Dicembre 21, 2024

97 thoughts on “ALI DI SABBIA di Valerio Aiolli

  1. Un po’ di informazioni su l’autore di questo libro.
    Valerio Aiolli è nato a Firenze nel 1961 dove vive. Per le Edizioni e/o ha pubblicato i romanzi “Io e mio fratello” (1999, Premio Fiesole), “Luce profuga” (2001), “A rotta di collo” (2002, Premio Giusti). Per Rizzoli “Fuori tempo” (2004). Alcune sue opere sono state tradotte in Germania, Ungheria, Olanda.
    Gioca col n. 8 nell’Osvaldo Soriano F.C., la squadra di calcio degli scrittori italiani.

  2. Ringrazio la Alet per la disponibilità a concedere “l’estratto”.
    Per la verità era molto più abbondante, ma avuto qualche problema a convertire il file pdf in word.

  3. No. Il primo commento oggi lo conquisto io. Lapidario, nei confronti di Gianfranco:
    toccante. Vero. Triste. Tuo. Nostro. Nostro sentimento. Ma. Ma l’Italia sta solo nel battito dei nostri cuori. Se il nostro cuore si sollevera’, si rialzera’ anche Lei, la Minerva Turrita, altrimenti… la fine. Dipende da tutti noi: popolo e non miscuglio di genti. Popolo unico, artistico, colto e straordinario. Che, se, come dice Eventounico, ci ricordassimo chi eravamo (i nostri Padri), guai a chi ci tocchera’! Basta cominciare a rilegger…ci. Ovvero a tornare ai ”vecchi” che tanto hanno dato e danno alla Patria sin dal Duecento. Dante, San Francesco, Tommaseo… e migliaia ancora: tutti qui, ad attenderci. Per toglierci dalle depressive mani della nostra sciocca superficialita’ moderna.
    Sursum corda
    Sergio

  4. Ciao, scusate se disturbo, ma volevo segnalarvi che sul nostro sito: http://www.ilrifugiodeimoai.it stiamo raccogliendo racconti di Natale, se a qualcuno fa piacere partecipare ne saremmo lieti, l’autore del racconto che riceverà più voti avrà in regalo “il canto di Natale” di Charles Dickens, tutti i racconti saranno poi raccolti in un ebook che verrà messo online gratuitamente sul sito, vi lascio il link diretto per il forum in cui si trovano i link a tutti i racconti: http://www.ilrifugiodeimoai.it/modules.php?name=Forums&file=viewtopic&p=842#842

  5. Non sono molto esperta di romanzi dedicati alla guerra. Certo, mi vengono in mente i notissimi “Guerra e pace” di Tolstoj e “Addio alle armi” di Heminghway.
    Di questo libro mi pare molto interessante la doppia storia.
    Mi piacerebbe chiedere all’autore quanto tempo ha impiegato per effettuare le ricerche.
    Smile

  6. Anche io non sono certo la migliore delle lettrici per quanto riguarda i romanzi di guerra, ma il tema colpisce sempre e comunque perchè ci riguarda. E’ il nostro passato (neanche troppo passato), divenuto il nostro presente. Sono curiosa di sapere come mai Aiolli abbia scelto di parlare della guerra di Libia, anche se il titolo del suo romanzo lascia apertamente trasparire la suggestione dei primi aeroplani. Se non sbaglio fu proprio in quell’occasione che furono usati per la prima volta a scopi bellici. Scommettiamo che Aiolli è un appassionato di aerei o lo è diventato nel corso delle sue ricerche?
    🙂

  7. Sono nata in Libia il24 08 41 e portata in Italia dopo 3 mesi. Una volta in un oroscopo personalizzato mi è stato detto che sono diversa perchè sono nata a Tripoli.Alla tua domanda non so rispondere. Personalmente dimentico in fretta tutte le cose negative come se avessi un cestino della spazzatura di cui neanche sono consapevole. Facendo una ricerca mi è stato detto che potevo tornare in LIbia solo dopo avere compiuto i 65 anni. Mi piace molto il caldo asciutto, ma la Libia, solo perchè sono nata lì, non mi attrae. So che un figlio di Gheddafy ha strutturato una fondazione e questo mi incuriosisce. Non so se dipende dal fatto che sono nata a Tripoli, ma non ho radici. Infatti Dall’Emilia sono andata in Piemonte ed ora in LIguria. Ma non resto legata a nessun luogo e anche ora che ho ritrovato il mare (l’unica cosa che cerco sempre) sarei pronta a spostarmi perchè ultimamente mi vergogno di essere italiana e vorrei portare mio figlio in luoghi migliori. Ciao AnnaB

  8. Non so se leggerò mai questo libro. Probabilmente è validissimo e gli auguro immensa fortuna, ma non sono incline alle ricostruzioni storiche benché sapientemente romanzate.
    Quello che mi viene in mente, semmai, è un crudo contrasto tra le tecniche di guerra odierne con quelle del passato.
    Oggi il “nemico” quasi non lo si vede nemmeno. La tecnologia sostiene i militari che attraverso codici e computer mandano bombe intelligenti (chissà che cazzo succedeva se erano cretine).
    La guerra di Libia, la campagna di Russia, El Al Amein invece, con i nostri soldati equipaggiati di stracci e illusioni. Ad andar laddove non si tornava più indietro.
    Fermo restando che la guerra è sempre una merda: con Microsoft o con la baionetta.

  9. Massimo:
    “Chiedo al buon Gianfranco Franchi di darmi una mano ad animare questo post. Il dibattito partirà domattina (spero), anche se potrò seguirlo solo nel pomeriggio.”

    > Ave ottimo. Da questo momento, presente. Intanto lascia che ti ringrazi una volta ancora a nome dei lettori tutti. Mi domando se siamo realmente consapevoli della fortuna di poterci confrontare tra estranei, serenamente e senza filtri, per discutere di opere letterarie e di questioni storiche, estetiche ed esistenziali… mantenendo alto il livello del dibattito. Mi domando se abbiamo tutti chiaro in mente cosa significa avere a disposizione uno spazio libero come questo. Godiamoci Letteratitudine e rinnoviamo saluti e ringraziamenti al suo ideatore.
    Che oggi ha scelto un’opera importante, come quella di Aiolli, e sta per riaprire – così – una questione accantonata da molti anni. Assieme ad Aiolli, torniamo a illuminare una memoria collettiva rimossa.
    Ritroviamo un pezzo della nostra storia. Vedremo a quale prezzo… e con quali reazioni.
    *
    Salut
    gf

  10. Sergio:
    “toccante. Vero. Triste. Tuo. Nostro. Nostro sentimento. Ma. Ma l’Italia sta solo nel battito dei nostri cuori. Se il nostro cuore si sollevera’, si rialzera’ anche Lei, la Minerva Turrita, altrimenti… la fine. Dipende da tutti noi: popolo e non miscuglio di genti. Popolo unico, artistico, colto e straordinario.”

