Novembre 23, 2024

30 thoughts on “A CHE (A CHI) SERVE LA LETTERATURA?

  1. Avendo letto, di Piperno, solo (e con terribili sbadigli) una decina di pagine del suo romanzo CON LE PEGGIORI INTENZIONI e l’articoletto sull’Espresso, io sono e sarò d’accordo con chi dice cose diverse da Piperno.
    A prescindere (come direbbe Totò)
    Ricordo sempre con uno sghignazzo che Piperno fu definito da alcuni criticonzoli il Proust o il Philip Roth italiano. Ma mi faccia il piacere! (Per continuare a citare Totò)
    Sulla disputa tra Piperno e Scurati: per essere chiaro ed esplicito, mi sembrano masturbazioni intellettuali, pippe fatte a un pupazzo di neve.
    Da amante della letteratura, dico che non me ne importa assolutamente nulla. E adesso vado a leggermi qualcosa di bello (o un canto dell’Inferno di Dante o un racconto cyber-punk di Bruce Sterling)

  2. Più che dell’inutilità della letteratura andrebbe discussa l’inutilità (o l’utilità) degli scrittori.
    Certamente sono inutili gli scrittori che discutono del’inutilità (o dell’utilità) della letteratura.
    Come disse un grande agente letteraio: “siamo pieni di buoni scrittori; adesso abbiamo bisogno di uno migliore”.
    Siamo tutti in attesa, gli altri scrittori e il pubblico, ma l’attesa rischia di diventare lunga.

  3. Fonte: http://www.railibro.rai.it/articoli.asp?id=332

    Casoli: svegliare i morti
    L’intervento al Convegno “A che cosa serve la letteratura?” (Reggio Calabria, 20 e 21 febbraio 2004) dello scrittore e critico letterario Giovanni Casoli, autore di “Novecento letterario italiano ed europeo” (Citta’ Nuova, 2003) una antologia del ‘900 alla ricerca della bellezza.
    di Giovanni Casoli

    Ponendomi la stessa domanda specificatamente per la poesia, più volte ho scritto e detto che non serve, perché regna. Ma oggi bisogna vedere come regna, sia la poesia che più in generale la letteratura, in mezzo al ciarpame dei best-sellers da niente, degli scrittori costruiti a tavolino da certi editori per mezzo dei ghost-writers, e in mezzo all’oblio degli ignoranti sempre più contenti di se stessi, e perciò di non avere niente a che fare con la letteratura.
    A che serve la literatura? Così nel Medio Evo veniva anche chiamata la gramatica, ed entrambi i termini designavano la conoscenza della lingua-letteratura, esprimevano cioè una vera profondità culturale.Da quando, invece, anche la letteratura si è ideologizzata nell’ideologico Settecento, serve, eccome se serve, ma spesso serve nel senso che è suddita delle ideologie, che oggi comprendono anche le mode e gli interessi commerciali: tanto che, nell’altro senso, non serve più a nulla: salvo eccezioni, che sono appunto le opere degli scrittori veri, ancor meglio se grandi: rare e rarissime. Oggi, diceva quel fine saggista che è stato Giuseppe Pontiggia, pare che siano in aumento i grandi scrittori, il problema è che mancano gli scrittori.
    La letteratura si è trasformata per gran parte in giornalismo, dal più accettabile al peggiore, e se entrate in una ben fornita, si fa per dire, libreria, potete mentalmente calcolare che su mille di quei libri uno vale, forse, qualcosa. Perché un libro vale qualcosa se vale spenderci la vita a scriverlo e a leggerlo e a tenerlo compagno di strada. Se è ispirato e se ispira, se si fa scoprire e se ti scopre a te stesso; altrimenti vada pure per un’altra diversa ma autentica conoscenza. E non è vero che nel peggior libro c’è qualcosa di buono, almeno se non si allude alla carta da macero, oggi abbondantissima.
    Ma non sono solo questi i problemi attuali dell’ ”a che serve” la letteratura, forse questi sono i minori, il problema grosso è che la società nel suo complesso inerziale e passivamente animale si rispecchia, molto peggio che un immobile macigno su una superficie d’acqua, sullo schermo del televisore; e lì cerca la sua immemoriale immortalità. Dopo che ero apparso, come si dice con irresistibile involontaria comicità, due minuti in televisione per un’intervista, un tale mi ha detto: ”Complimenti!”. Nel fastidio ho pensato: complimenti di che, per che? Ecco la trappola infernale della TV, il luogo della soppressione mentale e morale anche della letteratura, la quale, almeno quella vera, non ricorre a donnine e guitti tuttofare, per proporsi, ma anzi richiede fatica, umiltà, dignità, tempo e silenzio; nonostante i tentativi di catturarla anche televisivamente: ma con una logica che è solo funzionale all’estabilishment critico-editorial-premiale. A proposito: circa venticinque anni fa, in uno dei suoi articoli al vetriolo, ma quasi sempre contenenti una verità, il giornalista Sergio Saviane scrisse: ”Si premiano tra loro, e poi, quando si incontrano, neanche si sputano in faccia”. Io non voglio fomentare uno sport così disdicevole, e così improbabile in Italia dove le facce si trasformano e si spostano inafferrabilmente, ma se cerchiamo la grande letteratura nei premi, salvo rare eccezioni, non la troveremo; basta pensare a cosa è successo allo stesso premio Nobel per la letteratura da quindici anni a questa parte.
    Allora, a che serve la letteratura? Modifichiamo: a chi serve la letteratura? In un periodo di imbambolamento mediatico, di spettacolini e messaggini incrociati nel nostro pollaio tecnologico, periodo che Holderlin chiamerebbe “tempo di povertà” (durftiger Zeit), la letteratura, spurgata di tutta la carta stampata che si contrabbanda per letteratura, serve, e questa volta uso il verbo nella sua intera dignità, al possesso morale e culturale di se stessi, che è insurrogabile e indispensabile per diventare e restare esseri umani e non scadere a pupazzetti da supermercato ed a loculi elettronici.
    Se a quindici-sedici anni non avessi letto Delitto e Castigo e non avessi rimuginato fra l’altro, un concerto per violino e orchestra di Bach, solista David Ojstrach, oggi non sarei qui, ma se non fossi qui non credo che sarei sopravvissuto all’imbarbarimento- involgarimento culturale che ci attossica, direbbe Dante, producendo scrivani e scribacchini che dantescamente “fuggono” o “coartano” la letteratura. La quale va in cerca dell’uomo, non dei premi, ma deve saperlo fare, e il problema è proprio questo, che non lo sanno fare tanti premiatissimi dilettanti allo sbaraglio. Io, che pur non ho particolare affinità, a differenza dell’amico Spadaro, con la letteratura angloamericana, rimango incantato di fronte a certi racconti di Raymond Carver, ad esempio Cattedrale e Di che cosa parliamo quando parliamo d’amore, che di colpo ti riportano dentro la letteratura spazzando via la pseudoletteratura nutrita di furberie giornalistiche e pseudobravure da intrattenitori televisivi. La maggiore scrittrice italiana vivente – a mio giudizio, ma a giudizio di chiunque non sia prevenuto, una grande scrittrice-, Elena Bono, dopo gli esordi ottimi con la Garzanti ora pubblica con un piccolo editore di Recco (Genova) perché non risuona nelle programmate fanfare massmediali, e , orrore degli orrori, è dichiaratamente e visibilmente, nella sua pur misuratissima pagina, cristiana. Sic, bisogna dire, non transit gloria mundi, ma è depistata la giusta gloria.
    Siamo nella provincialissima Italia, più culturalmente provinciale a Roma e a Milano che a Reggio Calabria; e siamo in un’epoca di nani che, sollevandosi sulle spalle di altri nani, si credono giganti; epoca in cui i rari giganti, se ci sono, sono costretti a piegare le ginocchia per non irritare i nani. In questo modo ai giovani è tolta –mentre li si riempie di gadget, dalle mutande firmate alla droga- tutta l’educazione intellettuale e morale necessaria a conquistare il rispetto di se stessi e degli altri; e tutta la vera poesia della vita.
    Foscolo esortava due secoli fa gli italiani alle istorie. Io oggi li esorterei a ritornare almeno in parte, anche legioni di sedicenti intellettuali, alla geografia rurale, ovvero alla terra proditoriamente abbandonata, a pascere ut ante boves e a submittere tauros.
    L’egualitarismo ideologico, infatti, ha prodotto più danni di altre catastrofi, perché non siamo uguali ma pari, concetto assai più fine, sottile e difficile da praticare, perché reale e non ideologico. Secondo la parità non c’è posto, come per me, ad esempio, nell’ingegneria, così per gli pseudo-intellettuali, nella letteratura; mentre nella chimerica uguaglianza c’è sempre posto per le chiacchiere e le imposture di tutti, fino alla nausea e all’indifferenza a tutto.
    Quanti maneggerebbero assai meglio l’aratro delle parole che straziano e mistificano inquinandoci le orecchie e i cervelli.

