Quando Chiara Tiveron, dell’ufficio stampa Marsilio, mi accennò all’uscita di questo libro, io dissi: sì, ne parlerò sul blog.
Il libro si intitola: “Remare senza remi” (Marsilio, 2008, pagg. 203, euro 15), l’autrice è Ulla-Carin Lindquist. Il sottotitolo è Un libro sulla vita e sulla morte.
Per certi versi torniamo all’argomento già trattato nel post letteratura e malattia, letteratura e morte.
Ora, voi potrete dire (e con ragione): ma che vuoi da noi?
Perché ci devi tediare con argomenti simili?
(Sono quasi certo che qualcuno lo farà).
Vi spiego. Non so se vi capita, ma – a volte – ho come l’impressione di vivere nel mezzo di una corsa… una corsa senza meta.
Vi capita?
Chi si ferma è perduto: lo disse anche Totò. Vero. Ma ogni tanto credo che fermarsi sia salutare. E libri come questo, in tal senso, possono essere d’aiuto.
Questo, almeno, è ciò che io penso.
Olivier Sacks, autore di L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello ha definito il libro della Lindquist “emozionante, bellissimo, terribile e allo stesso tempo rassicurante.”
Secondo il Financial Times “la Lindquist scopre – e mostra con eleganza – come la mortalità e la gioia possono essere collegate”. Per The Daily Mail “nel trascrivere le sue impressioni sulla morte imminente, l’eredità della Lindquist è un inno alla vita.”
Per Il Foglio “Remare senza remi è una magnifica e umana risposta all’idea dell’eutanasia.”
Di seguito vi presenterò Ulla-Carin Lindquist. E poi riporterò (e ringrazio Marsilio per aver concesso l’autorizzazione) alcuni estratti del libro.
Vorrei che li leggeste e che scriveste qui – se vi va – le vostre impressioni (sul libro, sul tema), magari anche contraddicendo le motivazioni che mi hanno spinto a scrivere questo post.
Insomma, utilizzate questo spazio… come pagina bianca (giusto per citare il mio amico Pasquale).
Massimo Maugeri
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Ulla-Carin Lindquist (nella foto in basso), la più importante giornalista televisiva svedese, ha cominciato ad avvertire i primi sintomi della malattia il giorno del suo cinquantesimo compleanno. Da quel momento la sua vita è cambiata e presto la diagnosi è diventata terribilmente chiara: sclerosi laterale amiotrofica (SLA), la peggiore tra tutte le malattie neurologiche. Non esiste una cura, non c’è miglioramento e la morte avviene rapidamente.
Remare senza remi è stato scritto durante questo breve periodo di malattia. Ulla-Carin racconta la sua esperienza faccia a faccia con la morte. Descrive i momenti ordinari come gli incontri con i medici, le conversazioni con le figlie che studiano al college, i pomeriggi passati con il marito e i due bambini più piccoli, ma anche quelli straordinari come il doloroso declino delle sue abilità fisiche.
Una storia commovente scritta da una donna coraggiosa che lotta con la morte incombente, e ci illumina sulla condizione fondamentale dell’essere umani: esistere, e sapere che non è per sempre.
Un libro indimenticabile che esplora il terrore, l’imbarazzo e il dolore della malattia e contemporaneamente affronta i temi universali della vita, della morte, dell’amore e dell’importanza della famiglia.
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Estratti dal libro “Remare senza remi” (Marsilio, 2008, pagg. 203, euro 15)
Questo è il mio debutto e il mio finale.
E si riferisce al mio finale.
Non si tratta di un libro di ricordi nel vero senso del termine. È più un diario che riporta pensieri e tuffi nella memoria. E anche diverse interviste e osservazioni di fatti.
“Nel mezzo della mia vita” sono stata invasa da una malattia poco comune, SLA, “sclerosi laterale amiotrofica”.
È una malattia che si sviluppa rapidamente e aggressivamente. Esiste un unico esito: la morte. Nessuna cura. Nessun miglioramento.
Cosa succede a un essere umano in questo caso?
Un anno fa lavoravo a tempo pieno come reporter per la tv. Oggi non sono più in grado di mangiare, di camminare o di lavarmi da sola.
Provo un profondo senso di dolore per tutto quello a cui non potrò assistere. E ancora di più perché presto dovrò lasciare i miei quattro figli.
Allo stesso tempo provo una grande gioia e mi sento fortunata per tutto quello che accade in questo momento.
Ogni giorno, la mia casa si riempie di risate.
Sembra strano?
Kråkudden, gennaio 2004
[…]
Cosa ho fatto di male per essere colpita da una malattia incurabile? Perché sono punita?
Dopo la diagnosi, provo un senso di vergogna. Per me le cose sono andate troppo bene. E non ho dimostrato sufficiente gratitudine. Esiste ancora un legame fra la malattia e il castigo per i peccati.
La parola inglese per dolore è “pain”, deriva dal greco “poinè” che significa castigo.
Credo profondamente che si debba essere puniti.
E tutto va bene se si è gentili, con le guance rosa e non si calpesta il pane.
«L’essere umano deve essere felice e buono in attesa della morte». Questa frase ricamata e incorniciata era appesa alla parete della cucina della mia bisnonna.
A chi non ho dimostrato abbastanza gratitudine?
[…]
Le parole rimangono impigliate nel naso. È come se si fosse formata una sporgenza di gomma. Come se il velo del palato si fosse afflosciato. La lingua ha un aspetto un po’ villoso e la punta non vuole più allungarsi come un serpente. Invece, lì c’è una piccola fossa di serpenti. Sono gli spasmi nervosi sulla lingua. E la bocca bofonchia nasalmente suoni incomprensibili.
È come un disco che gira alla velocità sbagliata. La SLA mi ha privata delle mie parole parlate. La mia voce. L’attrezzo del mio lavoro. Oggi nessuno ha sentito quello che ho detto. Rabbia.
Nella mia testa, le parole sono più chiare che mai. Sento la mia voce, la mia voce vera dentro di me. Una voce melodica e un’intonazione che sono state una parte importante del mio lavoro. Ma poi la voce passa attraverso la laringe, il filtro della SLA, ed esce soltanto un suono. Come un asino che raglia.
La SLA mi ha già sottratto la mano destra. Resta a riposo per l’eternità. Bluastra come un filetto di manzo ben frollato. Nella sinistra, tre dita riescono a muoversi sulla tastiera del computer. Ma sono rigide e l’acido lattico si forma rapidamente.
«Avresti potuto darmi due gambe paralizzate, invece!»
«Buon Dio, sii gentile con le mie tre dita e la mia lingua.»
La SLA è una risata sardonica e maligna.
[…]
Avere il tempo di qualcuno. Che qualcuno mi dia il suo tempo.
È un dono così grande, così enorme.
Un collega è venuto e mi legge un romanzo con una bella voce. È seduto sul letto dove sono distesa mentre il cibo viene pompato nel mio stomaco. C’è una candela accesa e io vorrei che il romanzo non finisse mai. Un altro collega mi chiede se può venire in compagnia di un’amica. «Ti farà bene incontrarla.»
Ho la possibilità di conoscere una donna con una grande esperienza della vita. Ho letto due dei suoi libri e ne sono rimasta affascinata. Adesso è seduta qui con me e io le prometto di comprare una macchina per il caffè espresso per la sua prossima visita.
(…)
Parla di due vie diverse da seguire: la paura e l’amore. Mi dico che forse è stato così che ho pensato quando ho deciso di non cedere all’amarezza, non lasciare che la malattia corrodesse i miei pensieri. Quando ho deciso di vivere giorno per giorno.
Parliamo di assaporare il buio, vederlo, toccarlo. Il buio è reale, ma non è tutto.
«Posso essere nel buio, ma non sono al centro del buio. Io sono molto di più» mi dice. «Io so che c’è altro; posso ritrovare un profondo senso di accettazione e posso aprirmi per il presente e per l’amore.»
Così mi dice Anita Goldman, che sta bevendo il mio caffè, e io penso le stesse cose.
Sta scrivendo un libro su Etty, una donna che è stata assassinata ad Auschwitz. Nel suo diario, Etty ha scritto:
Soffrire non è al di sotto della dignità umana. Quello che voglio dire è che si può soffrire con dignità umana e senza dignità umana. Quello che voglio dire è che gli occidentali non capiscono la capacità di chi soffre e invece si lasciano prendere da mille diversi tipi di angoscia.
[…] Dobbiamo accettare che la morte è parte della vita, anche la morte più orrenda. E non viviamo forse ogni giorno una vita completa, e quale importanza può avere se viviamo qualche giorno di più o di meno?
[…]
L’alba, il giorno prima della vigilia di Natale del 2003, sono sorpresa. La condensa fra i doppi vetri è gelata e attraverso i fiori di ghiaccio vedo i vapori del gelo levarsi dal mare.
È così straordinariamente bello.
Il cielo è colorato di rosa e porpora, e questa e quella stella risplendono ancora vagamente. Quando il sole si alza al di sopra della foresta di pini si forma un arcobaleno e i gabbiani sembrano più bianchi del solito.
Sono nuovamente a casa dopo quattro giorni nell’ospizio, una clinica per i malati terminali. La degenza media è di venti giorni. Metà dei pazienti muoiono lì.
«Posso vedere la camera ardente?» chiedo quando l’irrequietezza mi coglie.
Un po’ sorpresa, l’infermiera mi spinge in una stanza con una sorgente gorgogliante. Le pareti sono gialle, su una le nuvole sono dipinte con i colori della terra.
In un angolo c’è un angelo. Il pavimento è di piastrelle di terracotta e io sono convinta che sotto c’è un pozzo che mi fa ricordare la culla dove mio fratello, io e tutti i nostri bambini sono stati adagiati.
