Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine “Saggistica Letteraria” è dedicato al volume dell’italianista Dario Stazzone intitolato “Al di qua del faro. Consolo, il viaggio, l’odeporica” (Olschki).
Di seguito, la recensione del semiologo e critico letterario Salvo Sequenzia.
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PER UNA CARTOGRAFIA DELL’ABISSO
Il racconto-saggio di Dario Stazzone è un viaggio di colta scrittura intramato in quel meraviglioso e arduo viaggio senza ritorno che è l’opera di Vincenzo Consolo
«Lo spazio comincia così, soltanto con delle parole, dei segni tracciati sulla pagina bianca. Descrivere lo spazio: nominarlo, tracciarlo, come quei fabbricanti di libri di navigazione che riempivano tutte le coste con nomi di porti, nomi di capi, nomi di insenature, tanto che la terra finiva per essere separata dal mare soltanto per effetto di un nastro continuo di testo» (George Perec, 1974).
La geografia, si sa, è ancilla petulante della Storia.
È prevaricatrice, e pretenziosa. Nel continuum fluttuante dello spazio-tempo tira meridiani, traccia paralleli; scandisce fusi orari, segna confini. Insinua vanità e imposture, mentisce la realtà sfrangiando statuti di veridicità, arrangiando paradigmi iconici, inanellando metafore, allegorie cifrate, insidie topografiche.
Lo sapeva bene il padre gesuita Daniello Bartoli, quando, nel 1665, licenzia il trattato Della Geografia Trasportata al Morale, nel quale – lui che non aveva intrapreso mai un viaggio vero – se ne concede uno immaginario, spiegando al Doge Alvise Contarini la natura di terre e di mondi lontani e vicini «trasportando» la sfera terracquea in forma di libro. Fu così che, stanziato a Torino, città dalla quale tentò, invano, il viaggio verso l’Oriente per attendere all’agognato martirio, il colto gesuita mise mano al pennino per seguitare quel viaggio che aveva iniziato Ludovico Ariosto: il quale, nella Satira III, composta nel 1518, sostenne di voler conoscere «il resto de la terra…con Ptolomeo», ovvero su mappe e atlanti, e di percorrere «tutto il mar, senza far voti quando lampeggi il ciel, sicuro in su le carte». La geografia offre un sicuro riparo dagli incerti e altalenanti fati della Storia e seconda un viaggio autre: non quello reale, in nave, in lettiga o in corriera, ma quello speculativo, «con Ptolomeo».
Di viaggi speculativi racconta Al di qua del faro. Consolo, il viaggio, l’odeporica, il recente saggio, pubblicato per Olschki, che l’italianista Dario Stazzone ha dedicato al tema del viaggio e al motivo odeporico nell’opera di Vincenzo Consolo.
La «lingua phari» è lingua bifida. Nega e asserisce al tempo stesso. Balbetta, ammonisce, sentenzia. Impertinente, nella sua ieratica, luminosa arroganza. Rischiara e adombra; confonde, come la Pizia. Sicché, accade che la locuzione «Di qua dal faro», posta un tempo su mappe ed atlanti, nel separare e dividere un «al di qua» da un «al di là», dava una indicazione ’opposta’, inconciliabile, contraddittoria, quasi a sancire la natura ‘separata’ e ancipite dell’isola, la sua geografia eccentrica, lunatica, sediziosa: un mondo, sprofondato nell’alterità del mito.
Il saggio di Stazzone aderisce con appassionata tensione ermeneutica e con fine intelligenza critica alla scrittura di Consolo, cogliendone la complessa, travagliata vicenda testuale. Un viaggio nel viaggio, direi; o, meglio, una catabasi in una delle opere – tale è quella di Consolo – più alte, impervie e disarmanti della tarda modernità letteraria occidentale. Hic sunt Leones.
«I documenti del XVIII e XIX secolo, infatti, fanno riferimento ad un «di qua» e un «di là» dal faro che sorgeva nell’estrema propaggine settentrionale dell’isola. Evocando l’antico edificio e il toponimo Torre Faro, l’autore allude alla sua terra natale e, parimenti, a quanto in essa converge e da essa diverge». Così Stazzone nel testo introduttivo al suo saggio (In limine), nel quale, insieme all’intentio ermeneutica del suo lavoro, rende conto anche del titolo adoperato: «Il titolo scelto per questa monografia, Al di qua del faro, rievoca quello della raccolta di saggi di Consolo, con una voluta variazione: in luogo della relativa staticità della locuzione Di qua dal faro si è preferito l’uso del moto a luogo, per rendere l’idea del movimento dei viaggiatori impegnati nel Grand Tour d’Italie che si spingevano fino alle estreme propaggini meridionali d’Italia, fino alla Sicilia. Il sottotitolo fa riferimento al tema del viaggio ed alla fitta trama di citazioni della letteratura odeporica riscontrabili nell’opera consoliana».
