Nel nuovo appuntamento con il forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, coordinato con il supporto dello scrittore Claudio Morandini, ci occupiamo del romanzo d’esordio di Valerio Piperata “Le rockstar non sono morte“, edizioni e/o, (con una recensione dello stesso Morandini).
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LE ROCKSTAR NON SONO MORTE, di Valerio Piperata (edizioni e/o)
Veloce e buffo come un cartone animato, il romanzo d’esordio di Valerio Piperata, “Le rockstar non sono morte” (e/o, 2014), è un tributo insieme sincero e ironico al culto del Dio del Rock – evocato più volte, e qua e là, nei momenti difficili, pure nominato invano. Il giovanissimo autore, e l’io narrante che credo debba qualcosa alle esperienze di batterista dell’autore, un po’ credono un po’ no a questo Dio, di cui si sentono i Giobbi, sempre presi di mira, messi alla prova, perseguitati senza una ragione.
“Il Dio del rock me lo sentivo sotto la pelle, dentro al cuore” dice il liceale romano Davide Fagiolo, il protagonista, con slancio da integralista. “Mi dava coraggio, mi ci faceva credere. Perché siamo pochi, noi eletti dal Dio, ma siamo stati scelti da Lui per la forza e la costanza che abbiamo dimostrato di avere, nel nome del rock. Siamo disposti a superare ogni ostacolo, difficoltà, date a cachet zero, pur di arrivare dove vuole portarci Lui: la destinazione di questo viaggio la ignoriamo, sappiamo solo che, indipendentemente da quello che succede, dobbiamo continuare a camminare.”
Davide Fagiolo è batterista; o meglio, vorrebbe esserlo, aspira a esserlo, e non è detto che lo sia davvero: ma insomma, suona una batteria da quattro soldi in una band raccogliticcia che sembra un concentrato di tutte le aspirazioni, le illusioni, le bellezze e le goffaggini del rock (oltre che un significativo campionario antropologico di certa gioventù italiana di oggi, irrimediabilmente marginale). Il suo riferimento ideale sta in Ringo Starr, non certo in uno dei virtuosi della batteria che hanno imperversato in tanti gruppi degli ultimi decenni del Novecento: e questo suo ruolo, questa predisposizione verrebbe da dire caratteriale, se non genetica, gli consente di avere un punto di vista laterale, defilato, periferico, e appunto ironico, sulle vicende narrate. Fagiolo è il motore di tutto, il cuore del gruppo, la base su cui tutto il resto si tiene: eppure il suo ruolo, come quello di tanti altri batteristi, da Ringo Starr in su, non è riconosciuto. I batteristi stanno in fondo, di solito non si agitano eppure faticano più degli altri, vengono intervistati meno degli altri, sul palco dei concerti sono nascosti dall’agitarsi delle prime donne, nei video rischiano di rimanere comparse, se non macchiette. Ecco, Fagiolo è un po’ così, ma non sembra che gliene importi molto. Sa che in realtà senza la base ritmica (costante, anche se approssimativa) garantita dal batterista la musica suonata dagli altri non ha più senso. Il vero leader non è il frontman che si sgola e si scalmana davanti a tutti, ma lui, il negletto batterista in penombra – così, almeno, in un misto di modestia e megalomania, pensa il nostro protagonista.
Chiunque abbia vissuto, da ragazzo, l’esperienza di mettere insieme un gruppetto per suonare rock conosce quel misto di esaltazione, ostinazione, ansia e frustrazione che colora le giornate e agita le notti: i problemi tecnici, i locali improvvisati, l’acustica tremenda, il pubblico scarso e ostile o, peggio, indifferente, le cene offerte dai gestori a base di pastasciutta, le località sconosciute in cui nessuno ha fatto pubblicità al concerto – e la bellezza di certi momenti in cui miracolosamente tutto sembra andare per il verso giusto, il pubblico arriva e gradisce, e di colpo la fatica e i dissapori scompaiono, e si ha la sensazione di trovarsi dinanzi a un’inaspettata epifania. Ecco, c’è tutto questo nel romanzo di Piperata, ed è fresco e immediato come se fosse in presa diretta, improvvisato sul palco, senza tanti aggiustamenti in postproduzione.
