Il più tradotto romanzo francese di sempre, del genere cappa e spada ma prima ancora storico e sociale, costituisce il migliore modello sul quale misurare il feuilleton, che nell’Ottocento serviva gli scopi dell’attuale serie Tv e che in Alexandre Dumas toccava anche punte spaghetti western. Capolavoro di ingegno letterario e di superficialità narrativa, I tre moschettieri è l’esempio di romanzo di consumo e intrattenimento che oggi diremmo del tipo di Camilleri. Diverte, annoia, emoziona, spinge ad abbandonarlo e poi a riprenderlo, ma di certo non lascia indifferenti. È un libro che letterati del passato e del presente, da Massimo Bontempelli a Benedetto Croce, da Umberto Eco a Pietro Citati, per restare in Italia, hanno amato rileggere anche a distanza di molti anni, attratti dal suo mistero che generazioni di critici di tutto il mondo non sono riusciti a svelare e che fonda forse la sua grandezza.
Il feuilleton dunque, prima del mistero. Come oggi le serie Tv, anche nell’Ottocento della prima metà i romanzi a puntate che uscivano sui giornali venivano costruiti seguendo il successo di pubblico: conformando al suo gusto il prolungamento della trama e la partecipazione di nuovi personaggi, badando che ogni episodio avesse la sua giusta dose di suspense e il suo numero congruo di colpi di scena (possibilmente a fine puntata per creare l’attesa) e sciorinando lunghi dialoghi e descrizioni ora serrate ora dilavate secondo la misura di parole da raggiungere. E, come nelle nostre serie Tv, era inevitabile incorrere, non potendo rifare le puntate precedenti, in incongruità, ripetitività e contraddizioni, un po’ per disattenzioni dovute alla fretta produttiva e un po’ per la scelta di adattare i fatti da narrare agli ultimi sviluppi diegetici piuttosto che rendere coerenti questi a quelli passati. In questa chiave, I tre moschettieri si offrono a un tale festival di mende e zeppe da incoraggiare in ogni lettore, quasi per gioco, la loro ricerca. Vale lo sforzo di richiamarli, almeno in parte, per capire come anche la loro stessa gravità non abbia per nulla minato un gradimento che nei secoli è arrivato a noi intatto, a riprova di quanto i pregi superino di gran lunga i difetti.
Il primo sfaglio, il più segnalato, è già nel titolo, dove sono indicati tre moschettieri, che in realtà sono quattro, sennonché il quarto, D’Artagnan, solo alla fine viene nominato moschettiere perché è una guardia di una diversa compagnia d’armi: gustoso a proposito è l’errore di Dumas quando descrive D’Artagnan che, scese delle scale, “si trova davanti Athos e i quattro moschettieri”. I quali tuttavia non sono i protagonisti ma fanno da comprimari o al massimo da deuteragonisti, giacché la scena è sempre dominata e la trama condotta dal solo D’Artagnan, il vero eroe sul quale ruota il romanzo, arrivato a Dumas da un supposto manoscritto opera di uno dei moschettieri il quale racconta le sue e le avventure degli altri alla corte di Luigi XIII nella Francia del primo Seicento e nel pieno della Guerra dei trent’anni. Dumas ne rifà la pianta e in qualche modo anche la storia, oltre a riscrivere il manoscritto: che posa in dubbio, dal momento che di un personaggio secondario, il cancelliere Guitaut, Dumas dice che “è meglio che i lettori facciano conoscenza con lui, siccome lo ritroveremo probabilmente nel corso di quest’opera”, probabilità davvero insussistente se è vero che lo scrittore ha già letto, come dice in prefazione di aver fatto, l’intero manoscritto. E quanto alla storia tradita, l’autore del Conte di Montecristo, stesso anno di pubblicazione in volume, svaria quando per esempio fa morire il duca di Buckingham per mano di John Felton, personaggio storico e reale omicida, ma perché istigato da Milady, figura di fantasia e conturbante femme fatale o dark lady, a dare credito alla sua doppia nazionalità francese e inglese. Milady è forse più originale di D’Artagnan.