Però è molto più lungo. E senza fondo.
La stanza è tappezzata con un tessuto scuro, color ruggine, che arriva fino al pavimento. Mi fa pensare al mio nonno paterno e a quando mangiavo caramelle ai lamponi da lui invece di andare alle lezioni di piano da Anna Palmér in Nya Kyrkogatan a Kristinehamn.
Ancora oggi non sono brava a suonare il pianoforte.
Quando l’immagine di mio nonno che è morto si ritira, riesco a dire con voce nasale: «Perché?»
«Ti stai chiedendo perché è così piccola? Non c’è un letto. C’è posto per una bara.»
La stanza ha tre porte. Una è quella da dove siamo entrate, la seconda porta a una cella frigorifera e la terza a una rampa speciale all’esterno.
Ho difficoltà a calmare il pianto. C’è così tanto – così tanti – nella stanza. E lo spazio per la bara mi ha spaventata.
Ma sono felice di averla vista, la camera ardente.
La clinica è molto bella e mi ha fatta sentire gravemente malata. Cosa che di per sé è una realtà da molto tempo. Eppure, quando sono a casa posso dimenticare quei brevi momenti.
Il Natale è arrivato, e un anno fa quando cercavo di fare i pacchi maldestramente lo spettro mi aveva detto che era il mio ultimo Natale.
Si era sbagliato.
Le mie figlie e i miei figli mi sono vicini. Adesso sappiamo che è una cosa seria. Averli qua, pelle contro pelle, mi rende così felice che non ho bisogno di provare gioia.
I miei quattro figli, mio marito, Mimmi, suo figlio Hugo e io celebriamo il Natale insieme. Il tavolo natalizio è imbandito con aringhe marinate, prosciutto al forno, janssons frestelse, salmone, cavolo rosso, cavolo bianco, ravizzone, salsicce, polpette di carne, stoccafisso in umido, crêpe allo zafferano e sgocciolatura di arrosto che soltanto mia suocera assaggia. La stanza è piena di piccoli Babbo Natale e io sento l’odore del cumino, del melograno e dell’assenzio.
«Non capisco come tu faccia a rimanere seduta a tavola senza avere neppure la possibilità di assaggiare qualcosa» dice Mimmi.
Può sembrare strano, ma mi fa bene. Assaporo gli odori e ricordo le polpette speciali della mia infanzia preparate dalla cuoca della nonna paterna, con carne di vitello tritata e panna acida. Ricordo il prosciutto di Natale che veniva marinato con un misto di sale, zucchero, salnitro, peperoncini spagnoli, zenzero, lauro, cipolle rosse e pepe già alla prima domenica di Avvento per poi essere cotto alla vigilia di Natale. Bastava fino all’Epifania, e quando si formava un leggero strato scuro lo si rimetteva nel forno e lo si considerava nuovamente fresco.
Così allora. Adesso allacciamo un nastro di seta rosso intorno al tubo sterile della mia sterile soluzione nutritiva, e adorniamo con ghirlande argentate lo strumento.
Sono due mesi che non mangio un pasto normale, che non bevo. Il minimo sorso d’acqua finisce nel posto sbagliato. Ho problemi a inghiottire la mia stessa saliva, e quasi ogni sera l’assistente mi fa un’iniezione di morfina che blocca il muco e la tosse.
Un giorno arriva il pastore che spargerà la terra, mi porta una lanterna e un piccolo albero di Natale che ha ornato con biscotti allo zenzero che ha preparato lei stessa. Quando ci voltiamo, il labrador marrone di Mimmi li ha mangiati. Tutti meno uno.
«Il mio Rufs ha fatto la stessa cosa» mi consola il pastore e poi legge un brano del Vangelo seduta sul bordo del mio letto.
Molti vengono a farmi visita per Natale. È divertente, ma si comportano in modo diverso. Adesso non riesco più a parlare, ed è per questo che alzano la voce e articolano le parole il più chiaramente possibile. Ho perso una parte della mia mimica, e per questo, a volte, i lineamenti del volto sono contorti. Se dico qualcosa, anche se non dovrei, devo fare un tale sforzo da sembrare arrabbiata.
«Perché gridi in quel modo?»
E adesso mi fanno carezze sulle guance oppure, ancora peggio, sulla testa, come a una bambina. Lo detesto. Quella commiserazione con aria di superiorità.
Così lontana dalla compassione e dalla simpatia.
A Natale si può esprimere un desiderio, e io so quello che non posso avere a sufficienza.
Vicinanza, calore, verità e fiducia.
Voglio tanto che ricordiamo insieme cose e avvenimenti.
Non provare pietà per me. Sussurra segreti nel mio orecchio. I tuoi segreti. I nostri.
Lo dico seriamente.
Non sfuggire da me. Non avere paura.
Non è così pericoloso.
Siamo solo io e te.
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Ulla-Carin Lindquist è nata nel 1953 e ha avuto quattro figli, due femmine e due maschietti. Ha iniziato a lavorare nel 1988 come conduttrice a «Rapport», il telegiornale della sera svedese, diventando subito molto popolare. Nel 2000 si è trasferita in Canada con la famiglia ritornando due anni dopo come reporter. Il suo ultimo giorno di lavoro per la televisione svedese è stato nella primavera del 2003. È morta nella sua abitazione in marzo del 2004.
Questo libro è stato un best seller in Svezia, con più di 200.000 copie vendute. È già stato tradotto in: Inghilterra, Stati Uniti, Germania, Francia, Spagna, Norvegia, Danimarca, Finlandia, Ungheria, Olanda, Polonia, Slovenia, Corea, Cina, Grecia.
gli occidentali non capiscono la capacità di chi soffre e invece si lasciano prendere da mille diversi tipi di angoscia.
C’è del vero, in questa frase, o è solo un luogo comune?
Insomma, dite la vostra… se ne avete voglia.
Vi auguro una buona notte.
Un argomento che fa paura, questo che ci proponi. Non si tratta di parlare di un libro. Si tratta di parlare di noi, di tirare fuori le nostre paure. Di fermarci, appunto come tu dici. Di non voltarsi da un’altra parte. Sei stato coraggioso a proporlo. La asserzione che hai riportato sugli occidentali credo che sia vera. I mille diversi tipi di angoscia servono a coprire un’unica vera angoscia: quella che ci dà il pensiero della sofferenza e della morte. Siamo senza dubbio più superficiali, più fragili, noi occidentali. Poi, è logico, ci sono le tante eccezioni.
Ora è tardi, me ne vado a dormire. Domani leggerò tutto, anche se so che sarà una lettura durissima. Non so se parteciperò alla discussione: a volte preferisco mettermi in un angolo e ascoltare.
Grazie per aver proposto qualcosa che penso possa arricchirci.
Buonanotte, Massimo
Milvia
sì, c’è del vero in quella frase.
l’esperienza della malattia -una malattia cronica ed inguaribile -la vivo personalmente, come vivo pure gli sguardi degli altri, di quelli che fanno finta di non vedere la sofferenza; li definisco “sguardi che evitano” perchè vanno verso un puntino imprecisato dell’orizzonte, preferendo perdersi nello spazio piuttosto che affrontarmi.
La malattia e la disabilità corrodono i pensieri, non solo il corpo: ogni giorno è una lotta quotidiana per resistere al decadimento del mio essere. E la scrittura in questo contribuisce salvificamente, perchè devo reinventarmi, devo trovare un fine, devo gioire delle minuzie del mio quotidiano. Gli sguardi superficiali degli altri ci sono e ci saranno sempre, sta a me evitarli a mia volta.
Ti ringrazio per la segnalazione del libro, che acquisterò quanto prima.
e buon lunedì!
Sì, credo che gli occidentali abbiano dimenticato non tanto il senso della morte quanto quello vero della vita.Il suo scorrere verso un compimento. E che con questo momento ultimo non facciano quasi mai i conti nella quotidianità.Come se non gli appartenesse. Come se fosse cosa d’altri.
Il dolore ci richiama al senso della vita.E della morte. Ci schiaccia anche colla sua semplicità: semplicemente siamo fragili. E finiti. Ed esposti allo scavare del tempo.
E tuttavia non è un nemico. Ma un alleato. Non è ostacolo, ma una spinta. Mai ostile all’umanità. Semmai suo compagno fedele.
Il dolore come la malattia stimolano le domande, provocano reazioni, ci fanno superare barriere e limiti. E’ nel dolore che si svela l’amore, la capacità di reazione e la fantasia.
Ho avuto amici che hanno lasciato la vita giovanissimi e… felici.E genitori che li hanno accompagnati dopo un percorso doloroso ringraziando la messe di gioia che la nuova unione aveva portato.
Nell’imminenza di perdersi si erano trovati.
Anch’io ho abbracciato così un’amica prima che svaporasse tra le stelle. Ma ancora adesso penso agli ultimi momenti prima di perderla come ai più pieni della nostra vita.
Caro Massimo, ti ringrazio per questo post. Sono d’accordo con te quando dici che ogni tanto è bene fermarsi un attimo e guardarsi dentro.
Ho letto i commenti che precedono il mio. Molto belli.
Milvia ha ragione. Hai avuto coraggio a proporre questo argomento.
Vedrai che riceverai molti meno commenti rispetto agli altri post, e questo significherà che quella frase (gli occidentali non capiscono la capacità di chi soffre e invece si lasciano prendere da mille diversi tipi di angoscia) è quantomai vera.
Forse non è un caso che i commenti ricevuti finora siano firmati da donne. Un’amica sostiena da sempre che noi donne siamo più sensibili per natura, più disponibili ad accogliere il dolore e la sofferenza. E’ più facile che l’uomo fugga.
