’ di sangue, un po’ di mal di pancia, qualche lira. Roba di cinque anni fa. Sorride di nuovo, Milena. Non c’è felicità più dolce di quella che segue un pericolo scampato.
Il barone, tra un bicchiere di limonata e un mezzo panino, continua a dire che i disfattisti dovrebbero essere mandati in trincea, i disertori al muro. Nessuna pietà, per i disertori. Sua moglie sospira, si fa vento con la manina tintinnante. Non ne può più di quelle tirate patriottiche. È da quando la guerra è stata dichiarata, da quasi un mese ormai, che il barone ce l’ha con i disfattisti e con i disertori. E lei è convinta di conoscerle le ragioni di questa fissazione. Prima di tutto è per il figlio, per quello che lui sta facendo per la Patria. Civilizzare gli indigeni, la quarta sponda. Ma un po’ deve essere per quel mezzo anarchico che ha portato via al barone gli ultimi due appartamenti, ai dadi. Gliel’ha raccontato, il barone, una mattina. «Ho perso gli ultimi due appartamenti» le ha detto. Aveva bisogno di farsi la barba e la punta del naso gli si era arrossata. Per il resto era in perfetto ordine: camicia inamidata, cravattino. «Me li ha portati via una specie di anarchico» le ha detto. «Uno che mentre tirava i dadi ce l’aveva col governo e col Re e con gli interventisti. Uno che faceva l’apologia della diserzione.» Poi era andato a letto, il barone, si era spogliato ed era andato a letto. E lei, la baronessa, si era alzata. Con due appartamenti in meno di quando era andata a dormire. E con la voglia di non sentirne più parlare, di quegli appartamenti. E di quei dadi. E di quella specie di anarchico. E dei disfattisti e dei disertori.
L’altra donna sotto il pergolato, seduta di fianco a Doris e di fronte al barone e alla baronessa, è una ragazza. Ha meno di vent’anni e il viso magro. Gli occhi neri, allungati e languidi, di tanto in tanto le si accendono di bagliori improvvisi. È vestita di bianco, si chiama Lucia. Trova che il barone sia nel giusto, con quei suoi attacchi contro i disfattisti. Contro i disfattisti e contro i disertori. Trova che il barone abbia tutte le ragioni per parlare così. “Se ci fossero meno disfattisti e meno disertori” pensa, “lui magari sarebbe già tornato a casa”.
Ancora una decina di pedalate, calcola il fattorino, e poi via, la discesa. Gli amici, l’osteria, l’attesa della cena.
Per la prima volta in quel pomeriggio Doris bagna le labbra nella limonata ghiacciata. La baronessa, la pelle liscia e bianca, deve avere più o meno la sua età. Ma come si comporterebbe la baronessa se capitasse anche a lei la disgrazia? La morte del marito. Sarebbe capace, la baronessa, di andarsene in giro vestita di nero, estate e inverno, caldo o freddo? Poggia il bicchiere sul tavolino e stringe le labbra, Doris, più per reprimere un sorrisetto di superiorità che per asciugarsele.
Le tre donne siedono su poltrone di vimini con cuscini a fiori, il barone su una sedia di castagno. La sedia di castagno ha sessant’anni. L’ha costruita il nonno del barone con le sue mani e lui ci è molto affezionato. Fin da ragazzino ha preso l’abitudine di portarsela dietro in tutte le stanze della villa, e anche in giardino. Quando deve star seduto a lungo siede soltanto sulla sua sedia di castagno.
Milena si affaccia sulla porta della cucina che dà sul giardino per controllare che i signori non abbiano bisogno di nulla. Nota che una delle due caraffe di limonata è finita. Dovrebbe andare là, riportarla in cucina e riempirla di nuovo. La bambina, le viene in mente, la bambina adesso avrebbe quasi cinque anni. Chissà perché ha sempre pensato che sarebbe stata una bambina. Vivrebbe a casa di sua sorella, contadina in un borgo che ci vuole mezza giornata per arrivarci: omnibus, treno, calesse e gli ultimi due chilometri a piedi. Lei andrebbe a trovarla una domenica al mese. Le porterebbe un giocattolo, un dolce, un vestitino. Starebbero lì a parlare, a raccontarsi, sedute sui gradini di casa, la sorella che dà il becchime ai polli, il cognato all’osteria. Le racconterebbe della città, della villa. Del signor barone, della signora baronessa. Gliel’avrebbero detto, alla bambina, che lei era la sua vera mamma? O le avrebbero magari detto che era una zia? No, la bambina avrebbe dovuto sapere la verità. Proprio per questo forse le sarebbe sfuggita. Avrebbe accettato i regali, ogni volta, e poi sarebbe scappata via per l’aia, si sarebbe infilata nel castagneto. Lei ci sarebbe rimasta male e poi avrebbe pianto al momento di andarsene, dopo mangiato. Sorride, Milena. In fondo è felice di non averla avuta, quella figlia. Rientra in cucina.
Lucia guarda la caraffa vuota, guarda Milena che si infila in cucina e poi guarda Buck. Le viene voglia di accarezzare Buck. Non sono molte le cose che le suscitano tenerezza, e i cani addormentati sono una di quelle. Non l’ha mai chiesto un cane, Lucia. Doris ha sempre odiato gli animali ma suo padre certo l’avrebbe accontentata. Suo padre è un’altra delle cose che a Lucia fanno tenerezza. Suo padre e i cani addormentati. Solo che di cani non ne ha mai avuti e suo padre è morto sette anni fa. Era diventato magrissimo, la pelle gialla e gli occhi come due fanali blu. Non si era mai lamentato, suo padre, ma nell’ultima settimana aveva smesso di sorridere. Quando provava a stringerle la mano riusciva solo a trasmetterle una sensazione di gelo e poi non c’era modo di liberarsene. Vorrebbe accarezzare Buck che dorme all’ombra della cuccia, Lucia. Fosse morta Doris invece di suo padre, oggi avrebbe un cane da carezzare. Poi Doris l’inglese non lo conosce e i clienti della pensione sono perlopiù inglesi. E ha lasciato ingrigire la carta da parati, Doris, ha smesso di sostituire i velluti dei divanetti man mano che si consumavano. Da quando suo padre è morto la pensione ha iniziato ad andar male, sta rotolando verso il fallimento. Le presenze si sono via via diradate come i capelli di Doris, che ora porta quella sghemba parrucca color pece. Ed è soltanto grazie alla propria sfacciataggine e alla capacità di arrangiarsi con poco che Lucia è riuscita a impedire che la notizia dell’imminente dissesto trapelasse oltre la cerchia dei fornitori. Il barone e la baronessa non lo devono venire a sapere. In nessun modo.
Ci siamo, dice tra sé il fattorino. Poggia a terra un piede, poi l’altro. La bicicletta contro il pilastro. Il fiatone, il sudore, le cosce che bruciano. Estrae dalla borsa a tracolla il telegramma, controlla il numero civico. «Ci siamo» dice. Il campanello.
Buck abbaia, il barone scatta in piedi, Buck apre gli occhi e abbaia per la seconda volta, il barone trattiene la sedia di castagno che sta per finire a terra, Buck si alza sulle zampe e abbaia per la terza volta, un ronzio in lontananza, alla baronessa sfugge di mano un mezzo panino con la confettura di prugne, Buck si precipita verso il cancello, Milena esce svelta dalla cucina, Doris drizza la schiena sulla poltrona di vimini, Milena si struscia le mani sul grembiule legato in vita, Buck abbaia per la quarta volta, Milena grida a Buck di stare zitto e mettersi a cuccia, Buck smette di abbaiare e si accuccia sulle zampe posteriori rizzando il muso verso il ronzio di un aereo in lontananza, Milena raggiunge il cancello, il barone si tocca la punta del naso che gli si va arrossando, il fattorino – giovani baffi e uniforme bagnata di sudore – porge attraverso le inferriate il telegramma a Milena che lo afferra, la baronessa prende con due dita il panino che le era caduto sulla gonna macchiandola, Milena passa al fattorino alcune monete di mancia tratte da una tasca del grembiule, il fattorino ringrazia, inforca la bicicletta e sparisce dietro il muro di cinta. Lo sferragliante rumore della catena non copre del tutto il ronzio di quell’aereo che si avvicina.
Milena raggiunge il pergolato tenendo il telegramma per un angolo e rallenta, incerta se passare davanti o dietro al tavolino. L’incertezza è se porgere il telegramma al signor barone o alla signora baronessa, che pretende di essere sempre lei ad aprire la posta, incertezza subito fugata più che dalla strana fissità della signora baronessa, con quel mezzo panino in mano e quella macchia scura sulla gonna di lino, dal cenno imperioso del signor barone che, rigido in piedi dietro la sua sedia di castagno, se lo fa consegnare.
Il ronzio dell’aereo sta diventando un rombo.
Buck si intrufola tra le gambe del barone.
Milena si allontana in direzione della cucina.
Il barone apre il telegramma.
Mentre lo spiega con un colpetto della mano destra, con la sinistra fa una lunga carezza a Buck, sulla testa e dietro le orecchie, una carezza che suscita un moto di affetto e di invidia in Lucia.
Poi sbianca, il barone. Lascia cadere il telegramma, si aggrappa alla sedia di castagno cercando di non crollare a terra ma non vi riesce. La baronessa emette un grido da uccello notturno, poi un altro, un altro ancora, grida ritmiche e acute, e si percuote il petto con la mano tintinnante di braccialetti d’oro. A Doris spuntano due lacrime improvvise, a tradimento. Non le era successo neanche in occasione della morte del marito.
Lucia rimane immobile. L’aereo ormai è vicino, vola basso. “Mai più trascorrerò domeniche pomeriggio come questa” pensa Lucia, “a bere limonata ghiacciata insieme alla mia matrigna nel giardino della villa dei genitori del mio fidanzato, rassicurata – chissà poi perché – dalle tirate patriottiche del mio futuro suocero. Mai più vedrò Buck e mai più l’accarezzerò, mai più vedrò Milena e mai più mangerò i suoi panini con la confettura di prugne e di albicocche. E poi mai più”, e si ferma perché non riesce a pensare. “Mai più”, si sforza di continuare. “Mai più”, riesce a dirsi serrando i pugni, “mai più lo terrò stretto tra le mie braccia, mai più gli accarezzerò i capelli sfumati sul collo, mai più lo aiuterò a scrivere la sua storia del volo che ci teneva tanto e tanto e tanto, mai più respirerò il suo profumo di uomo sotto l’orecchio prima e dopo quei rari baci rubati agli sguardi sempre troppo attenti di tutti gli altri intorno”. Si tira su dalla poltrona di vimini, raccoglie da terra il telegramma e lo legge d’un fiato. Poi alza gli occhi al cielo, ed è l’unica a vedere sfilar via la pancia di quell’aereo color sabbia, e poi la coda, il timone di coda, piccola croce che si allontana e diventa lentamente un punto, un punto scuro che va a perdersi nell’azzurro quasi bianco di un pomeriggio di giugno, una domenica particolarmente calda del 1915.