    > Ottimo Sergio, non posso che unirmi ai tuoi auspici. Per questo credo sia necessario un salto di qualità da parte di tutti. Insisto sulla questione della memoria condivisa. Quante diverse storie d’Italia esistono, a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale? Il Novecento italiano è formato da diverse letture della storia e della verità. Ogni lettura della storia ha scelto un sentiero e degli eventi ben precisi, rinunciando ad altri, nascondendoli o abiurandoli. In nome quando dell’ideologia, quando del sangue dei cari perduti, quando della speranza: quando dell’interesse, quando dell’opportunità.
    Allora io dico che la parte prima di questo ritorno a essere popolo è storica e culturale, prima che politica. E’ restituire a 60 milioni di persone memoria di essere stati “noi”, noi italiani, in diversi frangenti e non solo in quelli che è buono e giusto ricordare. Mi domando quanti nostri concittadini, letterati o meno, abbiano letto romanzi ambientati nelle nostre colonie. Mi domando quanti, oltre a Flaiano, Tobino e Aiolli, ne abbiano scritto. Mi domando perché non se ne possa e non se ne voglia più parlare. Eppure esisteva una letteratura del colonialismo…
    coi miei occhi, settimane fa, vedevo una raccolta di racconti dell’epoca. Nell’introduzione leggevo notizie a proposito della sfiducia dei cittadini nei confronti di queste imprese, e riflessioni sul sacrificio dei soldati…
    tutto sparito? tutto dimenticato?
    *
    E che dire dell’assimilazione della Libia a Trieste, percepite entrambe come terre italiane, in quel preciso momento? Cosa sappiamo della Libia e della storia della Libia, davvero? Perché “doveva” essere (tornare?) italiana?
    *
    Abbiamo tante domande da sottoporre alle nostre coscienze. Una di queste è la ragione per cui opere letterarie sull’emigrazione e sul colonialismo italiano siano così poche. Ma così amate…

    Ave!

  11. E Aiolli ci ricorda come rispondevano i cittadini.

    Scrivo, nell’articolo: Si percepisce, qua e là, memoria dell’orgoglio di essere italiani, della dignità riservata ai morti caduti per una patria che ora si componeva anche di Trieste e della Libia; la fidanzata vedova “pensava che chi era morto per quel nome, Italia, era morto per qualcosa di unico e di grande e si sentiva meno sola” (p. 43). Era innocenza, ma era anche fede.
    ****
    Chi era morto per quel nome, Italia, era morto per qualcosa di unico. Per restituire Trieste e la Libia alla patria. Riusciamo a capirlo? Riusciamo a immaginarlo? Riusciamo ancora a condividere?
    Ricordiamo chi era morto per quel nome, come Scipio Slataper e come Carlo Stuparich, al fronte, nella Prima Guerra?
    Dov’è finito questo qualcosa di unico? Chi ha cancellato la nostra identità, e il nostro orgoglio? A chi l’abbiamo consegnata, la nostra storia?
    A quale prezzo?

  12. Si e` trattato di un fenomeno molto ricorrente credo nelle civilta` moderne che vogliono darsi una parvenza di superiorita` : la rimozione.
    Errori che sono attribuiti ad altri, basti pensare alle critiche italiane alla guerra francese in Algeria o agli americani in Vietnam, per poi scoprire che anche noi abbiamo i nostri bravi scheletri nell`armadio.
    Eventuali storie di guerre per un paese abituato a distribuire nutella e a perdere battaglie, possono alterare il nostro delicato spirito latino.
    Non siamo un popolo guerriero e la nostra aggressivita` preferiamo esprimerla in modo individuale.

    Condivido personalmente il ritorno alla narrativa di guerra. E ` una esperienza della vita, una purtroppo delle piu` ricorrenti nella storia umana.
    Cancellarla in nome del pensiero unico politicamente corretto e` una delle tare peggiori della cultura contemporanea.

  13. qui a trieste c’è una via che porta il mio stesso cognome. è intitolata ad un ragazzo, un cugino, che, mentendo sull’età, andò volontario in guerra a 17 anni per l’italia.
    morì che non ne aveva compiuti 18, nella più grande carneficina di tutti i tempi. un’eroe o solo un bambino esaltato mandato allo sbaraglio?
    e la libia? tripoli bel suol d’amore, l’italia finalmente potenza coloniale alla pari coi grandi, terra da coltivare, abbiamo fatto tanto bene, strade, palazzi..
    e abbiamo sterminato migliaia di persone coi gas. credo sia stata la prima volta che siano stati usati come arma. un altro primato del genio italiano?
    a me i libri di guerra non piacciono. quelli sulla guerra anche sì, soprattutto se, a colpi di nudi dati, mi fanno capire quanto tutto ciò sia atroce, sbagliato e, volendo essere cinici, anche totalmente inutile.
    goebbels diceva che quando sentiva parlare di cultura gli veniva da imbracciare il fucile, e dal suo personale punto di vista aveva ragione.
    io i fucili non li imbraccio, ma quando sento troppe maiuscole mi insospettisco un sacco.
    e vado a controllare il sonno dei miei figli.

  14. Atroce, sbagliata, inutile: questa è la guerra.
    Bene. Ti domando – condividiamo i natali – se avresti trovato “atroce, sbagliato, inutile” che altri italiani combattessero per riscattare Trieste da Tito, se le cose fossero state diverse dopo il 1953. Cosa avresti fatto, Gea?
    Saresti fuggita al di là della Giulia o saresti rimasta nella tua casa a difendere la tua terra dall’invasore? Il regime era a un passo. E che regime. Da Monfalcone i compagni accorrevano ad abbracciare il socialismo, Tito li internava nell’isola che sai.
    *
    Come avresti accolto soldati italiani, estranei a Trieste e alla triestinità – persone che non sanno che siamo composti del sì, del da, del ja, che l’Italia è una scelta elettiva e culturale: spirituale – che venivano a dare il sangue per restituirti all’Italia? Dicendo loro “no alle maiuscole”?
    *
    Quel ragazzo che nomini cade volontario in quale guerra? Perché nella Prima la gente moriva perché tu scrivessi in questa lingua. Evitando le maiuscole. Tu, ed io, che vengo da Trieste e da famiglia triestina, austriaca, istriana e croata – con tanto sangue diverso – e vivo, simbolicamente ma non troppo, a Roma.
    *
    Ave.

