Alberto Moravia nel 1929 con Gli indifferenti, Jean-Paul Sartre nel ‘34 con La nausea e Albert Camus nel ‘42 con Lo straniero hanno interpretato, lungo una stessa stagione e rilanciando temi sveviani e joyciani primonovecenteschi, l’inquietudine esistenzialistica nelle forme rispettivamente dell’insensibilità, dell’isolamento e dell’assurdo. Il romanzo di Camus richiama quello di Moravia per l’insensatezza di un omicidio qui solo maldestramente tentato e lì consumato senza ragione, mentre si accorda a quello di Sartre per il fondo di diario filosofico condiviso con quello narrativo.
L’incipit – «Oggi è morta mamma. O forse ieri, non so» – è spia infatti di un diario quotidiano che però diventa subito racconto, reso al passato prossimo, di fatti ricordati anziché annotati, ma mantiene la sua natura di riflessione filosofica sul significato delle azioni umane anche quando, all’inizio dell’ultimo capitolo, il tempo della narrazione coincide di nuovo con quello della scrittura – sicché leggiamo dell’incontro con il prete: «Non ho niente da dirgli, non ho voglia di parlare e dovrò comunque vederlo presto» – e quando soprattutto nell’intensissimo desinit così l’autore si congeda: «Perché tutto sia consumato, perché io sia meno solo, mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori il giorno della mia esecuzione e che mi accolgano con grida di odio».
Sebbene non assistiamo all’esecuzione di Meursault, l’autore ne dà per certa la morte sottendendo dunque la bocciatura del ricorso in Cassazione, speranza che è compagna degli ultimi giorni del condannato: e si capisce che è quanto egli stesso ha in fondo ritenuto giusto che accadesse nella misura dell’assurdo vissuto come paradigma della vita, ancora troppo lontano nel tempo essendo quell’appello alla “rivolta” – altro caposaldo della ricerca di Camus, ma più girato dal lato dell’impegno politico – che si annuncerà quale forma di riscatto sociale inteso a vincere l’assurdità individuale denunciata da Lo straniero e quella collettiva di cui sarà portatore Il mito di Sisifo: a meno che nella interruzione del racconto, che rimane dopotutto inconcluso, non si voglia scorgere una sospensione sul rovesciamento impronosticato della sorte, un presagio in nuce di rivolta, come un’apertura di credito soterica e irenica. Ma, a stare all’evidenza anziché all’evenienza, l’augurio di essere odiato in punto di morte come risultato di una condotta sconsiderata e del riconoscimento di essa suona quale rifiuto – uguale a quello opposto all’estrema unzione – di ogni atto di commiserazione cristiana e segno di desacralizzazione della vita. L’uomo che un giorno sarà in rivolta è, alla fine de Lo straniero, un uomo arreso e carnefice di sé stesso. Un self-hater.
Eppure in una sola occasione ricorre il riferimento esplicito all’assurdo: quando Camus scrive «Dal fondo del mio futuro, per tutta la vita assurda che avevo condotto…», così coniugando ancora una volta, secondo un ricorsivo andirivieni diacronico, avvenire e passato, domani e ieri, entro un presente nel cui schema può rintracciarsi una soddisfacente definizione dell’assurdo: la vita è ciò che avviene. Camus lo cita una sola volta, ma l’assurdo è la materia oscura del romanzo. Quando Raymond, l’amico di Meursault, che è l’io narrante, dice ai giudici che per caso l’imputato si trovava sulla spiaggia e che ancora per caso gli è successo di scrivere per lui la lettera alla fidanzata, tanto che il pubblico ministero ribatte che «in quella storia il caso aveva già molti misfatti sulla coscienza», Camus non fa che imputare gli avvenimenti non alla volontà umana ma all’accidentalità naturale, quindi a una sporade di effetti privi di cause razionali, fenomeno al quale, se proprio occorre dare un nome, l’assurdo è l’archetipo più appropriato. Assurdo, preciserà altrove Camus, che si ha nel divorzio tra l’uomo e il mondo: esso non sta in uno o nell’altro, quanto nella loro presenza in comune. L’uomo chiede una cosa al mondo e il mondo, ovvero l’esistenza, gli offre tutt’altro, anche l’inatteso e l’indesiderato. Essere gettati nel mondo significa allora per Camus non ciò che Heidegger concepisce nei modi di una deriva che comunque ha le sue determinazioni umane, ma dipendenza eschilea dal Fato, resa incondizionata al fortuito e al destino che ammettono anche l’implausibile, l’assurdo.
