DEDICHIAMO QUESTO SPAZIO ALLA MEMORIA DI SERGIO CLAUDIO PERRONI (Milano, 2 gennaio 1956 – Taormina, 25 maggio 2019)
A un anno dalla scomparsa, avvenuta il 25 maggio 2019, rimettiamo in primo piano questo spazio dedicato allo scrittore e traduttore Sergio Claudio Perroni. Il 28 maggio uscirà il libro postumo di Sergio Perroni: “L’infinito di amare. Due vite, una notte” (La nave di Teseo).
Ne parleremo su LetteratitudineNews con il contributo della poetessa Cettina Caliò Perroni, consorte di Sergio.
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Nel giorno successivo alla scomparsa Sergio Claudio Perroni è stato ricordato, tra gli altri, da: Sandro Veronesi, Vittorio Sgarbi e Pietrangelo Buttafuoco
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a cura di Massimo Maugeri
Questa poesia si intitola “Un altro vuoto“. Sergio Claudio Perroni l’ha recitata in pubblico nel 2018, in occasione del Premio Cavallini che gli è stato tributato. La poesia è tratta dall’opera di Perroni “Entro a volte nel tuo sonno” (La nave di Teseo – prefazione di Sandro Veronesi).
“La gente se ne va, smette di colpo, lascia in asso cuori,
persone appena cominciate, bambini da finire, tutte cose
che non potranno più esserlo, che fingeranno di esserlo,
che lo saranno solo per mancanza e mai per presenza,
perché lasciare altri a metà è quello che riesce meglio a
tutti, finiscono per farlo tutti, lasciare qualcuno solo,
lasciarlo ancora più solo, finché non toccherà anche a lui
andarsene, lasciare un altro solo, lasciare un altro vuoto,
d’altronde siamo qui per questo, siamo fatti per questo,
per andarcene sul più bello di qualcun altro, promesse
d’assenza sempre mantenute, cose che non smettono mai
di essere state“.
Suona quasi come una sorta di “ultimo messaggio”, questa poesia. Fa male sentirla decantare. Fa male leggerla.
Fa male, come solo i capolavori riescono a far male.
“Le gente se ne va, smette di colpo, lascia in asso cuori”. È quel che ha fatto anche Sergio, lasciando un altro (enorme) vuoto. Mi piace però evidenziare la chiusura della poesia; perché non siamo solo “promesse d’assenza sempre mantenute”, ma anche “cose che non smettono mai di essere state”. E la consapevolezza di non smettere mai di essere stati, in qualche modo, ci “eterna”.
Il giorno in cui ho appreso della scomparsa di Sergio sono stato malissimo (ancora adesso sto male) convinto che sarebbe stato impossibile trovare le parole per esprimere questo “male” e questo “altro vuoto”.
Il giorno successivo, però, ho scritto sul mio profilo Facebook quanto segue…
Ieri non trovavo le parole. Pensavo non ce ne fossero. Mi sbagliavo.
Mi sbagliavo perché la chiave di tutto è proprio nelle parole.
Per chi crede e per chi non crede.
Nel tuo libro forse più rappresentativo mi hai scritto questa dedica: “A Massimo, in barca insieme”.
È vero. Siamo tutti nella stessa barca.
Quella dell’esistenza.
A volte ci sorprende la tempesta. A volte abbiamo la sensazione di annegare.
A volte anneghiamo.
Ma poi, in un modo o nell’altro, torniamo a galla. Anche quando varchiamo la soglia, la nostra essenza torna a galla.
Nei ricordi di chi ci ha amato.
E nelle parole.
Le tue riecheggiano con forza dalle pagine dei tuoi libri.
Da quelle pagine continui a parlarci, a dirci.
A stare con noi.
E questo nessuno mai potrà togliertelo.
E togliercelo.
Che la terra ti sia lieve.
Che le tue parole possano continuare a librarsi.
Riposa in pace, caro Sergio.
Il libro a cui mi riferivo era, per l’appunto, il già citato “Entro a volte nel tuo sonno” (su cui riproporrò qui di seguito qualche considerazione): un capolavoro, contenitore di capolavori.
E sì, Sergio Claudio Perroni non smetterà mai di essere stato.
