Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato al volume “Michelangelo in Parnaso” di Gandolfo Cascio (Marsilio)
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Gandolfo Cascio insegna Letteratura italiana e Translation Studies all’università di Utrecht. Si occupa di poetica, ricezione estetica e filologia digitale. Ha pubblicato Un’idea di letteratura nella «Commedia», Società Editrice Dante Alighieri, 2015; Michelangelo in Parnaso. La ricezione delle «Rime» tra gli scrittori, Marsilio, 2019; Il mestiere della persuasione. Scritti sulla prosa, Giorgio Pozzi Editore, 2019. Per i suoi saggi ha vinto il premio Elsa Morante, il premio Proserpina e il premio G.A. Borgese.
Ho invitato Gandolfo Cascio a discutere del suo volume dedicato alle Rime di Michelangelo: “Michelangelo in Parnaso. La ricezione delle Rime tra gli scrittori” (Marsilio). A corredo dell’intervista pubblichiamo un paragrafo del libro che riguarda Stendhal.
Michelangelo scrisse le “Rime” per affrontare di petto temi su cui, come artista, non poté esprimersi come voleva, e per farlo scelse una lingua aspra, distante dalla limpidezza del Cinquecento. In genere la critica si è mostrata cauta, sovente scontrosa, verso questo suo “secondo mestiere”; mentre di tutt’altra qualità è stata la ricezione tra gli scrittori che ne intuirono la caratura. Questo volume indaga il rapporto tra diversi autori (Varchi, Aretino, Foscolo, Wordsworth, Stendhal, Mann, Montale, Morante e altri) e i versi buonarrotiani e, attraverso delle severe analisi dei testi, illustra perché Michelangelo occupi nel Parnaso un posto più nobile di quello che la storiografia ha tramandato.
– Gandolfo, quando e perché hai cominciato a interessarti alle Rime di Michelangelo?
Ricordo con una certa nostalgia che durante il primo esame di Letteratura italiana, all’università di Palermo, venni interrogato su Michelangelo poeta. È da quei lontani anni che le Rime continuano a girarmi in testa.
Quello che tuttora mi sorprende è che, nonostante Michelangelo fosse un uomo tutto d’un pezzo, era leggendaria la sua “terribilità”, nei versi pare che abbia potuto trovare lo spazio e il mezzo per esprimere le proprie inquietudini sull’esistenza, sull’amore, su Dio. L’ha fatto con una lingua aspra e difficile, sovente comica e, in non pochi casi, dolcissima, com’è nella rima 98 dove, audace e ardente, allude al nome dell’amato Tommaso de’ Cavalieri, con la consapevolezza che chiunque avrebbe riconosciuto l’amico romano:
maraviglia non è se nudo e solo
resto prigion d’un cavalier armato
Ecco, tutto ciò ha fatto sì che Michelangelo diventasse uno dei “miei” autori, cioè uno di quelli a cui ci si rivolge, sicuri di poterli interpellare per sentirsi dire qualcosa d’inaudito.
– Quando e perché è nata l’idea di questo libro? Quando, cioè, hai ritenuto di dover “rendere giustizia” all’opera poetica di Michelangelo?
Quando presentai il progetto per il dottorato, pensai che quella fosse l’occasione buona per approfondire un tema che, appunto, mi stava a cuore. Da quel momento e per qualche anno, in pratica, ho vissuto con Michelangelo: era il mio primo pensiero al risveglio, di giorno ci lavoravo, andavo a letto con lui. Dopo la conclusione di quel percorso mi persuasi che fosse giudizioso prenderne per un po’ le distanze. In quel periodo mi sono dedicato a un altro mio pensiero fisso: Dante. A un certo punto capii che dovevo ritornare a Michelangelo e, allora, mandai il dattiloscritto a Marsilio che ha una dei più stimati cataloghi di saggistica. Cesare De Michelis mi rispose subito, proponendomi di pubblicare il libro. Mi diede una profonda soddisfazione sapere che un lettore finissimo come lui aveva apprezzato i miei sforzi, e poi ero davvero contento di venire accolto nella collana che aveva pubblicato Giacomo Debenedetti.