Un po’ di informazioni su l’autore di questo libro.
Valerio Aiolli è nato a Firenze nel 1961 dove vive. Per le Edizioni e/o ha pubblicato i romanzi “Io e mio fratello” (1999, Premio Fiesole), “Luce profuga” (2001), “A rotta di collo” (2002, Premio Giusti). Per Rizzoli “Fuori tempo” (2004). Alcune sue opere sono state tradotte in Germania, Ungheria, Olanda.
Gioca col n. 8 nell’Osvaldo Soriano F.C., la squadra di calcio degli scrittori italiani.
Ringrazio la Alet per la disponibilità a concedere “l’estratto”.
Per la verità era molto più abbondante, ma avuto qualche problema a convertire il file pdf in word.
@ Daniela Giustacchini di Alet.
Daniela, si potrebbe avere lo stesso testo che mi hai inviato in pdf in formato word?
–
In ogni c’è la possibilità di leggere un altro “estratto” direttamente dal sito della Alet.
Qui:
http://www.aletedizioni.it/catalogo/incipit/978-88-7520-035-0.pdf
Chiedo al buon Gianfranco Franchi di darmi una mano ad animare questo post.
Il dibattito partirà domattina (spero), anche se potrò seguirlo solo nel pomeriggio.
No. Il primo commento oggi lo conquisto io. Lapidario, nei confronti di Gianfranco:
toccante. Vero. Triste. Tuo. Nostro. Nostro sentimento. Ma. Ma l’Italia sta solo nel battito dei nostri cuori. Se il nostro cuore si sollevera’, si rialzera’ anche Lei, la Minerva Turrita, altrimenti… la fine. Dipende da tutti noi: popolo e non miscuglio di genti. Popolo unico, artistico, colto e straordinario. Che, se, come dice Eventounico, ci ricordassimo chi eravamo (i nostri Padri), guai a chi ci tocchera’! Basta cominciare a rilegger…ci. Ovvero a tornare ai ”vecchi” che tanto hanno dato e danno alla Patria sin dal Duecento. Dante, San Francesco, Tommaseo… e migliaia ancora: tutti qui, ad attenderci. Per toglierci dalle depressive mani della nostra sciocca superficialita’ moderna.
Sursum corda
Sergio
Ciao, scusate se disturbo, ma volevo segnalarvi che sul nostro sito: http://www.ilrifugiodeimoai.it stiamo raccogliendo racconti di Natale, se a qualcuno fa piacere partecipare ne saremmo lieti, l’autore del racconto che riceverà più voti avrà in regalo “il canto di Natale” di Charles Dickens, tutti i racconti saranno poi raccolti in un ebook che verrà messo online gratuitamente sul sito, vi lascio il link diretto per il forum in cui si trovano i link a tutti i racconti: http://www.ilrifugiodeimoai.it/modules.php?name=Forums&file=viewtopic&p=842#842
Non sono molto esperta di romanzi dedicati alla guerra. Certo, mi vengono in mente i notissimi “Guerra e pace” di Tolstoj e “Addio alle armi” di Heminghway.
Di questo libro mi pare molto interessante la doppia storia.
Mi piacerebbe chiedere all’autore quanto tempo ha impiegato per effettuare le ricerche.
Smile
Anche io non sono certo la migliore delle lettrici per quanto riguarda i romanzi di guerra, ma il tema colpisce sempre e comunque perchè ci riguarda. E’ il nostro passato (neanche troppo passato), divenuto il nostro presente. Sono curiosa di sapere come mai Aiolli abbia scelto di parlare della guerra di Libia, anche se il titolo del suo romanzo lascia apertamente trasparire la suggestione dei primi aeroplani. Se non sbaglio fu proprio in quell’occasione che furono usati per la prima volta a scopi bellici. Scommettiamo che Aiolli è un appassionato di aerei o lo è diventato nel corso delle sue ricerche?
🙂
Sono nata in Libia il24 08 41 e portata in Italia dopo 3 mesi. Una volta in un oroscopo personalizzato mi è stato detto che sono diversa perchè sono nata a Tripoli.Alla tua domanda non so rispondere. Personalmente dimentico in fretta tutte le cose negative come se avessi un cestino della spazzatura di cui neanche sono consapevole. Facendo una ricerca mi è stato detto che potevo tornare in LIbia solo dopo avere compiuto i 65 anni. Mi piace molto il caldo asciutto, ma la Libia, solo perchè sono nata lì, non mi attrae. So che un figlio di Gheddafy ha strutturato una fondazione e questo mi incuriosisce. Non so se dipende dal fatto che sono nata a Tripoli, ma non ho radici. Infatti Dall’Emilia sono andata in Piemonte ed ora in LIguria. Ma non resto legata a nessun luogo e anche ora che ho ritrovato il mare (l’unica cosa che cerco sempre) sarei pronta a spostarmi perchè ultimamente mi vergogno di essere italiana e vorrei portare mio figlio in luoghi migliori. Ciao AnnaB
Non so se leggerò mai questo libro. Probabilmente è validissimo e gli auguro immensa fortuna, ma non sono incline alle ricostruzioni storiche benché sapientemente romanzate.
Quello che mi viene in mente, semmai, è un crudo contrasto tra le tecniche di guerra odierne con quelle del passato.
Oggi il “nemico” quasi non lo si vede nemmeno. La tecnologia sostiene i militari che attraverso codici e computer mandano bombe intelligenti (chissà che cazzo succedeva se erano cretine).
La guerra di Libia, la campagna di Russia, El Al Amein invece, con i nostri soldati equipaggiati di stracci e illusioni. Ad andar laddove non si tornava più indietro.
Fermo restando che la guerra è sempre una merda: con Microsoft o con la baionetta.
Massimo:
“Chiedo al buon Gianfranco Franchi di darmi una mano ad animare questo post. Il dibattito partirà domattina (spero), anche se potrò seguirlo solo nel pomeriggio.”
> Ave ottimo. Da questo momento, presente. Intanto lascia che ti ringrazi una volta ancora a nome dei lettori tutti. Mi domando se siamo realmente consapevoli della fortuna di poterci confrontare tra estranei, serenamente e senza filtri, per discutere di opere letterarie e di questioni storiche, estetiche ed esistenziali… mantenendo alto il livello del dibattito. Mi domando se abbiamo tutti chiaro in mente cosa significa avere a disposizione uno spazio libero come questo. Godiamoci Letteratitudine e rinnoviamo saluti e ringraziamenti al suo ideatore.
Che oggi ha scelto un’opera importante, come quella di Aiolli, e sta per riaprire – così – una questione accantonata da molti anni. Assieme ad Aiolli, torniamo a illuminare una memoria collettiva rimossa.
Ritroviamo un pezzo della nostra storia. Vedremo a quale prezzo… e con quali reazioni.
*
Salut
gf
Sergio:
“toccante. Vero. Triste. Tuo. Nostro. Nostro sentimento. Ma. Ma l’Italia sta solo nel battito dei nostri cuori. Se il nostro cuore si sollevera’, si rialzera’ anche Lei, la Minerva Turrita, altrimenti… la fine. Dipende da tutti noi: popolo e non miscuglio di genti. Popolo unico, artistico, colto e straordinario.”
> Ottimo Sergio, non posso che unirmi ai tuoi auspici. Per questo credo sia necessario un salto di qualità da parte di tutti. Insisto sulla questione della memoria condivisa. Quante diverse storie d’Italia esistono, a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale? Il Novecento italiano è formato da diverse letture della storia e della verità. Ogni lettura della storia ha scelto un sentiero e degli eventi ben precisi, rinunciando ad altri, nascondendoli o abiurandoli. In nome quando dell’ideologia, quando del sangue dei cari perduti, quando della speranza: quando dell’interesse, quando dell’opportunità.
Allora io dico che la parte prima di questo ritorno a essere popolo è storica e culturale, prima che politica. E’ restituire a 60 milioni di persone memoria di essere stati “noi”, noi italiani, in diversi frangenti e non solo in quelli che è buono e giusto ricordare. Mi domando quanti nostri concittadini, letterati o meno, abbiano letto romanzi ambientati nelle nostre colonie. Mi domando quanti, oltre a Flaiano, Tobino e Aiolli, ne abbiano scritto. Mi domando perché non se ne possa e non se ne voglia più parlare. Eppure esisteva una letteratura del colonialismo…
coi miei occhi, settimane fa, vedevo una raccolta di racconti dell’epoca. Nell’introduzione leggevo notizie a proposito della sfiducia dei cittadini nei confronti di queste imprese, e riflessioni sul sacrificio dei soldati…
tutto sparito? tutto dimenticato?
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E che dire dell’assimilazione della Libia a Trieste, percepite entrambe come terre italiane, in quel preciso momento? Cosa sappiamo della Libia e della storia della Libia, davvero? Perché “doveva” essere (tornare?) italiana?
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Abbiamo tante domande da sottoporre alle nostre coscienze. Una di queste è la ragione per cui opere letterarie sull’emigrazione e sul colonialismo italiano siano così poche. Ma così amate…
Ave!
E Aiolli ci ricorda come rispondevano i cittadini.
Scrivo, nell’articolo: Si percepisce, qua e là, memoria dell’orgoglio di essere italiani, della dignità riservata ai morti caduti per una patria che ora si componeva anche di Trieste e della Libia; la fidanzata vedova “pensava che chi era morto per quel nome, Italia, era morto per qualcosa di unico e di grande e si sentiva meno sola” (p. 43). Era innocenza, ma era anche fede.
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Chi era morto per quel nome, Italia, era morto per qualcosa di unico. Per restituire Trieste e la Libia alla patria. Riusciamo a capirlo? Riusciamo a immaginarlo? Riusciamo ancora a condividere?