  15. Ciao a tutti. Intanto grazie per ospitarmi sul vostro blog. Spazi come questo sono davvero rari, come diceva Gianfranco, ed è un piacere vedere quante persone si appassionino a qualcosa che parte dai libri e che poi si dirama sui più vari aspetti della nostra cultura. Qualche risposta alle vostre sollecitazioni. I motivi per cui mi è venuto in mente di scrivere una storia ambientata il Libia sono sostanzialmente tre. Uno privato: i racconti di mio nonno che era stato mandato a combattere là, nel 1911. Uno letterario: spulciando un epistolario di due fratelli piemontesi (i Garrone) poi morti nella prima guerra mondiale, mi ero imbattuto nella storia dell’assedio di Tarhuna (1915) in cui era rimasto coinvolto uno di loro, fra i pochi sopravvissuti. Mi era parso uno spunto straordinario per scriverci un racconto o un romanzo: una guarnigione italiana assediata per un mese e mezzo in pieno deserto, fra erosimi, stupidità, meschinerie. Il terzo motivo ha a che fare con la Storia, o meglio con la percezione che abbiamo degli eventi da cui noi tutti volenti o nolenti discendiamo. Mi pareva (più di dieci anni fa, quando ho cominciato a pensare al libro) che in Italia non ci fosse stata una riflessione seria, fuori dai circuiti specialistici, sulla nostra esperienza coloniale. Si oscillava fra rifiuto a priori, considerandola espressione del fascismo (dimenticando che per la Libia l’impresa fu lanciata in pieno regime liberale, e anche una parte dei socialisti si schierarono a favore) e un reducismo nostalgico e superficiale che metteva in evidenza lo stereotipo degli italiani-brava-gente. Io ho cercato, nel mio piccolo, di raccontare una storia che fosse un romanzo, scrivendolo meglio che potevo, con personaggi e situazioni da romanzo, ambientandola in un contesto il più possibile realistico, proprio per dare una scrollatina a quella percezione troppo polarizzata e poco conosciuta di cui parlavo prima. E’ buffo che il cinema italiano abbia prodotto “La battaglia di Algeri” (Gillo Pontecorvo) ma non una “battaglia di Tripoli” o di Addis Abeba. La grande letteratura (americana, francese, inglese) fa continuamente i conti col proprio passato, interpretandolo con gli strumenti letterari della contemporaneità. Qua da noi, Paese con poca memoria, tutto ciò sembra “strano”.

  16. @Gea, per tutti i motivi che tu hai giustamente elencato ( E CHE CON LE MAIUSCOLE SOTTOSCRIVO) e per cui i libri di guerra non ti garbano, io, invece dico, che una letteratura critica sulla guerra non è mai abbastanza ricca. E ben vengano, periodicamente, libri, rivisitazioni e anche le rimozioni. Perché “la verità esiste in quanto tale soltanto se la si tormenta” Durrenmatt da La morte della Pizia.
    Prendi i primi capitoli di Viaggio al termine della notte di Celine: sono straordinari e intensi come quasi nient’altro. Poi sul resto delle pagine si può tranquillamente sorvolare. Ma quei capitoli contengono e riassumono il senso della guerra, di tutte le guerre: conti saldati per la rispettabilità degli sviluppi economici, e l’uomo di fronte a questo non è niente, solo un po’ di carne.
    Poi sul tema e per pari intensità c’è La condizione umana di André Malraux, il cui culmine narrativo esplode, nella descrizione di una condanna; la cronaca di una esecuzione di massa, dovere di barbarie e umanità (menscevichi contro bolscevichi). Recentemente, invece, ti segnalo alcune pagine di Asce di guerra dei Wu Ming e Vitaliano Ravagli ( due sole pagine, 282 e 283 , capitolo I sentieri dell’odio). E Tempo di uccidere, di Flaiano, che io proporrei a scuola come lettura obbligatoria, accompagnato anche da altri suoi scritti, forse meno noti e considerati leggeri, come “la guerra spiegata ai poveri”. Dal libro di Flaiano fu realizzato anche un bellissimo film, una produzione franco-italiana con un ottimo cast e con la regia di Giuliano Montaldo.
    Non so se leggerò per intero Ali di sabbia, di Valerio Aiolli, probabilmente sì, anche se, questo tipo di lettura contorce e disturba per giorni, proprio perché avvia riflessioni primordiali sulla condizione della specie e la sua brutale predisposizione al massacro. Consapevole però che “ scavare nel cuore oscuro di vicende dimenticate o mai raccontate è un oltraggio al presente. Un atto spregiudicato e volontario. Le storie non sono che asce di guerra da disseppellire” dal risvolto di copertina di Asce di guerra.

  17. @ Valerio Aiolli.
    Caro Valerio, intanto mi rivolgo a te. Benvenuto a Letteratitudine. Spero che questo dibattito possa svolgersi in maniera interessante. I presupposti, mi pare, ci sono tutti.
    Ti ringrazio per averci raccontato l’aneddoto sulle motivazioni che ti hanno spinto alla scrittura di questo libro. È una curiosità che mi appartiene molto, quella di conoscere i “percorsi” che portano uno scrittore a generare storie.

  18. E naturalmente grazie ai primi commenti giunti (Sergio, Elektra, Enrico, Silvia, Anna, Outworks, Gea e la sempre competente Miriam).
    Mi rendo conto che gli argomenti trattati da questo libro possono essere considerati, per certi versi, “difficili”. Forse anche perché, come ha sottolineato lo stesso Aiolli, non è mai stata fatta “una riflessione seria, fuori dai circuiti specialistici, sulla nostra esperienza coloniale”.
    Questa potrebbe essere un’occasione per “recuperare”.

  19. (Off topic)
    Scusate se ne approfitto; ma ci tenevo a farvi sapere che su “Il Riformista” di oggi è stato pubblicato un mio articolo dedicato proprio a Letteratitudine.
    L’articolo è incentrato sul gioco “Due libri da salvare”.
    Gli amici della redazione l’hanno intitolato: “I nostri antenati? I fratelli Karamazov”.
    Bello, vero?
    Lo trovate a pag. 5
    Ringrazio gli amici de “Il Riformista”
    http://www.ilriformista.it/

  20. Valerio, buonasera e ben ritrovato.
    E grazie, davvero, per questo tuo romanzo. Da lettore.

    Scrivi: “E’ buffo che il cinema italiano abbia prodotto “La battaglia di Algeri” (Gillo Pontecorvo) ma non una “battaglia di Tripoli” o di Addis Abeba. La grande letteratura (americana, francese, inglese) fa continuamente i conti col proprio passato, interpretandolo con gli strumenti letterari della contemporaneità. Qua da noi, Paese con poca memoria, tutto ciò sembra “strano”.”

    > Riesci a immaginare un regista italiano ideale per un film tratto da “Ali di sabbia”? Mi attendo due nomi in particolare.
    Ti domando – assieme – perché pensi proprio a quel (quei) regista (registi).

  21. Altra domanda per Valerio.

    Leggevo degli inneschi del romanzo.
    Quello letterario mi incuriosisce molto: “spulciando un epistolario di due fratelli piemontesi (i Garrone) poi morti nella prima guerra mondiale, mi ero imbattuto nella storia dell’assedio di Tarhuna (1915) in cui era rimasto coinvolto uno di loro, fra i pochi sopravvissuti. Mi era parso uno spunto straordinario per scriverci un racconto o un romanzo: una guarnigione italiana assediata per un mese e mezzo in pieno deserto, fra eroismi, stupidità, meschinerie.”

    > Si direbbe che i Tartari, infine, abbiano assediato la Fortezza Bastiani. E che un racconto dell’assedio esista. Come sei arrivato all’epistolario dei Garrone?