Immagino che la Lindquist abbia voluto lasciare una testimonianza di questa sua esperienza totalizzante.
Un abbraccio a Leucosia.
E poi, che belle quelle frasi finali.
“Non sfuggire da me. Non avere paura.
Non è così pericoloso.
Siamo solo io e te.”
Grazie Massimo.
Smile
Credo che l’incontro con una patologia grave, implichi questa cosa fortissima che è un processo di risignificazione della realtà, che è tragico e terribile, eppure è anche un grandissimo dono. E’ come se la malattia conferizze un habitus letterario e filosofico, e di pensiero, fosse un crisma affidato a qualcuno. una specie di regalo in cambio della condanna. Un regalo tremendo, ma l’occasione che magari non tutti hanno di conferire senso e peso alla propria esistenza, ai propri affetti. un arricchimento della prospettiva. L’idea dell’occidente malato dell’incapacità di guardare il dolore, l’ho molto condivisa anche io, in specie quando sono andata in Mediooriente. Ma è anche vero, che la salute psichica ha bisogno di una certa incoscienza, e che la prospettiva della malattia è una prospettiva magica, in un certo senso, nella misura in cui può contrapporsi all’altrettanto magica e stolida banalità quotidiana. Non potremmo pesare ogni nostro gesto come ultimo già dalla prima volta che lo compiamo – moriremmo subito. abbiamo bisogno di un contraltare di saggezza alla nostra superficialità per tenderci ad essa.
Sperando di non aver scritto troppo astruso, caso mai chiarisco dopo.
Secondo me la testimonianza della Lindquist è molto significativa proprio perché è quella di una “donna in carriera”.
Forse il punto di base è che la società occidentale è per natura più competitiva di quella orientale, molto più votata al guardarsi dal fuori che al guardarsi dal di dentro. Per questo c’è più difficoltà a confrontarsi con il tema della morte. La competizione non ammette la morte. Ne deriva superficialità.
Zauberei, dici che abbiamo bisogno di un contraltare di saggezza alla nostra superficialità per tenderci ad essa. Credo ci capire cosa intendi.
Elektra, hai ragione pure tu. Siamo tutte donne a scrivere.
Sono d’accordo con Maria, la nostra società probabilmente è molto più votata all’estetica ed al materialismo di quanto non lo siano le civiltà orientali. A mio avviso, essa è il frutto di un’evoluzione che ci portiamo dietro dall’alba dei tempi, una metodologia di pensiero differente apprezzabile, a riprova, nel confronto dei nostri testi filosofici con quelli orientali.
P.S. Ricambio il saluto di Massimo dal blog di Daria.
@Massimo caro, la lettura di questo struggente romanzo mi ha messo in crisi e non ti nascondo che sono sconvolta, è come se improvvisamente mi sia ritrovata nella clinica marsigliese, forse abuso della tua paziente cortesia, ma ti sottopongo uno stralcio inedito del mio diario di allora,mi premeva farti constatare come ogni creatura affronta e reagisce al dolore come può, volutamente ho scelto un pezzo meno penoso per non turbare i lettori:-
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Marsiglia, giovedì 17 marzo. E’ scoccata l’ora X…..
Dopo un tempo indefinito , sperduta in un sonno immemore, mi risveglio nel mio bianco letto. Riesco a mettere a fuoco il nero intenso degli occhi di Serena, che seduta accanto a me veglia premurosa il mio indotto e pesante torpore. Non riesco a quantificare il tempo che scorre, ma col passare delle ore, la sete mi divora, l’effetto del sonnifero si sta attenuando . Oltre ad un diffuso e costante dolore, avverto nel femore una sensazione strana, forse è la protesi Muller che è stata avvitata alle ossa del bacino. Ora il corpo estraneo deve amalgamarsi ai muscoli della coscia . Nadine nel mettermi la flebo, mi avverte che per alcuni giorni l’intruso oggetto mi procurerà un certo fastidio.
Nelle prime trentasei ore i chirurghi prendono tutte le precauzioni per il buon esito dell’intervento. .L’assistenza post – operatoria è intensa e continua, con frequenti controlli notturni anche del medico di turno.
I dottori mi sottopongono a continue trasfusioni e mi somministrano dosi massicce di antibiotici e di tranquillanti. Ho le braccia magre e chiazzate da estesi lividi blu, ormai assomigliano ad un colabrodo. Le mie vene sono sottili e introvabili simili ai fiumi carsici. – Nadine per non perdere altro tempo decide di infilarmi l’ago nelle vene delle mani e dei piedi, dove il punto è più sensibile e doloroso.*** Come non parafrasare lo struggente romanzo di Levi “Se questo è un uomo” con il romanzo non scritto di M.Teresa “se questa è vita…?”- Già, che razza di esistenza è la mia ? Reale? Immaginaria? Da moribonda di lunga degenza o forse una larva di vita che si dilata solo interiormente ?- Non ho scelte, non ho più scelte. E’ assurdo , mi rimane solo questa pazza voglia di vivere e una sbrigliata fantasia che non riesco a reprimere .
Eppure non esiste più la donna dalla insaziabile curiosità, dai mille interessi culturali . Devo ancora imparare a sradicare i sogni, ora mi rimangono solo i miei pensieri, folli e sfrenati che galoppano liberi nella mia mentale prateria. – Anche la struttura armonica del mio corpo è stata modificata e non sono più la stessa. Non mi riconosco. Ora chi sono veramente? E’ come se all’improvviso fossi uscita dall’eterna valle di Shangrilà e mi ritrovassi vecchia e decrepita. Cosa ci fa uno spirito ribelle, esuberante, nomade come il mio , rinchiuso in un corpo offeso, mortificato? Come accudirò i miei figli? E l’amore coniugale cesserà, diverrà solo platonico ? Mi sembra di impazzire….. Nadine mi scuote dai miei vaneggiamenti, sempre allegra e loquace viene a controllare se il liquido scende bene e mi sostituisce l’ennesima borsa del ghiaccio sulla ferita, poi con la sua voce argentina e squillante mi chiede:- “ Ma chere, as tu faim ?” Scuoto lievemente il capo in senso negativo , non me la sento di sorbire l’insipido “potage” e sogno invano un saporito, ristretto brodino di gallina, con la potenza della mia fervida immaginazione riesco a percepirne persino l’intenso profumo. Poi, la giovane infermiera mi mette a contrasto delle cosce, un grosso cuscino trapezoidale per tenere le gambe allargate e mi raccomanda di non incrociarle e di non voltarmi di fianco per non spostare la protesi. Sento che mi sta salendo la febbre, ho la gola secca e la bocca amara ed impastata. Serena mi passa un fazzoletto bagnato sulla fronte, il refrigerio è momentaneo .Il nuovo strumento di tortura mi innervosisce, non oso muovermi minimamente. Dopo essere stata a lungo ferma in questa scomoda posizione, le gambe e la schiena sono alquanto indolenzite.
Cerco di spostarmi leggermente, ma il sollievo è di breve durata. Resisto ancora per un paio d’ore, poi il dolore diviene lancinante e penso con ironia a ciò che disse P. Valery: – “La maladie n’est rien, tout dépend de l’hospitalité que vous lui donnez”.
In questo momento non condivido affatto il roseo punto di vista del poeta e mi piacerebbe sapere se nei miei panni sarebbe realmente così spiritoso !. …. (continua)
Tessy
Incontro con il Signor Parkinson
Ho incontrato per caso il signor Parkinson.
Persona tranquilla,
ma negli occhi un lampo audace
sembra farne un signore delle pene.
Mi stringe la mano e sorride,
con il suo contatto vuole trasferirmi qualcosa:
Dice ti saro’ dappresso.
Rispondo come contraccambiando un’amicizia:
Cosa prometi?
Puoi ballare e cantare,
ma alle feste non prendere caviale
solo pastiglie, pastiglie per me.
Rispondo:
SE DIVENTERAI MIO NEMICO IO TI UCCIDER0′.
L’ARMA E’ GIA’ QUI. AFFETTO E TANTO AMORE. caterina
La morte e la sofferenza da sempre allontanano e avvicinano.
In certi frangenti si scoprono persone che non sapevi di ‘avere’ e devi abbandonare altre che credevi fossero amiche, ma che in verità non reggono all’intimità che genera l’angoscia.
Il ‘troppo vicino’ non è gradito a molti e nell’emergenza malattia, come nell’emergenza morte, i rapporti sono ravvicinati. O non ci sono per nulla.
Ecco cosa ci spaventa.
E il vedere come siamo, come possiamo essere ci mette di fronte a un noi che non amiamo vedere.
Le domande che si fa Ulla quando scopre di essere malata sono l’esempio di come ci crediamo superiori a certi dolori, intoccabili: “perché a me? Perché a noi?”
Le conosco bene perché me le sono dette anch’io queste parole, ma l’attimo dopo mi sono chiesta: “perché non a noi?”
La nostra fragilità è il non pensare che noi siamo quei ‘tutti’ di cui spesso parliamo.
Non a caso siamo tutte donne a scivere, perche’ i processi di cura riguardano le donne. I processi della vita sono cose di cui si occupano le donne. Lo sviluppo dell’economia e la protezione della natura, in una visione di sostenibilita’ e di adattabilita’competono alle donne. Se la scienza si e’ prostituita alle multinazionali, il buon senso e l’esperienza restano la vera potenzialita’ sacra del femminile. Mettersi al servizio del pianeta, attraverso la scelta consapevole dei consumi, delle cure, e dello stile di vita, ci permette di partecipare eticamente al progresso tecnologico imperante, ponendo un freno ai disastri provocati da guerre, consumi scellerati e condizionamenti mediatici.