Ricordiamo chi era morto per quel nome, come Scipio Slataper e come Carlo Stuparich, al fronte, nella Prima Guerra?
Dov’è finito questo qualcosa di unico? Chi ha cancellato la nostra identità, e il nostro orgoglio? A chi l’abbiamo consegnata, la nostra storia?
A quale prezzo?
Si e` trattato di un fenomeno molto ricorrente credo nelle civilta` moderne che vogliono darsi una parvenza di superiorita` : la rimozione.
Errori che sono attribuiti ad altri, basti pensare alle critiche italiane alla guerra francese in Algeria o agli americani in Vietnam, per poi scoprire che anche noi abbiamo i nostri bravi scheletri nell`armadio.
Eventuali storie di guerre per un paese abituato a distribuire nutella e a perdere battaglie, possono alterare il nostro delicato spirito latino.
Non siamo un popolo guerriero e la nostra aggressivita` preferiamo esprimerla in modo individuale.
Condivido personalmente il ritorno alla narrativa di guerra. E ` una esperienza della vita, una purtroppo delle piu` ricorrenti nella storia umana.
Cancellarla in nome del pensiero unico politicamente corretto e` una delle tare peggiori della cultura contemporanea.
qui a trieste c’è una via che porta il mio stesso cognome. è intitolata ad un ragazzo, un cugino, che, mentendo sull’età, andò volontario in guerra a 17 anni per l’italia.
morì che non ne aveva compiuti 18, nella più grande carneficina di tutti i tempi. un’eroe o solo un bambino esaltato mandato allo sbaraglio?
e la libia? tripoli bel suol d’amore, l’italia finalmente potenza coloniale alla pari coi grandi, terra da coltivare, abbiamo fatto tanto bene, strade, palazzi..
e abbiamo sterminato migliaia di persone coi gas. credo sia stata la prima volta che siano stati usati come arma. un altro primato del genio italiano?
a me i libri di guerra non piacciono. quelli sulla guerra anche sì, soprattutto se, a colpi di nudi dati, mi fanno capire quanto tutto ciò sia atroce, sbagliato e, volendo essere cinici, anche totalmente inutile.
goebbels diceva che quando sentiva parlare di cultura gli veniva da imbracciare il fucile, e dal suo personale punto di vista aveva ragione.
io i fucili non li imbraccio, ma quando sento troppe maiuscole mi insospettisco un sacco.
e vado a controllare il sonno dei miei figli.
Atroce, sbagliata, inutile: questa è la guerra.
Bene. Ti domando – condividiamo i natali – se avresti trovato “atroce, sbagliato, inutile” che altri italiani combattessero per riscattare Trieste da Tito, se le cose fossero state diverse dopo il 1953. Cosa avresti fatto, Gea?
Saresti fuggita al di là della Giulia o saresti rimasta nella tua casa a difendere la tua terra dall’invasore? Il regime era a un passo. E che regime. Da Monfalcone i compagni accorrevano ad abbracciare il socialismo, Tito li internava nell’isola che sai.
*
Come avresti accolto soldati italiani, estranei a Trieste e alla triestinità – persone che non sanno che siamo composti del sì, del da, del ja, che l’Italia è una scelta elettiva e culturale: spirituale – che venivano a dare il sangue per restituirti all’Italia? Dicendo loro “no alle maiuscole”?
*
Quel ragazzo che nomini cade volontario in quale guerra? Perché nella Prima la gente moriva perché tu scrivessi in questa lingua. Evitando le maiuscole. Tu, ed io, che vengo da Trieste e da famiglia triestina, austriaca, istriana e croata – con tanto sangue diverso – e vivo, simbolicamente ma non troppo, a Roma.
*
Ave.
Ciao a tutti. Intanto grazie per ospitarmi sul vostro blog. Spazi come questo sono davvero rari, come diceva Gianfranco, ed è un piacere vedere quante persone si appassionino a qualcosa che parte dai libri e che poi si dirama sui più vari aspetti della nostra cultura. Qualche risposta alle vostre sollecitazioni. I motivi per cui mi è venuto in mente di scrivere una storia ambientata il Libia sono sostanzialmente tre. Uno privato: i racconti di mio nonno che era stato mandato a combattere là, nel 1911. Uno letterario: spulciando un epistolario di due fratelli piemontesi (i Garrone) poi morti nella prima guerra mondiale, mi ero imbattuto nella storia dell’assedio di Tarhuna (1915) in cui era rimasto coinvolto uno di loro, fra i pochi sopravvissuti. Mi era parso uno spunto straordinario per scriverci un racconto o un romanzo: una guarnigione italiana assediata per un mese e mezzo in pieno deserto, fra erosimi, stupidità, meschinerie. Il terzo motivo ha a che fare con la Storia, o meglio con la percezione che abbiamo degli eventi da cui noi tutti volenti o nolenti discendiamo. Mi pareva (più di dieci anni fa, quando ho cominciato a pensare al libro) che in Italia non ci fosse stata una riflessione seria, fuori dai circuiti specialistici, sulla nostra esperienza coloniale. Si oscillava fra rifiuto a priori, considerandola espressione del fascismo (dimenticando che per la Libia l’impresa fu lanciata in pieno regime liberale, e anche una parte dei socialisti si schierarono a favore) e un reducismo nostalgico e superficiale che metteva in evidenza lo stereotipo degli italiani-brava-gente. Io ho cercato, nel mio piccolo, di raccontare una storia che fosse un romanzo, scrivendolo meglio che potevo, con personaggi e situazioni da romanzo, ambientandola in un contesto il più possibile realistico, proprio per dare una scrollatina a quella percezione troppo polarizzata e poco conosciuta di cui parlavo prima. E’ buffo che il cinema italiano abbia prodotto “La battaglia di Algeri” (Gillo Pontecorvo) ma non una “battaglia di Tripoli” o di Addis Abeba. La grande letteratura (americana, francese, inglese) fa continuamente i conti col proprio passato, interpretandolo con gli strumenti letterari della contemporaneità. Qua da noi, Paese con poca memoria, tutto ciò sembra “strano”.
@Gea, per tutti i motivi che tu hai giustamente elencato ( E CHE CON LE MAIUSCOLE SOTTOSCRIVO) e per cui i libri di guerra non ti garbano, io, invece dico, che una letteratura critica sulla guerra non è mai abbastanza ricca. E ben vengano, periodicamente, libri, rivisitazioni e anche le rimozioni. Perché “la verità esiste in quanto tale soltanto se la si tormenta” Durrenmatt da La morte della Pizia.
Prendi i primi capitoli di Viaggio al termine della notte di Celine: sono straordinari e intensi come quasi nient’altro. Poi sul resto delle pagine si può tranquillamente sorvolare. Ma quei capitoli contengono e riassumono il senso della guerra, di tutte le guerre: conti saldati per la rispettabilità degli sviluppi economici, e l’uomo di fronte a questo non è niente, solo un po’ di carne.
Poi sul tema e per pari intensità c’è La condizione umana di André Malraux, il cui culmine narrativo esplode, nella descrizione di una condanna; la cronaca di una esecuzione di massa, dovere di barbarie e umanità (menscevichi contro bolscevichi). Recentemente, invece, ti segnalo alcune pagine di Asce di guerra dei Wu Ming e Vitaliano Ravagli ( due sole pagine, 282 e 283 , capitolo I sentieri dell’odio). E Tempo di uccidere, di Flaiano, che io proporrei a scuola come lettura obbligatoria, accompagnato anche da altri suoi scritti, forse meno noti e considerati leggeri, come “la guerra spiegata ai poveri”. Dal libro di Flaiano fu realizzato anche un bellissimo film, una produzione franco-italiana con un ottimo cast e con la regia di Giuliano Montaldo.
Non so se leggerò per intero Ali di sabbia, di Valerio Aiolli, probabilmente sì, anche se, questo tipo di lettura contorce e disturba per giorni, proprio perché avvia riflessioni primordiali sulla condizione della specie e la sua brutale predisposizione al massacro. Consapevole però che “ scavare nel cuore oscuro di vicende dimenticate o mai raccontate è un oltraggio al presente. Un atto spregiudicato e volontario. Le storie non sono che asce di guerra da disseppellire” dal risvolto di copertina di Asce di guerra.
@ Valerio Aiolli.
Caro Valerio, intanto mi rivolgo a te. Benvenuto a Letteratitudine. Spero che questo dibattito possa svolgersi in maniera interessante. I presupposti, mi pare, ci sono tutti.
Ti ringrazio per averci raccontato l’aneddoto sulle motivazioni che ti hanno spinto alla scrittura di questo libro. È una curiosità che mi appartiene molto, quella di conoscere i “percorsi” che portano uno scrittore a generare storie.
@ Gianfranco:
sei un bravo conduttore: competente e garbato.
Grazie davvero. Continua, ti prego.
😉
E naturalmente grazie ai primi commenti giunti (Sergio, Elektra, Enrico, Silvia, Anna, Outworks, Gea e la sempre competente Miriam).
Mi rendo conto che gli argomenti trattati da questo libro possono essere considerati, per certi versi, “difficili”. Forse anche perché, come ha sottolineato lo stesso Aiolli, non è mai stata fatta “una riflessione seria, fuori dai circuiti specialistici, sulla nostra esperienza coloniale”.
Questa potrebbe essere un’occasione per “recuperare”.
@ Daniela Giustacchini:
Ti ringrazio. Ho ricevuto il file in word (davvero molto abbondante). Proverò a inserirlo più tardi aggiornando il post.
(Off topic)
Scusate se ne approfitto; ma ci tenevo a farvi sapere che su “Il Riformista” di oggi è stato pubblicato un mio articolo dedicato proprio a Letteratitudine.
L’articolo è incentrato sul gioco “Due libri da salvare”.
Gli amici della redazione l’hanno intitolato: “I nostri antenati? I fratelli Karamazov”.
Bello, vero?
Lo trovate a pag. 5
Ringrazio gli amici de “Il Riformista”
http://www.ilriformista.it/
Valerio, buonasera e ben ritrovato.
E grazie, davvero, per questo tuo romanzo. Da lettore.
Scrivi: “E’ buffo che il cinema italiano abbia prodotto “La battaglia di Algeri” (Gillo Pontecorvo) ma non una “battaglia di Tripoli” o di Addis Abeba. La grande letteratura (americana, francese, inglese) fa continuamente i conti col proprio passato, interpretandolo con gli strumenti letterari della contemporaneità. Qua da noi, Paese con poca memoria, tutto ciò sembra “strano”.”