– Cosa puoi dirci sull’attività di studio e ricerca propredeutiche alla scrittura del testo? È stata appassionante? Hai incontrato difficoltà?
Dà sempre un piacere particolare iniziare una nuova ricerca. Quello che eccita è l’idea, direi platonica, di poter trovare qualcosa che sta lì ma che rimane nascosta, e che va riportata in superficie; in olandese, ad esempio, ricerca si dice onderzoeken, che significa proprio «cercare sotto». Ti confesso però che il momento più emozionante non è stato, diciamo così, quello della scoperta intellettuale ma uno squisitamente fisico. Mi riferisco al soggiorno fiorentino all’archivio di Casa Buonarroti, dove esaminai i manoscritti lì conservati. Non credo di poterti dire bene l’emozione che ebbi a tenere in mano quelle carte, a osservare quella grafia, i mirabili segni del Divino Michelangelo.
Naturalmente ci sono state anche alcune difficoltà. Michelangelo in Parnaso è uno studio innovativo: nessuno, difatti, s’era ancora occupato della ricezione delle Rime, meno che mai tra gli scrittori. Se il mio punto di riferimento, per quanto inarrivabile, è stato Gianfranco Contini, nello specifico, però, non avevo dei modelli cui rivolgermi. La sfida, perciò, è stata quella d’inventarmi un metodo, di scoprire da me delle strategie per le indagini che volevo portare avanti. Tuttavia, è altrettanto vero che quella medesima situazione di smarrimento iniziale mi ha concesso una gran libertà.
– Proviamo ad approfondire questo punto… Perché la critica, in genere, si è mostrata piuttosto cauta nel riconoscere il valore dell’attività poetica di questo grande genio della pittura?
Be’, il problema forse è stato proprio quello di essere un grande artista, tant’è che giusto quella condizione ha messo in ombra l’attività lirica. Ancora oggi c’è chi sfrutta le poesie per illustrare il suo lavoro di pittore e, soprattutto, di scultore. Questo va bene; ma se si pensa che Michelangelo scrisse più di trecento poesie in cui è abbastanza facile rilevare dei notevoli sviluppi tematici e stilistici, la sua scrittura non solo merita più attenzione ma, soprattutto, le va riconosciuta una dignità sciolta dalle altre attività. Intendo dire che Michelangelo nelle Rime disse altre cose che in pittura o scultura: prima di tutto perché qui non vi è traccia dei desiderata dei committenti; e inoltre tutta personale fu la scelta del come esprimersi, dello stile. Evidentemente, per quanto la parola sia sorella della pittura – per Orazio «ut pictura poesis» – la poesia ha degli strumenti e dei fini tutti suoi di cui Michelangelo volle e poté servirsi.
La negligenza della critica può spiegarsi in diversi modi, a seconda dei periodi. Diciamo che c’è stato il problema della lingua: dove sistemare un poeta del Cinquecento così poco petrarchesco? Poi c’è stata la spinosa questione amorosa; e, non meno grave, quella di una religiosità vissuta con contezza in un momento di gravi tensioni spirituali. Anche i nostri contemporanei, in primis De Sanctis e Croce, evidentemente non ancora affrancati dai pesanti pregiudizi, non riuscirono a capire le Rime né furono in grado di sistemare il loro autore all’interno della nostra tradizione. Dagli anni Sessanta, invece, molto ha iniziato a cambiare e si è preso a studiare questa raccolta con più serenità.
– A differenza dei critici, gli scrittori hanno dimostrato maggiore apertura e apprezzamento per i versi di Michelangelo. E buona parte del tuo lavoro è incentrato proprio su questo aspetto. C’è qualcosa che accomuna tali “apprezzamenti”?
A me non interessa la questione della ricezione, perlomeno quando viene intesa esclusivamente come la disciplina che si focalizza sul lettore comune, o, se si vuole usare un certo gergo, sul pubblico. Al contrario, mi seduce proprio la categoria di lettori non comuni, in particolare quella degli scrittori. Tra di loro, si sa, si leggono, si invidiano e si copiano. Tali dinamiche mi intrigano per due motivi: prima di tutto perché provare a scoprire questi rimandi, citazioni, le imitazioni più o meno palesi mi permette di concentrarmi sui testi che, sono convinto, devono restare l’oggetto principale degli studi letterari; ma anche perché osservando queste relazioni ho come avuto l’impressione di umanizzare qualcosa che altrimenti avrebbe rischiato di fermarsi allo stato di erudizione.
