Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato alla nuova opera di Fabrizio Coscia intitolata “La bellezza che resta” (Melville)
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Fabrizio Coscia (Napoli, 1967), scrittore, docente, critico letterario e teatrale è già stato ospite di questa rubrica con il volume SOLI ERAVAMO e altre storie (ad est dell’equatore). Torno ad ospitarlo con grande piacere per discutere della sua nuova opera intitolata “La bellezza che resta“, pubblicata da Melville edizioni nella collana Gli impossibili diretta da Andrea Caterini (anche lui, di recente, nostro gradito ospite con “La preghiera della letteratura“, edito da Fazi). In fondo alla pagina potrete leggere il testo della bandella del libro firmata dallo stesso Caterini. Qui di seguito, invece, vi propongo questa “chiacchierata online” con l’autore…
– Caro Fabrizio, partiamo dall’inizio… ovvero dalla genesi di questa tua opera. Nei “ringraziamenti” scrivi: “Questo libro non sarebbe mai stato scritto se Andrea Caterini non mi avesse proposto di lavorare a un saggio su Tolstoj“.
Come si è sviluppato il passaggio dalla elaborazione di questo saggio su Tolstoj al concepimento di “La bellezza che resta”?
«In effetti all’inizio la prospettiva di scrivere un saggio su Tolstoj, come mi aveva chiesto Andrea Caterini, mi ha affascinato ma anche terrorizzato non poco. Ho scelto allora di concentrarmi sull’ultimo Tolstoj, e in maniera ancora più circoscritta sul suo ultimo romanzo, uno dei suoi capolavori meno conosciuti, che è Chadži-Murat. Pensavo, cioè, che restringere il campo d’indagine potesse aiutarmi a non perdermi del tutto. Ma poi, come mi capita spesso, mi sono lasciato cogliere dal «demone dell’analogia» e dalla mia passione per le divagazioni, e così ho cominciato a riflettere sulle “opere ultime” dei grandi artisti, e su quale fosse il significato più profondo di un libro, un quadro, una musica, un’opera teatrale composti in prossimità della morte e nella consapevolezza di questa prossimità. Ho cercato, cioè, di penetrare nel significato di alcuni grandi capolavori, ma con molta umiltà, quasi in punta di piedi, per così dire. Così il mio saggio su Tolstoj è diventato alla fine qualcosa di molto diverso, e allora ho capito che era proprio questo “qualcosa di molto diverso” che mi era stato chiesto fin dall’inizio».
– Come epigrafe del libro hai scelto questa citazione di Joyce “sul padre” (da Finnegans Wake). La riporto di seguito. «I go back to you, my cold father, my cold mad father, my cold mad feary father».
Perché questa scelta? E perché hai voluto riportare la frase in originale (senza la traduzione in italiano)?
«È un brevissimo frammento ripreso dal monologo finale di Anna Livia Plurabelle, che è una delle cose più belle che Joyce abbia scritto. L’ho scelto come epigrafe perché si accenna a un desiderio di ricongiungimento con un padre morto. È un sentimento molto forte, straziante direi, che mi è capitato di provare. Mi è parso, in realtà, che la frase rendesse bene il senso più intimo del mio libro, dal momento che il suo nucleo narrativo è proprio la morte di mio padre e il mio ritorno a lui, la mia riconciliazione tardiva. La scelta di lasciare la citazione in originale è dovuta semplicemente al fatto che non volevo tradirne la bellezza musicale, che come capita spesso in Joyce è prosa che si trasforma in pura poesia».
– Proviamo a scorrere insieme le pagine di “La bellezza che resta” senza rivelare troppo, ma cercando di offrire qualche suggestione capace di incuriosire i lettori di questa intervista. Partiamo dal già citato Chadži-Murat. Cosa puoi dirci su questo libro e sull’ultimo Tolstoj?