> Riesci a immaginare un regista italiano ideale per un film tratto da “Ali di sabbia”? Mi attendo due nomi in particolare.
Ti domando – assieme – perché pensi proprio a quel (quei) regista (registi).
Altra domanda per Valerio.
Leggevo degli inneschi del romanzo.
Quello letterario mi incuriosisce molto: “spulciando un epistolario di due fratelli piemontesi (i Garrone) poi morti nella prima guerra mondiale, mi ero imbattuto nella storia dell’assedio di Tarhuna (1915) in cui era rimasto coinvolto uno di loro, fra i pochi sopravvissuti. Mi era parso uno spunto straordinario per scriverci un racconto o un romanzo: una guarnigione italiana assediata per un mese e mezzo in pieno deserto, fra eroismi, stupidità, meschinerie.”
> Si direbbe che i Tartari, infine, abbiano assediato la Fortezza Bastiani. E che un racconto dell’assedio esista. Come sei arrivato all’epistolario dei Garrone?
Per tutti, questo passo tratto da “Tempo di uccidere” di Flaiano.
*
“C’è qualcosa di guasto in questo paese”, dissi.
Pensavo al sottotenente, che anche lui “sapeva”.
“È un impero contagioso”, aggiunsi e riuscii a sorridere.
(“Tempo di uccidere”, Longanesi, Milano 1966. Capitolo IV, “Piaghe molto diverse”, p. 136)
*
il cugino ugo è medaglia d’oro (alla memoria, ovviamente) nella prima guerra mondiale, che fu guerra di rivendicazione territoriale in una situazione nella quale non era minimamente messa in pericolo l’identità culturale italiana, la quale fioriva tranquillamente nei seicento anni di appartenenza all’impero.
sulle guerre coloniali poi non ho niente da aggiungere.
altro, e più complesso, è il discorso sulle resistenze ad invasioni.
io non lo so cosa avrei fatto. i tedeschi probabilmente li avrei combattuti, forse persino con le armi.
quello che so è che l’occupazione slava, per molti versi feroce, nacque come reazione alle atrocità commesse anche da italiani in slovenia e croazia, e al trattamento indegno delle minoranze etnolinguistiche durante il fascismo.
e che la violenza genera violenza, e che in qualche modo partecipandovi anche per motivi che si ritengono giusti, ci si rende complici e servi.
@miriam
flaiano è un’altra cosa.
e anche rigoni stern, e levi, e..
Il discorso è complesso. Nessuno nega le atrocità commesse dagli italiani nei confronti delle popolazioni slovene e croate: né l’italianizzazione coatta nell’entroterra. D’altra parte, non chiamo “Croazia” l’Istria Costiera né certe città della Dalmazia. Non riesco a dimenticare chi abitava Zara e Fiume, da sempre, e chi abitava Pola, e non ha più niente. Né case, né terra, né tombe. Non solo hanno cancellato la storia, ma hanno rubato le case e cambiato nomi alle terre. Adesso è tardi, ma non si dimentica l’oltraggio e non si perdona l’ingiustizia. Ne convieni?
Quale altro Stato europeo ha pagato un prezzo così alto?
*
Non dimentico Gonars, ma non credo possa giustificare Pola.
Né quel che ne è derivato. Esodo totale della popolazione. Città fantasma consegnata agli jugoslavi nuovi padroni. Sbaglio o è un unicum nella storia del Novecento?
*
Ciò detto, avresti combattuto i tedeschi e non gli jugoslavi, mi sembra di capire. Mi hai già risposto. Io – vedi – avrei combattuto entrambi, sognando un ritorno all’amministrazione che fu, non avallando una consegna di Trieste al nemico.
Dimenticavo. Parli di “identità culturale italiana” che fioriva tranquillamente nei 600 anni di appartenza agli Asburgo. Hai mai letto Magris quando racconta che Slataper fonda una tradizione altrimenti inesistente? Altro è il discorso sul benessere della città. Quello mi sembra sia stato grande sino a quando non è arrivato il tricolore.
*
(credo si vada fuori tema, se vuoi parlarne ancora ti lascio l’indirizzo email. Concentriamoci sulla Libia e su Aiolli)
(grazie per il confronto)
giusto per chiarire, poi chiudo.
non ho detto che non avrei combattuto. ho detto che non lo so. sono nata (pochi) anni dopo.
probabilmente sì, ma non con le armi, credo.
grazie a te.
Non so se ve ne siete accorti, ma ho aggiornato il post inserendo uno stralcio più che abbondante del libro di Valerio Aiolli.
Ringrazio Alet.
Buona lettura!
@Gea, ho capito benissimo cosa intendi! E aggiungo che contro i nazisti avrei sicuramente “sparato”, senza esitazione alcuna e forse anche contro le brigate di Tito. Non sono una pacifista a priori, penso che sia impossibile, a volte, non imbracciare le armi. Detto questo però, vorrei che di guerra si parlasse nel modo meno retorico possibile; e la letteratura aiuta offrendo una storia alle riflessioni più diverse. Si deve sapere che la guerra è il rimedio ultimo, che non può essere né preventiva, né umanitaria, né giusta, anche quando ci si è obbligati, costretti. Altrimenti è facile e possibile, per tutti i popoli, esserne travolti come in Jugoslavia; oppure diventare complici senzienti come tutti i governi europei nei confronti della Jugoslavia. Del male dell’uomo che uccide ubbidendo agli ordini, dell’uomo che diventa divisa, corpo ordinato e predisposto, bisogna parlarne sempre. (forse avremo meno donne desiderose di sperimentare la propria emancipazione diventando soldati)
Ciao, a rileggerti
A proposito di guerre “di civiltà”, vorrei consigliare un libro di Fabrizio Del Boca, “Italiani brava gente” che con grande acume storiografico analizza quel drammatico, e purtroppo mai messo a nudo dai libri di scuola, periodo storico in cui l’italietta fresca di indipendenza e unità nazionale voleva farsi potenza e, con patetica mania di grandezza, porsi alla pari delle potenze europee di quel tempo. I libri di storia sui quali studiavo alle elementari alle medie ed al liceo parlavano di un’Italia che portava civiltà in Etiopia Somalia Libia, di uomini d’onore, di eroi e fautori dell’Impero, nascondendo la verità: le atrocità commesse in Etiopia, le tremende vendette dell’esercito italiano, in seguito a vergognose sconfitte, su inermi villaggi, l’uso bieco di gas tossici, i campi di concentramento per i prigionieri in Libia… Sì, io concordo con chi dice che l’Italia non ha fatto e non ha mai avuto intenzione di fare i conti col proprio passato, forse perchè esso oltrechè orrendo è anche ridicolo e di poco spessore, molta vergogna in cambio di poca (o nessuna) grandezza insomma.
E, leggendo il libro di Del Boca, si capisce che il fascismo in Italia non è stato un caso, e che è il frutto di una mentalità radicata già nella seconda metà dell’Ottocento, la mentalità dell’Italietta nata da poco e che vuole fare la voce grossa, vuole farsi Francia Impero Britannico, di un’Italia che sogna colonie, popoli asserviti, tricolori piantati in mezzo mondo, e che si sveglia invece mediocre, violenta, spietata e.. fascista.
Ho spesso vergogna quando a Roma leggo i nomi di certe vie, viale Somalia vialle Etiopia, via Amba Aradam etc etc.. Come se a Berlino ci fosse una via Auschwitz. E credo nell’urgenza di una riforma della toponomastica: mai più nomi di strade che ricordano guerre, sorprusi, atrocità.
@Giovanni,
bella proposta: mai più nomi di strade che ricordano guerre, sorprusi, atrocità ! Bella idea, veramente.
Uno slogan per piccoli adesivi da appiccicare agli incroci, sui pali dei semafori, sulle panchine….
La Storia e’ la Storia: Italiani, Inglesi, Spagnoli, Portoghesi, Tedeschi, Francesi… tutti noi europei abbiamo alle spalle un passato di dittature, monarchie e colonizzazioni. Ingiuste e da mai piu’ ripetere, ovviamente.
L’identita’ culturale italiana secondo me dovrebbe dunque fondarsi sui tanti, troppi secoli precedenti, nei quali invece eravamo i colonizzati. L’Ottocento e la prima meta’ del Novecento sono vergognosi pero’ per TUTTI gli europei, e per molti lo dovrebbero essere ben piu’ che per noi italiani. In fondo una netta condanna del colonialismo e’ rappresentata gia’ dalla Costituzione, che ci vieta di condurre guerre d’aggressione. Basta rispettarla ed intervenire solo in difesa di altri Popoli aggrediti, eventualmente, e con il contagocce. Ed e’ quel che facciamo – con la malaugurata eccezione dell’Iraq.
Il nucleo del problema italiano, oggi, mi pare fondato su una debolezza d’ordine culturale: le divisioni interne laceranti esistono per una graduale collettiva dimenticanza dei capolavori artistico-letterari che esprimono ed indicano la nostra natura reale e profonda. La Divina Commedia in primis. Petrarca in primis, anche. Li’ stanno le nostre caratteristiche condivise, ma molti non lo sanno, perche’ non sanno che ogni popolo antico si fonda sulle opere dei grandi poeti. E su poco d’altro, in fondo.
P.S.
Su Trieste italiana non si discute. Altrimenti dovremmo parlare anche di Istria, Carnaro e Dalmazia. Meglio lasciare le cose come stanno. Colorose ma migliori rispetto agli anni fino al 1954.
Volevo dire dolorose.
Sergio, dolorose e sicuramente diverse. Senza dubbio peggiori.
Città intere svuotate dopo tanti secoli, e popolate da altri popoli. Il contado che viene ad affacciarsi sul mare, spacciando cittadine storicamente italiane (vogliamo dire venete? diciamo venete…) per casa loro. Una città come Zara rasa al suolo dagli inglesi per accontentare Tito, e fare fuori l’ultima forte presenza italiana in Dalmazia. Storicamente a maggioranza assoluta.
Tutto questo in nome di cosa? Di una nazione nata morta, la Yugoslavia. Falsa, inesistente, composta da tante etnie. Socialista e omicida. Punto.
Adesso non c’è più. Come era prevedibile… ci sono tante altre nazioni. Hanno distrutto la storia. Ne inventano una nuova.