C’è poi da tenere a mente che uno scrittore ha altri obblighi, e magari privilegi, rispetto al critico, e potrebbe avere una diversa sensibilità: penso a Varchi, Stendhal o Montale che grazie alla loro indole poterono comprendere Michelangelo prima e meglio dei critici di professione.
Mi auguro che ciò spieghi pure il titolo del libro, dato che il mio intento non era quello di riconoscere a Michelangelo un posto tra gli abitanti del Parnaso, fatto che ormai non viene più messo in discussione, quanto quello di definirne con più chiarezza il suo ruolo di compagno in quelle che ho definito «conversazioni tra scrittori».
– Tra gli “approcci critici” dei vari scrittori di cui ti sei occupato in relazione alla poesia di Michelangelo, quali sono quelli che ti hanno colpito di più?
Alcuni si sono occupati delle Rime come critici: penso a Foscolo, Ungaretti, Testori; altri, Campana, Morante, Gadda si sono lasciati incantare da quei versi e li hanno fatti propri; mentre molti stranieri, e basti nominare Wordsworth, lo hanno tradotto. Per quanto questi casi siano tutti interessanti, dal mio punto di vista quelli che attraggono con più forza risultano quelli in cui Michelangelo è stato ripreso creativamente, perché è proprio lì che si nota come i rapporti tra scrittori non vengono intralciati dalle lontananze, di spazio o di tempo. A Un campione utile per intendere quello che dico è l’episodio che coinvolge Patrizia Valduga: non solo perché il calco da Michelangelo è evidentissimo, ma perché altrove la poetessa lo stronca:
MICHELANGELO (247 e 102) VALDUGA (La tentazione)
Caro m’è ’l sonno, e più l’esser di sasso, In questa maledetta notte oscura
mentre che ’l danno e la vergogna dura; con una tentazione fui assalita
* Che ancora in cuore la vergogna dura
O notte, o dolce tempo, benché nero […]
«Amica mia piccola, benché nero
a te paia ed eterno questo tempo
– In conclusione di questa nostra “chiacchierata”, ti chiedo di scegliere alcuni versi di Michelangelo che ritieni particolarmente rappresentativi della sua attività poetica e di “offrirli” ai nostri lettori…
Prima di risponderti vorrei ringraziarti di cuore per la chiacchierata e per questa bella domanda.
In verità sono tanti i versi che mi porto dentro. Qui ti cito la rima 7, non perché sia la più bella o celebre, ma perché è da qui che, in quegli anni ormai lontani che ho rammentato, iniziò la mia confidenza con Michelangelo:
Chi è quel che per forza a te mi mena,
oilmè, oilmè, oilmè,
legato e stretto, e son libero e sciolto?
Se tu incateni altrui senza catena,
e senza mane o braccia m’hai raccolto,
chi mi difenderà dal tuo bel volto?
– Grazie mille, caro Gandolfo. Di seguito pubblichiamo il paragrafo che riguarda Stendhal. Complimenti e in bocca al lupo per questo libro e per i tuoi futuri progetti.
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Stendhal (pp. 74-77)
Alberto Moravia, da viaggiatore esperto, commentò la guida artistica di Roma (1829) di Stendhal, riuscendo a superare la retorica romantica e i più adoperati stereotipi letterari legati al Grand Tour:
Le promenades dans Rome hanno un titolo molto preciso: sono infatti proprio passeggiate durante le quali Stendhal fornisce una descrizione minuziosa e svagata, esauriente e capricciosa, della capitale degli Stati Pontifici, ad uso degli «happy fews» francesi che la visiteranno dopo di lui[1].
