Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine “Saggistica Letteraria” è dedicato al volume “Metafisica del sottosuolo” di Antonina Nocera (Divergenze). Di seguito, la recensione di Giuseppe Giglio.
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“Metafisica del sottosuolo” di Antonina Nocera (Divergenze)
I fili della verità, tra Sciascia e Dostoevskij
La critica letteraria dovrebbe scaturire da un debito d’amore, scriveva George Steiner. E l’eco di quest’auspicio (per quel maestro un modo di essere, oltre che un desiderio) si avverte in sottofondo, come una frase musicale, leggendo Metafisica del sottosuolo, l’agile e limpido saggio che la giovane critica e comparatista Antonina Nocera ha licenziato per gli eleganti tipi di Divergenze, con una prefazione appassionata di Antonio Di Grado, oltre che una maieutica postfazione di Federico Fiore. Un viaggio molto intenso e ricco di spunti, questo della Nocera. E arditamente originale: nello scovare quei fili – «sorprendentemente sottili e al contempo resistenti come quelli della seta» – che uniscono le pagine di Leonardo Sciascia con quelle di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Così diversi, ma anche così simili, questi due magnifici scrittori e narratori: nel loro continuo esplorare l’animo umano, nel loro aperto interrogarsi sul mistero del vivere; diffidenti verso ogni comprensione totalizzante, sorretti invece dalla contraddizione e dal dubbio. Il primo sempre in cerca delle verità dell’uomo, dell’uomo così com’è. Il secondo per tutta la vita tormentato dalla «questione dell’esistenza di Dio» (precisa Dostoevskij in una lettera: preziosa, come molte altre sue, per ciò che di quel gigante custodisce).
E il lettore (da subito a proprio agio, nell’abitare questo libretto che si muta in conversazione: tra il siciliano, il russo e chi legge, appunto) ha modo di osservare come i due si incontrino sulle eterne questioni della verità e della fede, oscillando tra i limiti della ragione e le enormi possibilità di essa. Entrambi adoperando uno stesso punto di partenza. O, meglio, la medesima chiave: quel delitto che diviene crimine ontologico, interrogazione metafisica sul male, sul male che intorpida, che avvelena la vita; quel delitto, ancora, di cui mano a mano il lettore avverte il mutarsi in domanda, in domande: sul potere e su Dio, sul destino e sulla libertà. C’è un indizio, da cui la Nocera comincia a fiutare, a intravedere le linee che corrono, o si intrecciano, tra Sciascia e Dostoevskij: quel «terzo ed ultimo volume di un’edizione popolare de I fratelli Karamazov» (la storia di quelle anime irrisolte che si fa affresco senza tempo dell’umana avventura: tra il male e la salvezza, tra l’accettare Dio o il restituirgli il biglietto) che l’ispettore Rogas, il poliziotto che ne Il contesto indaga sugli assassinii di diversi giudici, trova sul comodino del farmacista Cres, il maggiore sospettato. Ed è un indizio importante, come si vedrà; un dettaglio tutt’altro che casuale, in questo giallo atipico, metafisico, senza soluzione; in questa parodia che illumina ragioni e meccanismi profondi, impensabili deviazioni e perversioni: per restituire un «apologo sul potere nel mondo», dice lo stesso Sciascia. Dove l’abilità nel leggere il delitto non approda affatto alla giustizia, ridotta a farsa; dove l’individuo è schiacciato dal potere corrotto, e Dio, se non è morto, pare cieco. E un giallo atipico, a suo modo, è pure il capolavoro di Dostoevskij, che è anche, come quello sciasciano, un romanzo sull’amministrazione della giustizia; oltre che sull’omicidio come atto di libertà, di «rivolta interiore e sociale» (la vicenda del Karamazov padre: ucciso dal servo Smerdjakov, da quel suo stesso figlio illegittimo frutto di una violenza nei confronti di Lizavéta, una povera pazza muta).