Caro massimo, andro’ subito a prendere il libro, mi sembra bellissimo.
Il lavoro che ho fatto in questi mesi, riguardande il saggio ch eho appena finito di scrivere, e’ proprio sulla guarigione.
Queste malattie cosi’ irreversibili e drammatiche nella loro manifestazione, vogliono ancora una volta metterci di fronte alla sconsiderata maniera in cui tutti stiamo vivendo. Le singole infermita’ riguardano tutti quanti noi. Gli abusi e le trasformazioni della nostra matrice genetica e simbolica. Se sta male la Madre, si ammalano i figli. Anche il successo dei libri di Tiziano Terzani, sta proprio ad indicare questo, la nostra ricerca spasmodica di un rimedio sacro che curi il nostro malessere.
Se andate a vedere il mio blog, trovere l’ultimo post che e’ proprio sul Corpo. Inteso come totalita’ archetipica.
Abbiamo parlato tanto in questo spazio di precariato. Voglio dirvi che dopo dieci anni di strozzinaggio psichico a tempo determinato sto per essere assunta a tempo indeterminato.
Ma volete sapere il bello? Che in questi anni sono stata talmente male, e ho cosi’ a lungo indeblito la mia psiche e il mio corpo, che io questo “posto” non lo voglio piu’. Cosi’ mi sono iscritta alla scuola di Medicina Olistica e faro’, probabilmente un salto nel buio. So per certo, che se non cambiero’ la mia vita ( e questo credo ci riguardi tutti) moriro’, nel peggiore dei modi. Dis – integrata, paralizzata, soffocata.
Cosi’ si esprimono le malattie neurodegenerative attraverso le loro voce soppressa.
Se ci faremo carico della cura consapevole, in ogni campo, tutti parteciperemo ad un processo collettivo di guarigione.
Nelle periferie urbane, nelle aree industriali, il nostro spirito ucciso dalla paura, e dalle dipendenze, cerca di sopravvivere ai soprusi del sistema imperante. Il Sistema vuole farci credere che tutto si crea nei laboratori, tutto si trasforma nelle strutture industriali e tutto si distrugge per umana volonta’. La corrosione della materia, si manifesta attraverso scenari apocalittici, malattie incurabili e rare rifiuti abbandonati, polveri oscure e solitudini estreme.
Ma la Dea, non e’ fuggita, non ci ha abbandonato, parla con parole di donne e occhi di figli, con carezze di vecchie e sussurri di giovani spose. La Dea ci chiede nuove aperture mentali. e gratitudine. La capacità di accelerazione del pensiero, lo sforzo di cercare informazioni diversificate. Ci spinge verso la Bellezza, la Verità, e il senso di Eternità.
La Dea ci chiede di leggere le etichette dei cibi che mangiamo, di fare attenzione agli oggetti che indossiamo, di essere più solidali quando acquistiamo.
Non ci chiede di diventare poveri, ma frugali, non ci vuole miseri, ma essenziali.
Perche’ il nostro destino ultimo, ci ricorda la Dea, non è quello della morte, ma quello della trasformazione.
Non, è quello della malattia ma della guarigione.
Massimo, c’è gente che per questo post proverà fastidio. Perché la morte dà fastidio, la malattia dà fastidio.
Meglio guardare da un’altra parte. Finché non capita a te.
Diranno, la vita è dura, abbiamo bisogno di ridere e divertirci, non di qualcuno che ci venga a rompere le scatole con argomenti che fanno male.
Sì, Massimo, proveranno fastidio e rancore nei tuoi confronti perché hai dato la stura a commenti come questo mio.
Falli ridere, fagli tenere gli occhi chiusi.
Permettetemi un bacione a Maria Teresa. Conservo a casa le tue foto, prima e dopo la malattia. Sei bellissima in tutt’e due. La classe e la grandezza di spirito non possono essere mai intaccate nè dalla malattia, nè dalla vecchiaia. Immagino che questo libro sia terribile, come terribile è il dolore. E forse la vita stessa. Concordo sul fatto che noi occidentali non abbiamo un buon rapporto con l’idea della morte. Il dolore aiuta a crescere, a migliorare le persone, ci ricorda che siamo meteore fragili nel complesso meccanismo dell’Universo. Esiste anche il dolore dell’anima, il mal sottile, che una volta preso non ci abbandona più, come una presenza nera che ci punge costantemente sul collo senza tregua. Per ultimo, approfitto di questo post per ricordare un grande poeta siciliano: Salvo Basso. Era una forza della natura, le sue poesie dialettali erano portatrici di un linguaggio innovativo. Avevamo la stessa età ed eravamo grandi amici. E’ toccato a lui, nel giro di tre mesi un tumore al cervello lo ha schiantato. Fino all’ultimo ha continuato a scrivere, a raccontare il suo dramma attraverso la poesia. Le sue poesie le ha portato con lui, dentro una cassetta metallica, nel suo sepolcro.
Capisco in pieno ciò che sta vivendo l’autrice di questo accorato libro, io la morte l’ho sfiorata ben tre volte, e adesso mi vive a fianco. non ho la malattia terribile della Lindquist, ma anche io so che la mia vita è appesa ad un filo. Anche io ho quattro figli che mi sono di grande consolazione e amici carissimi che mi aiutano a non pensare.
certo la mia al confronto è una condizione decisamente più vivibile, ma questo però mi da modo di comprendere le profonde paure, i rimpianti, le improvvise ribellioni…tutto, insomma.
Un’altra considerazione, a me non è mai venuto in mente di chiedere perchè mai proprio a me, ho sempre pensato che, se accade a tanti altri, perchè mai non potrebbe accadere anche a me…
In questo mi sento solidale con tutti coloro che soffrono nella carne e nella mente, una di loro, nè più nè meno.
Un abbraccio anch’io a Maria Teresa.
Se qualcuno volesse leggere la mia esperienza, è quella che riporto nel mio blog, sotto il titolo di “Tre volte la morte”.
Leggerò il libro. questo è sicuro.
Sì, impossibile parlare della morte sinché non la si è conosciuta, ma quante volte la immaginiamo e cerchiamo di esorcizzarla? Talvolta, i libri servono anche a questo, a darci l’illusione di poter controllare anche il nostro ultimo momento…
caro Massimo, ti segnalo il blog che ho creato per un mio amico malato di SLA:
http://santebernardi.wordpress.com/
un abbraccio
fabrizio
Io personalmente vorrei, mi accontenterei, di morire mano nella mano con i miei cari attorno a me: ché non l’ho potuto fare con i miei genitori scomparsi in epoche diverse: stringere loro la mano per accompagnarli non si sa dove!
E nessuno mai anche un mio amico, morto giovane, si è fatto vivo con me da chissà dove!
La nostra autrice Ulla-Carin Lindquist, ci racconta nel suo dettagliato diario del suo rapporto con la malattia che fino alla fine l’ha posseduta e dei suoi cari attorno a Lei controllare la loro disperazione perché impotenti di fronte un evento finale ineluttabile!
L’ho trovato freddo, mortale e troppo egocentrico questo rappresentare la propria morte in diretta della giornalista televisiva Ulla-Carin Lindquist: quasi un monito quotidiano rivolto a tutti quelli che le stavano attorno, che invece continuavano e devono continuare a vivere bene! Ma che colpa abbiamo Noi se tutti attorno continuano a ricordarci che dobbiamo morire tutti prima o poi?
La morte sopraggiunge, è sempre in agguato, e si riprende talvolta la vita non vissuta o spesa male di persone che non sentirebbero, verosimilmente, la necessità di spettacolarizzarla la propria fine, ché morire è anche una condizione di dignità e di armonia, secondo me, certo non per le morti violente o i malati terminali: altrimenti parleremmo di eutanasia per rispetto della dignità umana comunque, nella seconda ipotesi.
La morte ha i suoi colori, la sua dignità e non sempre è da considerare solo in bianco e nero!
Non c’entra l’occidente in contrapposizione all’oriente riguardo la posizione di pensiero filosofico e di religione riferito alla morte : la vita e la morte sopraggiungono entrambi all’improvviso per l’essere umano: e risultano quindi di pari dignità, questo è il mio parere se mi è consentito!
Luca Gallina
Caro Massimo,
seguo sempre con molto interesse il tuo blog. Complimenti. E’ la prima volta, però, che scrivo qualcosa. timidezza e riserbo mi hanno sempre impedito di dire la mia figurati di parlare di me. Oggi ho pensato di farlo e, pur con terrore di apparire egocentrica, volevo segnalarti che il mio ultimo romanzo, Perché tu mi hai sorriso (Bompiani, 2006) è – anche – il dialogo tra una figlia e la sua mamma ammalata di SLA. La madre in tutto il romanzo dice un’unica frase… alla fine del romanzo. Ma sarà quella frase che risolverà tutto. Quel romanzo mi ha fatto incontrare alcuni ammalati di SLA, che mi hanno arricchita e fatto toccare con mano (e con il cuore e con i sensi tutti) il senso della morte, la sua attesa eppure … il bisogno, a volte straordinario, di esserci. Pure chiusi in uno “scafandro”.
un abbraccio e continua così
Paola Calvetti
anche se non scrivo, vi assicuro che ci sono…..Raffaella, perché tutta questa aggressività verso chi tace, forse perché non ha gli strumenti per affrontare il dolore, la morte….io credo non si tratti di – sempre – mancanza di sensibilità…magari è solo paura,…allora perché prendersela così verso chi ha solo paura?
Ora che ho letto i brani di questo romanzo che hai pubblicato nel post sono ancora più convinta di doverti ringraziare, Massimo. Credo proprio che questo libro meriti attenzione e riflessione. Lo proporrò al gruppo di lettura di cui faccio parte.