Assurda è anche la spiegazione che – in aggiunta alle ragioni casuali addotte da Raymond – dà dell’omicidio Meursault ai giudici, dicendo loro che è stato precisamente per via del sole se ha ucciso, suscitando le risate dell’aula nonché la scrollata di spalle del suo avvocato. Eppure, riferendo non il movente ma il motivo in preda al quale ha agito, Meursault ha detto la verità. Il pubblico ride trovando appunto ridicola la risposta giacché si aspetta di conoscere un movente che sia razionale mentre viene colto di sorpresa da quella che appare una battuta di spirito. È la scena capitale del romanzo. Dando una risposta che muove al riso, l’imputato non può non apparire che grottesco, sennonché è proprio lui, accusando il sole, il primo a sentirsi ridicolo.
Per Camus ridicolo è colui il quale viene visto tale: per esempio l’ultimo passeggero che salga sul tram e venga osservato dagli altri viaggiatori solo per scoprire cosa abbia di ridicolo, con lo stesso intento dei giurati della corte che guardano l’imputato dietro le sbarre. Nell’ultimo arrivato, nella persona che cioè vediamo per la prima volta o di cui abbiamo sentito parlare, cerchiamo di cogliere inspiegabilmente l’elemento che ce lo renda ridicolo. “Panca del tram” chiama Camus questo atteggiamento comune che è fonte dell’assurdo e che si riproduce anche in un’aula di giustizia. «So che era un’idea stupida – scrive l’autore – visto che ciò che cercavano era il delitto, non il ridicolo. Tuttavia non c’è molta differenza, e comunque è quella l’idea che m’è venuta». La linea è segnata: se non c’è molta differenza tra delitto e ridicolo, il risultato è l’assurdo, un delitto potendo dunque essere istigato dal sole in una circostanza oggettivamente ridicola, sebbene fondata sul presupposto naturale e reale che la temperatura bollente possa altrettanto oggettivamente turbare la lucidità di un uomo.
Il romanzo è ambientato non a caso in due estati consecutive che corrispondono alle due parti nelle quali esso è deliberatamente diviso: la prima che culmina nell’omicidio dell’arabo, la seconda dedicata al processo. Da uno spazio aperto fatto di strade, spiagge, gente di città si passa a uno claustrofico, un’aula giudiziaria e una cella carceraria, rimanendo tuttavia come fattore naturale di condizionamento il clima torrido e opprimente di una Algeri sotto la cui canicola soffocante Meursault percorre la via di progressiva estraniazione a sé stesso che lo porta prima al delitto e poi alla ghigliottina: obnubilato dal sudore, stremato dalla calura, uccide un arabo nella sola supposizione che possa essere colpito dal pugnale che vede scintillare al sole. Bisogna aver fatto esperienza di questo eccesso di caldo estivo per riuscire in qualche modo a immaginare lo stato fisico e mentale di Meursault, trasposizione di un autore che altrimenti non può essere definito – e lui stesso tiene a ricordarlo – che mediterraneo, figlio delle sabbie rosse incendiate dal sole, dell’aria ferma e rovente, della luce accecante, del sudore indetergibile.