Il fatto nuovo introdotto da Dumas nel romanzo d’appendice fu di fatto proprio l’elevazione della donna, nella taccia appunto di Milady, al grado dell’uomo, come lui (se non peggio) capace di ogni bassezza, di ogni intrigo e scelleratezza, pur non essendo una regina ma solo una impenitente lestofante. Per il pubblico dell’epoca dovette essere perciò uno choc vedere in azione nei quartieri alti di Parigi e Londra una donna tanto bella quanto diabolica, dotata di sofisticate abilità intellettive e capacità anche fisiche, che parte come cameriera e diventa la spalla del cardinale Richelieu, come lui capace di uccidere e ordire congiure di palazzo e trame eversive. A Dumas piacque così tanto questo personaggio oltremodo dissonante, nominato solo “Milady” ad antifrasi sulla sua natura, che, nel momento in cui al rendez-vous la mantide maliarda viene consegnata al boia, è il suo nemico giurato, cioè D’Artagnan, che ne implora la grazia, benché abbia solo da un’ora perso la donna amata per mano proprio della spietata spia bionda. E in lacrime il fiero guascone – che è innamorato di Constance Bonacieux, ma perde la testa pure per Milady – si adduce probabilmente in rappresentanza di tutto il pubblico di lettori, morbosamente conquistato da quel talento in sottana di perfidia e maliscenza, dal corpo angelico epperò marchiato a fuoco dal “giglio dell’infamia” che ne prova l’anima criminale.
Ma nonostante la truculenza, le spade sempre sguainate, i moschetti fumanti e il contenuto splatter, il romanzo è più il tono della commedia che seconda anziché del dramma. A parte il tono ironico, la battuta salace, il ripetuto ammiccamento al lettore, se ne coglie lo spirito leggero e giocoso, da divertissement, nelle sciarade e pantomine in ‘helzapoppin che sostengono non poche scene: il ritrovamento che D’Artagnan fa dei moschettieri persi lungo il viaggio per l’Inghilterra, i cavalli inglesi avuti in dono da Buckingham e venduti o perduti al gioco (chiara satira antibritannica di Dumas) fatti salvi i soli finimenti, l’equipaggiamento di cui i moschettieri devono dotarsi, la colazione scanzonata sul bastione de La Rochelle inframezzata da scontri a fuoco con gli assediati e la salvietta usata come bandiera, la ricerca continua di denari e le trovate picaresche per procurarli. Ma è anche nel contrasto che si crea a ogni nemico morto con il contesto in cui egli è battuto che vediamo la commedia. Il sangue che ogni caduto versa sembra finto, come a teatro e come nel Don Chisciotte, del quale I tre moschettieri non è che la parodia. Dumas lo cita più di una volta e gli rende un esplicito tributo quando parla di “epoca cavalleresca” riferendosi al Seicento e soprattutto quando scrive dei moschettieri del re in guisa di nobili cavalieri: “Era in tal modo che parlavano e operavano i prodi del tempo di Carlo Magno sui quali ogni cavaliere dovrebbe cercare di modellarsi”. Ma c’è di più. I servi dei quattro valenti amici ostentano una deliberata aria di fedeli scudieri, ghiotti di luigi e buoni piatti, avvezzi all’avventura, al vino e al rischio, ma con maggiore destrezza e più attitudine di Sancho Panza, tanto che l’aiutante spiccicato di Don Chisciotte appare il Planchet che nottetempo cavalca al fianco del suo padrone D’Artagnan imbastendo ameni discorsi che sembrano ricalcati da Cervantes. E Aramis non a caso intrattiene disquisizioni con un gesuita e un curato nei quali è facile intravedere il farmacista e il curato della foggia cervantina.