Per quel poco che ho letto faccio mia la definizione di Olivier Sacks, da te riportata: emozionante, bellissimo, terribile e al tempo stesso rassicurante. Soprattutto quel “rassicurante” mi sembra di condividere in pieno. Perché capisco molto bene questo concetto. Come a molti di noi anche a me è capitato di perdere una carissima amica, qualche anno fa. Ancora giovane, se l’è portata via il cancro. Ho avuto la fortuna di poterle stare vicino a lungo, ed era proprio da lei che ricevevo conforto e sicurezza. Non c’era ipocrisia, non sguardi distolti, nel nostro rapporto. La morte, il dolore erano con noi, ma non come nemici. Finito il tempo della battaglia, persa in partenza, è subentrata la voglia di capire e infine di accettare. Che non significa arrendersi, ma è qualcosa di molto più profondo. Ricordo che una volta mi disse: vedi, io voglio vivere, ma mi sto preparando anche a morire. Me lo disse in tono sereno, come se avesse detto di volersi preparare per un’altra fase della sua vita che prevedeva un cambiamento. E così è stato, fino alla fine. Quando poi ho letto, dopo che lei se ne era andata, Un altro giro di giostra, dell’altrettanto amato (da me) Tiziano Terzani, ho trovato fra di loro molti punti di contatto. E stranamente tutti e due erano lontani da un credo cristiano, che penso aiuti in questi frangenti. Ancora più grandi, quindi, perché privi di quella sorta di stampella. La vita e la morte di Erin mi hanno insegnato tantissimo. Ora le sue ceneri riposano sotto un qualche albero del parco di Yosemite,in California, dove era nata e aveva vissuto fino al matrimonio. E’ la che lei ha voluto che la si portasse.Libera, ora, come è sempre stata libera in vita.
@Cristina, grata restituisco il caloroso abbraccio e quanto prima andrò a leggere la tua esperienza.
@ Salvo,amico carissimo e irrinunciabile , sabato avrei desiderato vedere anche te insieme alla dolcissima Morena.Mi piace sognare che il fato benigno mi lascerà incontrare entrambi, magari nella mia gotica Siena e un pò meno fugacemente. Ma dimmi, ci siamo già conosciuti altrove? Come fai a possedere le mie foto, quelle dell’altra vita che non esiste più? La tua strana affermazione mi incuriosisce molto. Ora trascino solo una lunga e crudele agonia e sempre più spesso mi sento alla frutta…Però, con lo spiritaccio di maledetta toscana che ancora indosso, trovo sempre il posto e la voglia per un abbraccio con te.Grazie.
Tessy
@zauberei, mi ritrovo molto in quello che hai scritto. quando ero in ospedale qualche tempo fa, le persone mi dicevano che avevo un dono grandissimo, quello di avvicinare gli altri -gli estranei- alla malattia che mi aveva colpito con la forza delle parole. La parola scritta poi mi ha aiutato a meglio individuare quello che tu definisci “processo di risignificazione della realtà” ed i suoi meccanismi…
@ Tessy
Ma come, non ricordi che me le hai spedite tu? insieme al tuo libro e al Cd? Da quando la sera te ne vai in discoteca col rozzo Gregori stai perdendo lucidità. Fa fumare le canne anche a te?
massimo scusami ma non me la sento.
e, con buona pace di coloro che hanno la verità e la saggezza in tasca, ti assicuro che non è paura.
queste cose le ho vissute da vicino, e credetemi, non c’è un modo giusto di affrontarle. ognuno lo fa a modo suo, ognuno le vive come sa e come può.
io non ho nessuna voglia di discuterne, nè di tentare di spiegare.
al prossimo post.
Concordo con Stefano.
Spesso non è mancanza di sensibilità, ma è timore di non sapere affrontare la ‘cosa’.
Io credo che ancora se ne parli troppo poco (della morte, intendo) e che nessuno di noi abbia forgiato gli strumenti atti a sopportare il dolore.
Per questo credo siano doppiamente importanti i libri che ne parlano, che ci raccontano in prima persona. Proprio perché non esiste un modo di comportarsi unico e codificato, dovremmo renderci conto che è tutto ‘normale’, tutto possibile, tutto avvicinabile.
E’ solo parlandone che ci si può avvicinare a certi argomenti.
Spesso le cose sono più facili di ciò che si pensa e ad una persona che soffre ci si può avvicinare anche con semplicità. Siamo noi che ci poniamo sempre problemi irrisolvibili.
E’ da stamattina che non mi decido, resto sospesa tra scrivere e non farlo. Dirò solo questo. La malattia, la morte, sono esperienze che cambiano, trasfigurano chi le vive, direttamente e non. La penso come Gea e Morena, non esiste il “come” per affrontarle, reagire, rassegnarsi. Come tutti, ho perso persone che amavo e ne ho altre accanto che combattono ogni giorno contro mali che non sanno spiegarsi. Già, perchè proprio a loro?
Io provo ogni giorno ad amare la loro sofferenza. In un modo che forse non è quello giusto, ma è il solo che sono capace di dare.
“Mi sono beccato il Parkinson, ma per ora riesco ancora a cantare. Certo, non posso più suonare la chitarra. Vorrà dire che diventerò bravissimo con le maracas”.
(Bruno Lauzi)
Ognuno prende la malattia e la morte a modo suo. Con il Parkinson, prima o poi, si crepa perché si bloocano i muscoli che consentono la respirazione. Si muore soffocati, insomma.
Credo che sia fuori luogo valutare se sia peggior morte questa o quella causata dalla SLA. Certo, Piergiorgio Welby lo abbiamo visto in tivvù. Gli ultimi giorni di Bruno Lauzi no.
Ma in un certo senso entrambi si sono raccontati a modo loro anche nell’ultimo atto.
Ulla-Carin Lindquist avrà scelto il modo suo in questo libro che non leggerò.
Nessuna paura e nessun disagio. Vedo la morte e i morti da 28 anni.
Fare un giro nei padiglioni di oncologia pediatrica, per esempio, non è divertente affatto.
Credo semplicemente che il libro di Ulla sia un bellissimo racconto, magari un insegnamento. Ma credo anche che non sia possibile cucirselo addosso come un vestito.
Ognuno, giunto al capolinea, indosserà la morte come l’abito che gli è più consono. E nessuno può avere un abito uguale a quello di un altro.
yawn generico. a parte per enrico gregori, che mi piace leggere.
scusate se posto qui un messaggio non attinente,ma lo faccio solo per la maggiore visibilità del locus.Desidero che vi rechiate sul post della stanza accanto 2 a leggere il seguito.intanto manifesto tutta la mia solidarieta’ alle persone che qui hanno postato e testimonio la mia piu’ sincera solidarietà a tema del dolore e della malattia.Mi impegno a un intervento piu’ circostanziato appena possibile.grazie.
No caro Salvo, nelle foto che ti ho spedito ero già malata, le farò ristampare e ti imvierò le immagini dell’altra vita…permettimi la civetteria di dirti che quando ero “nei miei cenci”…ma quella era un’altra storia…..ciao maghetto.
Tessy
Credo di aver letto qualcosa della Lindquist perché la Svezia e Siracusa sono gemellate per via di Santa Lucia, unica santa venerata in Svezia, che è un paese protestante. Ogni anno viene eletta la Lucia di Svezia, una ragazza che insieme a due damigelle e ad una delegazione svedese viene ospitata a Siracusa durante la festa di dicembre. La Lindquist, come giornalista, ha seguito la festa e i gemellaggi per anni.
Mi ha impressionata il fatto che una donna in carriera in un paese laico e aperto come la Svezia abbia saputo vivere la malattia il dolore l’appossimarsi della morte. L’Occidente in genere è più materialista e superficiale riguardo alla morte…
Concordo con Gregori. La morte ha un volto diverso per ognuno di noi e quindi la affronteremo con un abito che è solo nostro. Io piango anche per gli ascessi, quindi non sono messa molto bene…
Come sempre, vi ringrazio tutti per i commenti fin qui pervenuti… nonostante l’argomento trattato non sia dei più facili da raccontare.
Cercherò di interagire con alcuni di voi.
Se volessi affermare la complementarità tra la vita e la morte, attraverso la malattia un dolce distacco,talvolta, lo farei proponendovi un libro e un dvd:
“Fine è il mio inizio” un padre racconta al figlio – di Tiziano Terzani.
Quando la morte è annunciata e permette di considerarla parte di Noi e condivisibile con gli altri senza disperazione e senso di abbandono da sé e da chi ci ha sostenuto sempre: morte come speranza di vita migliore e ricordo del proprio caro per tutti Noi!
Luca Gallina
@ Leucosia, Cristina, Maria Lucia
Vi ringrazio moltissimo per averci raccontato le vostre esperienze.
Qualunque cosa possa scrivere, dopo avervi letto, non potrà che suonare come stupido.
Vi ringrazio e vi abbraccio.
–
Un saluto speciale anche a Caterina
@ Milvia
Grazie per i tuoi commenti. Sei molto gentile. Non credo che ci voglia coraggio per parlare di certi argomenti. Se l’ho fatto è perché lo sentivo… per le ragioni spiegate nel post.
–
Un caro saluto a Simona.
@ Martina
Grazie anche a te.
Ne approfitto per precisare che non pubblico mai un post in previsione dei commenti (molti o pochi) che potrei ricevere.
@ Elektra, Zauberei, Francesac Serra, Maria e Jean
Ringrazio anche voi.
Però non mi pare che siano arrivati commenti solo da donne.
Torno dopo.
A più tardi.
Qualche settimana fa ho visto il film Lo Scafrandro e la Farfalla, e l’effetto per me è stato anche più terrorizzante trattandosi in quel caso addirittura di un ictus.