Seduto nel banco degli imputati, il pensiero di Meursault è solo alle pale elettriche insufficienti, al suo malessere, al desiderio di tornare presto in cella per sfuggire all’aria pesante. Sentire “la morsa del sole” è per Meursault come ascoltare una voce che esorti a liberarsi dei propri vincoli morali come fossero vestiti da togliersi di dosso per trovare refrigerio. Un’assurdità, è vero, che la società non ammette nel numero delle esperienze umane, ma che pure può accadere, perché la vità è appunto ciò che avviene, senza che sia ammesso chiedersi se quanto avvenga sia assurdo o meno. Siamo noi a crederlo assurdo. Ovvero estraneo. Straniero. Quale si sente Meursault: un intruso nel processo, perché ha «l’impressione di essere di troppo», pur essendone la figura centrale.
Questo senso di estraneità, indotto da una visione extra ordinem del mondo, suona come ripudio di ogni intrapresa e riecheggia la condotta dello scrivano di Melville che di fronte all’invito ad agire risponde sempre “Preferirei di no”, così esprimendo un dissenso e assumendo uno stato di estraneità. Allo stesso modo Meursault, anche a Marie che vuole sposarlo o a Raymond che gli chiede di fare da testimone oppure alla proposta di trasferirsi a Parigi, risponde invariabilmente che per lui è lo stesso e che niente gli è importante. Le cose che dice di trovare interessanti e alle quali presta orecchio sono solo tre: quanto dice il portinaio, quanto poi gli racconta Raymond Sintès (cognome mutuato dalla madre) e quanto al processo sente dire di sé. Per il resto il suo distacco dal mondo, la sua atarassia, lo fanno apparire assente.
In questo quadro di irrazionalità che i giudici non sanno a quale categoria riferire per dargli una natura prima unama e poi giuridica, il processo per omicidio che Meursault affronta finisce per riguardare con il delitto anche il suo carattere, dovendo egli rispondere di un comportamento che non rispetta le convenzioni: non piange per la morte della madre, va via subito dopo il funerale, il giorno dopo porta una donna a vedere un film comico e anche al mare. Ciò non è umano, non essendo normale, per cui il pubblico ministero, ricordando l’imputato che davanti alla salma della madre accetta il caffè dal portinaio, sbotta: «Un estraneo poteva offrire sì il caffè ma un figlio aveva il dovere di rifiutarlo». Entro questa sfera di assurdità si creano due fronti, in uno dei quali militano il pubblico ministero, i giudici, i giurati, i giornalisti, il pubblico e pure gli amici di Meursault, che invece figura da solo nell’altro. È per questo che quanti lo conoscono e gli si dicono amici, testimoniano in parte contro di lui e tutti comunque – ne è ben consapevole Meursault – lo dimenticheranno presto, rimuovendolo come un corpo estraneo. Straniero appunto.
Ma l’assurdo di Meursault, per il senso di totale insignificanza reale, ha di diverso che adduce noia, motivo questo centrale della letteratura del Novecento, bastando qui ricordare Brancati o Borgese. E cosa fa Meursault per non annoiarsi? Compie un esercizio che è ancor più novecentesco: si affida ai ricordi cercando di recuperarli nella loro precisione più acribitica: «Non mi sono più annoiato dopo aver imparato a ricordare» dice una volta passato dall’essere una persona che insegue pensieri da uomo libero (un’intera domenica trascorsa al balcone a vedere la gente per strada e pensare ad essa, una chiacchierata col vicino di casa pensando al cane che è scomparso…) a un’altra inseguita da pensieri da uomo prigioniero, quando soltanto gli è possibile replicare ossessivamente nella mente la storia assurda (che sarà il soggetto del dramma teatrale Il malinteso) di un figlio che in incognito affitta una camera nell’albergo gestito dalla madre e dalla sorella, dalle quali viene, non riconosciuto, nottetempo ucciso per essere derubato.
