In collegamento con il forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA“, ci occupiamo del volume “Alberto Spadolini” di Ignazio Gori (Castelvecchi, 2015), con un’intervista all’autore a cura di Claudio Morandini.
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“Alberto Spadolini” di Ignazio Gori – Castelvecchi, 2015
Conversazione con l’autore a cura di Claudio Morandini
Chi era Alberto Spadolini e perché ci siamo dimenticati di lui? Ignazio Gori, nel ritratto del “Danzatore, pittore, agente segreto” Alberto Spadolini (Castelvecchi, 2015), risponde a queste domande scegliendo la via del resoconto amabile e scrupoloso – in cui però, sottilmente, la reinvenzione letteraria ha una parte preponderante.
Sin da adolescente Alberto Spadolini (nato nel 1907) ha ammaliato pittori, scultori, artisti, ai quali è apparso come un’epitome di bellezza maschile; il suo mondo, tra l’Italia e la Francia con diramazioni negli Stati Uniti e altrove, era frequentato da nomi come Bragaglia, D’Annunzio, de Chirico, Bontempelli, Cocteau, Joséphine Baker, Picasso, Marlene Dietrich, Maurice Chevalier e molti altri. Nessuno di loro si è mostrato indifferente al fascino (artistico e umano) di questo personaggio: eppure, nonostante la vastità dei suoi interessi e l’impressione che suscitò ai suoi tempi, Spadolini è stato rimosso dalla memoria collettiva e ridotto a culto di una ridotta nicchia.
Gori evidenzia bene il vorace amore di Spadolini per la vita, l’entusiasmo mai disgiunto dalla ricerca della perfezione. Ne fa un personaggio complesso e sfuggente nella sua complessità, non contraddittorio ma articolato, mai caricaturale, nemmeno nei momenti in cui l’eccesso o l’improvvisazione sembrano togliergli spessore trasformandolo in un semplice corpo perfetto.
Che l’interesse per questa figura eclettica ed eccentrica sia frutto di passione autentica è chiaro sin dalla Premessa, in cui Ignazio Gori confida la scoperta della «bellezza» e dell’«eleganza» di Spadolini attraverso la visione di un’antica foto di Dora Maar, Uomo nudo con sfera in mano. Questa confidenza mi ha ricordato quell’altro romanzo biografico, anch’esso sottile gioco di invenzione e documentazione, che è il Riefenstahl di Lilian Auzas, in Italia pubblicato nel 2013 da Elliot.
Talvolta, nella ricostruzione d’epoca, Gori si concede qualche pennellata stilistica d’antan: ed ecco che la partenza del giovane Spadolini viene descritta con queste parole: «si sente libero di sciogliersi i calzari materni, di riempirsi il petto di giovane sparviero e d’involarsi lontano dalla sua dolce Ancona». In altri punti, l’ispirazione dell’autore, nella descrizione di pose e movenze di personaggi, sembra essere certo cinema muto dei primi decenni, ancora teatrale: così è nelle scene delle visite da D’Annunzio, o (e qui il riferimento al cinema muto è esplicitato) nella partenza alla stazione dopo la chiusura degli Indipendenti di Bragaglia, o nelle numerose altre scene di interni – quelle in cui Spadolini, con la sua bellezza e prestanza, seduce qualcuno magari senza volerlo.
Insomma, c’è materia sufficiente per una conversazione con l’autore Ignazio Gori.
– Spadolini attrae, turba, seduce. Nei campi non solo artistici in cui si muove (nella pittura, nella danza, nella canzone, nel documentarismo, in ogni attività creativa a cui si dedica, persino nelle parentesi spionistiche, esoteriste e mistiche) provoca reazioni mai tiepide, eccessi di generosità e di trasporto oppure scossoni, gelosie, rivalità, pettegolezzi feroci. Certo, i suoi dipinti possono apparire di fattura modesta, e gli elogi di amici artisti ci suonano francamente esagerati, condizionati più dal fascino dell’autore che dal valore delle opere. Quanto alla danza, per lui è passione, poesia, insomma non essenzialmente tecnica; per questo, Bragaglia lo ha definito “danzatore barbaro”. I rarissimi frammenti che ci mostrano Spadolini su un palco confermano questo giudizio.
Mi pare, insomma, che l’aspetto più determinante della sua vita sia stato un prodigioso dilettantismo. Sei d’accordo con questo giudizio?