Non c’è solo Cervantes in Dumas. C’è anche Manzoni con il suo Seicento milanese, le disavventure rocambolesche, la descrizione della città e dei costumi di piazza e di palazzo, i contrasti con un Innominato che in Dumas è Richelieu, il manoscritto ritrovato e ancora quello stesso spirito disincantato di commedia sociale dove chi parte dal basso aspira a conseguire posizioni di fortuna attraverso mille peripezie e dove un episodio privato e banale, come un matrimonio tra poveri che diventa uno scontro di poteri, innesca una reazione a catena di eventi pubblici. E I tre moschettieri giusto questo sviluppo integra, di una disfida che rasenta le stanze del re e tocca quelle della regina alla quale culmina una elementare lettera di raccomandazione sottratta a un ragazzino di provincia in cerca di fortuna a Parigi che porta infine ai re d’Europa, alla guerra agli ugonotti e agli intrighi di Stato. Il genio di Dumas traluce nel racconto che fa di una parte della Guerra dei trent’anni e della disputa a corte tra realisti e ministeriali servendosi della storia di un ragazzo di venti, nella proposizione del tutto inverosimile che anche questa sia vera come quella, con ciò cucendo un “misto di storia e invenzione” che già Manzoni ha confezionato nei suoi Promessi sposi. La differenza è che Dumas conosce molto meglio i lettori ai quali il bello stile non suscita le stesse emozioni di una bella trama fatta di uniformi, cavalli, corti regali e mani femminili, ma conosce molto meno la coerenza e l’esattezza. I tre moschettieri tradisce infatti disattenzioni impensabili in Manzoni, legato com’è a una tradizione italiana che non ammette sciatterie né nello stile né nella trama.
Giudicando veniali quelle che riguardano il caso dell’uomo col mantello nel quale D’Artagnan riconosce “l’uomo di Meung” che subito dopo però diventa “lo sconosciuto”; il fatto che di ritorno dall’Inghilterra D’Artagnan incontra Tréville, comandante dei moschettieri, dà appuntamento a Constanza, va alla festa del re e non si preoccupa dei moschettieri che non sono più con lui e non sa se sono ancora vivi; il momento in cui Ketty aspetta da Aramis la lettera di raccomandazione per Tours che però lui ha già scritto e le ha pure consegnato da giorni; il caso che pur essendo all’assedio de La Rochelle i quattro moschettieri si ritrovano la sera a Parigi in casa di Athos; l’incongruenza per cui D’Artagnan dice di non sapere dove è tenuta prigioniera Constanza ma sa che suo marito ne è informato, però non va da lui per farselo dire; l’altra incongruenza per la quale Constanza anziché D’Artagnan, che è ben più capace del marito, incarica il pavido consorte e non il coraggioso soldato che peraltro la ama per recapitare una lettera a Londra; tolte tutte queste, le sviste più clamorose sono due.
La prima si ha per la nomina di D’Artagnan a moschettiere. Dumas scrive che Tréville gli comunica il provvedimento preso dal re e lo rende felice perché è «la cosa che desiderava più di ogni altra al mondo», ma poco dopo, sfidando a duello un gentiluomo inglese, D’Artagnan si presenta ancora come guardia della compagnia Des Essarts e tale rimane, tanto che Dumas più avanti scrive che egli era molto familiare tra i moschettieri nel cui corpo “era noto che un giorno avrebbe preso posto” e ancora: “Come sappiamo bene, D’Artagnan era tutto preso dall’ambizione di entrare nel corpo dei moschettieri”. In realtà il lettore quel che sa bene è che già fa parte dei moschettieri del re. Lo diventa nondimeno un’altra volta a La Rochelle quando ancora Trèville gli comunica che il cardinale Richelieu – e non più il re – lo ha nominato moschettiere, sicché D’Artagnan “non stava in sé dalla gioia”, essendo “noto che il sogno di tutta la sua vita era d’essere moschettiere”. Siamo quasi alle comiche.