Una scrittura documentatissima ed ecfrastica, «consapevole che l’esegesi critica può concorrere a decriptare significati che non sempre si esauriscono nell’intentio auctoris», scivola come un magma di densa pasta concettuale e argomentativa scandendo sei capitoli, sei stationes di un viaggio circolare e allusivo nell’opera di Consolo, decifrando nebulose di senso, temi, motivi, immagini, citazioni, allegorie e metafore che s’addensano nei testi, rincorrendosi e specchiandosi, ora cifrandosi ora disvelandosi, tracciando un labirinto nel quale ogni testo si configura quale «palinsesto» inesauribile di altri testi. Di tutti i testi, secondo quel principio regolativo di testualizzazione polifonica dell’«opera aperta» teorizzato da Umberto Eco (1967) che scardina le fondamenta di un testo-monolite arrivando a erodere – e, talvolta, anche a dissolvere – il principio di consequenzialità/direzionalità temporale e, a questo strettamente connesso, il canone dell’impianto drammatico sviluppato intorno a un’idea centrale: altrimenti detto, quel principio dell’unità nella diversità interpretabile quale retaggio dell’estetica classica dell’organicismo.
Il tema del viaggio, declinato da Consolo in modo quasi ossessivo, ha a che fare con questa ‘perdita del centro’ che lo scrittore situa – autobiograficamente, letterariamente e mitopoieticamente – nella sua isola, quella «…bella Trinacria, che caliga / tra Pachino e Peloro, sopra ’l golfo / che riceve da Euro maggior briga, / non per Tifeo ma per nascente solfo…» che egli più non riconosce nell’approdo feacico né nella sua Itaca e che s’affanna a cercare nei viaggi ‘esemplari’, ‘diversi’, di chi in Sicilia è approdato come nella terra in cui gli dei erano apparsi un’ultima volta agli uomini ma, che, invece, si palesa quale Troia devastata, infera città di Dite, luogo in cui l’«olivastro» della barbarie, della violenza e della bêtise ha soppiantato l’«olivo» della civilizzazione e della bellezza caro ad Atena.
Il de reditu di Consolo, osserva acutamente Stazzone, ha tono epico; un tono epico che si scioglie in l’elegos dolente e brivida le pagine de La ferita dell’aprile, de Il sorriso dell’ignoto marinaio, de Lo Spasimo di Palermo, de Le pietre di Pantalica, delle «sessioni» di Di qua dal faro. È il medesimo reditus del giovane ‘Ntoni, in un paese che non sente più come il suo e dal quale è respinto, infranto per sempre il vincolo sanctus che lega individuo e comunità al genius loci. Il viaggio si fa ricerca, peregrinatio, quête; la scrittura, mimeticamente, aderisce ai disiecta membra del reale, s’annoda a quella ‘spirale’ nel cui vortice si esplica, inesauribile, il moto incessante di ogni ulisside, di ogni uomo che cerca. Il viaggio reale si sdoppia nell’incantagione del mito, nella fascinazione della parola, in quella «ebullizione di chimere» suscitata e nutrita dagli Scalognati de I giganti della montagna nel mito inconcluso, quello dell’arte, che Luigi Pirandello concepì alla fine del suo «involontario soggiorno sulla terra». Sulla linea di quell’«illuminismo negativo», che, passando da Verga e De Roberto, approda all’opera di Tomasi di Lampedusa, di Leonardo Sciascia, di Gesualdo Bufalino, di Stefano D’Arrigo, autori ‘ruminati’ da Consolo ne L’olivo e l’olivastro, si erge la Sicilia delle meraviglie e dei disastri, il «Giardino di Hamdis» scolpito nella pietra barocca degli scalpellini del Val di Nto dopo il «gran tremuoto» del 1693, e che il barone mago Lucio Piccolo di Calanovella ha tessuto di magie e di sortilegi sprofondandolo nel «gioco a nascondere» inesplicabile dei suoi Canti barocchi. Una cartografia dell’abisso si spalanca agli occhi del viaggiatore Consolo nel suo attraversamento della «terra dove fioriscono i limoni»: «Kennst du das Land/, wo die Zitronen blühn,/Im dunkeln Laub die Gold Orangen glühn,/Ein sanfter Wind vom blauen Himmel weht,/Die Myrte still und hoch der Lorbeer steht?/Kennst du es wohl?/Dahin! Dahin». Goethe, che in Sicilia aveva compiuto un viaggio rivelatore, nel Wilhelm Meister mette in bocca queste parole di nostalgia alla giovane danzatrice-girovaga Mignon. Goethe, deluso, durante il suo viaggio nell’isola, non troverà la Sicilia del mito, ma la terra della fame, della povertà, delle rovine. Eppure, il sogno della bellezza eterna e non lordata da violenza belluina viene ‘salvato’, trasfigurato nella perfezione lontana e inattingibile dell’arte e della poesia. Così Consolo, che ‘salva’ la bellezza della sua terra dilaniata dalla violenza turpe della mafia, dall’insolenza e dagli interessi di una classe politica di inetti nel ‘ritiro’ eletto di Scicli, dove si raccoglie una comunità di artisti sodali di Piero Guccione. Costoro, come gli Scalognati scampati alla violenza dei Giganti nel ‘mito’ pirandelliano, ‘salvano’ il messaggio di bellezza e di fragilità dell’arte e della poesia in un «mondo offeso».
