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Fosca Massucco – “Per distratta sottrazione”
Raffaelli editore, 2015
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a cura di Claudio Morandini
“Per distratta sottrazione” è il titolo della raccolta di versi che Fosca Massucco ha affidato a Raffaelli Editore – la sua seconda, dopo “L’occhio e il mirino” (L’Arcolaio, 2013).
È vera poesia bucolica, questa di Massucco. Si inserisce con composta naturalezza in una tradizione illustre, che parte ovviamente da Virgilio, tocca Pascoli (gran traduttor di Virgilio, oltre che bucolico di suo), arriva, come sensibilità, dalle parti della Pieve di Soligo di Zanzotto, mette gli a-capo a Fenoglio (è Elio Grasso, che firma la densa prefazione, ad accostare colline a colline, Langhe a Astigiano). Intendiamoci sul termine “bucolico”: non vuole rimandare a bozzettismo, a localismi di maniera, a arcadie provinciali. Piuttosto indica una poesia che insiste con sguardo acutissimo sugli oggetti, sulle creature della natura, anche quelle più nascoste o neglette, sulle tracce lasciate dal lavoro dell’uomo, sul paesaggio lavorato ostinatamente, anche, se vogliamo, su quel che di tecnologico che ha cambiato la vita delle generazioni dei lavoratori della terra e degli abitanti delle campagne. E forse, a questo punto, potremmo usare più appropriatamente il termine “georgico”.
Non a caso Grasso definisce subito il mondo poetico dell’autrice, il suo quadrilatero di riferimento, come “metropoli boschiva, zeppa di sguardo e di passi privi di retorica”. Si percepisce in effetti una sorta di pudore, nobile, che la Massucco esercita nel lavorare con le parole attorno alle cose che le sono care. Nei suoi versi l’attenzione per i segni della natura e dell’uomo non porta a toni altisonanti, a un’epica della campagna, a un’eloquenza muscolare (il rischio c’è sempre): piuttosto si sottrae, ci si ritrae, ci si finge distratti, si sbircia controluce quel mondo fitto di cose. “Bisogna avere grande prudenza / è tutto un universo di avvisi.” Si ricorre a quella mezza ironia che sorride di tutto, anche di se stessa. Si diventa reticenti, se proprio occorre.
Quei segni di cui la natura si gonfia in disordine, la poesia di Fosca Massucco li distilla in versi che sono un modello di sintesi (“Il disordine composto della piana / nel mese mercedonio, i campi gonfi / d’acqua – un giurassico in ritardo – / la perfezione vibrante del vapore”). La sua ansia di precisione lessicale tende a giocare con le antitesi e gli ossimori (“Il baccano della quiete di collina”, “una casa brulicante di silenzio”), talvolta si spinge verso singolari accostamenti, verso nomenclature insolite – ma ecco che le Note alla fine del volume ricollocano ogni analogia nel suo contesto, definiscono i termini (per esempio “mercedonio”).
Anche le scelte metriche si sintonizzano con questo bisogno di esattezza: oscillano tra le cadenze illustri della poesia italiana, tra endecasillabi e settenari, che ora dilatano ora restringono conservandone sempre una reminiscenza. Diciamo che i versi della tradizione sembrano funzionare come poli di attrazione a cui tendono le cadenze personali di Fosca.
Si sente che Fosca Massucco ama questo paesaggio delimitato e imprevedibile che è l’Astigiano, che non si stanca di percorrerlo con lo sguardo, di toccarlo, di camminarci, di viverci, di interrogarlo, di trovarvi un riflesso di qualcos’altro (di sé). A seconda di come lo guardi, della prospettiva in cui ti poni, un angolo familiare diventa nuovo, rileva nuovi dettagli. Amica dell’infittirsi delle cose, la poesia di Fosca Massucco è attratta anche – leopardianamente – dal suo contrario, dal nulla, dalla “compiutezza ineluttabile / del vuoto”: “Ancora pensi all’universo capovolto, / dove traspare solo vuoto tra i cipressi / e la cinta delle mura? Il nulla / è immagine di sé e il vuoto / non è vuoto, vacilla in solitudine.” La sua personale versione dell’Infinito leopardiano, insieme ironica e sentita, è “Davanti si porge l’eterno / in tutta la sua vacuità, / altèra gramigna / di massicciata.” Segni e silenzi: davvero Fosca Massucco si accosta al mondo come farebbe un musicista, come un interprete (schivo, però, lontano da ogni posa da virtuoso) a una partitura ancora carica di segreti.
Chiedo a Fosca se si ritrova in quest’immagine.
«Fino ai trent’anni» mi risponde «sono stata una cittadina impenitente poi il salto qui, isolata dal mondo il più possibile, mi ha catapultato nella realtà cruda. E questa vita nuova – o restituita – è fatta di drammi e tragedie quotidiani (animali morti, sbranati, frane, crolli, raccolti perduti, ghiaccio impietoso e terre argillose riarse), di banalissimi miracoli (il calicanto fiorito sopra un metro di neve, i cerbiatti e le volpi che passano in giardino con noncuranza). Ebbene, in questo universo perfetto l’intrusa sono io e mi ritrovo quasi sempre sul confine dell’osservabile, nel tentativo di trovare un equilibrio tra il rispetto che devo a questo mondo così crudele e l’innamoramento feroce per i suoi miracoli. Questo mio atteggiamento in qualche modo credo ricordi il momento, altrettanto carico di mistero e attenzione, in cui un musicista si accosta a una nuova partitura. Con la fondamentale differenza che un musicista arriva a dominare la partitura, mentre io non metto minimamente in conto di trovarmi un giorno regolatrice del mio mondo.»