Ogni volta che leggo Bettiza parlare della Dalmazia mi si stringe il cuore. Perché è come l’ultimo parlante veglioto, quell’Antonio Udina caro ai filologi. Parla di qualcosa che non interessa più a nessuno. Che nessuno vuole più sentirsi dire. Nessuno piange quei morti, nessuno ricorda quella storia. Senti gli italiani parlare di vacanze in “Croazia” quando vanno magari a Umago, in Istria, o nelle isole dalmate che sin dall’etimo si rivelano Romane. Ma dico io… “Zadar” non è Zara. “Rijeka” non è Fiume. Rijeka è quegli stucchevoli e orrendi palazzi comunisti che guardano lo splendore della città perduta dall’alto. Rijeka è la negazione di secoli di storia. E’ una menzogna che cambierà ancora bandiera. Perché ormai è tardi. E’ veramente tardi.
*
Ma se è tardi per tornare in case che abbiamo consegnato a chi era armato di falce e martello, e con quell’arma ha ucciso la storia, non è tardi per studiare la nostra storia.
E per mettere ordine nella storia del Novecento. E per contestualizzare ogni evento. E per smettere di vergognarsi di un passato che è – piaccia o no – di tutti, e che non va rimosso, ma studiato e interiorizzato.
Senza pestilenziali ideologie a sostegno. Le ideologie annientano l’intelligenza, servono solo alla propaganda.
*
(parliamo del libro.)
Ecco perché può faticare un libro come questo.
Aiolli scrive: “Si oscillava fra rifiuto a priori, considerandola espressione del fascismo (dimenticando che per la Libia l’impresa fu lanciata in pieno regime liberale, e anche una parte dei socialisti si schierarono a favore) e un reducismo nostalgico e superficiale che metteva in evidenza lo stereotipo degli italiani-brava-gente. Io ho cercato, nel mio piccolo, di raccontare una storia che fosse un romanzo, scrivendolo meglio che potevo, con personaggi e situazioni da romanzo, ambientandola in un contesto il più possibile realistico, proprio per dare una scrollatina a quella percezione troppo polarizzata e poco conosciuta di cui parlavo prima”
> Quanti sanno – quanti ricordano… – che l’impresa libica fu lanciata in pieno regime liberale, col sostegno di parte dei socialisti? Vogliamo domandarci che senso aveva in quel momento? Vogliamo domandarci cosa significa questa cosa? Vogliamo provare a contestualizzare?
Riusciamo a guardare quel momento storico con lo sguardo di chi viveva quel momento storico?
Vogliamo darla questa “scrollatina alla percezione troppo polarizzata e poco conosciuta” di cui certi interventi stanno dando involontaria testimonianza?
Coraggio. E’ solo questione di coraggio. Coraggio.
Volevo dire che il dolore nostro attuale per la perdita di territori a maggioranza italiana – quelli che hai citato, Franco, concordo – io questo dolore lo considero inferiore a quello che avemmo in quei territori e in tutta la Patria dal ’46 al ’54. Dolore che io da uomo-italiano condivido con dalmati, istriani e carnerini italiani e che come solo-uomo condivido con sloveni occupati dagli italiani (la Provincia di Lubiana: 1941-’43) e altre vittime del nazifascismo. Il mio dolore e’ doppio, perche’ due sono i Popoli che si sono occupati a vicenda (i famigerati trenta giorni di Trieste iugoslava e i tre anni appena citati della Slovenia italo-tedesca, ma soprattutto italiana, che Lubiana era sottoposta al comando delle nostre truppe).
Dobbiamo iniziare a vedere il dolore di tutte le parti in gioco. E lasciare le cose come stanno. Il tempo guarira’ le nostre ferite, se eviteremo di praticarcene a vicenda altre.
Ma ora hai ragione, Franco. Parliamo del libro e della Libia.
Io da italiano mi vergogno dell’occupazione libica, del Dodecaneso, dell’Africa Orientale Italiana. Sono orgoglioso invece della mia Nazionalita’ perche’ l’Italia e’ il Medioevo e l’antichita’ greco-romana, e anche quella italica. Il presente non esiste. Il futuro esistera’ se capiremo di non esistere oggi.
Appunto nominavo Gonars. Ma vedi, amico mio, qui s’è risposto alle violenze con la cancellazione della storia. Con lo sradicamento di 300mila esseri umani, nostri concittadini. Con la distruzione delle città. Immotivata.
Zara vale Dresda. Con lo svuotamento di altre. Con la cancellazione della storia. E io – come quelli che discendono da chi popolava Istria, Fiume e Dalmazia, non dimentico e non mi arrendo.
*
Tornando alla Libia.
Proviamo a documentarci via web.
Segnalo:
http://it.wikipedia.org/wiki/Libia Wikipedia sulla Storia della Libia, dove apertamente si legge: “Il Governo italiano, nello spirito di cancellazione del passato nato dal Comunicato Congiunto (vedi sopra), chiese…”
*
http://www.airl.it/ – Associazione Italiana Rimpatriati dalla Libia.
http://www.zeriba.net/nuovo%20sito/STORIA%20DELLA%20LIBIA.htm
altro link molto interessante…
@ sergio:
in effetti dal 1954 in poi il mondo è migliorato. Vero Didò?
🙂
Italiani, americani, russi, cinesi, pakistani etc….
I problemi sono sempre gli stessi: interessi economici e integralismo.
Nessuno difende “per”, ma tutti quanti difendono “contro”.
Sarebbe auspicabile che ogni nazione fosse orgolgiosa di quel che è difendendo patrimoni culturali “per” condividerli con altre nazioni.
Purtroppo la difesa è conservare e preservare difendendola “contro” gli altri. Quindi una difesa “ad escludendum”. Tener fuori gli altri da quello che invece potrebbe essere comunemente goduto.
Purtroppo c’è scarsa propensione allo scambio culturale. Sovente, semmai, la conoscenza di uno scrittore straniero (per esempio) ci viene “imposta” più che consigliata.
E comuque, ogni nazione è molto orgogliosa della propria cultura purché gli altri non se ne approprino.
Se lo fanno scoppiano le polemiche.
Se l’oggetto del contendere non è la cultura ma gli interessi economici allora, al posto delle polemiche, scoppiano le guerre.
Siccome la condivisione non garba a nessuno allora la si taccia di utopia, tanto per far sentire in difetto chi la caldeggia.
Si fa prima a spararsi, dunque. E’ più comodo. E in televisione ci si va di più.
@ miriam:
il nazismo (et similia) sono degenerazioni dello statalismo. alla base delle dittature (tutte quante a occhio) c’è la precedente disgregazione economica e sociale di un paese. terreno fertile, dunque, per chi promette che lo Stato risorgerà florido e autonomo in poco tempo.
La Germania e l’Italia, prima dell’avvento del nazismo e del fascismo, erano (come suol dirsi) con le pezze al culo.
In Italia, nonostante “overdose” di Giovanni Giolitti, non ci risollevava più dalla depresione post ’15-’18 nonostante (per quel che vale) quella guerra fosse stata vinta.
Mussolini e compagnia cantante vennero accolti come una speranza, una benedizione. Probabilmente, senza degenerazioni, la politica statalista e di grande intervento sul sociale avrebbe potuto funzionare. Ma a conti fatti, visto che “il sogno italiano” durò pochissimo, si passò dalla padella alla brace in un batter d’ali.
@ massimo:
ma un post su qualche libro sul quale si cazzeggia e basta quando arriverà? dai sforzati, il mondo è pieno di Vito Ferro ed Enrico Gregori, ti pare che non trovi due cacate per farci quattro risate prima di Natale?
🙂
@ gea:
che cazzo ci fai tu a Trieste? lì è impossibile persino accendersi una sigaretta all’aria aperta. con quella merda di bora vola sigaretta, accendino e te medesima. hai mai provato ad accendere una sigaretta a piazza di Spagna? bè, sbrigati
🙂
Mi pare che il dibattito si stia svolgendo in maniera interessante.
Vi ringrazio molto.
–
@ Valerio Aiolli:
se tra i commenti qui sopra trovi spunti interessanti (con i quali sei d’accordo o in disaccordo) ti invito caldamente a intervenire.
L’analisi di Enrico e’ giusta, corretta e chiara. Manca solo un particolare: le guerre e le occupazioni feriscono tutti, i guerreggianti mentre appunto guerreggiano, gli occupanti quando vengono cacciati e poi magari anche conquistati dagli occupati di prima (o viceversa, e’ uguale) e naturalmente gli occupati stessi prima che divengano i vincitori dei loro occupanti.
La guerra e’ un gioco al massacro. Mai muoverla a chicchessia. Meglio fare la fame o trovare altri metodi per risolvere i problemi interni delle Nazioni: maggiore equita’ nella distribuzione dei redditi, diminuzione delle esigenze dei cittadini, strategie economiche tese a diminuire le tensioni interne. Comunque, con una guerra, il Paese che la scateni innesta una nemesi storica della quale si liberera’ con molta difficolta’ e dopo secoli. A meno che non riesca a replicare l’Impero Romano… cosa alquanto surreale.
La guerra e’ pazzia come la violenza. La condivisione internazionale e’ una medicina da usare con attenzione e un pizzico di diffidenza verso gli stranieri. Ma e’ il male minore. Condividere e’ l’unica via per non morire.
@ Valerio Aiolli:
Enrico Gregori è il responsabile della cronaca nera del Messaggero. Ne ha viste e ne vede tante di cose non particolarmente “belle”. Per cui non può rimanere serio troppo a lungo.
E poi è anche un bravo autore (italiano) di thriller (americani).
😉
–
@ Enrico:
prometto che durante le vacanze di Natale vi fornirò occasioni di sani divertimenti.
😉
Piccola osservazione sullo statalismo: ma dove e’ mai esistito, in Italia? In Italia lo Stato non ha mai aiutato a risolvere i problemi dei cittadini. Ora meno che mai. Vogliamo confrontare lo Stato Sociale nostro con quello degli altri Paesi europei? Impossibile: mondi diversi. Da secoli. Sottosviluppo interno, e’, il nostro. Ce lo dovremmo risolvere da soli e fra noi Italiani, mica andando a colonizzare.
@ Gianfranco Franchi e Valerio Aiolli:
Mi piacerebbe che si parlasse un po’ anche dei personaggi di questo libro. E dei protagonisti. Insomma, l’aspetto “umano” del libro. Non solo quello storico/sociale.
I personaggi principali sono Cesare Balbo e Settimio.