  22. Per tutti, questo passo tratto da “Tempo di uccidere” di Flaiano.
    *
    “C’è qualcosa di guasto in questo paese”, dissi.
    Pensavo al sottotenente, che anche lui “sapeva”.
    “È un impero contagioso”, aggiunsi e riuscii a sorridere.
    (“Tempo di uccidere”, Longanesi, Milano 1966. Capitolo IV, “Piaghe molto diverse”, p. 136)
    *

  23. il cugino ugo è medaglia d’oro (alla memoria, ovviamente) nella prima guerra mondiale, che fu guerra di rivendicazione territoriale in una situazione nella quale non era minimamente messa in pericolo l’identità culturale italiana, la quale fioriva tranquillamente nei seicento anni di appartenenza all’impero.
    sulle guerre coloniali poi non ho niente da aggiungere.
    altro, e più complesso, è il discorso sulle resistenze ad invasioni.
    io non lo so cosa avrei fatto. i tedeschi probabilmente li avrei combattuti, forse persino con le armi.
    quello che so è che l’occupazione slava, per molti versi feroce, nacque come reazione alle atrocità commesse anche da italiani in slovenia e croazia, e al trattamento indegno delle minoranze etnolinguistiche durante il fascismo.
    e che la violenza genera violenza, e che in qualche modo partecipandovi anche per motivi che si ritengono giusti, ci si rende complici e servi.
    @miriam
    flaiano è un’altra cosa.
    e anche rigoni stern, e levi, e..

  24. Il discorso è complesso. Nessuno nega le atrocità commesse dagli italiani nei confronti delle popolazioni slovene e croate: né l’italianizzazione coatta nell’entroterra. D’altra parte, non chiamo “Croazia” l’Istria Costiera né certe città della Dalmazia. Non riesco a dimenticare chi abitava Zara e Fiume, da sempre, e chi abitava Pola, e non ha più niente. Né case, né terra, né tombe. Non solo hanno cancellato la storia, ma hanno rubato le case e cambiato nomi alle terre. Adesso è tardi, ma non si dimentica l’oltraggio e non si perdona l’ingiustizia. Ne convieni?
    Quale altro Stato europeo ha pagato un prezzo così alto?
    *
    Non dimentico Gonars, ma non credo possa giustificare Pola.
    Né quel che ne è derivato. Esodo totale della popolazione. Città fantasma consegnata agli jugoslavi nuovi padroni. Sbaglio o è un unicum nella storia del Novecento?
    *
    Ciò detto, avresti combattuto i tedeschi e non gli jugoslavi, mi sembra di capire. Mi hai già risposto. Io – vedi – avrei combattuto entrambi, sognando un ritorno all’amministrazione che fu, non avallando una consegna di Trieste al nemico.
    Dimenticavo. Parli di “identità culturale italiana” che fioriva tranquillamente nei 600 anni di appartenza agli Asburgo. Hai mai letto Magris quando racconta che Slataper fonda una tradizione altrimenti inesistente? Altro è il discorso sul benessere della città. Quello mi sembra sia stato grande sino a quando non è arrivato il tricolore.
    *
    (credo si vada fuori tema, se vuoi parlarne ancora ti lascio l’indirizzo email. Concentriamoci sulla Libia e su Aiolli)

    (grazie per il confronto)

  25. giusto per chiarire, poi chiudo.
    non ho detto che non avrei combattuto. ho detto che non lo so. sono nata (pochi) anni dopo.
    probabilmente sì, ma non con le armi, credo.
    grazie a te.

  26. @Gea, ho capito benissimo cosa intendi! E aggiungo che contro i nazisti avrei sicuramente “sparato”, senza esitazione alcuna e forse anche contro le brigate di Tito. Non sono una pacifista a priori, penso che sia impossibile, a volte, non imbracciare le armi. Detto questo però, vorrei che di guerra si parlasse nel modo meno retorico possibile; e la letteratura aiuta offrendo una storia alle riflessioni più diverse. Si deve sapere che la guerra è il rimedio ultimo, che non può essere né preventiva, né umanitaria, né giusta, anche quando ci si è obbligati, costretti. Altrimenti è facile e possibile, per tutti i popoli, esserne travolti come in Jugoslavia; oppure diventare complici senzienti come tutti i governi europei nei confronti della Jugoslavia. Del male dell’uomo che uccide ubbidendo agli ordini, dell’uomo che diventa divisa, corpo ordinato e predisposto, bisogna parlarne sempre. (forse avremo meno donne desiderose di sperimentare la propria emancipazione diventando soldati)
    Ciao, a rileggerti

  27. A proposito di guerre “di civiltà”, vorrei consigliare un libro di Fabrizio Del Boca, “Italiani brava gente” che con grande acume storiografico analizza quel drammatico, e purtroppo mai messo a nudo dai libri di scuola, periodo storico in cui l’italietta fresca di indipendenza e unità nazionale voleva farsi potenza e, con patetica mania di grandezza, porsi alla pari delle potenze europee di quel tempo. I libri di storia sui quali studiavo alle elementari alle medie ed al liceo parlavano di un’Italia che portava civiltà in Etiopia Somalia Libia, di uomini d’onore, di eroi e fautori dell’Impero, nascondendo la verità: le atrocità commesse in Etiopia, le tremende vendette dell’esercito italiano, in seguito a vergognose sconfitte, su inermi villaggi, l’uso bieco di gas tossici, i campi di concentramento per i prigionieri in Libia… Sì, io concordo con chi dice che l’Italia non ha fatto e non ha mai avuto intenzione di fare i conti col proprio passato, forse perchè esso oltrechè orrendo è anche ridicolo e di poco spessore, molta vergogna in cambio di poca (o nessuna) grandezza insomma.
    E, leggendo il libro di Del Boca, si capisce che il fascismo in Italia non è stato un caso, e che è il frutto di una mentalità radicata già nella seconda metà dell’Ottocento, la mentalità dell’Italietta nata da poco e che vuole fare la voce grossa, vuole farsi Francia Impero Britannico, di un’Italia che sogna colonie, popoli asserviti, tricolori piantati in mezzo mondo, e che si sveglia invece mediocre, violenta, spietata e.. fascista.
    Ho spesso vergogna quando a Roma leggo i nomi di certe vie, viale Somalia vialle Etiopia, via Amba Aradam etc etc.. Come se a Berlino ci fosse una via Auschwitz. E credo nell’urgenza di una riforma della toponomastica: mai più nomi di strade che ricordano guerre, sorprusi, atrocità.

  28. @Giovanni,
    bella proposta: mai più nomi di strade che ricordano guerre, sorprusi, atrocità ! Bella idea, veramente.
    Uno slogan per piccoli adesivi da appiccicare agli incroci, sui pali dei semafori, sulle panchine….