Il francese, proprio per merito della singolare attenzione al dettaglio, s’impose come campione per il turista colto. Questa sua virtù lo avrebbe portato a scovare le poesie michelangiolesche e ad andare oltre ai tanti, e imprescindibili, riferimenti all’artista e al suo coinvolgimento nella Roma papalina. Tanto interesse portò Stendhal a citarlo «con incessante ripetizione, segno di affinità segrete, soggetto mitico, riflesso di un passato grandioso che suscita profonde emozioni»[2]. Tra i diversi discorsi, un posto di rilievo spetta al capitolo la Vie de Michel-Ange, incluso nel settimo volume de l’Histoire de la peinture en Italie (1817), basato in gran parte sulle biografie di Vasari e Condivi[3].
C’è poi la recente scoperta di un «manoscritto inedito […] rintracciato e identificato in una piccola raccolta privata»[4], pubblicato nel 1995. Il titolo, Chi mi difenderà dal tuo bel volto?, è editoriale ed è stato ripreso dall’ultimo verso della sestina n. 7. Stendhal mise in bocca questa battuta a Michelangelo – in italiano nel testo – nel momento in cui incontrò Cavalieri[5]. L’invenzione letteraria non concorda con la filologia, visto che questa rima è tra i primissimi scritti (± 1506), dunque antecedente, e di molto, all’incontro con il nobile romano, avvenuto nel 1532. Tuttavia la scelta è assai affascinate, perché fa capire bene come la ricezione creativa permetta azioni che in altra sede sarebbero considerate illecite e che invece in un testo d’arte risulta efficace ai fini della fabula.
Nel volumetto (formato 12×17 cm. con testo a fronte) la versione in francese consta di sole 13 pagine, incluse le note a margine; è datato «22 giugno [1832], Mero» (che è Roma) e la scrittura, così avverte il traduttore, interruppe i Soeuvenirs d’égotisme, iniziati solo due giorni prima. Evidentemente un’urgenza, uno spasimo forse, aveva spinto lo scrittore a intraprendere questo progetto; ciononostante, già il giorno dopo l’abbandonò per lasciarlo, michelangiolescamente, incompiuto. L’occasione narrativa fu squisitamente stendhaliana: lo scrittore, impegnato con una missiva dell’amante che aveva disertato un incontro, è distratto dalla cameriera che, senza una ragione, gli comunica l’orgoglio che prova a «lavorare nel palazzo dei Cavalieri» e che queste dove lui alloggia assieme all’amico Abraham Constantin «erano proprio le stanze di don Tommaso, il bellissimo padrone»[6]. La coincidenza diviene il pretesto per poter parlare della relazione di Michelangelo con Tommaso così com’è data nelle Rime. Ecco bell’e pronto il setting; l’azione segue: Stendhal si precipitò a recuperare il libro in biblioteca. Negli scaffali ne trovò uno in italiano[7] e un altro in francese[8] che riportano la lezione del 1623, quella rivista e integrata. Ciò però non compromise l’affezione che legava il romanziere al poeta, anzi parrebbe che le alterazioni baroccheggianti non abbiano leso il centro del corpus. Stendhal effettivamente doveva avere consapevolezza dell’edizione, visto che si soffermò sul lavoro del traduttore con sicurezza: «un certo Varcollier traduce l’intraducibile ma ha il buon senso di mantenere il testo a fronte»[9]. L’affermazione mette in evidenza come l’originale presenti delle particolarità che la traduzione avrebbe svilito. Il testo a fronte permette dunque di confrontare la traduzione e di esaminarlo con più diligenza. Stendhal informa inoltre del modo in cui venne in contatto con la lirica michelangiolesca e in una nota a margine riconosce l’importanza dell’esperienza con l’esclamativo:
Quando una decina di anni fa iniziai la mia collaborazione al N.[ew] Mon[thly] Mag[azi]ne ricordo di aver ricevuto un numero della rivista con un interesante articolo di F.[osco]lo. Scoprii così la poesia di Miche[langelo]. Che rivelazione![10]
Questi sono gli antecedenti che riferiscono quando e come Stendhal fosse arrivato alle Rime, e quale attaccamento, anche fisico, egli provasse nella lettura, considerato che arrivò a esclamare: «Cerco di non vedere le sottolineature; in realtà mi disturbano, come se il libro fosse mio». Il seguito del racconto “non finito”, continua con una trama che porta Michelangelo a incontrare Cavalieri e poi a reincontrarsi, dopo lo spasimo da parte del Vecchio, nello studio di Macel de’ Corvi. Qui si intrecciano motivi storici (con dei riferimenti al pontificato), etici (le differenze sociali e d’età tra i due), ma sommamente estetici (il ritratto su carta di Michelangelo) e filosofici, con il richiamo all’«amor platonique»[11]. Ciò viene spiegato con i ripetuti rimandi al senso della vista e lessicalmente all’uso della parola «occhi»[12], il mezzo per la conoscenza: «Questo ragazzo che fino a poco fa non cercava che il piacere degli occhi, saprà guardare con l’intelletto»[13]. Il racconto dunque riesce a rappresentare Michelangelo davanti alla concretezza della sua ispirazione, almeno per quanto riguarda le poesie per Cavalieri. Questo realismo conviene alla figura dello scrittore, ma lascia intravedere un eccesso di romantica leziosità quando Stendhal evidenzia che la perfezione di Cavalieri sta proprio nell’imperfezione del «naso imperioso»[14]. Una chiosa estetica che combacia con buona parte parte della critica ottocentesca che in queste rime vide la belleza più profonda proprio nella loro imperfezione, come la raffigurazione di chi sa ribellarsi alla morale borghese.