Valerio, su cosa ti sei basato per caratterizzarli (oltre che sull’epistolario dei fratelli Garrone?).
@ Gianfranco, Sergio, Enrico (e gli altri):
Continuate pure quell’altro “filone” di dibattito. Lo trovo interessante.
@ Valerio Aiolli:
Sul “Corriere della Sera” del 28 ottobre Ermanno Paccagnini si esprime in termini lusinghieri su questo tuo libro; però – a un certo punto – sostiene che sei riuscito “meglio nella resa del privato” rispetto al “pubblico”.
Ritieni che possa avere un po’ di ragione?
@ Valerio Aiolli:
Su Tuttolibri de “La Stampa” del 17 novembre, Sergio Pent ti accosta “al Pratolini di Cronaca familiare o Un eroe del nostro tempo, con quel minimalismo ante litteram che difendeva e sponsorizzava i valori della borghesia”.
Ti ci ritrovi in questo accostamento?
Ti piace?
Enrico,
dal 1954 Trieste e’ tornata a far parte della Madrepatria. Non e’ la felicita’ ma e’ almeno il ritorno a casa. Con tutti i dispiaceri che ne conseguono. Ma a casa propria e con la propria famiglia. Cio’ non toglie che una bella scusa anche noi italiani la dovremmo ufficialmente chiedere alle autorita’ slovene, prima o poi, per via della nostra occupazione della Slovenia nel periodo 1941-’43.
La questione dei trecentomila italiani che lasciarono Istria Dalmazia e Carnaro, invece, purtroppo e’ piu’ complicata da risolvere per vie diplomatiche trilaterali. Resta la tutela della nostra attuale minoranza in Croazia e Slovenia (circa trentamila anime) da migliorare e perseguire. Comunque non stanno malissimo, i nostri connazionali, con il bilinguismo che invece viene negato a Trieste alla minoranza slovena.
Poi non dimentichiamoci la partecipazione attiva delle diverse Nazioni slave alla lotta antifascista. Un merito che va riconosciuto, nonostante la persecuzione degli Italiani di quelle zone. In fondo la guerra l’avevamo provocata noi e i Tedeschi, mica gli slavi, no? Qualche colpa l’avremo pure.
Volevo dire che il dolore nostro attuale per la perdita di territori a maggioranza italiana – quelli che hai citato, Franco, concordo – io questo dolore lo considero inferiore a quello che avemmo in quei territori e in tutta la Patria dal ‘46 al ‘54. Dolore che io da uomo-italiano condivido con dalmati, istriani e carnerini italiani e che come solo-uomo condivido con sloveni occupati dagli italiani (la Provincia di Lubiana: 1941-’43) e altre vittime del nazifascismo. Il mio dolore e’ doppio, perche’ due sono i Popoli che si sono occupati a vicenda (i famigerati trenta giorni di Trieste iugoslava e i tre anni appena citati della Slovenia italo-tedesca, ma soprattutto italiana, che Lubiana era sottoposta al comando delle nostre truppe).
Dobbiamo iniziare a vedere il dolore di tutte le parti in gioco. E lasciare le cose come stanno. Il tempo guarira’ le nostre ferite, se eviteremo di praticarcene a vicenda altre.
Ma ora hai ragione, Franco. Parliamo del libro e della Libia. Il libro mi sembra interessante e documentato, ma non l’ho letto integralmente. Dunque parlero’ piuttosto della Libia. Un Paese che stette quasi mezzo millennio (fino a meta Cinquecento) sotto ai Normanni di Sicilia e che poi venne occupato con guerra d’aggressione da noi (governo liberale di Giolitti) nel 1911. Fine occupazione per via della sconfitta con gli Inglesi nel 1943. Potevamo forse vantare qualche pretesa culturale, etnica o economica sulla Libia, noi, nel 1911? Nessuna, ovviamente. Nessuna. Fu una guerra coloniale pura e semplice, che ancora non abbiamo risarcito in alcun modo – e dovremmo averlo fatto da decenni.
Pertanto, io, da Italiano, mi vergogno dell’occupazione libica (Tripolitania e Cirenaica), di quella del Dodecaneso, dell’occupazione dell’Africa Orientale Italiana.
Sono orgoglioso invece della mia Nazionalita’ perche’ l’Italia e’ il Medioevo e l’antichita’ greco-romana, e anche quella precedente – quella italica. Perche’ non rompiamo piu’ le scatole a nessuno nel mondo, anzi esportiamo pacificamente cultura (anche libri). Infatti, l’Ottocento e il Novecento sono il ”presente” – altro che nuovo millennio! – e il presente pero’ purtroppo non esiste, per la coscienza italiana e per me personalmente. Il futuro forse esistera’ se capiremo di non esistere oggi e andremo a cogliere l’Antichita’ e il Medioevo che sono in noi. Eterni.
Ottimo Sergio, Ottimo Massimo, Ottimi tutti,
io vorrei aspettare le risposte dell’artista alle varie domande che abbiamo posto, prima di riavviare il secondo binario del dibattito.
Abbiamo la fortuna di averlo tra noi, ascoltiamolo…
quando ci ricapita? Ascoltiamo…
Intanto, vi ringrazio molto per il leale e fertile confronto.
****
E ora, pardon, vado totalmente OT. Pardon. Canzone in mente da due ore e mezza. Mannaggia. http://it.youtube.com/watch?v=wLyLk7Q4JFs
Caro Massimo,
Cari tutti
sulla letteratura di guerra vorrei segnalarvi “Suite francese” della scrittrice ebrea Irène Nemirovksy, morta tragicamente in un campo di sterminio nazista.
Nei mesi che precedettero la deportazione scrisse febbrilmente il suo romanzo, accovacciata a terra in attesa dell’allarme, tra le coperte dei rifugi dove aspettava l’alba, acquattata sotto cespugliame gelido per nascondersi agli occhi dei persecutori.
Ecco. Noi non siamo – grazie a Dio – figli della guerra. E i racconti dei nonni ci sembrano quasi favole lontane, mai accadute.
Eppure.
Leggendo queste pagine la precarietà degli ultimi istanti, le tempie che pulsano di paura, il nascondersi febbrile come animale che non voglia essere stanato, ti assalgono.
E allora pensi che ci sono altre realtà – non lontano da qui – in cui tutto questo ancora accade.In cui l’attualità di quelle pagine rubate alla morte serpeggia tra mine anti uomo e fiaccole che accendono le notti.
Un libro sulla guerra è ancora attualissimo.
Questo che tu ci proponi, Massimo, è intensissimo, abbagliante.
Lo leggerò sicuramente.
@ Valerio Aiolii: il titolo è bellissimo. Fa pensare a un uccello strano che solleva polveroni aridi. Come ti è venuto? Complimenti!
@letteratitudine: Auguri a tutti di un felicissimo Natale!!!
Gianfranco, hai ragione, aspettiamo le risposte alle domande già fatte.
Ma se posso, per quando Valerio avrà risposto a tutti, ne ho una da fargli.
Vorrei sapere quale personaggio del suo libro sente più affine a se stesso e perchè.
@ sergio
“La guerra e’ pazzia come la violenza” e “Condividere e’ l’unica via per non morire.”
Mi sei piaciuto!
Carissimi,
non ho letto niente e chiedo scusa, ho zompettato tra le righe, sono ansioso di leggere, quantomeno, lo stralcio di Valerio Aiolli; non bisogna lacsiare nessuna fessura scoperta nella storia e “La Libia” è un pezzo di “crepa” importante nel muro storico italiano.
Sono interessato, anche perchè anch’io sto scrivendo qualcosa che riguarda una guerra recente, ma questo si svelerà nel 2008.
Interessante quando Gregori è interessante, ma ha ragione lui, noi del ’54…
Scopro tanti frontalieri,
altri triestini su un blog italo-siculo-partenopeo-e-parte-no! A loro dedico queste parole che ho inviato di buon mattino all’emigrante che tutti vorrebbero accogliere nella propria terra: Sergio sozi.
Il privato per me è sempre stato pubblico:
Carissimo Sergio,
oggi crolla la frontiera jugoslava.
Auguri, cade il ‘900, crollano le barriere che hanno diviso le genti con artificio, Guelfi e Ghibellini, Capuleti e Montecchi, rossi e neri. Per i popoli non sono mai esistite; per la politica che ha sempre messo le genti in bilancia, vendendo le culture come insalata al mercato, si. Ricordo, nei miei 13 mesi a Cervignano del Friuli, quella serena convivenza trinciata dai muri, gli amori misti e noi soldati del sud meravigliati da quello shaker di anime quando in borghese si passava clandestinamente per comprar sigarette e sentire l’odore dell’est. Continueremo ad essere Furlàn, Slavi, Siculi, Partenopei: le culture si difendono da sole, non c’è bisogno di barriere.
State ancora dormendo pelandroni, bene!
Dimenticavo, mio nonno andò in Spagna nel ’36 a combattere per Franco, aveva bisogno di soldi, forse era pure un po’ fascista. Torno con il sangue “negli occhi” (raccontava mia nonna), si iscrisse al Partito Socialista e bevve tanto di quell’olio di ricino da non riprendere più peso.
La guerra è anche questo, scontro di passioni, catartiche avventure, sentimenti aggrovigliati come reti sulla spiaggia di Procida: è schifosamente letteraria!
Grazie, Silvia,
naturalmente la mia ”condivisione” non significa perdita dell’appartenenza e dell’identita’. Condividere umanamente per me vuol dire restare se stessi e aggiungere altro, non perdere quel che si e’. Cosi’ si cresce e non ci si estranea.
Tuo
Sergio
Grazie, Dido’,
Tanti Auguri anche a te da un semplice, solo e convintamente Italiano.
Sergio
Eccomi! Provo a dare un po’ di risposte singole, altrimento temo di incartarmi.
@ Silvia: in effetti non ero un appassionato della storia del volo, ma mi sono imbattuto in alcune ricerche che un po’ la raccontavano, ancora prima di iniziare a lavorare al libro, e mi sono appassionato: c’era una carrellata micidiale di fallimenti che punteggiava tutto l’Ottocento, persone sparse per il mondo che avevano dato fondo a tutte le proprie energie e spesso ci avevano rimesso le penne. Insomma mi intrigava il modo in cui si era arrivati a questa invenzione così a tutt’oggi per me incredibile delle macchine volanti: un “individualismo collettivo” geniale e allo stesso tempo goffo, a volte cialtrone. E poi tutto sparito, tutti dimenticati nel momento in cui i fratelli Wright ce la fecero davvero. Il mio tenente “perso” in Libia sogna, pensa con una specie di ironica tenerezza a questi uomini liberi e coraggiosi mentre è in qualche modo prigioniero delle atrocità della guerra a cui sta partecipando. Anche lui forse vorrebbe volare via, ma non può.