  29. La Storia e’ la Storia: Italiani, Inglesi, Spagnoli, Portoghesi, Tedeschi, Francesi… tutti noi europei abbiamo alle spalle un passato di dittature, monarchie e colonizzazioni. Ingiuste e da mai piu’ ripetere, ovviamente.
    L’identita’ culturale italiana secondo me dovrebbe dunque fondarsi sui tanti, troppi secoli precedenti, nei quali invece eravamo i colonizzati. L’Ottocento e la prima meta’ del Novecento sono vergognosi pero’ per TUTTI gli europei, e per molti lo dovrebbero essere ben piu’ che per noi italiani. In fondo una netta condanna del colonialismo e’ rappresentata gia’ dalla Costituzione, che ci vieta di condurre guerre d’aggressione. Basta rispettarla ed intervenire solo in difesa di altri Popoli aggrediti, eventualmente, e con il contagocce. Ed e’ quel che facciamo – con la malaugurata eccezione dell’Iraq.
    Il nucleo del problema italiano, oggi, mi pare fondato su una debolezza d’ordine culturale: le divisioni interne laceranti esistono per una graduale collettiva dimenticanza dei capolavori artistico-letterari che esprimono ed indicano la nostra natura reale e profonda. La Divina Commedia in primis. Petrarca in primis, anche. Li’ stanno le nostre caratteristiche condivise, ma molti non lo sanno, perche’ non sanno che ogni popolo antico si fonda sulle opere dei grandi poeti. E su poco d’altro, in fondo.

  30. P.S.
    Su Trieste italiana non si discute. Altrimenti dovremmo parlare anche di Istria, Carnaro e Dalmazia. Meglio lasciare le cose come stanno. Colorose ma migliori rispetto agli anni fino al 1954.

  31. Sergio, dolorose e sicuramente diverse. Senza dubbio peggiori.
    Città intere svuotate dopo tanti secoli, e popolate da altri popoli. Il contado che viene ad affacciarsi sul mare, spacciando cittadine storicamente italiane (vogliamo dire venete? diciamo venete…) per casa loro. Una città come Zara rasa al suolo dagli inglesi per accontentare Tito, e fare fuori l’ultima forte presenza italiana in Dalmazia. Storicamente a maggioranza assoluta.
    Tutto questo in nome di cosa? Di una nazione nata morta, la Yugoslavia. Falsa, inesistente, composta da tante etnie. Socialista e omicida. Punto.
    Adesso non c’è più. Come era prevedibile… ci sono tante altre nazioni. Hanno distrutto la storia. Ne inventano una nuova.
    Ogni volta che leggo Bettiza parlare della Dalmazia mi si stringe il cuore. Perché è come l’ultimo parlante veglioto, quell’Antonio Udina caro ai filologi. Parla di qualcosa che non interessa più a nessuno. Che nessuno vuole più sentirsi dire. Nessuno piange quei morti, nessuno ricorda quella storia. Senti gli italiani parlare di vacanze in “Croazia” quando vanno magari a Umago, in Istria, o nelle isole dalmate che sin dall’etimo si rivelano Romane. Ma dico io… “Zadar” non è Zara. “Rijeka” non è Fiume. Rijeka è quegli stucchevoli e orrendi palazzi comunisti che guardano lo splendore della città perduta dall’alto. Rijeka è la negazione di secoli di storia. E’ una menzogna che cambierà ancora bandiera. Perché ormai è tardi. E’ veramente tardi.
    *
    Ma se è tardi per tornare in case che abbiamo consegnato a chi era armato di falce e martello, e con quell’arma ha ucciso la storia, non è tardi per studiare la nostra storia.
    E per mettere ordine nella storia del Novecento. E per contestualizzare ogni evento. E per smettere di vergognarsi di un passato che è – piaccia o no – di tutti, e che non va rimosso, ma studiato e interiorizzato.
    Senza pestilenziali ideologie a sostegno. Le ideologie annientano l’intelligenza, servono solo alla propaganda.
    *
    (parliamo del libro.)

  32. Ecco perché può faticare un libro come questo.

    Aiolli scrive: “Si oscillava fra rifiuto a priori, considerandola espressione del fascismo (dimenticando che per la Libia l’impresa fu lanciata in pieno regime liberale, e anche una parte dei socialisti si schierarono a favore) e un reducismo nostalgico e superficiale che metteva in evidenza lo stereotipo degli italiani-brava-gente. Io ho cercato, nel mio piccolo, di raccontare una storia che fosse un romanzo, scrivendolo meglio che potevo, con personaggi e situazioni da romanzo, ambientandola in un contesto il più possibile realistico, proprio per dare una scrollatina a quella percezione troppo polarizzata e poco conosciuta di cui parlavo prima”

    > Quanti sanno – quanti ricordano… – che l’impresa libica fu lanciata in pieno regime liberale, col sostegno di parte dei socialisti? Vogliamo domandarci che senso aveva in quel momento? Vogliamo domandarci cosa significa questa cosa? Vogliamo provare a contestualizzare?
    Riusciamo a guardare quel momento storico con lo sguardo di chi viveva quel momento storico?
    Vogliamo darla questa “scrollatina alla percezione troppo polarizzata e poco conosciuta” di cui certi interventi stanno dando involontaria testimonianza?
    Coraggio. E’ solo questione di coraggio. Coraggio.

  33. Volevo dire che il dolore nostro attuale per la perdita di territori a maggioranza italiana – quelli che hai citato, Franco, concordo – io questo dolore lo considero inferiore a quello che avemmo in quei territori e in tutta la Patria dal ’46 al ’54. Dolore che io da uomo-italiano condivido con dalmati, istriani e carnerini italiani e che come solo-uomo condivido con sloveni occupati dagli italiani (la Provincia di Lubiana: 1941-’43) e altre vittime del nazifascismo. Il mio dolore e’ doppio, perche’ due sono i Popoli che si sono occupati a vicenda (i famigerati trenta giorni di Trieste iugoslava e i tre anni appena citati della Slovenia italo-tedesca, ma soprattutto italiana, che Lubiana era sottoposta al comando delle nostre truppe).
    Dobbiamo iniziare a vedere il dolore di tutte le parti in gioco. E lasciare le cose come stanno. Il tempo guarira’ le nostre ferite, se eviteremo di praticarcene a vicenda altre.

  34. Io da italiano mi vergogno dell’occupazione libica, del Dodecaneso, dell’Africa Orientale Italiana. Sono orgoglioso invece della mia Nazionalita’ perche’ l’Italia e’ il Medioevo e l’antichita’ greco-romana, e anche quella italica. Il presente non esiste. Il futuro esistera’ se capiremo di non esistere oggi.

  35. Appunto nominavo Gonars. Ma vedi, amico mio, qui s’è risposto alle violenze con la cancellazione della storia. Con lo sradicamento di 300mila esseri umani, nostri concittadini. Con la distruzione delle città. Immotivata.
    Zara vale Dresda. Con lo svuotamento di altre. Con la cancellazione della storia. E io – come quelli che discendono da chi popolava Istria, Fiume e Dalmazia, non dimentico e non mi arrendo.
    *
    Tornando alla Libia.
    Proviamo a documentarci via web.
    Segnalo:
    http://it.wikipedia.org/wiki/Libia Wikipedia sulla Storia della Libia, dove apertamente si legge: “Il Governo italiano, nello spirito di cancellazione del passato nato dal Comunicato Congiunto (vedi sopra), chiese…”
    *
    http://www.airl.it/ – Associazione Italiana Rimpatriati dalla Libia.

