I registi Agostino Ferrente e Giovanni Piperno raccontano il loro ultimo documentario “Le cose belle”, in sala dal 26 giugno
Intervista di Ornella Sgroi
Si dice che il tempo aggiusta tutto, ma chissà se il tempo esiste davvero. Forse è solo una scaramanzia, forse è solo una canzone. Una di quelle tra le cui note si rifugia Enzo, uno dei quattro protagonisti de Le cose belle, il nuovo documentario di Agostino Ferrente e Giovanni Piperno che dopo dodici anni tornano nei luoghi geografici e interiori del loro precedente Intervista a mia madre per scoprire cosa è rimasto dei sogni di quei quattro bambini nati nella periferia di Napoli. Enzo e Fabio, aspirante cantante uno, calciatore professionista già mancato l’altro. Con loro, Adele e Silvana e la rispettiva ambizione di ballerina e di modella.
Qualunque cosa sia il tempo, Ferrente e Piperno lo hanno inchiodato sul grande schermo attraverso le loro storie e i loro sguardi. Li avevano lasciati nel 1999 appena adolescenti e li ritrovano oggi quasi adulti, ognuno alle prese con la difficoltà del vivere quotidiano, ancora più complesso se ci si trova ad affrontarlo in un contesto di disagio e abbandono istituzionale in cui passato presente e futuro sono solo parole vuote senza alcuna possibilità concreta.
“Quando li abbiamo rincontrati” ci racconta Agostino Ferrente “la prima impressione è stata di dolore, di fronte alla conferma di ciò che già dieci anni fa era prevedibile viste le premesse. E cioè che se cresci in un contesto sociale difficile, difficilmente riesci ad avere le opportunità che ha chi cresce in ambienti più protetti. Poi abbiamo capito invece che, nonostante questo, loro sono dei fiori cresciuti tra le rovine, perché hanno resistito alle sirene della camorra e sono riusciti a condurre un’esistenza dignitosa, cercando le cose belle nel loro quotidiano”.
Mentre le immagini della loro adolescenza, quei pezzi di intervista lasciati fuori dal primo documentario, si intrecciano con gli ultimi quattro anni delle loro vite, il cambiamento dei loro sguardi attraverso il tempo è una lama ostile che chiede ragione di tanta fatica e tristezza. L’ironia ruffiana di Fabio e la sfrontatezza smaliziata di Adele si sono spente dietro i loro occhi. Mentre la malinconia ingenua di Enzo e l’espressione disorientata di Silvana sono ancora lì.
“Di fronte ai loro sguardi così cambiati abbiamo provato un senso di impotenza, almeno all’inizio, finché non abbiamo capito che ci stavano dando una grande lezione di vita. Ci dimostravano ogni giorno che il successo non è diventare una modella famosa o un celebre calciatore, ma riuscire a vivere dignitosamente senza prendere facili scorciatoie. Sono diventati più consapevoli e realisti, il che non vuol dire meno felici”.
La straordinarietà del film di Ferrente e Piperno, in sala dal 26 giugno e già premiato al Taormina Film Fest come miglior documentario italiano dell’anno e prima ancora con un Nastro d’Argento Speciale, sta proprio in questo intersecarsi di piani temporali in cui sono i volti degli stessi protagonisti a maturare e cambiare seguendo lo scorrere ineludibile delle loro età. Non c’è finzione, non c’è make-up. E il confronto con il riflesso di quelle vite cresciute è spietato anche con lo spettatore.
“L’incontro con il proprio futuro è una macchina del tempo che restituisce anche la crudezza della vita, ma al contempo rende eroi del quotidiano coloro che cercano di non perdere la propria bellezza nonostante tutto. Io e Giovanni abbiamo fatto un patto con quei ragazzi tanti anni fa e lo abbiamo rinnovato una seconda volta, noi abbiamo messo tre anni della nostra vita nelle loro mani e loro hanno messo la loro intimità nelle nostre, con un rapporto di fiducia reciproca che non è mai stata tradita”.
E non era facile, considerato quanto il mezzo cinematografico e televisivo possa essere ammaliante, in un’epoca come quella attuale fatta di reality show. Il che attribuisce un ulteriore valore al progetto di Piperno e Ferrente, che hanno fatto della verità filmica l’antidoto necessario contro false speranze.
“I ragazzi erano consapevoli, già dal primo documentario, che il film non avrebbe cambiato loro la vita dandogli la celebrità. Per noi era importante. E ancora più importante è che, dopo essersi rivisti in questo secondo film, abbiano trovato la spinta necessaria a prendere in mano ciascuno la propria vita per cambiarla da sé”.
“Questo progetto mi ha cambiato la vita due volte” conferma Enzo, presente alla proiezione di Taormina, “la prima, quando ho visto il primo documentario perché ho capito che non volevo più rinunciare alla mia infanzia per cantare insieme a mio padre nei ristoranti (la cosiddetta “posteggia napoletana”, ndr). La seconda volta, dopo aver visto questo secondo film, perché ho capito che cantare era invece ciò che davvero volevo fare e sono tornato a farlo”.
Dal documentario, tra l’altro, prenderà vita uno spettacolo in forma di cine-concerto, o meglio di “docu-recital” come lo ha definito Agostino Ferrente, con la collaborazione del Maestro Marco Vidino, esperto di musica tradizionale napoletana che da tempo cura progetti volti a fare riscoprire la posteggia.
Del resto, anche Napoli è protagonista discreta ma onnipresente de Le cose belle. Con le sue trasformazioni, la sua bellezza e i suoi degradi, la sua musica e la sua immondizia che per troppo tempo ha fatto notizia oltre i confini della città. E con la sua periferia, che potrebbe essere la periferia di qualunque altra parte del mondo.
“Il passato non è sempre meglio del presente” osserva Ferrente “e bisogna sempre avere chiaro che ciò che accade oggi è frutto di quanto seminato prima. Sarebbe un errore giudicare il presente senza considerare le responsabilità radicate nel passato. Responsabilità che noi adulti abbiamo verso i nostri figli, come le istituzioni le hanno verso i cittadini. Il film affronta temi universali che riguardano Napoli come tutti i Paesi del Mediterraneo”.
Ferrente e Piperno conoscono bene la realtà di Napoli e hanno scelto di raccontare quella parte della popolazione partenopea che ha deciso di non cedere alla camorra, nonostante le difficoltà del sopravvivere. Una scelta artistica che appare in controtendenza oggi, di fronte al successo della serie televisiva Gomorra ispirata all’opera di Roberto Saviano e diretta da Stefano Sollima, Francesca Comencini e Claudio Cupellini.
“In fondo si tratta delle due facce della stessa medaglia” commenta Giovanni Piperno “anche se commercialmente e sulla carta è più facile vendere la criminalità che la gente comune, anche solo per il fatto che il pubblico si diverte di più a vedere storie di criminali che storie di persone normali alle quali magari assomiglia”.
Da queste due facce deriva anche il titolo del documentario. Come spiega Enzo alla fine del film, al Sud si dice “tante cose belle” in forma di augurio, come a dire: non posso garantirti che non accadranno anche cose brutte, ma ti auguro almeno che quelle belle siano tante. E di questi tempi, di cose belle ce n’è un gran bisogno. Al cinema, come nella vita.
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Leggi l’introduzione di Massimo Maugeri
IL TRAILER
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