    La letteratura è inoltre il contrario delle soporifere polemiche nel pensare e nel sentire. Due grandi scrittori possono dire cose contrarie l’uno rispetto all’altro, esprimersi in modi reciprocamente incompatibili, dare messaggi di vita e di cultura formalmente inconciliabili, e il grande miracolo della letteratura (parlo evidentemente delle vette e non delle piccole protuberanze, che fanno solo inciampare) è quella sua unità superiore dei diversi e dei contrari, unità che , se è realizzata davvero negli abissi delle tragedie umane e nelle altezze dei grandi desideri e ideali umani, supera, per dialettica compenetrazione e per penetrante incarnazione, i livelli bassi delle opposizioni e delle dispute; fa apparire unitario, sia dal basso delle profondità che dall’alto delle convergenze, il paesaggio, che nella mezza altezza delle piccole prospettive individuali sembrava rotto e disperso.
    Per questo il grande scrittore, tanto più il genio, non è un individuo ma una pluralità esemplare e uno spirito in cui alitano molte anime, e non è certo uno che dice “io” se non nella necessaria maschera dell’arte. Infatti tutta questa gente che si racconta, oggi, ricattando sentimentalmente il lettore e facendo tintinnare premi nella slot-machine dell’industria culturale, non dice niente, non solo, ma occupa il tempo e lo spazio di altri, in cui altri direbbero qualcosa.
    Vogliamo una letteratura che dica qualcosa? Dobbiamo ripartire dalle catacombe, che se non ospitarono, è vero, fuggitivi ricercati, oggi possono ben ospitare i perseguitati dall’immane distrazione televisiva e dal meccanico svuotamento massmediale. Una letteratura, per dirla tutta fuori dai denti in un esempio, che sia l’esatto contrario del successo-supplizio mondiale de Il nome della rosa, dimenticabilissimo pseudo-romanzo storico di Umberto Eco, il quale, se avesse voluto scrivere uno schietto ed esplicito pamphlet anticattolico, avrebbe avuto anche il mio incoraggiamento e il mio parziale consenso, tanto sono disposto a riconoscere ed assumere le colpe (quelle vere) dei cattivi cristiani che siamo; ma ha voluto invece, contro la stessa cultura medievistica , scrivere un pamphlet mascherato da romanzo storico, pieno di falsità sia generali che particolari, ricevendo un plauso clamoroso da un vasto ignorante pubblico caduto molto in basso.
    E invece serve una letteratura capace di dire, anzi di rappresentare, verità nude e inasservibili bellezze e irriducibili profondità: a 360 gradi, e non nello specchio di prospettiva della propria parrocchia o antiparrocchia.
    Nel bel Meridiano Mondadori recentemente dedicato al grande scrittore Bohumir Harabal si legge questo bellissimo “a che serve” la letteratura in un cursus privo di punteggiatura:

    ”All’inizio di tutto c’è la meraviglia e appena inizi a meravigliarti di qualcosa in un certo senso sussulti in un certo senso sei terribilmente passivo ma non è niente è solo un’umiltà piena però di scintillante attesa è lo stato che precede l’annunciazione e hai gli occhi aperti e hai l’anima aperta e all’improvviso la tua passività si tramuta nel suo contrario e tu non soltanto vuoi ma devi trascrivere tutto e scrittore è colui che inizia a ricopiare ciò che ha visto ciò che si è illuminato e non è altro che una grande gioia di qualcosa del fatto che c’è qualcosa al di fuori di te.”

    E’ interessante notare che la grande gioia di qualcosa, di cui parla Harabal, è lo stesso thaumazein, il meravigliarsi di qualcosa che costituisce l’origine e l’orizzonte perenne della filosofia, sotto forma di domanda- e questa è la differenza fraterna della filosofia dalla letteratura. Ma se dovessi dare in un lampo, più che in una descrizione, l’espressione dell’essenza della letteratura-poesia, non potrei che ricorrere a due versi di Pasternak, che nel 1917, in pieno fermento di rivoluzione politica, si affaccia su un gioco di bambini e chiede:

    ”Miei cari, qual millennio
    È adesso nel nostro cortile?”

    Altro che coltivare il proprio giardino; sul cotè letterario, almeno, Voltaire aveva capito poco , giacché la libertà della grande letteratura, che è figlia ma non schiava del proprio tempo, sta nel non ritirarsi egocentricamente ma, all’opposto, nel vedere sciogliersi nella propria parola la stramba seriosità del mondo, come quando passeggiando sulla Piazza Rossa del regime che lo ucciderà,

    ”per una beata parola senza senso
    io pregherò nella notte sovietica”

    O possiamo dire con il sublime lirico Paul Celan che la poesia, e dunque la letteratura, è la “rosa di nessuno”, proprio perché è per tutti ma solo chi ne è degno può, sa coglierla. Oggi, come ieri e come al tempo di Eraclito, gli uomini vivono hènypnoi, addormentati, oggi forse più di ieri, perché i grandi rumori consumistici, dai decibel dei cantanti ai clic dei chattanti, sostituiscono una veglia vigilante, scusate il necessario pleonasmo, quanto la sovraeccitazione sostituisce la gioia, cioè molto poco. La letteratura ha il compito di svegliarli, ma non facendo chiasso – il chiasso addormenta-, invece nascondendo nella loro disattenzione il seme del risveglio, la gratitudine per tutto ciò che esiste, a cominciare dal dolore. E qui ritorno al mio Dostoevskij, non un grande scrittore ma un genio fuori classifica, il quale fa dire a Sonja, la prostituta purissima, rivolta all’assassino Raskol’nikov, in Delitto e Castigo:

    ”Và Subito, immediatamente, fermati al crocevia, inginocchiati, bacia prima la terra che hai profanato, poi inchinati a tutto il mondo, volgiti da tutt’e quattro le parti, e dì a tutti, ad alta voce, “Io ho ucciso!”. Allora Dio ti manderà nuovamente la vita.”

    Di una simile colpevolezza la grande letteratura convince i suoi lettori, a una simile resurrezione li incoraggi e li avvia, per quanto siano poco colpevoli o si credano innocenti.
    Se dovessi trovare un logo per la letteratura avrei la sfacciataggine di proporre questo: descendit ad inferos, per due ragioni: la letteratura si riduce a chiacchiera se non scende negli inferi della natura e della storia –cioè degli uomini -; e in secondo luogo ma unitamente al primo, gli inferi non sono solo inferno ma anche luogo di salvezza. Il nostro tempo, dico soprattutto gli ultimi anni, con l’apparenza di averli scandagliati ed analizzati fin troppo, in realtà, evitando di rispecchiarsi in essi, li rifiuta, perché li normalizza e li banalizza in tautologie che eliminano ogni verità insieme alla sua stessa ricerca o descensio.
    La grande letteratura, in altre parole, serve, è al servizio degli uomini tanto più quanto meno essi sanno o vogliono rispecchiarsi, conoscersi, giudicarsi. E nella società di oggi, infantile e narcisistica, distratta e sedotta da sè stessa, la funzione della letteratura diviene altissima quanto contestata, contesa, trascurata e negata.
    Chi vuole risvegliare i morti rischia la propria vita, e questo è oggi esattamente il compito della letteratura: scombinare i canoni omologati, tramare inquietudini, chiamare in causa i nomi più veri di quelli anagrafici; perseguire spietatamente la traccia di ogni verità in faccia a chi ride della verità negandola; andarsene, anche materialmente andarsene dai luoghi di corruzione e di perdizione della letteratura stessa, cioè dagli infiniti salotti che fingono cultura per meglio sopprimerla. Continuare a credere, a compiere l’atto letterario di credere, che l’uomo è un mistero sempre attingibile mai esauribile. E giocarsi tutto, ogni volta, per una pagina indefinitivamente imperfetta e indefinitivamente perfezionata, come Dostoevskij giunse ad impegnarsi anche i pantaloni, e due giorni prima di morire, nel pieno trionfo de I fratelli Karamazov (che segnano i millenni, non i secoli), nella sua ultima lettera, volendo lavorare per altri vent’anni ancora, chiedeva all’editore qualche rublo per tirare avanti.
    La letteratura non è una vita di carta, quella che faceva dire ai decadenti che la vita o la si scrive o la si vive; ma una carta che può contenere la vita, una carta vitale che pur restando uno strumento di comunicazione si trasforma inavvertitamente in tramite di comunione, in caldo flusso di sangue, anche quando questo sangue spiccia da una ferita o cola da un cadavere, e anche quando è raggelato.
    La letteratura vera riempie i suoi destinatari della meraviglia che ci sia tanta vita nella morte, tanta ricchezza nella miseria, tanto amore nell’odio- come intuì De Sanctis di Leopardi-, tanta parola nel silenzio. Non possiede felicità eppure sa darla, non consola eppure nessuno conosce la sua data di morte (mentre la falsa letteratura non riesce mai neppure a nascere).
    Questo è anche la letteratura, una ricchezza intraducibile in moneta, una povertà irrisarcibile in successo. Il vero artista lavora, nella sua ferrea solitudine, né per sé né per una committenza visibile ma per una necessità che lo supera ed è causa formale e finale del suo essere a servizio di tutti. Gioia e dolore incomunicabili, ma che nell’espressione, compiuta e mai perfetta, diventano albero di rifugio e acqua di ristoro per molti; se volessero, per tutti.
    La vera, grande letteratura, che è grande proprio perché nella misura in cui regna si può chiamare poesia, è sempre, dunque, regale esattamente nel senso contrario a quello di cui parla la favola di Kafka, ricordata da Ferruccio Masini nella sua Introduzione alle “Lettere del supremo prosatore novecentesco”: “Furono invitati a scegliere tra l’essere re o corrieri di re. Da veri bambini tutti vollero essere corrieri. Perciò esistono soltanto corrieri, i quali galoppano traverso il mondo e non essendoci re di sorta, si gridano l’un l’altro i loro messaggi, divenuti privi di senso”.
    Lavoriamo, vi prego, perché questo non diventi mai il destino della vera letteratura.