  36. Italiani, americani, russi, cinesi, pakistani etc….
    I problemi sono sempre gli stessi: interessi economici e integralismo.
    Nessuno difende “per”, ma tutti quanti difendono “contro”.
    Sarebbe auspicabile che ogni nazione fosse orgolgiosa di quel che è difendendo patrimoni culturali “per” condividerli con altre nazioni.
    Purtroppo la difesa è conservare e preservare difendendola “contro” gli altri. Quindi una difesa “ad escludendum”. Tener fuori gli altri da quello che invece potrebbe essere comunemente goduto.
    Purtroppo c’è scarsa propensione allo scambio culturale. Sovente, semmai, la conoscenza di uno scrittore straniero (per esempio) ci viene “imposta” più che consigliata.
    E comuque, ogni nazione è molto orgogliosa della propria cultura purché gli altri non se ne approprino.
    Se lo fanno scoppiano le polemiche.
    Se l’oggetto del contendere non è la cultura ma gli interessi economici allora, al posto delle polemiche, scoppiano le guerre.
    Siccome la condivisione non garba a nessuno allora la si taccia di utopia, tanto per far sentire in difetto chi la caldeggia.
    Si fa prima a spararsi, dunque. E’ più comodo. E in televisione ci si va di più.

  37. @ miriam:
    il nazismo (et similia) sono degenerazioni dello statalismo. alla base delle dittature (tutte quante a occhio) c’è la precedente disgregazione economica e sociale di un paese. terreno fertile, dunque, per chi promette che lo Stato risorgerà florido e autonomo in poco tempo.
    La Germania e l’Italia, prima dell’avvento del nazismo e del fascismo, erano (come suol dirsi) con le pezze al culo.
    In Italia, nonostante “overdose” di Giovanni Giolitti, non ci risollevava più dalla depresione post ’15-’18 nonostante (per quel che vale) quella guerra fosse stata vinta.
    Mussolini e compagnia cantante vennero accolti come una speranza, una benedizione. Probabilmente, senza degenerazioni, la politica statalista e di grande intervento sul sociale avrebbe potuto funzionare. Ma a conti fatti, visto che “il sogno italiano” durò pochissimo, si passò dalla padella alla brace in un batter d’ali.

  38. @ massimo:
    ma un post su qualche libro sul quale si cazzeggia e basta quando arriverà? dai sforzati, il mondo è pieno di Vito Ferro ed Enrico Gregori, ti pare che non trovi due cacate per farci quattro risate prima di Natale?
    🙂

  39. @ gea:
    che cazzo ci fai tu a Trieste? lì è impossibile persino accendersi una sigaretta all’aria aperta. con quella merda di bora vola sigaretta, accendino e te medesima. hai mai provato ad accendere una sigaretta a piazza di Spagna? bè, sbrigati
    🙂

  40. Mi pare che il dibattito si stia svolgendo in maniera interessante.
    Vi ringrazio molto.

    @ Valerio Aiolli:
    se tra i commenti qui sopra trovi spunti interessanti (con i quali sei d’accordo o in disaccordo) ti invito caldamente a intervenire.

  41. L’analisi di Enrico e’ giusta, corretta e chiara. Manca solo un particolare: le guerre e le occupazioni feriscono tutti, i guerreggianti mentre appunto guerreggiano, gli occupanti quando vengono cacciati e poi magari anche conquistati dagli occupati di prima (o viceversa, e’ uguale) e naturalmente gli occupati stessi prima che divengano i vincitori dei loro occupanti.
    La guerra e’ un gioco al massacro. Mai muoverla a chicchessia. Meglio fare la fame o trovare altri metodi per risolvere i problemi interni delle Nazioni: maggiore equita’ nella distribuzione dei redditi, diminuzione delle esigenze dei cittadini, strategie economiche tese a diminuire le tensioni interne. Comunque, con una guerra, il Paese che la scateni innesta una nemesi storica della quale si liberera’ con molta difficolta’ e dopo secoli. A meno che non riesca a replicare l’Impero Romano… cosa alquanto surreale.
    La guerra e’ pazzia come la violenza. La condivisione internazionale e’ una medicina da usare con attenzione e un pizzico di diffidenza verso gli stranieri. Ma e’ il male minore. Condividere e’ l’unica via per non morire.

  42. @ Valerio Aiolli:
    Enrico Gregori è il responsabile della cronaca nera del Messaggero. Ne ha viste e ne vede tante di cose non particolarmente “belle”. Per cui non può rimanere serio troppo a lungo.
    E poi è anche un bravo autore (italiano) di thriller (americani).
    😉

    @ Enrico:
    prometto che durante le vacanze di Natale vi fornirò occasioni di sani divertimenti.
    😉

  43. Piccola osservazione sullo statalismo: ma dove e’ mai esistito, in Italia? In Italia lo Stato non ha mai aiutato a risolvere i problemi dei cittadini. Ora meno che mai. Vogliamo confrontare lo Stato Sociale nostro con quello degli altri Paesi europei? Impossibile: mondi diversi. Da secoli. Sottosviluppo interno, e’, il nostro. Ce lo dovremmo risolvere da soli e fra noi Italiani, mica andando a colonizzare.

  44. @ Gianfranco Franchi e Valerio Aiolli:
    Mi piacerebbe che si parlasse un po’ anche dei personaggi di questo libro. E dei protagonisti. Insomma, l’aspetto “umano” del libro. Non solo quello storico/sociale.
    I personaggi principali sono Cesare Balbo e Settimio.
    Valerio, su cosa ti sei basato per caratterizzarli (oltre che sull’epistolario dei fratelli Garrone?).

  45. @ Valerio Aiolli:
    Sul “Corriere della Sera” del 28 ottobre Ermanno Paccagnini si esprime in termini lusinghieri su questo tuo libro; però – a un certo punto – sostiene che sei riuscito “meglio nella resa del privato” rispetto al “pubblico”.
    Ritieni che possa avere un po’ di ragione?

  46. @ Valerio Aiolli:
    Su Tuttolibri de “La Stampa” del 17 novembre, Sergio Pent ti accosta “al Pratolini di Cronaca familiare o Un eroe del nostro tempo, con quel minimalismo ante litteram che difendeva e sponsorizzava i valori della borghesia”.
    Ti ci ritrovi in questo accostamento?
    Ti piace?