Si comprende con tali storie la vaghezza dei nostri sogni, l’inutilità delle nostre manie ed ossessioni. Basta un numero del destino estratto a sorte per sbaglio e la nostra fragile immortalità, conquistata attimo dopo attimo, scompare.
Solo l’arte, film o libro poco importa, può descrivere un simile cambiamento nella nostra vita. La religione, con il suo bagaglio di speranza spesso malriposte, e vagamente inadeguata per una cosa del genere.
Un caro saluto a Morena Fanti, Salvo Zappulla e Fabioletterario
@ Raffaella
Hai scritto: “Massimo, proveranno fastidio e rancore nei tuoi confronti”.
Ti ringrazio per la preoccupazione, ma non mi pare che sia così.
@ Fabrizio
Grazie per il link. E per quello che stai facendo per il tuo amico Sante.
Un abbraccio a te.
Un saluto a Stefano, Luca, Maria Gemma e Maria Lucia.
–
A Gea e Silvia dico grazie per essere intervenute nonostante le perplessità.
@ Enrico
Hai scritto: “Ognuno, giunto al capolinea, indosserà la morte come l’abito che gli è più consono. E nessuno può avere un abito uguale a quello di un altro.”
Mi trovi perfettamente d’accordo.
E, sì, il libro della Lindquist è un bel racconto. Non so se può essere un insegnamento, ma penso che possa aiutare a riflettere chi è nello stato d’animo giusto per accettare una lettura del genere.
@Paola Calvetti
Grazie per essere intervenuta, Paola. Lo so che mi segui. Una volta ci siamo scritti, mi pare. Intervieni più spesso, se puoi. Mi faresti molto piacere. Hai fatto benissimo ad accennare al tuo nuovo romanzo, “Perché tu mi hai sorriso” (Bompiani, 2006).
Parlacene in maniera più approfondita. Perché hai scelto di scrivere questa storia?
Magari potresti “postare” un brano estratto dal libro.
Un saluto ad Outworks 110
–
(off topic)
Outwork in realtà si chiama Benedetto Marinuzzi e ha appena pubblicato un nuovo libro: “L’onore della guerra”:
http://www.sbcedizioni.it/dettagli.asp?sid=83624297120080317220927&idp=76&categoria=
Ti faccio tanti in bocca al lupo, Benedetto.
@ outworks: hai ragione, l’arte è un modo meraviglioso per esprimere il travaglio che precede il trapasso… Sto riflettendo su quello che scrivi della religione come bagaglio di speranze mal riposte. Certo, difficile è credere, perché ci viene chiesto di sperare contra spem, contro la speranza stessa, di diventare folli e pensare che ci possa essere un senso per la sofferenza, di chiamare sorella la morte… Pasqua è vicina. La vicenda di un Dio sofferente, fragile, mortale, massacrato, è la vicenda di ognuno di noi. Non so se le sofferenze della vita intaccheranno le mie convinzioni, ma mi piace credere che dopo il Venerdì venga la Domenica.
Mi scuso per il mio post di ieri. Non era mia intenzione essere polemica.
non so se può servire, ma segnalo questo sito
http://www.aisla.it/
“bella Morte, pietosa
tu sola al mondo dei terreni affanni”
(Leopardi)
Luca Gallina
e quest’altro
http://www.slaitalia.it/Index_la_sla.html
Mi ritrovo molto nei commenti di Enrico Gregori e di Zauberei e di tutti coloro che sono vicini a quelle posizioni.
La morte è un “riposizionamento” assolutamente personale del nostro modo di sentire la vita e tutto ciò che ne fa parte. Ho sempre pensato che esistano molti modi per “andare via”, non solo quelli che colpiscono il corpo. In ogni caso la vita e la morte sono due eventi ai quali difficilmente possiamo prepararci e l’unica possibilità è affidarsi alla vita. Io, sempre a livello personale, ritengo che siano due delle esperienze della vita stessa, estreme senza dubbio. Ogni volta che “deleghiamo” la nostra vita al lavoro, ai doveri, alle coercizioni esterne, stiamo rinunciando alla sua sperimentazione. Stiamo non vivendo. Se siamo dentro la nostra vita, nelle sue gioie ed i suoi dolori, possiamo temere, ma non sentirci perduti.
La morte fa parte della vita, nel senso che ne è un aspetto fondamentale, imprescindibile. La morte dà addirittura significato alla vita, poiché una vita senza morte non sarebbe umana o terrestre, non apparterrebbe neppure all’universo.
Nell’universo infatti tutto ha un inizio e una fine. Combattere la morte o ritardarla artificialmente significa andare contro la vita, e quindi vivere nell’illusione, al di fuori della realtà. Voler vivere a tutti i costi è non meno innaturale che voler morire a tutti i costi. Voler vivere da eroi è non meno alienante che voler morire da martiri.
Luca Gallina
Ecco, Eventounico ha detto quello che volevo direi io ma non mi venivano le parole, il modo esatto di esprimerlo.
L’unica cosa che mi capita di notare spesso (e mi dispiace) è che, di fatto, se ne parli poco quando invece, secondo me, avremmo molto bisogno di ricordarcela – questa morte – in ogni sua forma o venuta.
Poi ognuno ha il suo ‘modo’. Assolutamente.
Penso solo che queste interiorizzazioni meriterebbero più esternazioni. Magari non in pubblica piazza, chiaro. Con il compagno/a, gli amici intimi, in famiglia, coi figli di una certa età… e viadicendo.
Penso che a volte, in certe situazioni, sia davvero liberatorio. Usare le parole, così come vengono, spurgare dolori, angosce, ossessioni e terrori.
Ma non c’è una ricetta per prepararci. Nada.
Non c’è un unica ‘strada’ per evitarsi luoghi più tortuosi e complicati. No che non c’è.
C’è, come dice Eventounico, la vita, da lì si, dovremmo partire e quel discorso che faceva all’inizio del post Massimo, il correre sempre – troppo, ovunque – perdendo una meta precisa… ecco, su quella cosa lì dovremmo riflettere, secondo me, ‘di brutto’. Dovremmo smetterla di darci alibi e imporci uno stop – qualche minuto ogni tanto, per cominciare – allora forse certi elementi ci diventeranno meno estranei. Elementi come gli alberi in fiore o la morte. Poi certo, il lavoro-i soldi-le scadenze-gli impegni-la carriere-il sentirsi realizzati-il raggiungere certi traguardi-non finire sotto un ponte…. motivazioni di tutto rispetto che ogni giorno ci assorbono energie e attenzioni. Ma poi?
Ciò che conta in realtà non è né la vita né la morte, ma la dignità dell’essere umano, l’essenza della sua umanità. Vita e morte coincidono quando è in gioco la difesa del valore del senso di umanità. Aver paura della morte, quando è in gioco questo valore, significa non saperlo vivere con coerenza, sino in fondo.
L’unica cosa di cui bisogna aver paura è proprio questa incapacità a essere naturali, a vivere con naturalezza la propria umanità.
Luca Gallina
Condivido il punto di vista di Enrico Gregori, di eventounico, e di tutti quelli che hanno espresso idee simili.
Poi mi trovo pienamente in sintonia con Luca gallina, perchè anche io penso che la chiave dell’autoconsapevolezza sia appunto la propria dignità di essere umano. Un essere che ha bisogno di riconoscersi nello svolgersi naturale delle sue azioni e della sua crescita, interiore ed esteriore, s che solo se si pone come valore intrinseco, può accedere ancora ad Altro.
Se ci si “sveglia” poi è impossibile continuare a dormire…e non c’è anestesia che tenga.
A Massimo tutta la mia stima per aver proposto questo argomento, che come dice Barbara Gozzi, andrebbe esternato e non celato alla vista e all’intelletto come la nostra società impone. La morte appartiene soltanto alle camere ardenti, ed ai cimiteri, non la si guarda in faccia eppure procede al nostro fianco, come dice Enrico, basterebbe andare un giorno in qualche reparto di “tumorati di dio” adulti e bambini, per rendersi conto di come l’abbiamo esclusa dai nostri pensieri.
E non credo che sia una pulsione contraria all’istinto di vita a provocare questa fuga dalla realtà , ma piuttosto l’effetto di un estetismo esasperato che travisa la naturalità delle cose, e basa i suoi valori sull’artificio.
Se non fossimo così sofisticati, avremmo rispetto ed amore per qualsiasi evenienza della vita, compresa la morte che ne è la conclusione.
cri
volevo chiarire una cosa.
io non mi rifiuto di parlare della morte. l’ho sempre fatto, anche con i figli, anche da piccoli.
non me la sento di discutere le gioie della sofferenza, di quanto ti nobiliti, di quanto ti riposizioni rispetto alle cose.
la notizia è che non sempre lo fa.
e siccome nella mia vita ho spesso dovuto prendermi cura (ma davvero, non nominalmente delegando ad altri. in prima persona) di malati gravi e terminali, sono un filino refrattaria alle belle teorie. e di conseguenza mi sento un po’ estranea a questo dibattito.
se devo esprimere un’opinione, concordo con evento ed enrico, per quel che riguarda la morte. e la mia è la stessa idea di mio figlio cinquenne, che ho già raccontato altrove e non ripeto.
scusate se sono stata brusca.
Gea, è assolutamente comprensibile la tua posizione, per il tuo vissuto. Io l’ho detto in apertura: finché non si è toccato con mano, è difficile parlarne. E anche quando si è toccato, resta sempre quell’amaro in bocca difficile da far passare…
In effetti, e non scherzo, Massimo è stato coraggioso a proporre un post di questo tenore. Sono argomenti che possono turbare la sensibilità di qualcuno evocando o no situazioni realmente accadute.