Grazie per la tua risposta Valerio. Quella di volare via è una sensazione molto comune, credo che chiunque l’abbia provata in particolari momenti della propria esistenza, proprio come il tuo tenente. Ed è un sentire affascinante -anche solo a immaginarlo- quell’ipotetico volo al di fuori di noi.
@ Gianfranco: per il regista avrei una rosa di nomi. Giuseppe Tornatore e Bernardo Bertolucci perché nonostante il continuo rischio di cadere nel kitsch, sono fra i pochi in grado di filmare situazioni epiche. Gianni Amelio perché riesce meglio di altri a collocare i personaggi all’interno di un paesaggio. Saverio Costanzo perché mi è molto piaciuto come nel suo primo film (“Private”) rendeva il contrasto tra ambiente militare e vita civile. Matteo Garrone per come riesce a rendere quotidiane le situazioni estreme. Se hai altri suggerimenti…
@ Massimo (1/3): l’epistolario dei fratelli Garrone è un libro Garzanti pubblicato negli anni ’70, ormai fuori catalogo, che trovai nel 1995 o giù di lì in un negozio di libri a metà prezzo. A parte la storia di Tarhuna – che è narrata quasi di straforo, come documento di cronaca a fini di documentazione militare – emerge da tutte le loro lettere lo spirito di quella generazione di italiani (i figli della buona borghesia) che aderirono coscientemente alla Grande Guerra per l’ideale della Patria. Odio anch’io le maiuscole, trovo che il concetto di Patria in un mondo sempre più globalizzato andrebbe ridiscusso, ma non posso nascondermi che quei sentimenti sono esistiti, ce li avevano i nostri nonni, e che conoscerli dall’interno (leggendoli o raccontandoli) possa essere utile a comprendere meglio il cammino che stiamo facendo giorno per giorno. Fermo restando che la stragrande maggioranza dei nostri soldati furono contadini mandati al macello, e che non c’è motivazione che tenga per giustificare obbrobri di questo tipo.
@ Massimo (2/3): quando mi chiedi su che cosa mi sono basato per caratterizzare i personaggi, immagino tu ti riferisca in particolare a Italo Balbo. Be’ ovviamente ho letto le più importanti biografie scritte su di lui. Il problema in questi casi – e vale anche per tutto ciò che si legge nel corso delle ricerche – è che a un certo punto devi dimenticare ciò che hai letto e partire con l’invenzione, con l’immaginazione. Altrimenti finisci per scrivere un altro saggio travestito da romanzo. A me ha aiutato in questo senso la lunga gestazione del libro, o meglio forse ho avuto una lunga gestazione proprio al fine di superare quel problema. Fatto sta che l’immaginazione si è messa in moto piano piano e a un certo punto si è confusa con la memoria di ciò che avevo letto. Alla fine magari ho fatto dei riscontri per evitare gli anacronismi più evidenti, ma mentre scrivevo avevo questa necessità di essere libero dai lacci della Storia. Per me poi immaginazione e memoria sono due facce della stessa medaglia, e a volte non so bene quale faccia sto guardando. Credo che il processo di formazione e rivisitazione dei ricordi (anche dei ricordi di ciò che abbiamo letto) abbia molto a che fare con le nostre capacità immaginative. Il mio primo libro (“Io e mio fratello”) è fondato su una base di ricordi della primissima infanzia su cui sono fioriti episodi di pura invenzione: a volte ho l’impressione che siano più veri i secondi dei primi, e comunque non mi è ormai facilissimo distinguerli gli uni dagli altri. Per concludere: mentre scrivevo “sentivo” Balbo e gli altri personaggi con quella intensità che serve per poter scrivere (poi sui risultati ciascuno avrà i suoi gusti…)
@ Massimo (3/3): le recensioni. Su Paccagnini (meglio la resa delle parti private rispetto a quelle pubbliche) sinceramente non sono d’accordo. Penso che il libro abbia diversi stili al suo interno, per cui magari si presta ad analisi del tipo “questa parte sì, quast’altra no”, un po’ come accade quasi sempre per i libri di racconti: rarissimo che ci piacciano proprio tutti i racconti di una raccolta. Ma a chi li ha scritti ovviamente sì, altrimenti non li avrebbe inseriti. Paccagnini poi mi aveva già un po’ catalogato così (autore particolarmente dotato per gli “interni”) in una recensione a un mio precedente libro (“Luce profuga”) e si sa che i critici sono affezionati alle loro etichette… (Preciso com’è, mi ha sorpreso che un lapzus gli abbia fatto confondere Italo con Cesare Balbo, uomo dell’Ottocento, refuso disgraziatamente riportato anche nel titolo del pezzo.)
Quanto a Pent: mah, non so che dire. Amo molto Pratolini per la capacità di entrare sottopelle ai suoi personaggi senza apparenti artifici letterari, ma non mi sento un difensore né tanto meno uno sponsor di alcunché. La piccola borghesia dei tempi di Pratolini, lo dice anche Pent, non esiste più. In “Ali di sabbia” forse l’ho resuscitata (il personaggio di Lucia) ma non per cantarne le lodi, piuttosto per metterne in evidenza le ambiguità, le rimozioni. Quindi sono onorato dal paragone, ma non lo trovo del tutto pertinente.
@ Sergio: pur essendo d’accordo che dobbiamo in qualche modo emendarci per il nostro passato coloniale, non riesco a dar torto a Giorgio Bocca (sul cui antifascismo e anticolonialismo non si può discutere) quando qualche settimana fa sul Venerdì di Repubblica ha scritto che se dovessimo pretendere che ogni Stato riparasse ai “torti” (eufemismo) che ha prodotto decenni o secoli prima (in condizioni sociopolitiche del tutto differenti) ad altri Stati, non ne usciremmo più. La Storia è fatta di nefandezze che dobbiamo sforzarci di denunciare ed evitare, ma pagare i danni di guerra e di occupazione alla Libia – diceva Bocca – è solo un atto politico: ci conviene farlo per motivi geo-energetici e lo facciamo, va bene così. Nulla più. Altrimenti perché non chiedere i danni all’Austria per l’occupazione del Lombardo-Veneto? E’ dura real-politik, purtroppo, ma temo abbia ragione.
@Valerio Aiolli: complimenti!
Confesso che ho avuto un attimo di paura prima d’inerpicarmi sulle tue parole. Oggi sembra che tutti debbano parteggiare, da un lato e dall’altro della storia o/e della politica. Sei riuscito a volare sulla storia in modo lieve. Al momento della fine dell’estratto mi sono sentito come se si fossero accese le luci in sala. La storia, comunque, la considero solo un pretesto, per raccontare storie; come quei nonni davanti alle cantine che ci mandavano ragazzini a comprare “le nazionali” e poi, per regalo ci raccontavano una storia, quasi sempre di guerra e di amori andati.
A volte anche dei piccoli cantanti raccontano storie,
io ti allego questo “stralcio” di storia, non è mio, ma come dice Massimo (Troisi) parafrasando Skarmeta/Neruda: “La poesia non è di chi la scrive, ma di chi la usa!”
“Io sono un uomo/ tutti mi chiamano Joe Il Temerario/
faccio mille acrobazie col mio aeroplano
e diecimila volte ho già toccato il cielo
perchè come un falco io
arrivo a tremila metri e poi mi butto giù in picchiata
Ma che emozione ogni volta sfidare la vita
rotolando nel cielo sopra il mio aeroplano
Ma ogni sera resto solo, come stasera sono solo
cosa dici andiamo al cinema/ magari a fare un volo
ma perchè non sorridi?
presto dammi un bacio, presto dammi un bacio.”
Ron – Joe Il Temerario
@ Simona: grazie per il giudizio sul titolo! Come mi è venuto… non lo so! Quando il romanzo (che avevo cominciato a scrivere dalla “sabbia”) ha trovato un contrappeso nella storia del volo e nell’ultimo volo di Balbo, sono spuntate le “ali”… Tutto qui!
Come il nonno di Francesco, anche il mio fumava le Nazionali e mi mandava a comprarle.
Al ritorno mi doveva una storia. Così cominciava a dire ogni volta di un posto diverso dell’Africa, quell’Africa dalla quale era ritornato con quattro doni: sordo, sposato per procura, decorato e con il rifiuto per la “tessera”.
L’ultimo dei doni gli sarebbe costato la degradazione da ufficiale a sottufficiale e l’inizio di una vita vagabonda. Pensare che quando portava mia madre a Ciampino, bambina, con i boccoli e gli occhi azzurri come una diva del cinema muto, tutti i suoi soldati la festeggiavano dicendo “è arrivata la figlia del capo”. Grande uomo mio nonno. Come tutti quelli della sua generazione, partiti per la guerra ed in un modo o nell’altro anche tornati. Aveva visto la storia senza rendersene conto. L’unica consapevolezza era quella di essere diventato cittadino del mondo, essersi spogliato di quel provincialismo tutto italico. Tornando aveva ripreso ed intensificato le sue letture. Dante, tra i tanti, era il suo preferito e ne ricordava a mente l’intera opera. Io mi divertivo a provocarlo “Quando il settentrion del primo cielo, che…” e lui “né occaso mai seppe né orto né d’altra nebbia che di colpa velo, e che faceva lì ciascuno accorto di suo dover…” e così fino alla fine del Canto. Questa è stata la sua eredità.
Nel breve estratto del libro, ma soprattutto nei commenti successivi di Valerio, ho ritrovato quella stessa lucidità, a stessa serena consapevolezza e forse mi è sembrato di avere ancora accanto mio nonno che mi raccontava la storia del suo volo.
Anche la copertina è molto bella…manca in sottofondo “Sotto le stelle del Jazz” di Paolo Conte, o “Potato Head Blues” di Louis Armstrong, che mi sembra quest’ultima sia del ’39 ( i vecchi gerarconi se le sentivano di nascosto).
Io sono d’accordo con Enrico. Massimo si potrebbe avere un qualcosa su cui cazzeggiare un po’? Anche spettegolare se vi garba. Amo spettegolare … dai facciamo scendere un po’ questo livello così aulico, che ne so, potremmo parlare male della Mazzantini ))))).