  47. Enrico,
    dal 1954 Trieste e’ tornata a far parte della Madrepatria. Non e’ la felicita’ ma e’ almeno il ritorno a casa. Con tutti i dispiaceri che ne conseguono. Ma a casa propria e con la propria famiglia. Cio’ non toglie che una bella scusa anche noi italiani la dovremmo ufficialmente chiedere alle autorita’ slovene, prima o poi, per via della nostra occupazione della Slovenia nel periodo 1941-’43.
    La questione dei trecentomila italiani che lasciarono Istria Dalmazia e Carnaro, invece, purtroppo e’ piu’ complicata da risolvere per vie diplomatiche trilaterali. Resta la tutela della nostra attuale minoranza in Croazia e Slovenia (circa trentamila anime) da migliorare e perseguire. Comunque non stanno malissimo, i nostri connazionali, con il bilinguismo che invece viene negato a Trieste alla minoranza slovena.
    Poi non dimentichiamoci la partecipazione attiva delle diverse Nazioni slave alla lotta antifascista. Un merito che va riconosciuto, nonostante la persecuzione degli Italiani di quelle zone. In fondo la guerra l’avevamo provocata noi e i Tedeschi, mica gli slavi, no? Qualche colpa l’avremo pure.

  48. Volevo dire che il dolore nostro attuale per la perdita di territori a maggioranza italiana – quelli che hai citato, Franco, concordo – io questo dolore lo considero inferiore a quello che avemmo in quei territori e in tutta la Patria dal ‘46 al ‘54. Dolore che io da uomo-italiano condivido con dalmati, istriani e carnerini italiani e che come solo-uomo condivido con sloveni occupati dagli italiani (la Provincia di Lubiana: 1941-’43) e altre vittime del nazifascismo. Il mio dolore e’ doppio, perche’ due sono i Popoli che si sono occupati a vicenda (i famigerati trenta giorni di Trieste iugoslava e i tre anni appena citati della Slovenia italo-tedesca, ma soprattutto italiana, che Lubiana era sottoposta al comando delle nostre truppe).
    Dobbiamo iniziare a vedere il dolore di tutte le parti in gioco. E lasciare le cose come stanno. Il tempo guarira’ le nostre ferite, se eviteremo di praticarcene a vicenda altre.
    Ma ora hai ragione, Franco. Parliamo del libro e della Libia. Il libro mi sembra interessante e documentato, ma non l’ho letto integralmente. Dunque parlero’ piuttosto della Libia. Un Paese che stette quasi mezzo millennio (fino a meta Cinquecento) sotto ai Normanni di Sicilia e che poi venne occupato con guerra d’aggressione da noi (governo liberale di Giolitti) nel 1911. Fine occupazione per via della sconfitta con gli Inglesi nel 1943. Potevamo forse vantare qualche pretesa culturale, etnica o economica sulla Libia, noi, nel 1911? Nessuna, ovviamente. Nessuna. Fu una guerra coloniale pura e semplice, che ancora non abbiamo risarcito in alcun modo – e dovremmo averlo fatto da decenni.
    Pertanto, io, da Italiano, mi vergogno dell’occupazione libica (Tripolitania e Cirenaica), di quella del Dodecaneso, dell’occupazione dell’Africa Orientale Italiana.
    Sono orgoglioso invece della mia Nazionalita’ perche’ l’Italia e’ il Medioevo e l’antichita’ greco-romana, e anche quella precedente – quella italica. Perche’ non rompiamo piu’ le scatole a nessuno nel mondo, anzi esportiamo pacificamente cultura (anche libri). Infatti, l’Ottocento e il Novecento sono il ”presente” – altro che nuovo millennio! – e il presente pero’ purtroppo non esiste, per la coscienza italiana e per me personalmente. Il futuro forse esistera’ se capiremo di non esistere oggi e andremo a cogliere l’Antichita’ e il Medioevo che sono in noi. Eterni.

  49. Ottimo Sergio, Ottimo Massimo, Ottimi tutti,

    io vorrei aspettare le risposte dell’artista alle varie domande che abbiamo posto, prima di riavviare il secondo binario del dibattito.
    Abbiamo la fortuna di averlo tra noi, ascoltiamolo…
    quando ci ricapita? Ascoltiamo…
    Intanto, vi ringrazio molto per il leale e fertile confronto.

    ****

    E ora, pardon, vado totalmente OT. Pardon. Canzone in mente da due ore e mezza. Mannaggia. http://it.youtube.com/watch?v=wLyLk7Q4JFs

  50. Caro Massimo,
    Cari tutti
    sulla letteratura di guerra vorrei segnalarvi “Suite francese” della scrittrice ebrea Irène Nemirovksy, morta tragicamente in un campo di sterminio nazista.
    Nei mesi che precedettero la deportazione scrisse febbrilmente il suo romanzo, accovacciata a terra in attesa dell’allarme, tra le coperte dei rifugi dove aspettava l’alba, acquattata sotto cespugliame gelido per nascondersi agli occhi dei persecutori.
    Ecco. Noi non siamo – grazie a Dio – figli della guerra. E i racconti dei nonni ci sembrano quasi favole lontane, mai accadute.
    Eppure.
    Leggendo queste pagine la precarietà degli ultimi istanti, le tempie che pulsano di paura, il nascondersi febbrile come animale che non voglia essere stanato, ti assalgono.
    E allora pensi che ci sono altre realtà – non lontano da qui – in cui tutto questo ancora accade.In cui l’attualità di quelle pagine rubate alla morte serpeggia tra mine anti uomo e fiaccole che accendono le notti.
    Un libro sulla guerra è ancora attualissimo.
    Questo che tu ci proponi, Massimo, è intensissimo, abbagliante.
    Lo leggerò sicuramente.
    @ Valerio Aiolii: il titolo è bellissimo. Fa pensare a un uccello strano che solleva polveroni aridi. Come ti è venuto? Complimenti!
    @letteratitudine: Auguri a tutti di un felicissimo Natale!!!

  51. Gianfranco, hai ragione, aspettiamo le risposte alle domande già fatte.
    Ma se posso, per quando Valerio avrà risposto a tutti, ne ho una da fargli.
    Vorrei sapere quale personaggio del suo libro sente più affine a se stesso e perchè.

    @ sergio
    “La guerra e’ pazzia come la violenza” e “Condividere e’ l’unica via per non morire.”
    Mi sei piaciuto!

  52. Carissimi,
    non ho letto niente e chiedo scusa, ho zompettato tra le righe, sono ansioso di leggere, quantomeno, lo stralcio di Valerio Aiolli; non bisogna lacsiare nessuna fessura scoperta nella storia e “La Libia” è un pezzo di “crepa” importante nel muro storico italiano.
    Sono interessato, anche perchè anch’io sto scrivendo qualcosa che riguarda una guerra recente, ma questo si svelerà nel 2008.
    Interessante quando Gregori è interessante, ma ha ragione lui, noi del ’54…
    Scopro tanti frontalieri,
    altri triestini su un blog italo-siculo-partenopeo-e-parte-no! A loro dedico queste parole che ho inviato di buon mattino all’emigrante che tutti vorrebbero accogliere nella propria terra: Sergio sozi.
    Il privato per me è sempre stato pubblico:

    Carissimo Sergio,
    oggi crolla la frontiera jugoslava.
    Auguri, cade il ‘900, crollano le barriere che hanno diviso le genti con artificio, Guelfi e Ghibellini, Capuleti e Montecchi, rossi e neri. Per i popoli non sono mai esistite; per la politica che ha sempre messo le genti in bilancia, vendendo le culture come insalata al mercato, si. Ricordo, nei miei 13 mesi a Cervignano del Friuli, quella serena convivenza trinciata dai muri, gli amori misti e noi soldati del sud meravigliati da quello shaker di anime quando in borghese si passava clandestinamente per comprar sigarette e sentire l’odore dell’est. Continueremo ad essere Furlàn, Slavi, Siculi, Partenopei: le culture si difendono da sole, non c’è bisogno di barriere.