  4. Cicerone 1 mi chiede di porgere i suoi ringraziamenti a Renato Di Lorenzo. Cosa che ho appena fatto.
    Io, dal canto mio, procedo a effettuare un’altra segnalazione…

    Fonte: http://www.railibro.rai.it/articoli.asp?id=333

    Spadaro: a cosa serve la letteratura?

    L’intervento al Convegno “A che cosa serve la letteratura?” (Reggio Calabria, 20 e 21 febbraio 2004) del critico letterario Antonio Spadaro, autore del saggio “A che cosa serve la letteratura” (ElleDiCi – La Civiltà Cattolica, 2002), Premio Capri 2002 per la sezione “Letteratura” e Premio Crotone 2002 per la sezione giovani critici.

    di Antonio Spadaro

    A che cosa «serve» la letteratura? La letteratura col suo immenso patrimonio di storie, immagini, suoni, personaggi… a che serve? a che mi serve? Si chiedeva (ed io con lui) Charles Du Bos: «che cos’è la letteratura, la letteratura degna del nome, la sola che ci riguardi e che abbia sempre avuto un valore per me?» . Quel «per me» non è affatto da trascurare. Anzi: la particella pronominale «mi», cioè «a me», regge tutta la domanda e dunque ne porta il peso.
    L’ultima poesia di Raymond Carver ci fa comprendere come la poesia è utile se si confronta con ciò che vogliamo veramente da questa vita:

    ULTIMO FRAMMENTO

    E hai ottenuto quello che
    volevi da questa vita, nonostante tutto

    E cos’è che volevi?
    Potermi dire amato, sentirmi
    amato sulla terra

    La poesia serve a dire o ad ascoltare cose come queste. Molti però al solo sentir parlare di un «servizio» della letteratura, pensano a una «letteratura di servizio» o, peggio ancora a una letteratura «a servizio» di qualcosa e dunque asservita.
    Il rapporto tra la vita e la letteratura è sempre stato inquieto e complesso. Si potrebbe scrivere una vera e propria storia di questa relazione che è stata ora affermata e ora negata, ora desiderata e ora respinta. Tuttavia nel breve spazio del mio intervento mi limiterò solamente a intrecciare i sentieri di alcuni autori. Caverò dalle loro opere poche tessere utili per un mosaico. Il risultato finale corrisponderà all’immagine dell’esperienza letteraria che sento vicina.
    Jean Cocteau scrisse a Jacques Maritain: «La letteratura è impossibile, bisogna uscirne, ed è inutile cercare di tirarsene fuori con la letteratura perché solo l’amore e la Fede ci consentono di uscire da noi stessi» . Ma per andar dove? Probabilmente per uscire dal narcisismo dell’«interiorità» autoreferenziale. Pier Vittorio Tondelli, scrittore scomparso nel 1991 a soli 36 anni per aids, scrisse tra i suoi ultimi appunti: «La letteratura non salva, mai». Sono parole che ricordano drammaticamente anche gli ultimi versi di Clemente Rebora: Lungi da me la scappatoia dell’arte/ per fuggir la stretta via che salva! L’arte sarebbe dunque una scappatoia. Sarebbe una forma di tragica consolazione, che confina con la percezione leopardiana dell’infinita vanità del tutto. È Stephane Mallarmé a mettere in relazione la tristezza della carne (La chair est triste, hélas!) con la vanità della lettura di tous les livres. Che farsene di parole scarse, e forse senza sole, come le definiva Sandro Penna, o di qualche storta sillaba e secca come un ramo (Montale)? È tutta qui la poesia, la letteratura?
    Per rispondere, vorrei accostarmi a Marcel Proust. A suo giudizio, infatti, la letteratura è una forma di «ritiro», in cui, nella solitudine, si fanno «tacere le parole», le nostre e quelle degli altri, con le quali giudichiamo le cose e la vita «senza essere noi stessi» . Ma questo ritiro non è forse anche un ritirarsi, cioè un «ritrarsi» dalla vita? In effetti, all’interno dello spazio aperto dal libro, Proust nota come i suoi pomeriggi dedicati alla lettura contenessero «più avvenimenti drammatici di quanti non ne contenga, spesso, un’intera vita» . Erano gli avvenimenti che si susseguivano nel libro che stava leggendo. Sorgono quindi due domande interessanti: la vita dunque contiene meno vita della letteratura? La letteratura è più vita della vita stessa?
    Sembra in effetti che la letteratura sostituisca la vita o che almeno riesca a rimpiazzare momenti d’inedia trasformandoli in minuti, ore, giorni di pura avventura. L’autore della Recherche afferma infatti che in qualche modo i pomeriggi dedicati alla lettura appaiono come «accuratamente ripuliti dai mediocri incidenti della mia esistenza personale che avevo rimpiazzati con una vita di strane avventure e aspirazioni in un paese irrorato d’acque vive!» . Ecco allora che il romanziere «scatena in noi nello spazio di un’ora tutte le possibili gioie e sventure che, nella vita, impiegheremmo anni interi a conoscere in minima parte» .
    In realtà la letteratura non serve a sostituire la vita. Semmai è vero che ci sono aspetti della vita che spesso noi conosciamo solo nella lettura . La grandezza dell’arte vera infatti è quella «di ritrovare, di riafferrare, di farci conoscere quella realtà lontani dalla quale viviamo, […] quella realtà che rischieremmo di morire senza aver conosciuta e che è, molto semplicemente, la nostra vita» . Dunque, in sintesi: l’arte ci fa conoscere la vita, al di là della conoscenza convenzionale che di essa abbiamo. Ma allora come la letteratura ci fa conoscere la vita?

    Risponderò a questa immagine attraverso quattro immagini…

    La prima è l’immagine del “laboratorio fotografico”. L’opera letteraria, scrive Proust, è «una sorta di strumento ottico», che consente al lettore di «sviluppare» ciò che forse, senza il libro, non avrebbe osservato dentro di sé . Il ruolo della lettura è fotografico: gli uomini spesso non vedono la loro vita e così il loro passato diviene ingombro di tante lastre fotografiche, che rimangono inutili perché l’intelligenza non le ha «sviluppate» . La letteratura invece è come un laboratorio fotografico, nel quale è possibile elaborare le immagini della vita perché svelino i loro contorni e le loro sfumature. Ecco dunque a cosa «serve» fondamentalmente la letteratura: a sviluppare le immagini della vita, a salvare la nostra esistenza dall’incomprensibilità.
    Ma, possiamo chiederci, come è possibile? La letteratura non mi parla della mia vita, ma di storie di altri. Appunto: la passione per la lettura richiede delle condizioni, vi è uno «straniamento», per il quale il mondo in cui ci si immerge nella lettura non è più il nostro, il solito (la Yourcenar e i suoi lettori entrano nel tempo di Adriano, come i lettori di Kafka si muovono verso l’irragiungibile Castello e i lettori di Carroll entrano nel Paese delle meraviglie,…).
    Tuttavia è proprio a partire dalla cripta del testo letterario e dai suoi sotterranei che è possibile rimettere in questione sia la nostra percezione comune delle cose sia la nostra personale esistenza in un gioco di interpretazioni e significati colti con maggiore chiarezza. Ecco allora la via per comprendere la virtù paradossale della lettura: «quella di astrarci dal mondo per trovargli un senso» , entrare in un mondo diverso rispetto a quello della nostra vita per discernere il senso proprio del nostro mondo.
    W. Wenders nella sceneggiatura di Lisbon story ci aiuta a capire. Nel film il protagonista è un regista che intende girare le sue immagini mediante una telecamera con l’obiettivo poggiato sulle spalle per riprendere scene mai viste, neanche da chi «gira». Ecco la risposta del suo amico e tecnico del suono: «Se nessuno guarda attraverso la lente, ecco quello che vedranno su questi dannati video le generazioni future: il punto di vista di nessuno. Non c’è ragione di fare immagini spazzatura da buttare un minuto dopo».