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Sergio Claudio Perroni non smetterà mai di essere stato uno scrittore raffinato ed un eccellente traduttore. Nella biblioteca di ogni famiglia, giusto per dirne una, non dovrebbe mancare la sua magnifica traduzione del capolavoro assoluto di John Steinbeck: “Furore“. Chi volesse gustarsi la storia di un incontro tratteggiata con delicatezza e maestria invidiabili (e non l’avesse ancora fatto), per dirne un’altra, troverebbe soddisfazione nella lettura del suo recente romanzo: “Il principio della carezza” (La nave di Teseo, 2016). Senza dimenticare, naturalmente, le pubblicazioni precedenti: Non muore nessuno (2007), Raccapriccio. Mostri e scelleratezze della stampa italiana (2007), Leonilde. Storia eccezionale di una donna normale (2010), Nel ventre (2013), Renuntio vobis (2015). E il recentissimo “La bambina che somigliava alle cose scomparse“ (La nave di Teseo, 2019). Tutte letture consigliate.
Prima, però, vecchi e nuovi lettori dei testi di Sergio Claudio Perroni e delle opere da lui tradotte, farebbero bene a procurarsi quello che considero come il suo libro più rappresentativo: “Entro a volte nel tuo sonno” (La nave di Teseo), che si presenta con questo potente esergo: Ama impetuosamente / senti forsennatamente / non c’è altra vita.
C’è amore, dunque, in questo libro di Perroni. E sentore. E vita. E molto, molto altro.
C’è una fitta e ampia geografia del pensiero e dei sentimenti, racchiusa nelle circa 170 pagine di “Entro a volte nel tuo sonno” (titolo, peraltro, dotato di grande intensità espressiva e su cui ci si potrebbe soffermare per vagliarne a fondo il significato. Chi volesse saperne di più è invitato a leggere “Madrigale – Madre io stesso”, a pag. 36).
Come leggiamo sulla bandella del libro, “Entro a volte nel tuo sonno” ci fa esplorare, come in un ideale atlante dell’anima, tutte le variazioni dell’esistenza – tra paure e passioni, volontà e istinti, mancanze e rinascite – per ricomporre i frammenti dei nostri discorsi interiori quotidiani, e donarci le parole esatte per saperli riconoscere e, finalmente, dire“.
Non stiamo parlando di un romanzo, non stiamo parlando di un saggio. Non si tratta nemmeno di una silloge di poesie in senso stretto. In questo libro, Sergio Claudio Perroni sperimenta una forma letteraria “altra” (e alta) che unisce al largo respiro della prosa la profondità della poesia, ponendosi di fronte al lettore come una sorta di specchio su cui riflettere pensieri/parole/emozioni che attraversano la nostra condizione di esseri umani. Ogni pagina di questo libro offre un titolo incisivo e uno sviluppo letterario che si trasforma, a sua volta, in occasione di viaggio fuori e dentro di noi.
Nella postfazione Sandro Veronesi ci rivela che la sua preferita è “Sapere la strada”. Ci dice che l’ha letta solo cinque o sei volte (“ma metti pure dieci, son sempre poche, perché andrebbe imparata a memoria, da tanto è bella, da tanto è vera“, scrive Veronesi). E già ripensa – continua Veronesi – a tutto quello che ha letto in vita sua, a tutto quello che ha scritto, e a quel che ha fatto di buono e di cattivo. E già ripensa – sono ancora parole di Veronesi – a tutto quello cui si possa ripensare, di fatto e di non fatto, da lui e da chiunque altro, come al frutto di quell’attimo.
Riporto, a mia volta, il testo di “Sapere la strada” (che qui diventa, dunque, citazione di citazione) per dare ulteriore risalto alle considerazioni appena esposte:
“Ti muovi nel buio e non ti trovi, cammini piano tra le
pareti di casa ma ciò che ti aspettavi non lo tocchi, ciò
che sfiori è inatteso, arriva troppo presto, troppo tardi,
ha spigoli nuovi, profili inauditi, allora cerchi a tentoni
l’interruttore più vicino, accendi un attimo la luce per
orientarti, solo un attimo per non svegliarti del tutto, e
quell’attimo ti basta per individuarti, per riconoscere il
tragitto un istante prima che scompaia, per incidere nella
tua mente la planimetria del buio, e riprendi ad avanzare
con la certezza di ogni passo, di ogni gesto, tra forme di
cui ti fidi, convinto di sapere la strada nell’invisibile, ma
a farti andare avanti è solo il ricordo di quell’attimo, a
guidarti è solo la memoria della luce”.