L’indagine critica di Dario Stazzone, raccontando una storia di sconfitte e di nuove agnizioni, muove dall’assunto fondamentale della «conoscenza come molteplicità» (J. Deleuze e F. Guattari, 2002), assunto che l’opera di Consolo riverbera nelle sue strategie combinatorie ed accumulative e nelle strutture relazionali che la trasformano in ‘testo-rizoma’: mondo narrativo flessibile che percorre e traccia una ‘rete gnoseologica’ rinunciando a qualsiasi principio di determinazione e a qualsiasi concetto univoco e finito di verità.
Stazzone individua il carattere strutturalmente costitutivo, metatestuale ed ‘agente’ del tema del viaggio all’interno dell’opera di Consolo, situandolo (anche se non in modo esplicito) nell’ambito degli esperimenti condotti sulle ‘forme del narrare’ di alcuni referti di scritture letterarie novecentesche italiane, da Gadda a D’Arrigo.
Ma la scrittura di Consolo va oltre. Creando uno stile espressivo – o, meglio, mimetico-espressivo – essa rivendica un fine etico, dando adito a una ‘forma mondo’ che porta a compimento la dissoluzione formale che ha trasformato il romanzo italiano naturalista in un campo di possibilità – in una «opera aperta», appunto – e tenta quella «sfida al labirinto» (Italo Calvino, 1957) che invoca un’etica della scrittura come possibilità leibniziana di rispondere all’interrogazione di senso dell’uomo. Con queste luminose, vibranti parole conclude Stazzone il suo saggio: «Il viaggio della scrittura, dunque, sempre più difficile ed avventuroso, deve cercare continuamente nuove formule e nuove alchimie, incerto tra la parola e il silenzio, tra le forme letterarie statutarie e il loro scardinamento, tra la retta e la spirale, perché, per l’autore, il rischio intollerabile eppure cogente è quello di una tragedia individuale e collettiva priva di rappresentazione, di un viaggio che non incontri realmente l’Altro, di un dolore che non conosca catarsi».
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La scheda del libro: “Al di qua del faro. Consolo, il viaggio, l’odeporica” di Dario Stazzone (Olschki)
Il viaggio è tema che ispira la scrittura di Consolo. Viaggio reale e metaforico, attraversamento della Sicilia e della sua storia, recupero della memoria dei viaggiatori del passato e delle loro opere, allusione al percorso esistenziale ed alle sue prove. Il viaggio come esperienza di vita, metafora stessa della vita, della scrittura e dell’attività artistica. A proposito di Goethe, significativamente, Consolo scriveva: «Ma non la conoscenza di un luogo ci trasmettono gli uomini come Goethe, i poeti, ma la conoscenza del Luogo, del sempre conosciuto, misterioso luogo, bellissimo e tremendo, che si chiama vita». La Sicilia come metafora e scrittura. ll desiderio di raccontare la realtà siciliana spinse Vincenzo Consolo a tornare in Sicilia dopo il servizio militare. Insegnò nelle scuole agrarie per cinque anni e raccontò la realtà siciliana ispirandosi a Sciascia e Piccolo. In questo libro, seguendo il filo rosso del tema ispiratore, si racconta il percorso della narrazione di uno degli autori più significativi del Novecento.
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Dario Stazzone è dottore di ricerca in Italianistica (Lessicografia e semantica del linguaggio letterario europeo) ed ha insegnato Retorica presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Catania. I suoi articoli e saggi, apparsi su «Belfagor», «Sinestesie», «Otto/Novecento», «Oblio», «Quaderns d’Italià», «Annali della Fondazione Verga», «Nuova Prosa», «Arabeschi» e «Diacritica» riguardano Pietro Bembo, Michelangelo poeta, il secentista Francesco Guglielmini, Verga, Capuana, De Roberto, Carlo Levi, Addamo, Pasolini, Luzi, Sciascia, Bufalino, Consolo ed Attanasio. Ha pubblicato due monografie su Levi, Geometrie della memoria nella poesia di Carlo Levi (2012) e Il romanzo unitario dell’infinita molteplicità. Carlo Levi e il ritratto (2012). A sua cura sono state ripubblicate le monografie artistiche di Federico De Roberto. È presidente del comitato catanese della Società Dante Alighieri.
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