Vorrei però far notare che questo sulla morte per sclerosi laterale amiotrofica segue quello sul centenario di anna magnani, quello sulla donna che parlava con i morti e quello sul sottosuolo.
Forse, per evitare di scorticarci i testicoli a furia di grattarceli, si potrebbe trovare un post di grande spessore culturale ma su argomento lieto. Che ne dici, didò, di “epistemologia della gnocca”?
Enrico@ Lo ribadisco: sei un grande!!!
Riprendo l’ultimo commento di Gea per integrare il mio pensiero di questa mattina.
La morte ha il grande valore di riproporre la facoltà di scegliere il modo di intendere la vita.
Essa rompe la catena delle “necessità indotte”, indicata da Barbara, ed alle quali, a me personalmente, sembra spesso (forse troppo spesso) che non si possa ovviare. Quasi fossimo su una giostra che gira vorticosamente, ma dalla quale non si può scendere.
Ecco, l’idea della morte consente di “fermare la giostra”, ci fa riappropriare della vita stessa.
Non è retorica. Come dice Gea, abbiamo “dato”, ma dobbiamo almeno capitalizzare quell’unico insegnamento. Scegliamo “come” essere vivi.
L’unica alternativa è quella di Enrico, ma a certe parti, sono alquanto affezionato.
Yes, Gea, sono pienamente d’accordo con te (e c’era bisogno di dirlo?).
E con Enrico, e poi Evento, Cristina, e molti altri purchè si tenga presente la premessa di Gea: “…la notizia è che non sempre lo fa.”
La malattia, il pensiero della morte, la morte stessa sono occasioni di ripensamento, di “riposizionamento”; ma non sempre vengono colte. Non tutti hanno anche gli strumenti intellettuali e culturali per coglierle.
E altre volte può non dipendere neanche da quello.
Io peraltro non me la sento di giudicare.
Bene poi fa Luca Gallina a citare Tiziano Terzani, ma non dimentichiamo che per il suo percorso sereno verso la morte era fortemente sostenuto da un bagaglio culturale enormemente arricchito dalla sua conoscenza della cultura orientale. E questo è quello che in fondo rende affascinante e per nulla drammatico il suo ultimo libro.
leggiamo libri, guardiamo film e soprattutto sperimentiamo quotidianamente vivendo…ne discutiamo con amici, figli…sappiamo tutti o quasi tutti che la vita andrebbe affrontata in un’altra maniera, meno frenetica, meno scialba…sappiamo tutti che le cose che contano davvero sono “altre” ma poi
il frullio del vivere quotidiano in cui (ci) siamo costretti a ballare continua a renderci ciechi, sordi e un tantino stupidi….E’ davvero così difficile “imparare ad amare la vita” senza dover per forza passare in un girone infernale?
o dobbiamo accorgerci di quant’è buona l’acqua solo quando stiamo per morir di sete!
Mi ha colpito profondamente la tematica di questo libro.. chi vive la malattia sulla propria pelle, o anche di riflesso attraverso le vicende delle persone che ama, sa quanto questa esperienza sveli realmente il senso delle cose, permetta di vivere situazioni estreme nel dolore, ma anche di amore puro e assoluto. Quello che fa la differenza nelle esperienze di questo tipo è la dignità con la quale si affronta proprio il dolore, e nelle parole di questa donna di dignità ce n’è davvero tanta. Non so se riuscirò a farlo in questo particolare momento della mia vita, ma spero di riuscire a leggere presto questo storia così toccante.
Anch’io ho trovato qui occasioni di riflessione, sia per il libro proposto che per le testimonianze trovate tra i commenti. Mi dispiace però dover leggere anche battute a sfondo sessuale che secondo me mancano di rispetto soprattutto a coloro, guarda caso donne, che hanno avuto il coraggio di raccontare la loro malattia.
Buona giornata.
@Carlo S.,grazie! io sono agnostico però!
La vita e la morte sono aspetti naturali che andrebbero vissuti in maniera naturale, secondo le leggi della natura. E nella natura la morte, in realtà, non esiste se non come forma di passaggio. La morte è l’anticamera di una nuova vita. Tutto è trasformazione. Vita e morte fanno parte di un immane processo di trasformazione, di cui noi non vediamo né l’inizio né la fine.
La consapevolezza di questo dovrebbe portarci a relativizzare le questioni personali, i limiti soggettivi. Ognuno di noi fa parte di una specie particolare e al tempo stesso universale: il genere umano.
Luca Gallina
@Luca Gallina
Ecchevvordì! so’ agnostico pure io. Ma la cultura orientale, di cui Terzani si era molto interessato, quella stessa che oggi i cinesi tentano definitivamente di cancellare, rispetta proprio le leggi di natura ed aiuta ad accettare la sofferenza e la morte come aspetti ineluttabili della vita.
@Gea
rispetto la tua posizione e considero ammirevole il tuo impegno a sostenere i malati terminali con coinvolgimento profondo emotivo da parte tua, se me lo consenti;allora se posso, voglio dare la mia testimonianza personale: ho vissuto per circa 13 anni, periodicamente, per cure e controlli medici reparti di oncologia medica pediatrica per mio figlio Alberto in Italia e all’estero; individuando perfino la neoplasia che l’aveva colpito, molto rara, attraverso convegni e specialisti: io e mia moglie, la prima, pensavamo di perderlo nei primi anni dell’insorgenza del fatto acuto:negli anni si è risolto tutto, senza lasciare segni evidenti fisici della malattia; puoi immaginare come un figlio possa convivere cosi tanti anni sotto stress farmacologico (terapia USA chemioterapica a basso dosaggio) e psichico con i suoi coetanei nelle migliori scuole d’obbligo in Italia e all’estero.Nei reparti di oncologia ho visto morire i bambini dai 2 ai gli undici anni o di leucemia o quant’altro in Italia e all’estero.
Non solo ho imparato meglio a rispettare e ha tenere in alta considerazione la vita di tutti Noi, ma, e considerare la morte un’evenienza cosi naturale e necessaria che ho smesso di attaccarmi alle cose materiali ed immateriali, e ho imparato ad ascoltare e amare le persone attorno a me come se fosse sempre l’ultimo giorno della mia fottutissima e privilegiata vita:e la letteratura,l’arte,la cultura, le religioni e la posizione di preminenza socio economica hanno finito di abbindolarmi per sempre!!!!
Viva la vita e gli amici uomini di scrittura che sono intervenuti, sorprendendo tutte le donne amiche di scrittura sempre preparate e affascinanti come te Gea!
Luca Gallina
P.S. Caro Enrico Gregori io sono sempre con te e condivido le tue proposte per via del tuo senso del pudore, che ti porta a sdrammatizzare sempre!Certo secondo me!
@ Massimo Maugeri
Grazie Massimo per la tua squisita cortesia di aver inserito il link del mio libro. Il libro sarà in distribuzione dopo Pasqua, speriamo bene.
@ Maria Riccioli
Il segreto della religione è quello della speranza. rendere la sofferenza, la morte di un bambino come ne La peste di Camus, un fatto accettabile comprensibile contro ogni logica.
L’arte invece secondo me si muove su un livello insieme più basso e più nobile: spiegare il punto di vista e la debolezza,la miserrima debolezza, di chi soffre.
@ Enrico
sono d’accordo ognuno nel momento topico vive la morte e la sofferenza come può e come crede. In fondo nel nostro fragile destino di uomini questa è una delle nostre piccole libertà.
“Gli occidentali non capiscono la capacità di chi soffre e invece si lasciano prendere da mille diversi tipi di angoscia.
C’è del vero, in questa frase, o è solo un luogo comune?”
Cambia qualcosa?
Cambia qualcosa se muori circondato dall’amore dei tuoi cari o invece odiato come un dittatore?
Cambia qualcosa se in vita hai realizzato i tuoi sogni oppure sei rimasto un fallito?
La morte di chi muore solitario in un vicolo come un piccolo spacciatore
è diversa da quella di un papa circondato da onori?
Si muore e basta, ognuno come può esprimendo quello che è …e allora?
Outworks, concordo… la letteratura è grande compagna del dolore e della sofferenza perché cerca di spiegarla, di razionalizzare la debolezza, di sollevarla ai vertici della poesia, che è come la perla che nasce dal dolore dell’ostrica.
La religione può apparire un conforto a buon mercato ma penso che Pascal non sbagliasse nella sua proposta di scommettere su un possibile riscatto dallo scacco di noi canne pensanti..
@Massimo ed Elektra, grazie a voi per il post, la segnalazione e gli abbracci che anche se virtuali fanno sempre bene!
Ringrazio tutti per i nuovi e affettuosi commenti pervenuti.
Grazie. Grazie davvero.
@ alja
Appena ho letto il tema proposto da Massimo Maugeri mi sono venuti in mente certi quadri di Picasso, quelli del periodo blu, i suoi saltimbanchi dalle strane facce dallo sguardo perso nell’incoscienza dei tre tempi passato-presente-futuro, senza una meta e, per esprimere ancor più incisivamente quel che vorrei spiegare, il famoso dipinto di Degas intitolato L’Assenzio, dove nello squallore di un bar una coppia appare smarrita nel vuoto che sembra dilatarsi intorno a loro, quei piedini piatti di lei sotto il tavolo, l’espressione inebetita con quel buffo cappellino sulla testa, affiancata da un barbuto accompagnatore dalla stanca e demoralizzante umanità. Un vero capolavoro dalle tinte alcoliche: ci salta all’occhio la mancanza di vita nell’esistere, personaggi impietriti dalla tristezza e dalla mancanza di speranza e di gioia interiore che solo l’Amore può trasmettere. Ecco che l’a privativo davanti alla parola mors ribalta completamente il suo significato opponendosi ad essa come un valoroso condottiero.