Un titolo, dicevo. E insieme a ogni titolo, la premessa (e la promessa) di un viaggio. “Entro a volte nel tuo sonno” ci consente di percorrere all’incirca 160 di questi itinerari. Il lettore può intraprenderli in sequenza, o senza rispettare un ordine prestabilito.
Sono viaggi intensi che ti lavorano dentro, trasportandoti in una dimensione introspettiva dall’altissima densità letteraria. Sono esperienze di lettura che vanno consumate più volte per poterne beneficiare appieno; perché ogni lettura e ogni rilettura può offrire una percezione diversa, una nuova prospettiva di visione.
Mi incanto di fronte a un titolo: “Il profilo delle parole“. Mi ci soffermo, perché – alla fine – è di parole che stiamo parlando. È un titolo che mi incuriosisce, che m’inchioda. Mi domando: anche le parole, dunque, hanno un profilo? Leggo il testo e inizio il mio viaggio che qui, adesso, voglio condividire:
“Certi giorni cadono senza fare rumore come oggetti su
un panno, come pensieri che rimbalzano sull’acqua, certi
giorni sono uno specchio strabico, ti ci vedi ma non riesci
a riconoscerti, ti ricordi qualcuno ma non pensi di esserlo,
non potresti mai esserlo, hai già smesso di esserlo, certi
giorni la tua forma è un riflesso lontano, un’increspatura
di nebbia che vorrebbe farsi pioggia, muovi la mano ma il
gesto non ti segue, scrivi ma sono solo bucce d’inchiostro
intorno al bianco, parli ma senti solo il profilo delle tue
parole, allora ti agiti, ti sbracci, ti avventi, e la realtà non
reagisce, si lascia attraversare come se non avessi corpo,
si richiude intorno a te come se non avessi volume, certi
giorni sono come persone, ti sfiorano senza vederti, certi
giorni sono come gli anni, passano senza lasciarti esistere”.
Leggo e rileggo. E mi sembra di rivivere l’esperienza descritta da Sandro Veronesi. Non ho dubbi: “Il profilo delle parole” sta parlando di me, sta parlando a me. È uno specchio. È, appunto, il percorso di un viaggio.
Sono grato al profilo delle parole di Sergio Claudio Perroni, agli itinerari che segnano, alle emozioni che suscitano.
E mi ritorna alle orecchie la voce dell’esergo:
Ama impetuosamente / senti forsennatamente / non c’è altra vita.
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Come già accennato, l’ultimo libro di Sergio Claudio Perroni si intitola: “La bambina che somigliava alle cose scomparse“.
Il giorno successivo alla scomparsa, Elisabetta Sgarbi ha lasciato queste parole – in ricordo di Sergio – sulle pagine del Corriere della Sera
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Caro Sergio,
Eugenio e io dovremo rileggere la “Bambina che somigliava alle cose scomparse”. – E dovremo incontrarla questa bambina.- Solo in questo modo potremo ritrovarti. – Così, credo, farà Cettina.- Elisabetta Sgarbi.
Si tratta di una fiaba non convenzionale che commuove e diverte adulti e bambini (arricchita dalle illustrazioni di Leila Marzocchi). La protagonista di questa storia (che è dedicata “A chi ha ancora in sé il sorriso del neonato“) si chiama Pulce, ha sette anni ed è dotata di caratteristiche molto particolari…
Tempo fa ho avuto modo di incontrare Sergio… e gli ho chiesto di raccontarci qualcosa su questa sua nuova opera letteraria: “La bambina che somigliava alle cose scomparse“. Lascio, dunque, la parola a lui…
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«Quella di Pulce è la storia di una bambina alle prese con gli adulti; una favola che, come tutte le favole, si può leggere a vari livelli», ha detto Sergio Claudio Perroni, «ogni età ha modo di cogliervi una metafora e di ritrovarsi in un aspetto diverso. D’altronde, per riprendere una bella definizione di Carolina Pernigo, La bambina che somigliava alle cose scomparse è “una storia di formazione a doppio senso”; le vicende di Pulce, infatti, raccontano una duplice evoluzione: da un lato la sua nel corso della storia raccontata, e dall’altro, fuori campo, quella dei genitori, cui il timore di averla perduta fa scoprire l’aspetto positivo proprio di quelle sue caratteristiche che fin lì avevano ritenuto difetti.