Nessuno – giudici, investigatori, periti – , alla fine, in entrambe le storie, riesce a venire a capo di qualcosa; mentre la narrazione saggistica procede per rapide illuminazioni, come inseguendo, con Borges, una rêverie, una fantasticheria, tra l’immaginazione razionale di Sciascia e il realismo fantastico dostoevskjiano. Nel segno di un’intimità di fondo che trascina il lettore dentro un inatteso sistema di analogie, di coincidenze, di rispondenze: quelle, per esempio, tra il grande inquisitore della Leggenda e il bieco Riches, il Presidente della Corte Suprema; o quelle tra Rogas e il giudice istruttore Porfirij di Delitto e castigo; o quelle, ancora, tra Ivan Karamazov e l’intellettuale dissidente Nocio. Alla ricerca della verità. O meglio, della sua biologia, come recita il sottotitolo di Metafisica del sottosuolo: Biologia della verità fra Sciascia e Dostoevskji; di quella dimensione della verità (fattuale e morale insieme, al di là delle conclusioni giudiziarie, o dei ruoli rivestiti), cioè, che prende corpo, che vive, lungo la discesa attraverso il cuore umano, e più in mezzo alle sue ombre: nella nudità di ciascun personaggio, dentro ogni suo limite. Quella verità, insomma, della quale in superficie si celebrano le esequie, e che invece va emergendo a mano a mano che si scende nel sottosuolo: quel groviglio di pulsioni e fantasmi, di non detto (neanche a sé stessi, a volte) e di irrazionale. E a dar ancora più robustezza a queste coincidenze, a questi fili che va scoprendo, la Nocera trova convincente sostegno non solo in altri libri di Sciascia (Todo modo, Cruciverba, Candido) e Dostoevskji (il già citato Delitto e Castigo, I demoni), ma anche presso altri scrittori: tra cui Friedrich Dürrenmatt (anch’egli giallista eretico, amatissimo da Sciascia), che come pochissimi altri – per grotteschi ma efficacissimi lampi, e con sottile tormento morale – ha raccontato l’ambiguità della colpa e della giustizia, della libertà e della verità. Per non dire di critici e pensatori come Berdjajev o Laksin, Bachtin o Girard.
Ci si aspetterebbe un saggio corposo, se non altro in ragione della complessità e vastità dei temi affrontati. E invece questa monografia della Nocera – legatissima alla letteratura russa, e già autrice di Angeli sigillati. I bambini e le sofferenza nell’opera di Fëdor Michajlovič Dostoevskij – si snoda, leggera, e inaspettatamente, in poco più di trenta pagine: come in attesa di ulteriori e magari più ampi sviluppi (un altro libro?), eppure sufficienti, queste pagine, a disegnare un microcosmo di vita e destino (penso all’omonimo capolavoro di Vasilij Grossman, altro bruciante romanzo sul male), nel segno della letteratura, della forma più alta che la verità possa assumere, per citare Sciascia: lui che, pur preferendo Tolstoj, non ha potuto non frequentare il creatore del principe Myskin, di quel sublime “idiota” che cerca la pietà e l’amore in un mondo di ambigue passioni, di potere e di soldi; lui che, già con Il Consiglio d’Egitto, aveva mostrato l’insufficienza della ragione dei Lumi. Un microcosmo aperto e problematico, dunque, senza risposte definitive (cos’è più importante, tra ragione e fede: la libertà o la verità?), dal quale si finisce per vedere più da vicino e meglio l’uomo: con tutta la propria bellezza, ma anche in mezzo ai propri demoni.
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Antonina Nocera (foto accanto) vive a Palermo dove svolge la professione di insegnante e si occupa di critica letteraria.
Ha pubblicato una monografia dal titolo “Angeli sigillati. I Bambini e la sofferenza nell’opera di F.M. Dostoevskij”(FrancoAngeli, 2010), e “Metafisica del sottosuolo- Biologia della verità fra Sciascia e Dostoevskij (Divergenze 2020) oltre a svariati articoli su riviste come Kaiak-A philosophical Journey, Il Maradagàl, Kainos. Un suo racconto si trova nella raccolta “ L’ultimo sesso al tempo della peste” , (NEO edizioni 2020) e un suo scritto satirico è stato pubblicato sul blog Bottega di narrazione di Giulio Mozzi. Gestisce il blog letterario “Bibliovorax” collabora con la pagina Cultura Italia-Russia ed è redattrice della rivista culturale Readaction.
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