    Ecco allora la seconda immagine, quella tratta “dall’idraulica”: si chiedeva Charles Du Bos: «senza la letteratura cosa sarebbe la vita?». La risposta che ci offre sembra eccessiva e tuttavia resta appropriata nella sua ispirazione fondamentale. Eccola: «Non sarebbe altro che una cascata da cui tanti di noi sono sommersi, talmente insensata che noi, incapaci di interpretare, ci limitiamo a subire. Di fronte a tale cascata, la letteratura assolve le funzioni dell’idraulica: capta, raccoglie, convoglia e solleva le acque» . In poche parole: senza la letteratura, la vita rischierebbe di restare «a secco».
    La letteratura, rimanendo nella metafora, incontra l’uomo/lettore sotto il pelo dell’acqua che è quel prosaico e scialbo significato letterale, quella «letteralità» che «uccide», come ricorda san Paolo. La vita letteralizzata è quella ridotta al senso comune, all’apparenza, alla banalità illuministica della superficie.

    Ecco infine la terza immagine, quella “digestiva”. Il rapporto tra letteratura e realtà è intenso e coinvolgente. È il gesuita Michel De Certeau a ricordare come la lettura abbia un ruolo di elaborazione «digestiva»: «la ruminatio della mucca ne è il modello», egli afferma ricordando Guillaume de Saint-Thierry e J.-J. Surin, il quale a sua volta parla di «stomaco dell’anima».
    Si può elaborare una vera e propria «fisiologia della lettura digestiva» . Proseguendo su questa linea si può dire che anche che la lettura sia uno «stomaco per digerire la realtà». In altri termini possiamo parlare di «assimilazione». La letteratura è quel linguaggio capace di trasformare in sé il mondo e le esperienze .
    Ecco dunque a cosa «serve» fondamentalmente (ci sono tanti altri «servizi», ma vengono dopo) la letteratura: a dire la nostra presenza nel mondo, a interpretarla e «digerirla», a cogliere ciò che va oltre la superficie del vissuto per discernere in essa significati e tensioni fondamentali.

    Così la vera letteratura non è mai di «evasione». Chi scrive prende posto nell’universo e, a partire da questa posizione, in modo realistico, fantastico, utopico o satirico, elabora il proprio mondo, reinterpretandolo, amandolo o contestandolo. Ogni poesia, ogni racconto, ogni romanzo è un atto critico nei confronti della vita. La letteratura offre a una vita ridotta al suo puro «senso letterale», un punto di fuga. Cioè: la letteratura dischiude il mondo nel quale si vive e fa scoprire la sua ricchezza.
    La letteratura non è dunque «fuga» dal mondo, dalle cose, in un’interiorità tanto ricca, quanto vaga e a forte rischio di autoreferenzialità. La verità della letteratura è sempre una verità di fatti, di cose e di relazioni tra cose e persone. «Niente idee se non nelle cose (No Ideas but in Things)», scriveva Williams Carlos Williams, superato da Wallace Stevence che afferma: «niente idee sulle cose, ma le cose stesse (Not Ideas about the Thing but the Thing Itself)».
    Se così non fosse, la letteratura sarebbe una «evasione» inutile e vana. Dunque la «fuga» è verso l’interno, verso il misterium, che ha il suo secretum nel mondo, nelle cose dense e pastose, materiali. L’evasione genera la visibilità calviniana, giocosa ma inutile. Qui invece sto parlando di visio, la visio dantesca, ad esempio, che è «luce intellettual, piena d’amore;/ amor di vero ben, pien di delizia,/ delizia che trascende ogni dolzore» (Paradiso XXX, 40-42).
    Lo scrittore, dunque, è chiamato ad avere una visione (anagogica) del mondo capace di intuire più livelli di realtà in un’immagine o in una situazione. Egli vede prima in superficie, ma la sua angolazione visiva è tale che comincia a vedere prima di arrivare alla superficie e continua a vedere dopo averla oltrepassata. Ha ragione Flannery O’Connor quando afferma che allo scrittore è necessario un certain grain of stupidity, un «granello di stupidità», che serve a tenere gli occhi imbambolati (to stare) sul reale .

    Vi faccio due semplici esempi poetici. Il primo è una poesia di William Carlos Williams dal titolo

    IRIS
    uno scoppio d’iris così (a burnst of iris so that)
    scesi per la
    colazione

    esplorammo tutte le
    stanze in cerca
    di

    quel profumo dolcissimo e da
    prima non riuscimmo a
    scoprirne la

    sorgente poi un azzurro come
    di mare ci
    colse

    in sussulto improvviso di tra
    gli squillanti (trumpeting)
    petali (petals)

    Ecco un’altra poesia. E’ del messinese Bartolo Cattafi:

    COSTRIZIONE
    Siamo ora costretti al concreto
    a una crosta di terra
    a una sosta d’insetto
    nel divampante segreto del papavero

    Ecco la quarta immagine, quella “esplosiva”. Le due poesie fin qui lette sono esplosive e, in questa esplosione, comunicano quella che Wallace Stevens definì semplicemente «Una nuova conoscenza del reale (A new knowledge of reality)». Colgono un’immagine e questa, nell’osservazione, esplode: il papavero «divampa», l’iris «scoppia». E’ questa dinamica esplosiva la vera utilità di un’opera d’arte, anche letteraria.

    Cosa fa sì allora che un’opera letteraria abbia valore? A mio parere l’esatto contrario di ciò che scriveva Montale nel suo celebre, bello quanto inutile, verso Non domandarci la formula che mondi possa aprirti. Il romanzo di valore possiede in se stesso la formula capace di aprire un mondo cogliendone la sostanza (in senso letterale: ciò che sta sotto, a suo fondamento), ma anche assistere alla sua espansione, alla sua «dichiarazione», per usare ancora un termine di Montale. Se un romanzo, un racconto o una poesia non dichiara un mondo e non lo spalanca davanti al lettore – non importa se in modo realista, o surrealista – non fa compiere al lettore una vera esperienza, non fa conoscere nulla: è vuoto e noia. Anche Montale ha visto un «croco», coglie la sua grazia, ma l’esplosione fallisce, resta il silenzio, la grazia rimane sorda. Rimane la polvere:

    Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
    l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
    lo dichiari e risplenda come un croco
    perduto in mezzo a un polveroso prato.

    L’opera letteraria che non apre mondi può ridursi solo a polvere e cioè a tre cose: a ideologia, a sentimentalismo o a «esperimento» linguistico. Polvere, appunto.
    E invece la letteratura ha un altro destino. La poesia può addirittura… pensate un po’… prendere il posto di una montagna. E’ l’esperienza del poeta statunitense Wallace Stevens in La poesia che prese il posto di un monte (The Poem that Took the Place of a Mountain). Qui il poeta parla di sé in terza persona, come «egli»:

    LA POESIA CHE PRESE IL POSTO DI UN MONTE
    Era là, parola per parola,
    La poesia che prese il posto di un monte.

    Egli ne respirava l’ossigeno,
    Perfino quando il libro stava rivoltato nella polvere del tavolo.

    Gli ricordava come avesse avuto bisogno
    Di un luogo da raggiungere nella sua direzione,

    Come egli avesse ricomposto i pini,
    Spostando le rocce e trovato un sentiero fra le nuvole,

    Per giungere al punto d’osservazione giusto,
    Dove egli sarebbe stato completo di una completezza inspiegata:

    La roccia esatta dove le sue inesattezze
    Scoprissero, alla fine, la vista che erano andate guadagnando,

    Dove egli potesse coricarsi e, fissando in basso il mare,
    Riconoscere la sua unica e solitaria casa.