È la storia di una bambina che per dissapori famigliari scappa di casa e, nel suo girovagare, si ritrova la strana capacità (strettamente collegata ai suddetti dissapori) di assomigliare a cose cruciali perdute dalle persone che incontra. La metamorfosi in sé è sempre un pretesto per raccontare un contesto – l’amore di due vecchietti, il rapporto difficile di una ragazza con il proprio aspetto, la vita problematica di un nonnino che si sente di peso in casa del figlio e della nuora… – ma nel caso della mia protagonista richiama anche il contesto in cui la maggior parte di noi affronta la vita intesa come rapporto tra la propria identità e il prossimo.
Quasi nessuno di noi, infatti, da adulto è davvero se stesso. Cerchiamo sempre di assomigliare a un io che non siamo, che pensiamo ci rappresenti meglio rispetto a come siamo davvero o a come sentiamo di essere davvero. È un processo di estraniazione che Pirandello avrebbe dovuto ambientare già nella culla, perché inizia sin dall’infanzia, quando i genitori inculcano nei figli l’insoddisfazione di sé invitandoli a seguire esempi circostanti. Ma Pulce è ancora una bambina soddisfatta di sé (ha imparato che “la fiducia in se stessi è un ingrediente fondamentale per averla anche nella vita”), e, stufa di essere sollecitata dalla mamma o dalla nonna ad assomigliare ad altro da ciò che è – ossia a prendere esempio dai fratellini, dai cuginetti o dalle compagne di scuola più disciplinate –, decide di assomigliare a chi vuole lei e per motivi che garbano a lei: sciogliere un dolore, raddrizzare un torto, rimediare in qualche modo a una perdita… E queste cose non le vive con lo spirito della benefattrice o della giustiziera, perché Pulce non è una super-eroina: è solo una bambina curiosa (“quegli occhi lunghi che volevano sempre andare più in là di ciò che vedevano”), e la curiosità, insieme all’infanzia, è uno dei super-poteri più trascinanti. Tant’è vero che Pulce non è consapevole delle metamorfosi con cui diventa ciò che occorre per rasserenare le figure che incontra: è come se dentro di sé desiderasse così intensamente “materializzare” l’oggetto del rimpianto del suo interlocutore, da prenderne la forma, quasi che all’improvviso incarnasse il proprio desiderio di essere d’aiuto a quel personaggio in difficoltà.
Di fatto, Pulce non rinuncia mai alla propria identità, anzi: il suo assomigliare di volta in volta a ciò di cui la vita ha privato quei personaggi è un’involontaria affermazione della sua libertà di essere Pulce senza doversi adeguare ai modelli che cercano di imporle i genitori. Tra l’altro, essendo ancora priva di sovrastrutture, sa bene che quei modelli non sono affatto positivi come sembrano ai “grandi” nella loro miopia (“i bambini sono un concentrato di occhi, mentre gli adulti ne hanno solo due che guardano quasi sempre nel posto sbagliato”). Ed è proprio questa consapevolezza a spingerla a ribellarsi, piccola anarchica che rifiuta l’idiozia conformista di un certo mondo adulto – ossia quello stesso arkè contro il quale si battono de sempre i bambini di ogni epoca. Vincendo solo nelle favole, purtroppo».
(Riproduzione riservata)
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“La bambina che somigliava alle cose scomparse” (La nave di Teseo)
L’icipit del libro e il primo disegno di Leila Marzocchi
Pulce
Pulce aveva sette anni, gli occhi color tatuaggio e un caratterino vivace. A scuola andava bene ma in casa era una peste, o almeno così dicevano i genitori, che la rimproveravano spesso per le sue monellerie. Ma Pulce non se la prendeva: ascoltava i rimproveri con aria contrita, annuiva paziente, scontava l’immancabile punizione… e ricominciava a fare di testa sua.