«È un romanzo breve di rara potenza. È un libro omerico e shakespeariano insieme, con il quale il vecchio Tolstoj tacitava, in un ultimo empito creativo vitalissimo, tutte le sue teorie religiose e predicatorie sull’arte che andava formulando in quegli anni. Era il suo genio, il suo daimon che si ribellava al moralista che era diventato. La vera tragedia della vita di Tolstoj è stata proprio questa: il fatto che negli ultimi anni il vecchio conte avesse rinnegato la sua arte in nome di un Bene astratto: una conversione religiosa che io nel libro interpreto come una vera e propria forma di nevrosi, una scissione quasi schizofrenica, che condurrà Tolstoj alla drammatica fuga finale, per finire i suoi giorni nella piccola stazione ferroviaria di Astapovo. Il tema della fuga, del resto, percorre tutta l’opera di Tolstoj e soprattutto Chadži-Murat il cui protagonista è davvero una figura inafferrabile. La prima volta che mi sono imbattuto nel titolo di questo libro fu in un articolo di Evgenij Evtušenko su «La Repubblica», intitolato Il perdono è impossibile, che parlava della terribile strage di Beslan, che nel settembre del 2004 costò la vita a 334 persone, tra cui 186 bambini. Il poeta russo scriveva una frase che colpì la mia attenzione: «Se il presidente Eltsin avesse letto Chadži-Murat di Tolstoj è assai improbabile che si sarebbe imbarcato in un conflitto coi ceceni». Quel libro io non lo avevo letto, così feci una rapida ricerca e scoprii che Tolstoj lo aveva scritto negli ultimi anni della sua vita, e che era stato pubblicato postumo, nel 1912. E scoprii anche che il protagonista era un guerrigliero àvaro, un eroe della resistenza antirussa durante la guerra nel Caucaso, uno dei personaggi più seducenti che Tolstoj abbia mai creato. Ma la domanda che ho continuato a pormi durante la lettura del libro, riandando alla frase di Evtušenko, era questa: un libro, un’opera d’arte in generale, per quanto grande e importante, può mai davvero mutare il corso della Storia, evitarne il Male? Ed è anche una delle tante domande che percorrono il mio libro, che inizia proprio dalla strage di Beslan e dalla mia scoperta del romanzo di Tolstoj».
– Le bagnanti è il titolo dell’ultimo quadro di Renoir. L’artista lo dipinge con le mani devastate dall’artrite. Particolare, questo, particolarmente suggestivo e commovente…
«Commovente, davvero. Renoir acquistò una tenuta a Cagnes-sur-Mer, in Provenza, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita, intento a dipingere fino all’ultimo giorno. La sua vecchiaia si consumò tra l’eden del suo giardino di ulivi e l’inferno della malattia, che però non riuscì mai a domare l’istinto vitale dell’artista. Come racconto nel mio libro, aveva le mani rattrappite e la pelle così sensibile che il minimo contatto del legno del pennello gli procurava ferite. Per evitare questo inconveniente si faceva fasciare la mano con un pezzo di tela sottile e abbrancava il pennello con le sue dita deformate, tra il pollice e l’indice. Fu in queste condizioni che tra il 1918 e il 1919 il pittore quasi ottantenne, vedovo, immobilizzato e tormentato dai dolori, realizzò il suo capolavoro, Le bagnanti, spinto dalla folgorazione amorosa per una giovane modella di sedici anni, Andrée Heuschling. Ogni mattino, alle nove, Renoir già fremeva d’impazienza al pensiero di Andrée che lo stava aspettando, pronta a mettersi nuda in mezzo all’erba dai mille colori, e rimproverava Louise, la fedele governante, perché ci impiegava troppo tempo a medicargli e fasciargli le piaghe che aveva alle mani e sul corpo. Si creò, così, una sorprendente complicità tra il paesaggio, la ragazza e il pittore, una sorta di ebbrezza erotica e panica. Quando Henri Matisse, una volta gli chiese perché si ostinasse a dipingere quel quadro nonostante le sofferenze fisiche che gli procurava, Renoir rispose: «Perché il dolore passa, ma la bellezza resta»
– Cosa puoi rivelarci, invece, in merito alle tue riflessioni sull’ultimo lavoro di Sigmund Freud (L’uomo Mosè, 1938) scritto dal padre della psicoanalisi mentre deve fare i conti con gli esiti del cancro?