Stendhal illuminò le Rime definendole «fra le più ispirate di tutto il Cinquecento»[15], e ci diede il polso della situazione del suo tempo. Il giudizio, che conciliò l’incompiutezza formale con il valore della Poesia, è quello che la critica postcrociana prediligerà. Rimane tuttavia un dubbio, e cioè che l’imperfezione che egli sentì non fosse cagionata dai ritocchi secenteschi.
[1] A. Moravia, Passeggiate romane, in Moravia e Roma, a cura di L. Basili, catalogo della mostra: Roma, Museo di Roma in Trastevere, 22 novembre 2003-22 febbraio 2004, Roma, numero speciale dei «Quaderni» del Fondo Alberto Moravia, novembre 2003, p. 61.
[2] A. Bottacin in Stendhal, Chi mi difenderà dal tuo bel volto?, scoperto e tradotto da C. Vivari, postfazione di A. Bottacin, Milano, La Vita Felice, 1995, p. 53.
[3] Stendhal, Hìstoire de la peinture en Italie, Paris, Levy, 1854, VII, pp. 294-407.
[4] Vivari in Stendhal, Chi mi difenderà dal tuo bel volto?, cit., p. 9.
[5] Ibid., p. 26.
[6] Ibid., p. 21.
[7] Rime di Michelagnolo Buonarroti il Vecchio con una Lezione di Benedetto Varchi e due di Mario Guiducci sopra di esse, Firenze, Manni, 1726.
[8] Poésies de Michel-Ange Buonarroti, peintre, sculpteur et architecte florentin, traduites de l’italien, avec le texte en regard et accompagnées de notes littéraires et historiques, par M.A. Varcollier, Paris, Hesse, 1826.
[9] Stendhal, Chi mi difenderà dal tuo bel volto?, cit., p. 25.
[10] Ibid., p. 23, nota a margine.
[11] Ibid., p. 38.
[12] Ricordo che l’idea che l’amore passasse prima attraverso la vista è, sì, ampliamente integrata nella dottrina ficiniana e propagata in modo ampio dai neoplatonici, ma in ambito poetico una concezione di questo tipo è già partecipata nella Scuola siciliana, ed è Giacomo Da Lentini a dirlo nel sonetto XXII: «Or come pote sì gran donna entrare | per gli ochi mei che sì piccioli sone? | e nel mio core come pote stare, | che ’nentr’esso la porto là onque i’ vone? || Lo loco là onde entra già non pare, | ond’io gran meraviglia me ne dòne; | ma voglio lei a lumera asomigliare, | e gli ochi mei al vetro ove si pone. || Lo foco inchiuso, poi passa difore | lo suo lostrore, sanza far rotura: | Così per gli ochi mi pass’a lo core, || no la persona, ma la sua figura. | Rinovellare mi voglio d’amore, | poi porto insegna di tal crïatura.».
[13] Stendhal, Chi mi difenderà dal tuo bel volto?, cit., p. 39.
[14] Ibid., p. 33.
[15] Ibid.
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