C’era però una cosa che non riusciva proprio a sopportare, ed era quando la mamma, il papà, o peggio ancora la nonna (che, diversamente dalle nonne delle favole, era come la mamma e il papà centrifugati), invece di lamentarsi per quello che faceva si lamentavano per quello che era. Anzi, che non era.
“Perché non sei come il fratellino, che è così buono?”, “Perché non somigli alla sorellina, che è così brava?”, “Perché non prendi esempio dai cuginetti, che sono tanto educati?”. Quando le dicevano così, per Pulce era come se si rinfacciassero a vicenda di avere ordinato una bambina sbagliata; e temeva che un giorno o l’altro decidessero di impacchettarla e rispedirla al mittente per farsi mandare quella giusta. Allora, preoccupatissima, andava a specchiarsi nell’anta dell’armadio grande e si chiedeva cos’avesse di sbagliato: se fosse colpa di quelle gambette che non riuscivano a stare mai ferme, o magari di quegli occhi lunghi che volevano sempre andare più in là di ciò che vedevano; e, soprattutto, si chiedeva perché mai dovesse imitare quel piscialletto del fratellino, o quella strega della sorellina, o quei due sgorbi dei cuginetti, che la nonna trovava tanto educati solo perché non vedeva le smorfie che le facevano dietro le spalle. Ma siccome era una bambina volenterosa, strizzava forte forte gli occhi e lì, davanti all’anta a specchio dell’armadio grande, cercava di diventare come la sorellina o come il fratellino (i cuginetti no, a diventare come loro non ci provava neppure).
Poi però le sembrava una pretesa troppo assurda farla smettere di essere Pulce per trasformarsi in quei marmocchi rumorosi e inconcludenti, in quella gentaglia che non sapeva neanche fare il giro del salotto saltando da un mobile all’altro o giocare a nascondino con la propria ombra. Allora chiudeva l’armadio e correva a fare apposta qualche monelleria, per riaffermare la propria immutata e incorreggibile natura di Pulce. E così, puntualmente, ricominciava la solita trafila di strilli, rimproveri e punizioni.
Finché un giorno, stufa di sentirsi dire che doveva essere come qualcun altro, Pulce decise di fare quello che sua madre minacciava sempre e non faceva mai. Decise cioè di “prendersi una vacanza”.
(Riproduzione riservata)
© 2019 La nave di Teseo editore, Milano
Disegni © 2019 Leila Marzocchi
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Nell’aprile del 2016 chiesi a Sergio Claudio Perroni di raccontarmi in maniera “artistica” (e “alternativa”) qualcosa del suo nuovo romanzo che era appena uscito: “Il principio della carezza” (La nave di Teseo). Sergio mi sorprese e accolse la mia proposta approfittandone per dare spazio a un personaggio letterario che, in un certo senso, era stato “fatto fuori” nel corso della scrittura del romanzo. Il personaggio in questione si chiama Puck. Eccolo qui di seguito, dalla penna di Sergio Claudio Perroni, a raccontarci “Il principio della carrezza”.
(Massimo Maugeri)
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SERGIO CLAUDIO PERRONI racconta il suo romanzo IL PRINCIPIO DELLA CAREZZA (La nave di Teseo)
Opinione di un personaggio cancellato
(timido tentativo di risarcire un personaggio del Principio della carezza soppresso per motivi che non è il caso di spiegare)
di Sergio Claudio Perroni
Boh, io so solo che l’autore prima mi aveva messo e poi mi ha tolto. In realtà il libro aveva cominciato a scriverlo senza di me, ma dopo una decina di pagine si è reso conto che Ninfa, la protagonista, vivendo da sola ed essendo un’intellettuale tendente al malinconico, non poteva non avere un cane. Allora ha deciso di far entrare in scena me – Puck, bassotto fulvo. Per un po’ gli sono andato bene, perché sono un cane molto riservato e laconico (“Ma il suo cane non abbaia?” “No, mai. Anche lui ha capito che tanto non cambia niente.”). E così ha lasciato che ascoltassi il monologo che Ninfa sta scrivendo per il teatro e che ogni giorno ripete ad alta voce davanti allo specchio, e mi ha fatto anche assistere al suo incontro con Angelo, il lavavetri che, appollaiato sulla facciata, pulisce le finestre del palazzo.