    La letteratura dunque non è chiamata a consegnare una parola rinsecchita, ma a permettere una scalata. Scrivere per Stevens è come scalare un monte, avere una direzione, ricordare che c’è una meta, una exact rock, cioè una «roccia esatta», da raggiungere, nonostante tutte le nostre inesattezze. Questa è la scrittura umana, vera, ricca di senso, quella che procede affilata e dritta come una freccia e sa così persino spaccare le rocce e spostare i pini, pur di non perdere la forza della sua direzione. Una scrittura senza una «roccia esatta» da raggiungere è una macchia su carta porosa, stagno inutile e sciolto.
    Ecco allora la domanda da porsi davanti a una poesia o a una narrazione: qual è la sua «roccia esatta»? Dove sta andando? Dove mi porta? Quale meta mi indica? E con quale forza? Con quale sguardo? Lo scrittore autentico sa spostare le rocce e trovare sentieri tra le nuvole per guadagnare la vista giusta, il giusto punto di osservazione dove si ottiene una pienezza, una completezza che, dice Stevens, resta inspiegabile.
    Solo «affacciandoci» dalla vera poesia possiamo guardare in basso e riconoscere la nostra casa. Ecco, ancora una volta, il servizio della letteratura. La letteratura invece è complice insostituibile di un esercizio interiore che dà respiro e consistenza alla vita. A questo punto a me lettore che parlo e a voi lettori che mi avete ascoltato il grande Giacomo Debenedetti direbbe che qui «si tratta anche di te».

  5. Intervengo pur non essendo una dotta o una studiosa.
    Sono solo una lettrice con propensione alla scrittura.
    Dunque perdonerete la banalità del mio commento.

    A me la letteratura serve: mi aiuta a capirmi meglio, a vedere il mondo con occhi diversi, a vedere porzioni di mondo per me inaccessibili, trascorrere parte del mio tempo in buona compagnia della parola scritta che ho sempre amato.
    Scusate se è poco.

  6. Come ho già avuto modo di dire, proprio da queste parti, resto convinto che la funzione della letteratura sia quella propria di un martello che batte su un ferro caldo poggiato su un incudine. Non è uno specchio riflettente, bensì uno strumento pratico e transitivo con cui è possibile rappresentare, modificare e foggiare la realtà.

    Invito i lettori e i commentatori a dire la propria sulla funzione della letteratura (e della critica, in questo caso) anche qui:
    http://www.noantri.splinder.com/post/12081312/Essere+come+i+Wu+Ming+%28e+sapere+cosa+fare+del+lemma+%27%27transeunte%27%27%29
    [Ste]

  7. Se sappiamo leggere i testi letterari, e soprattutto se impariamo a scegliere quelli che ci parlano più intensamente, possiamo arricchirci molto più di quanto la gente tenda a credere. Spesso le persone più attive pensano che le uniche cose che contano siano quelle pratiche. La letteratura allora viene considerata un’inutile perdita di tempo, un gioco un po’ lezioso.
    Ma proprio perché ci arricchisce mostrandoci nuove prospettive, nuovi orizzonti di pensiero, o anche soltanto nuovi modi di dire ciò che già sapevamo, la letteratura finisce per essere anche uno strumento essenziale per l’uomo impegnato in attività pratiche. L’abbandono temporaneo alla corrente dell’immaginazione letteraria, può renderci più maturi e vitalmente presenti nell’ambiente in cui operiamo.
    La letteratura non è solo un gioco; può anche essere uno strumento di contestazione del mondo che conosciamo, cioè può suggerirci nuove prospettive e può aiutarci a concepire in modo alternativo qualunque aspetto del mondo, rovesciando la logica comune e quotidiana di cui siamo prigionieri.

    Maria Luisa Papini Pedroni

  8. Cicerone 1 e Cicerone 2 mi hanno incaricato di ringraziare la gentile Elektra.
    Cicerone 3 spera di intervenire quanto prima. In questo momento è indisponibile, ma rimane una colonna portante della nostra esperienza di segnalazione collettiva.
    Un saluto ai Wu Ming, qualora dovessero passare da queste parti.

  9. sentite, belli. io sono d’accordo con piperno. la letteratura serve solo agli ego di scrittori e di critici. può servire ai lettori come passatempo, ma il tempo disponibile sappiamo che è sempre meno. e comunque non c’è dubbio che di fronte alle cose davvero importanti della vita la letteratura vale fino a un certo punto. non più di una “gita al faro”, per dirla come la woolf.
    piperno è da ammirare per la dissacrazione della categoria a cui appartiene e, dunque, di se stesso.

  10. Scrivo solo per esprimere pubblicamente il mio profondo e completo apprezzamento di quanto scritto dal critico Giovanni Casoli – e meritoriamente riportato sul blog da ”Cicerone”. Aggiungo solo che spero gli italiani possano un lontano giorno risvegliarsi da questo scandaloso torpore narcotico-televisivo e riprendano a far parte del consorzio umano.

    Sergio Sozi

  11. Beh, sono d’accordo con Scurati e Cicerone 1 e 2. Elektra, nella sua semplicità che non ha bisogno di rivestirsi di sovrastrutture, ha riassunto qual è il servizio che la letteratura rende al mondo. La letteratura non serve perché non è o almeno non dovrebbe essere serva. però.
    la parola SERVIZIO, la parola SERVIRE fanno paura. Gesù Cristo disse che chi vuol essere il primo di tutti sia il servo di tutti. Lui che era il Verbo, il Logos, l’Amore silenzioso di Dio fatto parola visibile e avrebbe potuto farsi splendore insostenibile da riverire, si è fatto umile, povero, servo. La lavanda dei piedi e il discorso di gesù durante l’ultima cena sono qualcosa che ti smuove dentro anche se noi sei credente…
    La letteratura, si parva licet…, dev’essere questo: se vuole essere grande, uno scrittore deve avere l’umiltà di scrivere sinceramente, seriamente quanto più gioca. Il bambino che gioca è la persona più seria del mondo. E se non vi farete come bambini… il Regno dei Cieli resterà chiuso ed anche il libro.
    Il lettore non lobotomizzato da pubblicità, tv, pseudo intellettuali etc capisce a naso ciò che è vero, sincero, vitale, da ciò che è chiacchiera autocompiaciuta o mera esercitazione letteraria.
    Da parte mia, credo nei classici e nei moderni che hanno il coraggio di scrivere perché è una loro esigenza vitale, una conoscenza tramite le parole di se stessi e del mondo.
    La letteratura SERVE, eccome! Nisi in angulo cum libro… non ho mai trovato la vera pace…

  12. Ci sono anch’io, per proporvi parte dell’intervento di Roberto Saviano in quel di Milano.

    Fonte “Lipperatura”: http://loredanalipperini.blog.kataweb.it/lipperatura/2007/05/saviano_scriver.html

    di Roberto Saviano

    “Nelle lunghe discussioni con Vincenzo Consolo, Goffredo Fofi, Corrado Stajano, ho appreso che la necessità prima dell´intellettuale è presenziare al dolore umano, mantenersi sentinella della libertà umana, non delegare mai ad altro il proprio imperativo di difesa della dignità umana. Non all´interno di una sorta di nuova ideologia ma come unica capacità di fare del talento, della scrittura, necessità: «Esiste la bellezza e l´inferno degli oppressi, per quanto possibile vorrei rimanere fedele a entrambi», scrive Albert Camus. Fedele alla bellezza e all´inferno dei viventi, è il canone estetico che preferisco.

    La scrittura letteraria è labirintica, multiforme, non credo possano esserci strade univoche, ma quelle su cui credo debbano posare i miei piedi le riconosco. Primo Levi, in polemica con Giorgio Manganelli che rivendicava la possibilità di scrivere oscuro, affermò che “scrivere oscuro è immorale”. Quando Philip Roth dichiara che dopo “Se questo è un uomo” nessuno può più dire di non essere stato ad Auschwitz. Non di non sapere dell´esistenza di Auschwitz. Ma non si può più dire di non essere stati in fila fuori ad una camera a gas.
    Questa la potenza di quelle pagine. Libri che non sono testimonianze, reportage, non sono dimostrazioni. Ma portano il lettore nel loro stesso territorio, permettono di essere carne nella carne. In qualche modo questa è la differenza reale tra ciò che è cronaca e ciò che è letteratura. Non l´argomento, neanche lo stile, ma questa possibilità di creare parole che non comunicano ma esprimono, in grado di sussurrare o urlare, di mettere sottopelle al lettore che ciò che si sta leggendo lo riguarda. Non è la Cecenia, non è Saigon, non è Dachau, ma è il proprio luogo, e quelle storie sono le proprie storie. Ed il rischio per gli scrittori non è mai di aver svelato quel segreto, di aver scoperto chissà quale verità nascosta, ma di averla detta. Di averla detta bene. Orhan Pamuk, Salman Rushdie, Anna Politkovskaja hanno avuto in modalità fortemente diverse la responsabilità di fare delle storie che raccontavano vicende riguardanti ogni essere umano e non più circoscritte alla geografia di un territorio. Questo rende lo scrittore pericoloso, temuto. Può arrivare ovunque attraverso una parola che non trasporta soltanto l´informazione, che invece può essere nascosta, fermata, diffamata, smentita, ma trasporta qualcosa che solo gli occhi del lettore possono smentire e confermare.