Insisto su questo punto con Fosca Massucco, che è laureata in Fisica e specializzata in Acustica e anche sound engineer: quale spazio ha la musica nella tua poesia? Più precisamente, e se vuoi tecnicamente: come la tua sensibilità ai suoni (non solo la musica, ma anche i suoni della natura, della vita degli uomini e degli animali) si traduce nei versi? Di quale “musica” si nutrono i tuoi versi?
«Da più di quindici anni» precisa Fosca «mi occupo esclusivamente di rumore e di suoni; nei primi anni ho studiato i differenti tipi di disturbo e di silenzio, necessari per l’analisi acustica ambientale: ho imparato, insomma, ad ascoltare a lungo e considerare come massimamente significativo quello che gli altri trascurano o sopportano con fatica. Lo stesso approccio ce l’ho con la musica in sala di registrazione: il mio scopo non è mai quello di abbellire i suoni degli strumenti, piuttosto di eliminare il brutto che li circonda, lasciandoli più nudi possibile. Per rispondere alla tua domanda, i miei versi usano lo stesso metodo logico: tento di lavorare soprattutto sull’eliminazione del disturbo che si crea se il suono del verso – e dell’idea – non è perfettamente ridotto al massimo risultato. Di conseguenza i versi tendono a riprodurre le mie idee dei suoni – della natura o dell’uomo – ripulite dal residuo del reale.»
Fosca Massucco – ormai si è capito – oltre a scrivere versi sviluppa progetti di musica jazz e poesia in uno studio di registrazione, il (52 + 1) Studio, gestito con Enrico Fazio, compositore e contrabbassista. Le chiedo se può parlarci delle attività che si svolgono in questo suo laboratorio poetico-musicale.
Mi spiega lei: «Avere uno studio di registrazione in cui rifugiarsi ogni volta che se ne aveva bisogno è stato uno degli obiettivi di Enrico fin da quando acquistò il nostro casale ormai più di vent’anni fa. Quando poi io lo raggiunsi lì, iniziammo un lunghissimo progetto di trattamento acustico della sala di registrazione (che in realtà erano le stalle del casale), insieme ad un progetto “visivo” di confort emotivo: chi suona con noi deve vivere bene questa esperienza sotto ogni aspetto, dall’ospitalità, al rapporto umano, al risultato musicale ovviamente. Così, grazie ai contatti di Enrico e al suo lavoro da compositore, è iniziato un via vai di musicisti d’alto livello che vengono qui, si vivono le colline e suonano la loro musica o la nostra (se è una collaborazione per un disco di Enrico). Insieme allo studio ora gestiamo l’etichetta CMC Records, che in realtà è nata alla fine degli anni ’70, ha un catalogo di oltre 50 titoli e gestisce lavori in un’area che va dal jazz moderno, all’improvvisazione, alla classica contemporanea.
Parallelamente è nato il progetto poetico che stiamo sviluppano e portando in giro insieme a Enrico e al polistrumentista Gianpiero Malfatto: la sonorizzazione dei miei versi con una forte impronta di improvvisazione, che ha richiesto un considerevole impegno da parte di tutti e che si sta ampliando con l’uscita del libro nuovo. Lavorare in trio con due jazzisti ha costretto loro a confrontarsi con la parola scritta e mi ha insegnato a spiegare le mie poesie sotto il profilo musicale. Nello stesso modo, anche nel disco di Claudio Lodati in duo con Enrico, il brano Mirror Box è nato per ospitare i versi dell’omonima mia poesia, e la possibilità di essere io stessa a mixare il brano e intervenire sui suoni (oltre che a leggere i versi stessi) è stata un’occasione incredibile.»
Che cosa si progetti e si suoni nel ritrovo collinare di Fosca Massucco è ben esemplificato dal CD “Shibui”, firmato da Enrico Fazio con il gruppo Critical Mass (Leo Records, 2013). È jazz sontuoso e colorato, denso nella timbrica, nel tessuto armonico e nelle idee, che resta in equilibrio tra tradizione swingante e ricerca. L’ottetto mantiene un bello spessore orchestrale, una solidale compattezza d’impianto; allo stesso tempo il padrone di casa, Enrico Fazio al contrabbasso, garantisce spazio a tutti i componenti, trattati non come comprimari ma come interlocutori alla pari. Da compositore Fazio ama le pastosità scure, gli amalgami terragni e solidi, su cui voci singole (il violino di Luca Campioni, la tromba di Alberto Mandarini, il flauto di Gianpiero Malfatto) vocalizzano su un registro più acuto.
Concludo la mia conversazione con Fosca Massucco con una domanda che mi viene spesso, e che rivolgo volentieri a quegli artisti che lavorano sia con la scrittura sia con le note: c’è qualcosa che la parola scritta può “invidiare” alla musica (magari proprio al jazz, che ha una parte importante nelle attività del tuo laboratorio)? E qualcosa che la musica a sua volta può invidiare alla parola?
«Li vedo come due mondi gemelli impegnati a lavorare sulla logica, sui meccanismi e sulla creatività in uguale misura» mi risponde Fosca. «Possiedono la medesima tensione a una comunicazione speciale e diretta, parlano linguaggi con strutture e codici personali in modo identico. Al jazz, però, invidio l’emozione della scoperta ogni volta nuova dell’esecuzione, della coralità mescolata alla sensazione di assoluta libertà, controllata dall’arte. Viceversa, il pregio del lavoro poetico è che si svolge in solitudine, è autoconclusivo e necessita solo della pagina di un libro per entrare nella realtà.»
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