Angelo, a furia di guardare dall’esterno la vita degli altri, ha sviluppato una visione dell’esistenza molto particolare, e si esprime con un misto di saggezza e candore che me l’ha reso subito simpatico, anche in virtù del fatto che ha un debole per i bassotti (“Mi piace quella loro aria da alti, sempre impettiti anche se gli striscia la pancia per terra. È gente che non si lascia condizionare da come l’ha fatta la natura.”). Pure la mia padrona è rimasta colpita dalla filosofia spiccia di Angelo, forse perché sente che dietro la sua apparenza solare si annida un dolore ben più concreto di quelli, tutti mentali, che vive lei. E, nonostante sia affetta da mille paranoie, l’ha addirittura invitato a entrare in casa per offrirgli un caffè. Ma lui, per motivi di servizio, non può mai lasciare la sua gondola da lavavetri, e così si danno appuntamento ogni giorno a quella finestra, lei dentro e lui fuori, per delle chiacchierate con cui credo che l’autore volesse confrontare due sensibilità, quella di chi si rifugia nel passato per evadere dal presente e quella di chi si proietta nel futuro per sfuggire al passato (lo so, è un’interpretazione troppo intellettualistica per un bassotto, ma non dimenticate che, anche se solo per una ventina di pagine, sono stato pur sempre il bassotto di una scrittrice).
In questi loro incontri – cui ho assistito solo in parte ma dei quali mi sono fatto un’idea sbirciando la scaletta dell’autore, e che culminano in uno strano picnic sul tetto del palazzo –, Ninfa e Angelo affrontano gli argomenti più disparati, come fa in genere la gente quando cerca di parlare di sé senza accorgersene. Parlano del sopra delle nuvole, della bellezza delle cose nascoste, di come sono nate le domande, delle cose che piacciono senza motivo, di isole che si credono continenti, di parole scritte sul vetro o lette sulle labbra. Parlano di gioie perdute, parlano di paura, di morte. Quindi anche di amore, presumo, ma non posso garantirvelo, perché sono stato cacciato dal testo prima che lo facessero. E secondo me il motivo di questa brutale espulsione non è affatto, come sostiene l’autore, la mia presunta “invadenza drammaturgica” (che non so cos’è ma suona come una brutta malattia). No, la verità è che Perroni mi ha cancellato dal suo libro perché si è reso conto che rischiavo di rubare la scena ai suoi protagonisti, visto che su quegli argomenti noi animali siamo molto più preparati di loro.
Sono un bassotto laconico, certo, ma a questo punto non posso farne a meno:
Grrr.
(Riproduzione riservata)
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Il libro
Una donna, un uomo, una città deserta, una finestra che separa mondi e unisce solitudini. Con questi semplici elementi, Sergio Claudio Perroni costruisce una storia che racchiude fiaba e tragedia, come la vita. Lei, scrittrice disincantata, e lui, lavavetri sognatore, non potrebbero essere più diversi, ma hanno due cose in comune: un passato da rimarginare, un presente che intreccia amarezza e amore.
Il principio della carezza è la storia del loro incontro, dunque del loro destino.
“Quand’eri piccola, guardavi le persone come se fossero cose da raggiungere. Traguardi. Tua madre: un traguardo. Tua nonna: un traguardo. Persino la portinaia, con quel suo modo così sicuro di sfilare i saliscendi e spalancare le imposte sulla strada: un traguardo. Guardavi quelle facce ed era come se misurassi la distanza da saltare per poter diventare come loro. Per lasciarti alle spalle la piccola te che eri e diventare finalmente loro. Poi, via via che smettevi di essere piccola senza mai diventare grande, hai scoperto che il vero traguardo eri tu, non loro. E hai capito che la distanza da saltare era incolmabile.”
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Questa pagina è suscettibile di aggiornamenti e integrazioni a testimonianza del fatto che, nonostante tutto, Sergio Claudio Perroni continua a essere qui con noi con le sue parole, i suoi pensieri e i suoi personaggi. E questa consapevolezza potrà forse renderci meno dolorosa la sua mancanza.
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