Siete prontiiiii? Siete caldiiiii? No non pensate a Madonna, pensate a Renoir e al suo bellissimo quadro Colazione in riva al Fiume con i suoi soggetti rilassati nei giorni di festa, le tavole imbandite, così come quel brulicare di vita che sembra di sentirla sussurrare nelle orecchie – Signorina ancora un po’ di caffè? – inondazione di luce e frizzante nelle magiche scene sovraffollate. Lo sguardo viene catturato dalla ricchezza di movimento e di particolari mai lasciati al caso, avvolti in una gioia quasi sensuale che ringrazia, per il solo fatto di esserci, il dono della vita – Oh si grazie ancora caffè! lei è molto gentile, ma guardi che meraviglia le acque brillanti del fiume, hanno strani riflessi luminosi, frammenti di luce colore dell’oro –
Picasso ritrae le maschere di un circo umano addolorato dove non si sa se effettivamente esiste la preghiera.
Degas si mette a dipingere la funzione scenica così come la fotografia riesce a testimoniare.
Renoir ama il colore pastoso e frizzante con tavolozza piena.
Tutti e tre, secondo me, ci invitano ad apprezzare la vita ed a rintracciarne il senso, anche attraverso i contrari.
@ Totò
Totò se ci sei batti un colpo, tiralo fuori quel bel corno rosso fuoco, tiè, tiè e arcitiè. Scusate. Era per spezzare un pò con allegria e soprattutto non vogliatemene.
Cito una frase del libro che tengo sul comodino in questi giorni ( nel blog fa tendenza rivelarlo a quanto pare)si tratta del ‘de brevitate ‘di Seneca,non per trarne una citazione erudita,ma per sintetizzare il mio pensiero.Il filosofo dice ”sappiamo che non basta una vita per imparare a vivere,a maggior ragione non può bastare una vita per imparare a morire’.Non saremo mai preparati alla morte perche’ in effetti neppure nel momento di abbandonarla avremo finito di sperimentare come è bene o giusto o bello vivere.Con continui’riposizionamenti’,dubbi,cedimenti,e nuovi propositi cerchiamo le verità che solo l’esperienza esistenziale potra’ insegnarci.ma la frase ha tante chiavi di lettura,e si rivela illuminante sotto altri,insospettabili aspetti,neanche concettuali,semplicemente ponendo in risalto le anafore:porre in relazione la vita e la morte,antitetiche per antonomasia,con lo stesso verbo ‘imparare’ reca in sè molte soluzioni. Se ho imparato a vivere,insieme e allo stesso modo ho imparato a morire,come ho affrontato la vita?cosi’ mi troverò ad affrontare la morte.Se ho sprecato il tempo e le mie risorse,il tempo vissuto sara’ stato troppo breve,se ho saputo spenderlo avro la sensazione di averne avuto a sufficienza. Il fatto stesso di porsi il problema di come vivere indica che ci si sta preparando alla morte.avrebbe senso tale problema in chi avesse la coscienza di essere immortale?E infine:chi si sente a disagio davanti al pensiero della morte,al tema della morte,secondo me si porta tale inadeguatezza e angoscia anche, e questo è peggio, nell’affrontare la vita.Questo applicando il metodo cognitivo del procedere per analogie.O mi sbaglio?
Una vita ben spesa lunga è.
Leonardo da Vinci
@ Maria Gemma e Maria Lucia
Il mio secondo nome è Maria Pia.
Erudizione o meno abbiamo espresso lo stesso concetto.
C’è una bella frase di Patty Pravo in una canzone: canta che è felice anche quando in un mattino d’estate guarda i fiori dentro un bicchiere.
Baci
Il primo è Rossella
@Massimo. TI ho inviato una mail per me molto importante!!! Spero avrai tempo di leggerla;)
Grazie anticipatamente per il tuo tempo
Ge
@ Germano
Ho visto la mail. Approfondirò (spero) nei prossimi giorni. Ciao, Ger.
Vi ringrazio per i nuovi commenti.
L’ho già detto: mi dispiace se qualcuno si è sentito turbato e disturbato da questo post, ma ho già spiegato le motivazioni che mi hanno spinto alla pubblicazione.
Al di là delle battute di Enrico (volte a sdrammatizzare un po’ i toni), che peraltro conosce molto bene sia Cristina, che Maria Teresa (così rispondo al commento un po’ critico di non mi ricordo chi), sapete bene che alterno post seri (va be’, ogni tanto ne capita uno molto serio, come questo) a post leggeri.
Segnalo questo articolo di Daria Bignardi (in ricordo di Chiara Lubich):
http://bignardi.style.it/archive.php?eid=170
@ Maria Gemma e Rossella Maria Pia…
+ me = le tre Marie!!!
In tempo di colombe possiamo aprire un forno!
Scusate, sdrammatizzo un post un po’ pesante ma interessantissimo.
Buona Pasqua a tutti nel segno e nel nome di Chi ha dato un senso alla morte.
Massimo, letteratitudine mi sembra un labirinto di scritti, dei quali resta difficile fare una scelta.
Sono tutti interessanti e da commentare. Perdo l’orientamento, anche per mancanza del tempo a mia disposizione.
Fin da piccolo, ho preferito le attività che comportavano il movimento, non riesco a star fermo più di un’ora.
Nel muovermi mi sento crescere e parte del Creato.
Leggendo di sfuggita alcuni racconti, mi ha colpito particolarmente la persona colpita da una grave malattia, estratto dal romanzo della Lindquist.
La morte viene generalmente percepita come la fine di tutto ciò che ci ha interessato nella vita, inteso come suo prodotto e quindi legato solo a lei. È anche vero, ma solo per chi non abbia curato di trovare la porta che lo conduca oltre questo limite. È la porta che ci collega con l’Universo e ci rende partecipi delle sue innumerevoli, anche se apparentemente non coordinate, mutazioni.
Alla base di questo trauma che infligge innumerevoli persone, vedo una mancata adeguata educazione e istruzione, che consiglierei fin dall’adolescenza, dell’uso della vita.
Uno stile di vita che renda maggiormente conto della sua precarietà e fallibilità, ci renderebbe più prudenti e umili, tanto da indurci a trovare una speranza nelle forze metafisiche, le sole che ci collegano con l’Universo e, allargando i nostri confini esplorativi, ci rendano la morte come un passo logico di continuazione in un’altra forma, e non di fine definitiva.
La morte assume così un senso di sollievo, perché liberatorio della limitatezza di questa vita.
La persona colpita dalla grave malattia, la sopporta con dignità e coraggio, segno di serietà e maturità. Vorrei esserle vicino e sorridendole tenerle la mano senza pronunciare una parola.
Un sorriso esprime di più, nasconde anche le proprie paure, i propri timori, chi non li ha?
Le malattie risvegliano la coscienza nell’uomo di essere debole e limitato, il dolore dovrebbe sollecitare la nostra forza di sopportarlo per vincerlo o per soccombere con dignità, nella coscienza che si è vissuto alla ricerca di superare i nostrii limiti.
La vita è più forte e va vissuta degnamente, va giustamente temuta per non soccombere alla propria presuntuosità ed egocentricità.
La morte è liberazione da questo stato di subordinazione, dal quale è possibile elevarsi solo nutrendosi di ideali che siano sopra di lei, perché l’annullano elevandoci.
Allego una mia poesia sulla vita e la morte:
Saluti,
Lorenzo
Lo stato attuale dell’umanità intera, afflitta da ingiustizie, persecuzioni, malattie, paure causate dallo stato di disorientamento per mancanza di ideali veri e sentiti che la sostengano, che riempiano il vuoto esistenziale creato dall’uso esasperato e malintenzionato delle libertà personali, mi spinge a comporre questi versi.
Vivere e morire senza paura:
Sei benvenuta sorella vita
ti lodiamo e ammiriamo
per le gioie che ci doni
ma ti temiamo per i dolori
e le sventure che ci porti
nel non riconoscere il loro fine.
Sei benvenuta sorella morte
in te troviamo liberazione
dalle tribolazioni della nostra esistenza
dai dolori non compresi e non sostenuti.
Entrambe sono utili, belle e tragiche
a secondo della nostra preparazione
al loro incontro.
Colui che soffre nella vita
desidera la morte e non la teme
mentre colui che giova di ogni fortuna
e non pensa ad altro
la teme e prova spavento
al suo incontro.
Entrambe sono i poli
della nostra coscienza
donano e richiedono
senza curarsi
della nostra disposizione
a capirle e seguirle.
Perchè spaventarsi al loro venire
perchè aver timore per ciò che portano?
spavento e timore sono segni
che non abbiamo curato la loro presenza.
Lorenzo Russo Gänserndorf, 19.10.05
Sono una volontaria dell’associazione Viva la Vita che si occupa di assistenza ai malati di SLA nella regione Lazio (www.wlavita.org).
Per tutti coloro che fossero interessati e che siano di Roma, stiamo preparando una presentazione del libro della Marsilio al Policlinico Gemelli il 7 maggio alle ore 17.00. Interverranno un neurologo per spiegare la natura della malattia, l’associazione, Erminia Manfredi e soprattutto Pamela Villoresi che leggerà alcuni passi del libro.
Per Paola Calvetti: anche se l’anno scorso la varicella ti ha bloccato a casa, ti ringrazio per la disponibilità e sensibilità dimostrata! Pamela Villoresi è stata superba e l’accompagnamento di Ron al pianoforte ha incorniciato le parole del tuo libro come meglio non si potesse sperare…
Un abbraccio
Simonetta