Decisamente sì. Nel caso di Spadolini però il “dilettantismo” ha un valore intrinseco alla sua dirompente espressione poliedrica; si tratta quasi di uno showman a tutto tondo, ma di natura raffinata. Probabilmente Spadolini aveva un contenzioso aperto fra istinto e professionalità, avendo tra l’altro intrapreso lavori diversi, come la scenografia e la danza. Ma forse non è questo il punto. In Spadolini quello che affascina e sorprende è un istinto – barbaro e charmant allo stesso tempo – che lo ha portato a una carriera scintillante, decisamente ben oltre valori critici universalmente riconosciuti, anche se non vanno trascurate delle caratteristiche uniche, che rendono esclusivi alcuni suoi exploit, parlo della sua personalissima interpretazione danzante del “Bolero” di Ravel, e anche di tutta la serie di dipinti sulla danza, definiti veri e propri scrigni allegorici, di tipo esoterico. La forza di Spadolini sta dunque proprio nella sua istintività artistica, in un opportunismo camaleontico e in un gusto per il bello sopraffino.
– Fenomeno di massa, cresciuto al di là dei meriti artistici, Spadolini è stato tra i primi personaggi vittime del gossip. Eppure, paradossalmente, oggi è ricordato da pochi. Perché, secondo te, è stato oggetto di questa sorta di damnatio memoriae?
L’Italia purtroppo è il “Paese senza memoria” per eccellenza, ma il caso-Spadolini è particolare. Ha lasciato il paese molto giovane, dopo il declino, provocato dal regime fascista, del Teatro degli Indipendenti di Bragaglia, dove Spadolini lavorava come scenografo, per approdare a Parigi, allora la capitale mondiale dell’arte, delle opportunità. Molti italiani hanno deciso di trasferirsi a Parigi, su tutti il pittore e poeta Filippo de Pisis. Il vuoto temporale è stato enorme, perché ritroviamo Spadolini in Italia quasi solo un ventennio dopo e infine nell’ultimo periodo della sua vita, quando decise di tornare nelle sue Marche. Nel frattempo il regime non permetteva a personaggi “scandalistici”, come lo era in parte Spadolini, di catturare l’attenzione popolare, tutta accentrata sui valori della famiglia e sull’arte razionale e razionalista. Gli stessi Cocteau, Josephine Baker, Picasso (osteggiato perché “comunista”), Jean Marais, e altri, non divennero popolari in Italia se non alla fine degli anni ’40.
– Spadolini entra nelle vite già avviate dei personaggi con cui ha a che fare «con una dolce insolenza», come tu dici del suo incontro con la contessa Yvette de Marguerie. Questa «dolce insolenza», così ricorrente, assieme alla passione sincera e anche ingenua disseminata generosamente in ogni cosa, può essere considerata una delle ragioni del suo fascino?
C’è una bellissima poesia di Brecht intitolata “Consigli di una puttana vecchia a una puttana giovane” dove l’autore in sostanza fa dire alla vegliarda il suo consiglio più prezioso: Non bisogna innamorarsi mai. Secondo me Spadolini, consapevole del suo fascino, nella sua vita non si è mai innamorato veramente, cavalcando l’attrazione che esercitava su straordinari personaggi, ma rimanendone distaccato, quasi intoccabile. Ha attraversato la sua epoca – il fulcro artistico del Novecento – sollevato mezzo metro da terra, leggero come una piuma. La presunzione di Spadolini era probabilmente supportata da un ego smisurato, da una padronanza dei propri limiti con pochi eguali. Paul Colin gli diede la chance di diventare aiuto scenografo quasi sulla parola; Josephine Baker rimase folgorata la prima volta che lo vide danzare; e così tanti altri. Non può essere stato sempre un caso.
– Tu parli di uno Spadolini teso sempre tra due poli, da una parte la carnalità passionale (e, legata a questa, la danza e le altre attività artistiche connesse a questa), e, dall’altra, una spiritualità che oscilla tra l’esoterismo e la riscoperta del cattolicesimo delle sue origini. Nel tracciare le contraddittorietà della sua vita, lo mostri sempre comunque come una figura credibile, sincera, qualunque fosse l’interesse del momento.