    Questa potenza non puoi fermarla se non fermando la mano che la scrive. La forza letteraria continua ad essere questa sua incapacità a ridursi ad una dimensione, ad essere soltanto qualcosa, sia essa notizia, informazione o sensazione, piacere, emozione. Questa sua fruibilità la rende in grado di andare oltre ogni limite, di superare le comunità scientifiche, gli addetti ai lavori, e di andare nel tempo quotidiano di chiunque, divenendo strumento ingovernabile e capace di forzare ogni maglia possibile. La potenza stessa che faceva temere di più ai governi sovietici Boris Pasternak e “Il dottor Zivago” e “I Racconti di Kolyma” di Salamov che gli investimenti del controspionaggio della Cia. Mentre i saggisti venivano isolati, relegati in riviste accademiche, lasciati sfogare, gli scrittori dovevano essere eliminati, le pagine nascoste, le parole rese cieche e mute.

    Quando mi capita di ascoltare le litanie sulla vacuità della scrittura, o quando io stesso mi lascio convincere dal vizio della letteratura come palestra per onanisti con poco talento per la vita, penso sempre alla figura di Kostylev, personaggio del libro di Gustaw Herling Un mondo a parte, un libro per anni marginalizzato e boicottato. Kostylev era stato un uomo che aveva dedicato la sua vita alla causa bolscevica. Poi iniziò a leggere Balzac, Stendhal, Constant e trovò in quei testi “un´aria diversa, mi sentivo come un uomo che, senza saperlo, era stato soffocato tutta la vita”. Kostylev abbandonò il lavoro di partito, concesse tutto il suo tempo alla lettura desideroso di conoscere le verità che gli erano state nascoste. I libri stranieri che si procurava clandestinamente lo fecero arrestare. La polizia segreta lo accusò d´essere una spia e torturandolo fu costretto a confessare la mendace accusa. Kostylev si ustionava di sua volontà il suo braccio esponendolo alle fiamme vive, preferiva avere un braccio piagato e gonfio, piuttosto che lavorare per i suoi carcerieri. Nella baracca dove, esentato dal lavoro, passava le giornate, non c´era attimo in cui non leggesse libri. La lettura che gli aveva cambiato l´esistenza portandolo nei campi di lavoro, continuò ad essere la maggiore espressione della sua umanità in quel girone infernale.

    Non mi interessa la letteratura come vizio, non mi interessa la letteratura come debole pensiero, non mi riguardano belle storie incapaci di mettere le mani nel sangue del mio tempo, e di non fissare in volto il marciume della politica e il tanfo degli affari. Esiste una letteratura diversa, può avere grandi qualità e riscuotere numerosi consensi. Ma non mi riguarda. Ho in mente la frase di Graham Green: «Non so cosa andrò a scrivere ma per me vale soltanto scrivere cose che contano». Cercare di capire i meccanismi. I congegni del potere, del nostro tempo, i bulloni della metafisica dei costumi. Tutto diventa materia. Danaro, taglio della coca, transazioni, assessori, documenti, uccisioni, proclami, preti e capizona. Tutto è coro e materia, con registri diversi. Senza il terrore di scrivere al di fuori dei perimetri letterari, prescegliendo dati, indirizzi, percentuali e armamentari, contaminando con ogni cosa.
    Se devo scrivere devo farlo in emergenza, dove le bestemmie sono più sincere delle preghiere. E dove la realtà ha slabbrature maggiormente in grado di mostrare verità. Il rap in Europa sembra essere anni luce più avanti della letteratura nella capacità di fare della parola parte della carne del presente, rapper parigini che si trasferiscono a Napoli per raccontare il mediterraneo, filippini e gallaratesi che si lanciano in slang comuni e codificano nuovi sguardi, foggiando nuove grammatiche del racconto. E narrano di un mondo dove tutto è meccanismo di potere, danaro, affermazione, dove la politica è sempre tradimento e dove la parola è il discrimine capace di raccontare tutto questo senza negarlo, senza considerarlo inevitabile ma sentendo necessaria la bellezza di narrarlo e di corroderlo. Con le parole e con i succhi gastrici.

    Molta scrittura invece sembra fare tarantelle intorno alle questioni centrali del nostro vivere. Tutto sommato non mi interessa far evadere il lettore. Mi interessa invaderlo. E mi interessa la letteratura più simile al morso di vipera che ad un acquarello di fantasie. Arrovellarsi sui territori delle definizioni di ciò che è letterario e di ciò che non lo è, tra combattimenti di accademici e filologi, ruzzolando nell´aia degli scrittori, può essere un´attività infinita senza soluzione alcuna. Una risposta credo risolutiva la diede l´autore del “Viaggio al termine della notte” e di “Morte a credito”. Una giovane giornalista andò a trovare un ormai vecchio, isolato e sempre più accidioso Louis Ferdinand Céline. Andò a Meudon, a pochi chilometri da Parigi, dove lo scrittore si era rintanato con sua moglie e i suoi animali. La giornalista dopo le solite domande di circostanza trovò il coraggio e gli chiese, quasi come se stesse pretendendo che lo scrittore gli svelasse il segreto del suo mestiere: «Ma quanti modi ci sono di fare letteratura?». Céline rispose, secco senza titubare: «Ci sono solo due modi di fare letteratura». La giornalista così si aspettava lo scibile umano delle lettere divise in due correnti e Céline diede la sua sintesi insuperabile: «Fare letteratura o costruire spilli per inculare le mosche».

  13. I nomi non hanno importanza ciò che conta è il senso. Grazie però ai Ciceroni per i loro post e le loro postazioni. Le analisi che ci sono state proposte sono così lucide, vive e vere da indurci molto semplicemente a adottare, e a farcene paladini, un nuovo stile comportamentale: dove ci porta questo libro? Che mondi ci apre? Quale vita riconoscere, com’è l’anima che ci sta parlando?
    Dovremmo chiederlo sempre, dimenticando la nostra collocazione nella vita culturale, letteraria, giornalistica. Domande antropologiche indispensabili e necessarie da rivolgere a noi, all’universo che ci sta di fronte, ogni volta che un testo, o più semplicemente, un insieme di parole, si affaccia oltre la grotta.
    In assoluto silenzio, ma anche nel fragore più assordante, dovremmo scegliere e rifiutare; dire dei no, farci dei nemici, mandare al diavolo gli scemi, a leggere di più e a scrivere di meno. Liberi di sbagliare ma, soprattutto liberi di conoscere, di non essere disturbati dai vari generi, così invadenti, sempre più sofisticati: aizzati e aizzanti. Con quel granello di stupidità, che regala agli scrittori il senso della realtà, semineremo degli orti officinali, per coltivare erbe e poi cuocere utili decotti. Ognuno di noi avrà la sua dose di coraggio? Saremo capaci dello scatto? O, per noia morale (fra tutte, la nemica più grande) continueremo a straparlarci, a complimentarci e a sopravvivere inabili e impediti nella crescita?
    Vorrei firmarmi Cicerone 22.

  14. Ancora io.

    Da “Repubblica” dell’8 maggio 2007

    pag. 51

    Articolo di David Grossman: “Scrivere tra mille tragedie”

    “(…) In così tante parti del mondo milioni di esseri umani si trovano in questo momento a dover affrontare questa o quella “condizione” in cui la loro esistenza, i loro valori, la loro libertà e la loro identità sono minacciati in diversa misura. (…)
    In una realtà simile noi scrittori e poeti scriviamo. In Israele come in Palestina, in Cecenia come in Sudan, a New York come nel Congo. Talvolta mentre lavoro, dopo aver scritto per qualche ora, alzo la testa e penso, – ecco, in questo preciso momento un altro scrittore, che io nemmeno conosco e che vive a Damasco o a Teheran, in Ruanda o a Dublino, compie, come me, questo strano, insensato, meraviglioso lavoro di creazione in una realtà in cui ci sono così tanta violenza, alienazione, indifferenza, egocentrismo. Ecco, ho un alleato lontano che nemmeno mi conosce, e insieme tessiamo questa astratta rete di fili che, malgrado tutto, possiede una forza immane. La forza di cambiare il mondo e di crearne un altro, di dare voce ai muti e di aggiustare le cose, nel senso profondo, cabalistico del termine. (…)
    Io scrivo. La sciagura che mi è capitata, la morte di mio figlio Uri durante la seconda guerra del Libano, permea ogni momento della mia vita. (…)
    Io scrivo. E mi rendo conto di come un uso appropriato e preciso delle parole sia talvolta una sorta di medicina che cura una malattia. (…)
    E scrivo anche di ciò che non potrà più essere, per cui non c’è consolazione. E anche allora, in un modo che ancora non so spiegare, le circostanze della mia vita non mi si chiudono addosso, non mi paralizzano. Più volte al giorno, seduto alla mia scrivania, tocco con mano il dolore, la perdita, come chi tocca un filo della corrente a mani nude. E non muoio.”