Oops…!
Un altro ragnetto in trappola!
Le tele che tesse Gregori attirano libellule, oltrechè mantidi!
Spettegolare cara Rigo, e come se tu fossi inciampata e la pistola fosse caduta sulla scrivania di Enrico, se non è partito un colpo che l’ha freddato (per il sollievo dei suoi giovani inviati), ora l’arma è tra le sue mani: un’altra tacca sulla tastiera dello sceicco di via del Tritone!
@ didò:
fossi sceicco via del Tritone non mi vedrebbe nemmeno per lo shopping
@Enrì,
Sceicco inteso come Ras, come quel Mallory, che Dio l’abbia in gloria (sono sempre i migliori che se ne vanno, per fortuna s’è portato all’inferno pure il cane, non ho nulla contro i cani, sono loro che ce l’hanno con me quando alle cinque del mattino vado a portare in giro il mondo!).
@Massimo:
scusa, era una comunicazione interna con Gregori.
Mi sono sparato “Un the prima di morire” e sono ancora pieno d’adrenalina!
Non me ne parlare Francesco. Io sono costretto a leggere poche pagine al giorno altrimenti vado in ipertensione…
@ didò:
lo vuoi raccontare tutto il mio libro? li mortacci tua!
🙂
Ringrazio moltissimo Valerio Aiolli per le ottime risposte fornite.
Tra un po’ pubblicherò un nuovo post, ma spero che il dibattito su questo libro possa ancora continuare.
(Massimo Maugeri)
Caro Valerio Aiolli,
infatti io parlavo solo di chiedere scusa, non di ”risarcire” stricto sensu. Un risarcimento almeno morale, sottintendevo. In ogni caso, le dominazioni novecentesche sono molto piu’ vicine di quelle precedenti, oramai archiviate a causa del tempo. Intendo dire che purtroppo, mentre sarebbe impossibile chiedere agli Austriaci i danni dell’occupazione del Lombardo Veneto, dovremmo contrattare coi Libici un qualche risarcimento anche economico della nostra occupazione del loro territorio nazionale, essendo questo un crimine internazionale novecentesco italiano. Una cosa recente e direttamente dipendente dall’entita’ statuale Italiana, non da uno Stato regionale precedente all’Unita’, come e’ il caso del Lombardo-Veneto. Ecco la differenza.
Insomma, in soldoni: l’Austria non occupo’ un pezzo di Italia, ma lo Stato Lombardo-Veneto; invece l’Italia occupo’ la Libia. La stessa Italia di oggi che occupa la stessa Libia di oggi.
Auguri Cari
Sozi
Oltretutto, ne’ noi abbiamo chiesto scusa agli Sloveni per l’occupazione di tre anni, ne’ loro a noi per i terribili giorni di Trieste.
Iniziamo tutti a chiedere scusa, va’, che per chiedere scusa non c’e’ sempre tempo – come per pagare e per morire.
Ed evitiamo la guerra. E di rompere i Santissimi ai nostri connazionali in primis. Che se stiamo sempre a litigare, ci diamo la zappa sui piedi e ci carichiamo di un odio assurdo, cieco e mortifero.
Scusatemi per la prolissita’
Sergio
P.S.
Auguri, Letteratitudiniani!
Non posso partecipare al dibattito su Ali di Sabbia in quanto non ho letto il libro nè conosco il suo autore.
Grandi romanzi che intrecciano trame di guerra con altre vicende ce ne sono talmente tanti!
Ultimamente sono state riempite tante pagine anche sui talebani e le tristi vicende che civilmente troviamo tutti inspiegabili e che ricordiamo a malincuore.
Oriana Fallaci, per esempio, si è dedicata molto a quest’argomento: lo ha fatto da acuta intellettuale femminista, stranamente rispettata anche dalle correnti di pensiero dell’estrema destra che, probabilmente, ammirava in lei “la combattente”. Alleanze maschili che peraltro vanno bene solo per qualche ora e solo nei salotti. Ma lei questo lo sapeva molto bene.
Cordialmente
Rossella
Rispondo ancora a Silvia riguardo alle mie affinità con i personaggi. La premessa è che in tutti i personaggi, davvero, c’è parte di me: anche e soprattutto in quelli più lontani, almeno apparentemente, da me. Balbo, per esempio. Proprio perché mi è lontano, nel momento in cui scrivevo i brani che lo riguardavano ho cercato di mettermi nelle sue scarpe ogni mattina appena mi alzavo dal letto (immagine rubata a Yehoshua) e chissà se la forma dei piedi non mi si sia un po’ modificata (spero di no!)… Ciò detto, direi il tenente. Per come sta con i piedi (ancora!) per terra e la testa fra le nuvole, credo. Per come gli viene naturale astrarsi dal contesto che lo circonda, pur rimanendone partecipe. Direi il tenente, sì.
@ Valerio.
Caro Valerio, grazie per essere stato qui. Ti ringrazio per la disponibilità. Magari ci sarà qualcuno che vorrà farti ulteriori domande.
Io intanto ne approfitto per augurarti buon Natale e per complimentarmi con Alet per essersi “accaparrata” questo tuo libro.
Auguri anche ad Alet!
E naturalmente un ringraziamento a tutti coloro che hanno scritto qui e al caro Gianfranco Franchi che ha recensito il libro e mi ha dato una grossa mano nell’animare e condurre il dibattito.
Grazie a te per la sensibilità e per l’ospitalità, caro Massimo, e all’artista per la sua disponibilità e la sua gentilezza. Grazie a quanti sono intervuti. In primis Sergio nostro. (ho un debole per il Sozi, dichiarato. Bella intelligenza, limpida e indipendente. Viva, e letteraria. Grande.)
*
Aiolli è narratore di razza. Dovremmo – devo – recuperare la sua opera omnia. Prima possibile.
*
Valete,
gf
(errata corrige, riga 2
“intervuti” per “intervenuti”)
Gianfranco, il tuo ”debole” per me e’ perfettamente ricambiato. Un ”debole” molto ”forte”, direi!
Auguri Carissimi!
Vale
Tuo
Sergio
Grazie a tutti voi per gli stimoli e per l’attenzione, in particolare certo a Massimo e Gianfranco per la loro stima e il loro affetto che ricambio di cuore.
Che il 2008 ci sia propizio
Ancora grazie a te, Valerio.
Auguri di buon anno. Che il 2008 possa essere propizio a noi e all’umanità tutta!
Valerio Aiolli è un romanziere portato a sperimentare sempre strade nuove, a passare da un registro narrativo all’altro mutando, a volte vistosamente, l’oggetto della propria ricerca narrativa.
Questo ultimo romanzo ha al centro la passione per il volo che da un padre ufficiale nella guerra di Libia combattuta dall’Italia nel 1911 si trasmette al figlio, e racconta –come si dice nella quarta di copertina- “le passioni, i miraggi, i sogni di gloria e le miserie di una generazione di italiani”.
ALI DI SABBIA è un romanzo storico. Intercalata agli episodi storici si racconta anche una succinta storia dell’aviazione, che parte da lontano ad opera di uomini audaci, animati dal sogno di costruire una macchina capace di volare, dai primi bislacchi esperimenti fino al primo vero aereo costruito nel 1904 dai fratelli Wright.
Ma insieme alle ali troviamo la sabbia, quella del deserto sul quale sorse la colonia italiana della Libia, fino ad arrivare al giugno del 1940 quando Italo Balbo, asso dell’aviazione italiana negli anni Trenta e gerarca fascista di primissimo piano, trovò la morte proprio nel cielo della Libia di cui Mussolini lo aveva nominato governatore
ALI DI SABBIA è un romanzo affascinante e originale, costruito giustapponendo episodi storici e storie d’amore, come quella tra Lucia e il giovane ufficiale a cui essa è fidanzata e di cui, all’inizio del romanzo, nel 1915, le giunge la notizia della morte.
Protagonista del romanzo si potrebbe forse considerare proprio il deserto, la sabbia dove cadde Balbo e con lui il suo giovane aiutante, Settimio, che era stato allevato da Lucia e che era figlio dell’uomo da lei amato ma che era nato da una fugace relazione da lui avuta con una donna nel 1915, durante un drammatico combattimento tra i soldati italiani ed i guerriglieri arabi.
Il romanzo di Aiolli ha una struttura complessa. Ho l’impressione che l’autore abbia mescolato episodi realmente accaduti, forse attestati da documenti di cui ha potuto prendere visione, con altri frutto di fantasia. Mettere insieme le due cose ha richiesto certamente allo scrittore qualche sforzo, lo ha impegnato in una performance, in una prova di abilità costruttiva che presentava il rischio di dar vita ad una trama troppo complicata. Ma il risultato finale mi pare che sia pienamente soddisfacente.
Il romanzo racconta eventi di un tempo lontano, e lontano e suggestivo è lo spirito della narrazione, che ci parla di eroismo, di amor di patria, di valore militare, di spirito avventuroso. Il tutto giocato su vari piani narrativi: racconto, diario ed epistolario.
Il libro di Aiolli racconta una guerra, quella italo-turca del 1911 a cui seguì una guerriglia degli indomiti arabi contro l’occupante italiano, che fu la prima prova impegnativa dell’imperialismo italiano, di quello che il sarcasmo di Lenin chiamò “l’imperialismo degli straccioni”. Guerra e guerriglia che conobbero episodi di una ferocia inaudita, ad opera di ambedue le parti in conflitto,e nelle quali l’esercito italiano si fregiò di un triste primato, quello di essere stato il primo esercito al mondo ad impiegare l’aviazione per bombardare il nemico.
Chi racconta a pezzi e bocconi la storia dell’aviazione è il giovane ufficiale impegnato nel 1915 contro i resistenti libici, nel fortino sperduto nel deserto assediato dai ribelli. E che forse è il capitolo più bello ed emozionante del romanzo.
Il figlio del tenente è proprio quel Settimio che cadrà insieme a Balbo, colpito dal “fuoco amico” della contraerea italiana in un episodio misterioso la cui dinamica non fu mai chiarita.
ALI DI SABBIA ha un’ispirazione che direi romantica, per gli episodi ardimentosi che narra, per il senso spavaldo di sfida alla morte che animava i due soldati, il padre e il bambino che nascerà da lui, destinati ambedue a morire giovani come chi è amato dagli Dei.
Leandro Piantini