Perché era così. Alberto Spadolini è il prototipo dell’italiano, avendo mostrato un lato profondamente e sinceramente cattolico, intriso di arte barocca, e un lato passionale, carnale, quasi irrefrenabile. Si può essere, come è stato detto, cristiano e libertino? Forse sì, anche se “libertino” non è il termine adatto per definire Spadolini, perché parafrasando D’Annunzio – uno dei sostenitori di Spadò – ogni bel fiore è destinato a sbocciare, anche in sgarbo a Dio. L’arte sacra rappresenta una grossa fetta della storia dell’arte e anche se col tempo Spadolini ha cambiato genere, non ha potuto sottrarsi dall’esprimere una tenera spiritualità, riflessiva e autoriflessiva; non bisogna nemmeno dimenticare che il primo maestro di pittura di Spadolini è stato Gianbattista Conti, pittore in forza al Vaticano. Il caso più emblematico dove Spadolini sembra coniugare narcisismo intimità e fervore religioso è il San Francesco, una sorta di autoritratto alienato. Non a caso era il dipinto che più lo rendeva orgoglioso. Ma la spiritualità del marchigiano va ben oltre, fino ad abbracciare l’esoterismo, con il quale Spadolini dimostra di non voler fuggire da niente, tantomeno dalla sua innegabile contraddittorietà.
– Ammetti, nelle prime pagine, di lavorare alla vita del tuo personaggio come a una fiaba: edificando cioè, accanto alla congerie di dati reali e testimonianze storiche, parti morbide di invenzione, animate da «licenze poetiche», in cui «il sogno fa da collante agli eventi». Così, quando mancano le testimonianze dell’epoca, immagini come avrebbero potuto parlare di Spadolini i suoi contemporanei.
Come sei riuscito a conciliare la ricostruzione storica con l’invenzione letteraria?
Innanzi tutto devo dire di essere rimasto folgorato dalla bellissima biografia che Pietro Citati ha fatto di Katherine Mansfield, e poi anche di quella su Manouche scritta da Roger Peyrefitte. Anche per Spadolini ho dovuto attuare una scelta non facile, perché a differenza della Mansfield e di Manouche (altro personaggio conosciuto di persona da Spadolini) il nostro vantava una vita non priva di enormi vuoti, periodi con date ed eventi contrastanti, se non ambigui e confutabili; era in definitiva una esistenza semileggendaria, tutta da ricucire. Così ho optato per una ricostruzione frammentaria, dal tono magico, permeata di una leggerezza complice. Certo, si poteva anche scegliere diversamente, ma in questo caso, non essendo il personaggio di natura rigorosa o scientifica, una scelta di tono favolistico mi è sembrata la più adatta. È stato un lavoro difficile, soprattutto il coniugare il giornalistico con il poetico, il cronachistico con il gossip da rivista.
– Più volte, leggendo il tuo libro, mi sono tornate in mente le rivisitazioni biografiche oscillanti tra esaltazione e degradazione alla Ken Russell. Russell avrebbe adorato un personaggio come Spadolini, «uomo sorretto dai segreti» (secondo Bragaglia) teso tra «eleganza e mistero, modestia e sfrenatezza, fede religiosa e lussuria» (secondo te), pronto insomma per diventare un mito contemporaneo, o almeno un abbozzo di mito. Ma mi pare che tu abbia scelto strade diverse, che tu ti sia tenuto lontano dagli eccessi e dal rischio del kitsch. C’è un modello di biografia romanzesca a cui ti sei ispirato per tracciare la vita del tuo protagonista?
Spiegando meglio la risposta precedente, devo ammettere che mi sono concesso delle “licenze poetiche” ma solo in via deduttiva e verosimigliante. Prima ho citato le biografie scritte da Peyrefitte e da Citati, le quali rispetto alla mia sono senz’altro opere di carattere prosaico, quasi dei romanzi. La mia invece ha il carattere frammentario, perché descrivendo la vita di Alberto Spadolini passo dopo passo, ho utilizzato dei quadri sospesi, dove il protagonista entra ed esce di scena, come i personaggi dei sogni, eterni e integri, senza contaminare nulla né prima né avanti a sé; il passato e il futuro nelle favole non hanno rilevanza, solo la forza, la magia del presente ne ha. L’evitare il kitsch, che pur avrebbe avuto un grosso spazio nella vicenda spadoliniana, è stata una mia scelta precisa, come il non calcare troppo sugli eventuali eccessi che un artista del genere si concede. Come dire: il fatto che Cocteau fumasse oppio non sminuisce affatto la sua opera letteraria, anzi, la integra e la spiega, così in altri termini avrei potuto dire di Spadolini, ma non l’ho fatto perché non mi interessava. Riguardo a Ken Russell, ricordo il capolavoro L’altra faccia dell’amore e non nego di averci pensato più volte durante la stesura di questo libro. La vita del grande compositore russo Čajkovskij presenta caratteri simili a quella di Spadolini, con aspetti intimi contrastanti ed eccitanti. Ken Russell ci è riuscito in pieno, spero di esserci riuscito anch’io.
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