    Cicerone 1 (detto l’amanuense)

  15. Una volta ho letto o sentito un commento di Alessandro Piperno circa l’inutilità della letteratura di fronte a eventi “grandi” come la morte. A che serve la letteratura di fronte alla morrte? A parte che si potrebbe obiettare che forse non c’è nulla che serva, nel senso che possa essere utile, di fronte alla morte giacché nulla – tranne che in ottica di fede religiosa – è in grado di far risucitare i morti. E poi c’è tanta letteratura che parla di morte, che è pregna di morte (in fondo la morte è uno dei temi fondamentali della letteratura di sempre) e che in certi casi può essere consolatoria di fronte alla morte. Per chi scrive e per chi legge. Ci ha fornito un valido esempio, in tal senso, Cicerone 1 riportando pezzi dell’articolo di Grossman apparso su Repubblica di oggi. A me viene in mente, ad esempio, il romanzo “Paula” della Allende. E poi conosco tanta gente che è stata aiutata a combattere e a convivere con la malattia anche grazie alla letteratura. Un esempio per tutti il bellissimo “L’ultimo giro di giostra” di Tiziano Terzani.
    Alessandro Piperno ha sostenuto, se non ricordo male (non vorrei sbagliarmi) che di fronte alla morte una bella preghiera (per chi crede, si capisce) è più utile di un qualunque libro. Io ribatto dicendo, che di fronte alla morte può essere (sempre per chi crede) altrettanto utile della preghiera una lettura dei testi sacri.
    O i testi sacri non rientrano nella letteratura?

    Ti abbiamo convinto, Piperno?

  16. Grazie per i commenti e le segnalazioni (per queste ultime un ringraziamento particolare ai Cicerone, che conosco molto bene).

    @ Miriam Ravasio
    Tempo fa, Miriam, in occasione di un post (non ricordo nemmeno quale) mi scrivesti un po’ polemicamente che frequentavi blog di scrittori perché dagli scrittori ti aspettavi risposte. E io ti replicai che è già abbastanza se uno scrittore è in grado di porre domande.

    Miriam, lo sai che sei una scrittrice, vero?
    Novità su quel progetto?

    P.S. Il post è aperto per altri commenti.

  17. Salve. Sono Cicerone 2. Credo che la news che segnalo qui sotto possa essere d’interesse.

    Fonte: La Stampa. http://www.lastampa.it
    http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/Libri/grubrica.asp?ID_blog=54&ID_articolo=789&ID_sezione=81&sezione=News

    NEWS
    8/5/2007 – LA POLEMICA

    Il volo dell’ippogrifo divide gli scrittori

    Mastrocola-Saviano: due visioni della letteratura

    Articolo di
    MARIA GIULIA MINETTI

    MILANO
    Io sto con l’ippogrifo», ha scritto Paola Mastrocola su questo giornale rispondendo alle tesi esposte da Roberto Saviano su Repubblica del 3 maggio scorso e ribadite la sera stessa a «Officina Italia», l’incontro di scrittori organizzato a Milano da Antonio Scurati. Non che l’autore di Gomorra ce l’avesse esplicitamente col cavallo alato, ma avendo scritto «non mi interessa la letteratura come debole pensiero, non mi riguardano belle storie incapaci di mettere le mani nel sangue del mio tempo», Mastrocola s’è alzata in difesa dell’Ariosto e di tutti quelli come lui (lei stessa, per esempio) che invece di tuffare le mani nella «realtà bruta» s’affidano alla creatività per scrivere finzioni («fiction» è in inglese il nome del romanzo), fermo restando che tutta la letteratura è comunque finzione, «invenzione», anche quella di Saviano (e al «caro Saviano» rivolge una preghiera dalle pagine del Corriere pure Giovanni Mariotti, perché «non ceda alla tentazione di trasformare la sua bella fame di vita \ in un criterio di valutazione letteraria»).

    «La letteratura di per sé, da molti secoli ormai, ha un carattere formale, non di sapere sul mondo», osserva, sollecitato a prender partito nella disputa, Emanuele Trevi, critico e romanziere, redattore di Nuovi Argomenti, rivista-fucina di molti recenti romanzieri italiani, Saviano compreso. «DeLillo non ci rivela qualcosa di vero sull’assassinio di Kennedy (il romanzo è Libra, ndr), non è quello l’ambito della letteratura. Una teoria dell’engagement suggerirebbe che sono gli argomenti a contare, in una narrazione letteraria. Ma non è così. Evitiamo di confondere il gesto estetico con il suo tema». Né con l’ippogrifo né contro («un dibattito ingenuo»), Trevi, semplicemente, sta con la letteratura. Ci sta anche Maria Pace Ottieri, che pure nel suo libro più famoso, Quando sei nato non puoi più nasconderti, così esplicitamente impegnato sul tema dell’emigrazione, sembrerebbe muoversi dalle parti di Saviano. Ma «io so scrivere solo di quello che ho sperimentato, di quello che sono andata a vedere», dice lei, «perché sono attratta più dalla realtà che dalla fantasia, che quando è “fantastica” mi annoia profondamente. Davanti a un bel libro, però, non ti poni mai la domanda se sia realistico o no… Se poi uno scrittore debba, possa avere un ruolo politico, è altra questione. Incombe, per esempio, il pericolo dell’ingurgitamento. Anche un libro forte come quello di Saviano può finire neutralizzato dal mercato, diventare un best seller da spiaggia. Come si fa a mantenerlo “vivo”, efficace?».

    «Questioni di lana caprina» e «Benedetto Croce anni fa aveva già parlato di contenuto e forma» è la reazione esasperata di Mario Fortunato, in corsa per lo Strega con il suo ultimo romanzo I giorni innocenti della guerra, che liquida come «confusa» la posizione di Saviano («tra l’altro accomuna Salman Rushdie e la Politkovskaia, che non c’entrano nulla») e si chiede dove sia stato «negli ultimi cento anni». Perfino la mentore dell’autore di Gomorra, la saggista Carla Benedetti, che lo «presentò» due anni fa al pubblico milanese del convegno «Giornalismo e verità», e che si rifiuta di commentare sia lo scritto di Saviano sia quello di Mastrocola («Non sono questioni che si possano liquidare con una battuta»), ammette che l’articolo dello scrittore napoletano su Repubblica «è sfocato, non meditato» e il suo pensiero merita d’essere approfondito meglio.

    Insomma, aspettando la replica dell’interessato, non si trova nessuno disposto a sostenerne le tesi radicali. Scontata l’adesione alle opinioni di Mastrocola del mago del best-seller giovanile Federico Moccia («Sono esattamente del parere di Paola»), appare piena di buon senso la risposta di Giuseppe Culicchia: «Temo che queste discussioni non interessino a chi entra in libreria per comprare un romanzo. Vuole sapere se è buono o no, e certo sceglie anche in base all’argomento. Ma delle posizioni di principio non gli importa nulla. Mi sembra che in letteratura ci siano tanti modi di rapportarsi al mestiere di scrittore. Che cosa conta? Che dopo cento anni ti leggano ancora».

    Cicerone 2 (detto il tempestivo)

    P.S. per Cicerone 1: per me il leader del gruppo puoi essere tu, ok? io non ho nulla in contrario. però non era necessario coalizzarsi con Cicerone 3 e Cicerone 4 (pollice verso!)

  18. Noto che il post è passato da Piperno a Saviano senza uscire fuori argomento. Ottimo.
    Una proposta al gestore del blog: Massimo, perché non provare a coinvolgere Piperno e Saviano direttamente qui? Sarebbe interessante poter avere un contatto diretto con loro anche se filtrato dal blog.
    Io comunque sono un sostenitore dell’utilità della letteratura, dunque mi schiero con Scurati. E tra la letteratura di pura invenzione e quella radicata nella realtà propendo per la seconda; dunque tra Mastrocola e Saviano, dico Saviano.
    Un saluto ai simpatici Cicerone.

  19. Atzeco, credo che sia Piperno, che Saviano, così come anche Scurati, quello che avevano da dire l’hanno già scritto sui giornali (oltre che nell’ambito dei convegni di “Officina Italia”).
    In ogni caso se lo ritengono possono intervenire con la massima tranquillità. Mi risulta che Piperno e Scurati siano al corrente dell’esistenza di questo post. A Saviano potrei anche scrivere qualora ci fossero domande specifiche.