«È un’opera fondamentale, anomala, unica nel suo genere. Non c’è dubbio che Freud l’abbia scritta come un testamento. Ha, in effetti, la libertà e la sfrontatezza di un’opera estrema, che non fa nulla per nascondere le proprie contraddizioni. Freud stesso paragonò la sua scrittura a «una ballerina in equilibrio sulla punta di un piede». Ed anche quest’opera, come Le bagnanti, fu elaborata in una condizione di sofferenza fisica intollerabile. Freud vi riprende la tesi, diffusa alla fine del XVIII secolo, che Mosè non fosse ebreo, ma un nobile egiziano, un dignitario del faraone Ameno IV e seguace della sua religione monoteista votata al culto del dio Atòn, che spinse gli ebrei a liberarsi dalla prigionia egiziana e a convertirsi a questa nuova religione. Gli stessi ebrei, poi, avrebbero rifiutato il suo rigido monoteismo, e per questo uccisero Mosè. Freud ripropone dunque il tema del parricidio collettivo che aveva già affrontato in Totem e tabù, ma quello che mi ha colpito è l’analogia con il Chadži-Murat di Tolstoj: sono due romanzi storici, perché in effetti così stranamente Freud definisce il suo saggio, e in entrambi i casi il protagonista è uno straniero che si mette al servizio di un popolo nemico, che finirà poi per ammazzarlo. Perché i due grandi vecchi, poco prima di morire, dedicano gli ultimi anni della loro vita a scrivere il racconto di un eroe straniero vittima di un omicidio collettivo? Forse ci volevano suggerire un’ultima resa dei conti con il conflitto edipico, una proposta di tregua, di ricomposizione con la figura del Padre? Anche queste sono domande che percorrono il mio libro e alle quali cerco di dare una risposta».
-Ci offriresti qualche suggestione sugli altri artisti che hai tratteggiato tra le pagine di questo tuo libro: Leopardi, Simone Weil, Keats, Strauss, Frida Kahlo. C’è qualche elemento che accomuna queste opere, pur diverse, su cui hai avuto modo di riflettere tra le pagine di “La bellezza che resta”?
Sono tutti artisti che compongono le loro ultime opere assediati dalla sofferenza fisica, dalla malattia, dal dolore, e che tuttavia sono capaci di donarci la bellezza. Il tramonto della luna di Leopardi e quello del sole dell’ultimo Lied di Strauss hanno in comune il fatto che ci indicano entrambe una luce dopo il buio, il fatto cioè che per l’artista la morte non esiste se non in quanto trasfigurazione. Allo stesso modo Simone Weil, provata dalle innumerevoli e prolungate privazioni che si è imposta per essere vicina alle condizioni di vita dei derelitti, dal suo letto del sanatorio di Ashford, fuori Londra, prima di morire aveva scritto una lettera ai suoi genitori descrivendogli i ciliegi che vedeva attraverso i vetri della finestra con i frutti appena sbocciati sui rami, e invitandoli a non essere «ingrati verso le cose belle» e a pensare sempre che lei sarà dovunque ci sia una cosa bella. Frida Kahlo, col corpo martoriato dagli interventi chirurgici dipinge nel suo ultimo quadro uno squillante e colorato inno alla vita, ritraendo dei cocomeri rossi. E così via. Questo ci fa capire che esiste nell’arte una forza vitale, una tensione conoscitiva superiore. Certo, non tutta l’arte è consolatoria. Ci sono artisti che restano irriconciliati con la vita e il mondo anche nelle loro opere ultime. Penso agli ultimi quartetti d’archi di Beethoven, ad esempio, o all’ultimo spettacolo del regista polacco Tadeusz Kantor, di cui parlo nel mio libro. La verità è che l’arte è ferita o balsamo, e a volte entrambe le cose insieme.
– La bellezza e l’opera d’arte possono essere considerati alla stregua di “baluardi contro la morte”? Se sì, fino a che punto? E cosa è necessario che accada affinché questi “baluardi” possano essere particolarmente efficaci e resistenti (soprattutto contro l’erosione della memoria determinata dal tempo che passa)?
Non credo che si tratti di difendersi dalla morte con l’arte. Piuttosto direi che l’arte aiuta a «familiarizzarsi con la necessità di morire», come scrive Freud, suggerendoci la via per la «saggezza eterna». Inoltre bisogna intendersi bene anche sul concetto di bellezza. Prendiamo Dostoevskij, ad esempio. Per il principe Myskin la bellezza è un enigma, e nei Fratelli Karamazov viene definita addirittura «una cosa spaventosa e terribile». Niente a che vedere dunque con l’armonia, con l’estetica, né tanto meno con la nostra idea corrente di bellezza. È, piuttosto, qualcosa di apocalittico, nel senso etimologico del termine, inteso come «disvelamento»: mostra, cioè, quel che se ne sta nascosto, e può portare anche uno sconvolgimento, una tempesta. La bellezza in arte non è altro, allora, che quella identificazione platonica con la verità di cui parla anche Keats nella sua Ode su un’urna greca. Una verità che solo il genio artistico ci può rivelare. E se la bellezza è la verità non può temere il passare del tempo.