La seconda svista è forse la numero uno in assoluto, un portento di superficialità. Riguarda il viaggio di D’Artagnan a Londra. Il valoroso cavaliere arriva in Inghilterra con il suo servo Planchet e deve raggiungere Buckingham che è impegnato in una battuta di caccia al falcone a Windsor. Planchet rimane a casa del duca a riposare perché “lo avevano tirato giù dal suo cavallo rigido come un pezzo di legno”, non si capisce perché mai, mentre D’Artagnan corre a Windsor e torna a Londra con il duca, dopodiché riparte trascorsi alcuni giorni e lo fa da solo: percorre il tragitto fino a Parigi, una volta sbarcato in Francia, servendosi di cavalli che il duca gli fa trovare a ogni stazione di posta, quattro cavalli che poi D’Artagnan riceve in regalo e cede ai tre moschettieri. Ma di Planchet non si sa nulla. Lo ritroviamo a Parigi quando Dumas si accorge forse del grosso errore commesso e gli fa dire a D’Artagnan quasi a propria maldestra giustificazione: “Sembra che il nostro viaggio sia stato un viaggio di rimonta”, come se anche lui sia stato di stazione in stazione e sia passato di cavallo in cavallo, ipotesi nella quale però i cavalli avrebbero dovuto essere otto e non quattro. E dire che Dumas è particolarmente attento al ruolo dei cavalli se dice che l’epoca era quella “in cui gli uomini si riconoscevano dai loro cavalli”. Ma ne perde il controllo, preso dalla brama di impressionare il lettore con racconti icastici e mozzafiato, anche se a discapito della sua stessa parola.
Significativo il gioco che tende al lettore nel tentativo di fargli trattenere il fiato, rischiando di mettere in essere un altro errore della collezione. Vi troviamo tutto il Dumas che pensa a come dare alla scena il massimo dell’attesa. L’abbadessa del convento dove ripara Milady, che è a caccia di Constanza Bonacieux, ospite proprio del convento, dice alla nuova arrivata che un’altra donna è sotto la sua protezione e le fa il nome di Ketty, la cameriera di Milady diventata anch’ella sua nemica. Il lettore si aspetta che la vendetta cada sulla testa di Ketty, ma poi si scopre che la donna che le diventa amica e compagna nel progetto comune di fuga non è Ketty, ma Constanza Bonacieux. Un paradosso. Una gimmick letteraria vera e propria che non trova spiegazione se non nel suo scopo, giacché l’abbadessa fa il nome di Ketty non perché lei la conosca ma perché la conosce il lettore, il quale scopre chi è soltanto quando lo scopre anche Milady al termine di una lunga conversazione che tiene il lettore sospeso: come quando D’Artagnan non fa che chiedere dove sia Athos e l’albergatore continua imperterrito e indisponente a raccontare cosa gli è successo senza dire se è vivo o meno.
Dumas è in questo gioco a nascondere e sospendere, nelle coincidenze improbabili, nelle agnizioni a sorpresa, negli incontri impossibili. Il mistero de I tre moschettieri sta in un segreto: quello di rendere tutto possibile in un mondo estremamente reale, anche a costo di forzare la stessa realtà e di rivolgere tutto in favola. La scena più bella del romanzo è forse quella che unisce vero e falso attraverso una tenda: la regina Anna d’Austria che allunga una mano oltre la tenda e consegna in quella di D’Artagnan, suo salvatore, un prezioso anello in segno di ringraziamento. Nella mano vellutata e bianca, così regale, che appare da un mondo irraggiungibile e inconoscibile il giovane guascone riconosce una realtà che gli appare favolosa. E a tenere la tenda socchiusa è proprio Dumas.
(È vietata la riproduzione anche parziale)
[il nuovo romanzo di Gianni Bonina è: “Ammatula” (Castelvecchi) – di recente in libreria anche il volume: “Fatti di mafia” (Theoria)]
* * *
[Tutte le puntate di Leggerenza sono disponibili cliccando qui]
* * *
LetteratitudineBlog / LetteratitudineNews / LetteratitudineRadio / LetteratitudineVideo