  20. Al trascinatore Maugeri, scintilla di tanti fuochi, una proposta, visto il livello della discussione: perché non raccogliere la Lettera sulla Letteratura di Cicero e le appendici dei cloni in un volume: A che serve la letteratura? Spiace non giungano a pubblico più vasto…

  21. Un saluto a Gordiano.

    @ Gianmario Ricchezza: grazie per il trascinatore (troppo buono). La tua proposta è stimolante e allettante. Bisognerebbe ragionarci un po’ su, soprattutto per quanto riguarda la questione dei diritti d’autore. Comunque grazie.

  22. Avrei tre domande per Roberto Saviano:
    1. Sta già lavorando a un nuovo libro?
    2. Scriverà mai pura fiction?
    3. Ha letto “Con le peggiori intenzioni” di Alessandro Piperno? Se sì, cosa ne pensa?

  23. Ulteriore segnalazione. Giusto per completezza e senza la presunzione di essere esaustivi.

    Cicerone 4 (detto il modesto)

    Fonte: Il Sole 24Ore
    http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Tempo%20libero%20e%20Cultura/2007/05/officina-milano.shtml?uuid=b1155ec8-fa3f-11db-a50c-00000e251029&DocRulesView=Libero

    4 maggio 2007

    Officina Italia: a Milano apre la fabbrica della letteratura

    Articolo di Matteo Metta

    Prima che il gesto creativo si trasformi in prodotto letterario, prima che la scrittura diventi libro, prima che la parola arrivi a comunicare vuole semplicemente “esprimere”. Chiamare il pubblico a partecipare a questo momento privato dello scrittore, anzi trasformarlo in un momento corale: è l’idea che è venuta allo scrittore Antonio Scurati e al giornalista Alessandro Bertante, come spesso accade, durante una conversazione al bar. Dall’idea ai fatti il passo è stato breve. Così ieri sera, e fino al 5 maggio a Milano, la Palazzina Liberty ha aperto le porte a Officina Italia. Un festival letterario di inediti o, come gli organizzatori preferiscono chiamarlo, il primo festival dedicato alla creatività artistica italiana. Non una vetrina di scrittori, non un talk show di gossip parolaio, non un appuntamento affetto da gigantismo organizzativo per i voyeur della cultura-spettacolo, al contrario è stato concepito come uno spazio aperto a tutti coloro che vogliono lasciarsi contagiare dall’energia creativa della letteratura. Mantova insegna che quando Letteratura chiama, il pubblico risponde, in massa e con entusiasmo. Soprattutto se i nomi sono quelli di Saviano, Baricco, Scurati, Piperno, Lucarelli, Buttafuoco, De Silva. E così è avvenuto anche ieri sera. Mai era stata così gremita – soprattutto di giovani e giovanissimi, che, pur di assistere ai reading, hanno preferito adagiarsi per terra quando i posti a sedere si sono esauriti – la Palazzina Liberty normalmente è una Casa della Poesia. “Non sono abituato a tanto pubblico, i versi raramente richiamano più di venti persone”, è stata la spiritosa sortita di Giancarlo Majorino. Al poeta milanese quasi ottuagenario, o come scherza lui sull’anagrafe “con più quaranta milioni di minuti, gli anni mi danno fastidio”, è toccato aprire i “lavori” dell’officina in linea con il tema della serata: “la letteratura e la carne del mondo”. Ha anticipato alcuni passi di un poema al quale lavora dal 1969, il “mostro” che non sa ancora quanti volumi avrà, “dieci o venti”, e che sarà pubblicato l’anno prossimo per i tipi Mondadori. Un’opera che è un agglomerato di generi e stili, densa di quell’urgenza della scrittura che gli fa dire “il tacere la scrittura a me non deve” oppure “scrivi ancora, è la sostanza di te”. Lo sguardo di uno scrittore non può non rivolgersi al dolore umano: “volevo dire e scrivere di somiglianti umani”. Infine un inno all’amore e alla sua amata consorte, Enrica, la cui “natura eretta pare una preghiera alle speranze del mutamento”.
    Si cambia registro con il teatrale Diego De Silva, avvocato felicemente condannato alla scrittura, che legge un capitolo del romanzo che sta scrivendo. Le risate del pubblico sono più numerose che non a uno spettacolo di cabaret. L’impegno civile e sociale dalla scrittura, filo conduttore della serata, per qualche minuto si rompe, ma senza traumi. Un De Silva in stato di grazia, racconta le avventure amorose dell’uomo-outlet (“in quanto rientra nei campionari della stagione passata”) con la donna dei propri sogni, tale Alessandra Persiano, bella e possibile, anzi possibilissima, perché ama gli uomini imbranati che tentano di nascondere l’imbranataggine: “un uomo deliberatamente imbranato è patetico”. Lo scrittore napoletano rientra nei ranghi leggendo, con la disinvoltura di un attore professionista, un brano da “Gomorra”, dell’amico e conterraneo Roberto Saviano. Con le storie della camorra si torna alla scrittura che morde, alle pagine che portano il lettore nello stesso territorio dello scrittore e che “permettono di essere carne nella carne”, alle parole che sono il “prolungamento naturale dell’esperienza”.
    Lucarelli dalla sua officina pesca due capitoli del noir che sta scrivendo, il cui protagonista è Vittorio, un funzionario coloniale di stanza a Massaua, in Eritrea, prima della battaglia di Adua.
    Quando è il turno di Saviano l’atmosfera è ben preparata. Non legge e preferisce andare a braccio, vuole guardare il pubblico negli occhi, il senso di liberazione è forte: “Per noi, per me e i ragazzi della scorta, è la prima volta che non ci dobbiamo nascondere”. È come un fiume in piena: “Non mi interessa la letteratura come vizio, non mi lascio convincere dalla letteratura come pratica da onanisti, non mi riguardano le belle storie incapaci di mettere le mani nel sangue del mio tempo e di non fissare in volto il marciume della politica e il tanfo degli affari”. Le parole per lui devono essere rasoio. Quando cresce e vive a Napoli, “uno scrittore non può oltrepassare e superare il territorio epico delle storie della camorra e dei suoi personaggi”. Fedele al suo ideale di letteratura che ha radici nella realtà, che non deve far evadere il lettore ma “invaderlo”, Saviano cita Orhan Pamuk e Anna Politkovskaja, che, rispettivamente per il genocidio degli Armeni e per quello in Cecenia, “hanno avuto la responsabilità di fare delle storie che raccontavano vicende riguardanti ogni essere umano e non più circoscritte alla geografia di un territorio”. Chiude con l’aneddoto dell’intervista a Céline. Una giornalista chiede allo scrittore quanti modi di fare letteratura conosca. L’autore di “Viaggio al termine della notte” fa come per svelarle un segreto e risponde: “Ce ne sono due: fare letteratura o costruire spilli per inculare le mosche”. L’applauso per Saviano dura tre minuti, interrotto solo dall’arrivo di Scurati che introduce il successivo dibattito. Al termine della serata sarà sommerso dalla calca per gli autografi.
    Stasera sarà la volta di Baricco che discuterà con Gabriele Salvatores delle contaminazioni tra i vari linguaggi artistici, soprattutto tra cinema e letteratura. Sabato, Luciano Canfora aprirà un dibattito con Pietrangelo Buttafuoco, Antonio Scurati e Alessandro Piperno sul romanzo storico oggi, alla luce delle tendenze revisioniste.

  24. Sull’inutilità della letteratura del Piperno non ci piove. Sull’inutilità della letteratura e delle arti in genere nemmeno. Sull’utilità delle attività inutili neanche.

  25. Anch’io, come LB, credo che le attività inutili siano utili. Come diceva Eduardo, la vita è come la sala d’aspetto di un dentista: ognuno sceglie la sua distrazione (come le riviste o i libri) per non sentire il dolore prima di tirarsi il dente.

  26. Utile o necessaria o inutile? Certamente complementare alla curiosità di conoscere il pensiero elaborato nella scrittura. Leggere per non dimenticare gli altri.

  27. La Letteratura e’ utile solo se e’ buona Letteratura, ed e’ buona se cerca di dire qualcosa di nuovo rispetto alla realta’, qualcosa che abbiamo nell’anima e insieme nella fantasia, nella razionalita’ e nelle capacita’ tecnico-scrittorie. La Letteratura e’ buona se resta un parto individuale e non uno studio sociologico, psicologico, eccetera – altrimenti si chiama saggio. La Letteratura e’ buona se regge il paragone con la Storia della Letteratura, con i maestri conclamati.
    Altrimenti possiamo anche vivere senza leggere novita’ editoriali: per vedere la realta’ basta ascoltare le opinioni di un intelligente giornalista, non c’e’ bisogno di comprare un libro di narrativa o poesia.
    Unicuique suum: la realta’ faccia la realta’ e lo scrittore inventi, trasformi.
    Sergio Sozi

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