– Nel libro racconti anche gli ultimi giorni di vita di tuo padre. Cosa ha significato per te “cimentarti” con questa parte del libro?
È la parte in cui ho cercato di andare più a fondo nei miei sentimenti, di analizzarmi confrontandomi direttamente con «il fantasma irrequieto» che ogni tanto torna a visitarmi, proprio come lo spettro del padre di Amleto. Probabilmente ho scritto il libro solo per questo e per nessun altro altro motivo. Come mai, allora, ho scelto di parlare della morte di mio padre, associandola a questo percorso tra le opere ultime dei grandi artisti, come tutti quelli che abbiamo citato, ai quali dobbiamo aggiungere però anche il Sofocle dell’«Edipo a Colono», il Glenn Gould delle «Variazioni Goldberg», il Kavafis di «Miris», il Čechov del «Giardino dei ciliegi», e ancora Proust, Bergman, Wallace Stevens e altri ancora? Mio padre non è stato un artista, né un genio. Ha vissuto in maniera modesta una vita modesta da impiegato. E tuttavia, come ogni padre, nel bene o nel male, ha lasciato un’eredità d’affetti. In fondo il vero tema del mio libro è proprio questo: l’eredità, ovvero ciò che lasciamo agli altri quando ce ne andiamo, e quello che riceviamo dagli altri quando restiamo. Ecco, la sostanza etica de “La bellezza che resta” è tutta in questo interrogarmi sul passaggio tra chi se ne va e chi resta. Simone Weil dice che la morte «per chi ha vissuto come si conviene» è un momento di verità «pura». Ho cercato di capire allora che cosa voglia dire, per tutti noi, vivere come si conviene. Non so se sono riuscito a trovare una risposta, ma so che già porsi la domanda con serietà può rendere la nostra vita più degna di essere vissuta».
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La nota al libro (firmata da Andrea Caterini)
“‘La bellezza che resta’ è una riflessione sull’opera d’arte alla fine di una vita. Cosa esattamente rappresenta per un autore la sua ultima opera? Tolstoj scrive fino al termine dei suoi giorni un romanzo, Chadzi-Murat, ridando voce al suo talento artistico e creativo, nonostante ormai da anni rinnegasse il proprio genio a favore di una moralistica idea di bene. Un romanzo che il russo mai si decise a pubblicare e che uscì soltanto postumo. Tolstoj però, è solamente il primo di una serie di ritratti che definiscono il percorso e la visione che Fabrizio Coscia segue come rincorrendo un significato, una ragione, una luce difficilmente afferrabile ed esprimibile. Scopriamo l’ultimo quadro di Renoir, Le bagnanti, dipinto quando il maestro ha le mani rattrappite dall’artrite e che realizza come fosse l’estremo gesto di vitalità e adesione alla bellezza. È il libro testamentario del padre della psicanalisi, Sigmund Freud, che elabora, nel 1938, L’uomo Mose, che ha «la libertà, la sfrontatezza, la temerarietà di un’opera estrema», tornando a dare voce alla teoria del parricidio, ma affrontata qui in chiave religiosa, proprio quando il suo «vecchio caro cancro», come scrive egli stesso della propria malattia in una lettera, gli ha già assalito il corpo. Ma si potrebbero citare altri profili presenti nel libro: Leopardi nei suoi ultimi giorni napoletani; l’ultima lettera di Simone Weil ai genitori, nella quale li invita a vedere nelle cose belle del mondo anche il suo volto; la poesia Ode a un usignolo, in cui Keats «agogna la morte»; ancora l’ultima composizione di Richard Strauss, i Lieder; in ultimo, il definitivo quadro di Frida Kahlo, Viva la vida, forse il suo più originale autoritratto – una composizione vivacissima di angurie. Sono ritratti di artisti che, osservando la morte, non rinnegano ciò in cui fino a quel momento hanno creduto, restando fedeli a loro stessi, a ciò che è di loro stessi la parte più vera: la loro opera. Eppure, l’aspetto maggiormente significativo del libro è quello autobiografico. L’autore racconta gli ultimi giorni di suo padre, e sono pagine commoventi che restituiscono un senso non soltanto all’intero libro – evidenziandone la necessità che lo sottende -, ma a un’esistenza intera. Fabrizio Coscia, consapevole di quanto l’arte sia profondamente radicata nella nostra vita, ha scritto un libro che, proprio per la sua (mai esibita) intimità, riguarda noi tutti.”
(Andrea Caterini)
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