Il rock di cui si fanno paladini i quattro del gruppo è paratattico, diretto, semplice; e anche lo stile e la lingua di questo romanzo lo sono. Frasi veloci, squadrate: zero subordinate o quasi, qualche periodo sgangherato che dia un tono di sincerità anche brutale, un tot di luoghi comuni che suggeriscano l’immediatezza del parlato. È una semplicità schematica ma vivace, coltivata nonostante gli studi dell’autore (e del personaggio, che sta finendo il liceo classico, il che vorrà pur dire qualcosa).
L’idea di rock che emerge nel romanzo di Piperata è istintiva, pulsionale: il rock è una musica che non è necessario saper suonare, è un culto più che un linguaggio – in ogni caso basta riuscire a balbettarlo per evocarlo. Volerlo suonare, nella logica semplicistica e appassionata di Fagiolo e dei suoi amici, equivale a praticarlo davvero: “beccare le note giuste” non è importante quanto sognare di farlo.
Il rock dei personaggi di Piperata è fieramente (ma, allo stesso tempo, si direbbe, inconsapevolmente) controcorrente: non si sente a suo agio nei giorni nostri, proprio non ci si ritrova. Forse per questo sta scomparendo, o “morendo”, interessa a sempre meno giovani, anzi non è più sentito dai giovani come il loro linguaggio. La vitalità diretta del rock è messa in un angolo dall’artificialità della musica digitale più commerciale, ancora più squadrata e elementare (musica che non si ascolta davvero, non si suona davvero). I maestri del rock, e anche quelli della canzone d’autore, intesi come riferimenti, modelli, padri ispiratori, profeti, o sono morti o sono anziani – e sgomitano in un pantheon sempre più affollato. Nel mondo dipinto da Piperata (e non solo da lui) il rock è fuorimoda: e a questo punto, i protagonisti possono rivendicare questa condizione di inattualità come un motivo di orgoglio, fino al punto di chiamare il proprio gruppo “I vecchi”.
Come il rock, il romanzo di Valerio Piperata scorre diretto, enfatico ma senza veri drammi. Piperata ama certa comicità fatta di nomi storpiati come in certe storie di Topolino (i celebri Setfiba, Vecchiotti, Caparotta, Peppino d’Elba, Negro d’Avola, Articolo 8, i temibili critici musicali Stroncatutti, Sgamasòle, Maria Castrante…), di accumulazioni e iperboli (e qui, nell’eccesso di caricaturalità, il modello sembrano essere, più che gli albi di Topolino, certe teratologie sociali del Paolo Villaggio dei tempi di Fantozzi: si pensi a località come Cecio Marittimo, Santa Maria Cosciona, San Pizzino, San Scatarro). Al Fantozzi dei bei tempi rimandano anche le elencazioni dell’abbigliamento tragicamente o mostruosamente casuale e inadeguato con cui il gruppo si presenta per la prima volta sulla scena, oltre alla descrizione dell’iperbolico megaedificio del supermanager discografico Ottavio Pilato. Forse avremmo fatto a meno di certi dettagli e certi nomi che sembrano scorciatoie troppo facili verso la risata (che so, un Nicola Latrina, un Mario Chiavica, o i già citati San Scatarro e Santa Maria Cosciona…), ma qui prevale un gusto per la corporalità che è proprio del carattere irriducibilmente infantile dell’Italia, e forse è proprio questo che vuole suggerirci Piperata.
Niente drammi, si diceva, in questo romanzo: niente conflitti dilanianti, insomma, non a scuola, dove pure il protagonista è trattato regolarmente a pesci in faccia dai coetanei, e di sicuro nemmeno in famiglia, dove anzi i genitori, ognuno a modo suo, finiscono per appoggiare con affetto, un pizzico di rassegnazione, una discreta dose di ammirazione e un po’ di rimpianto per le proprie occasioni perdute il sogno del figlio di costituire una rock band e di arrivare al successo (obiettivo che per un po’ sembra possibile). E anche quando la delusione per il mancato successo sembra interrompere per sempre il sogno di Fagiolo, anzi, proprio in quel particolare momento, gli affetti e l’ottimismo finiscono per rafforzare i legami e ricostruire la speranza. In fondo (non è una sorpresa, ma suona sempre bene), non è il successo in sé a contare, ma il lungo percorso che si fa per raggiungerlo.
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