Il tema del non riconoscimento, dell’inidentificazione, connaturato in un Oreste e un Edipo del mito greco, ripreso in chiave moderna da Camus, è legato anch’esso a quello dell’assurdo. Camus ne dà un magistrale esempio nell’interrogatorio condotto dal giudice istruttore. Il quale si tiene in ombra per cui l’imputato non ne scorge i tratti e ha motivo di sentirsi ancor più succube accrescendo la propria ansia. Quando il giudice si mostra nella luce della lampada, Meursault prova un senso di sollievo, un alleggerimento della tensione, trovandolo pure simpatico al punto da pensare di stringergli la mano. L’assurdo è qui nel timore dell’ignoto che, senza ragioni, diventa oscuro e dunque pauroso, stato d’animo che può essere superato guadagnando la luce, la consapevolezza e la coscienza. Sono dinamiche che conosciamo. Ma in Lo straniero l’andamento è inverso perché procede dalla luce al buio: la luce iniziale di un funerale sotto il sole sempre più infuocato fino ad arrivare al buio di una cella anch’essa arroventata. Da una morte a un’altra, con in mezzo quella violenta dell’arabo che segna, con i quattro colpi di pistola esplosi, il momento in cui l’assurdo si compie e Meursault può concludere: «Ed è stato come se bussassi quattro volte alla porta dell’infelicità».
È dunque nel mondo dell’infelicità che Meursault vuole entrare e sembra chiedere permesso. Uccide allora per questo, non trovandosi un movente che non sia assurdo? La parte che precede immediatamente il delitto offre un’interpretazione epifanica laddove, senza un perché, Meursault attraversa sotto il sole a picco la spiaggia con la pistola in tasca e si trova infine davanti all’arabo: «Era lo stesso sole del giorno in cui avevo seppellito mamma» ricorda, rimarcando una scaturigine che è simulacro di morte e suo presentimento. Meursault non può sottrarsi all’insolazione e quel che scrive sembra il rapporto circa gli effetti di un fenomeno atmosferico: «Il sudore ammassato sulle sopracciglia è fluito di colpo sulle palpebre e le ha ricoperte di un velo tiepido e denso. I miei occhi erano ciechi dietro quella cortina di lacrime e sale. Ormai sentivo solo il fragore del sole sulla fronte e, indistintamente, la spada abbacinante scaturita dal coltello che avevo ancora davanti. Quella lama incandescente mi mordeva le ciglia e rovistava nei miei occhi doloranti. È stato allora che tutto ha vacillato». Meursault cede e spara nell’evanescenza di un’aria irrespirabile che gli intorpidisce la mente. Avrebbe dovuto precisare ai giudici che ha colpito l’arabo mirando in realtà al caldo infernale, al sole asfissiante, ma non arriva che a indicare il sole come causa e non come bersaglio. Si aspetta che i giudici valutino la temperatura ma è sul temperamento che si concentreno. Sarebbe troppo ipostatizzare il sole e vederlo come la personificazione di un nemico nella sua natura di mondo, ma è quello che l’assassino ha vissuto: un’esperienza di alienazione.
Ma da dove nasce un romanzo così terribile, disforico e straniante, sospeso com’è tra vero e verosimile, natura e cultura, terra e cielo? Nasce da una distonia morale, da un senso di inappartenenza e di alterità, dalla mancanza di un ubi consistam, di una posizione nel mondo. Scritto dai 25 ai 27 anni, Lo straniero rivela un autore che, già colpito dalla tubercolosi, interroga il mondo e il mondo non gli risponde. Anziché cercare le risposte che non ha, smette di fare domande, si rinchiude in uno stato di inedia e di imperturbabile disinteresse che è l’ambulacro della dissociazione: straniero in Algeria perché francese e straniero in Francia perché algerino, comunista ma non bolscevico e perciò malvisto dai comunisti, a cominciare da Sartre, uomo del Sud e perciò disamato al Nord, Camus è lo straniero che col tempo costringerà il mondo a porre a lui domande sull’uomo. Ancora oggi è così, in principal modo per l’esistenzialistico messaggio che il suo vangelo laico continua a offrirci.
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