  53. State ancora dormendo pelandroni, bene!
    Dimenticavo, mio nonno andò in Spagna nel ’36 a combattere per Franco, aveva bisogno di soldi, forse era pure un po’ fascista. Torno con il sangue “negli occhi” (raccontava mia nonna), si iscrisse al Partito Socialista e bevve tanto di quell’olio di ricino da non riprendere più peso.
    La guerra è anche questo, scontro di passioni, catartiche avventure, sentimenti aggrovigliati come reti sulla spiaggia di Procida: è schifosamente letteraria!

  54. Grazie, Silvia,
    naturalmente la mia ”condivisione” non significa perdita dell’appartenenza e dell’identita’. Condividere umanamente per me vuol dire restare se stessi e aggiungere altro, non perdere quel che si e’. Cosi’ si cresce e non ci si estranea.
    Tuo
    Sergio

  55. Eccomi! Provo a dare un po’ di risposte singole, altrimento temo di incartarmi.
    @ Silvia: in effetti non ero un appassionato della storia del volo, ma mi sono imbattuto in alcune ricerche che un po’ la raccontavano, ancora prima di iniziare a lavorare al libro, e mi sono appassionato: c’era una carrellata micidiale di fallimenti che punteggiava tutto l’Ottocento, persone sparse per il mondo che avevano dato fondo a tutte le proprie energie e spesso ci avevano rimesso le penne. Insomma mi intrigava il modo in cui si era arrivati a questa invenzione così a tutt’oggi per me incredibile delle macchine volanti: un “individualismo collettivo” geniale e allo stesso tempo goffo, a volte cialtrone. E poi tutto sparito, tutti dimenticati nel momento in cui i fratelli Wright ce la fecero davvero. Il mio tenente “perso” in Libia sogna, pensa con una specie di ironica tenerezza a questi uomini liberi e coraggiosi mentre è in qualche modo prigioniero delle atrocità della guerra a cui sta partecipando. Anche lui forse vorrebbe volare via, ma non può.

  56. Grazie per la tua risposta Valerio. Quella di volare via è una sensazione molto comune, credo che chiunque l’abbia provata in particolari momenti della propria esistenza, proprio come il tuo tenente. Ed è un sentire affascinante -anche solo a immaginarlo- quell’ipotetico volo al di fuori di noi.

  57. @ Gianfranco: per il regista avrei una rosa di nomi. Giuseppe Tornatore e Bernardo Bertolucci perché nonostante il continuo rischio di cadere nel kitsch, sono fra i pochi in grado di filmare situazioni epiche. Gianni Amelio perché riesce meglio di altri a collocare i personaggi all’interno di un paesaggio. Saverio Costanzo perché mi è molto piaciuto come nel suo primo film (“Private”) rendeva il contrasto tra ambiente militare e vita civile. Matteo Garrone per come riesce a rendere quotidiane le situazioni estreme. Se hai altri suggerimenti…

  58. @ Massimo (1/3): l’epistolario dei fratelli Garrone è un libro Garzanti pubblicato negli anni ’70, ormai fuori catalogo, che trovai nel 1995 o giù di lì in un negozio di libri a metà prezzo. A parte la storia di Tarhuna – che è narrata quasi di straforo, come documento di cronaca a fini di documentazione militare – emerge da tutte le loro lettere lo spirito di quella generazione di italiani (i figli della buona borghesia) che aderirono coscientemente alla Grande Guerra per l’ideale della Patria. Odio anch’io le maiuscole, trovo che il concetto di Patria in un mondo sempre più globalizzato andrebbe ridiscusso, ma non posso nascondermi che quei sentimenti sono esistiti, ce li avevano i nostri nonni, e che conoscerli dall’interno (leggendoli o raccontandoli) possa essere utile a comprendere meglio il cammino che stiamo facendo giorno per giorno. Fermo restando che la stragrande maggioranza dei nostri soldati furono contadini mandati al macello, e che non c’è motivazione che tenga per giustificare obbrobri di questo tipo.

  59. @ Massimo (2/3): quando mi chiedi su che cosa mi sono basato per caratterizzare i personaggi, immagino tu ti riferisca in particolare a Italo Balbo. Be’ ovviamente ho letto le più importanti biografie scritte su di lui. Il problema in questi casi – e vale anche per tutto ciò che si legge nel corso delle ricerche – è che a un certo punto devi dimenticare ciò che hai letto e partire con l’invenzione, con l’immaginazione. Altrimenti finisci per scrivere un altro saggio travestito da romanzo. A me ha aiutato in questo senso la lunga gestazione del libro, o meglio forse ho avuto una lunga gestazione proprio al fine di superare quel problema. Fatto sta che l’immaginazione si è messa in moto piano piano e a un certo punto si è confusa con la memoria di ciò che avevo letto. Alla fine magari ho fatto dei riscontri per evitare gli anacronismi più evidenti, ma mentre scrivevo avevo questa necessità di essere libero dai lacci della Storia. Per me poi immaginazione e memoria sono due facce della stessa medaglia, e a volte non so bene quale faccia sto guardando. Credo che il processo di formazione e rivisitazione dei ricordi (anche dei ricordi di ciò che abbiamo letto) abbia molto a che fare con le nostre capacità immaginative. Il mio primo libro (“Io e mio fratello”) è fondato su una base di ricordi della primissima infanzia su cui sono fioriti episodi di pura invenzione: a volte ho l’impressione che siano più veri i secondi dei primi, e comunque non mi è ormai facilissimo distinguerli gli uni dagli altri. Per concludere: mentre scrivevo “sentivo” Balbo e gli altri personaggi con quella intensità che serve per poter scrivere (poi sui risultati ciascuno avrà i suoi gusti…)

  60. @ Massimo (3/3): le recensioni. Su Paccagnini (meglio la resa delle parti private rispetto a quelle pubbliche) sinceramente non sono d’accordo. Penso che il libro abbia diversi stili al suo interno, per cui magari si presta ad analisi del tipo “questa parte sì, quast’altra no”, un po’ come accade quasi sempre per i libri di racconti: rarissimo che ci piacciano proprio tutti i racconti di una raccolta. Ma a chi li ha scritti ovviamente sì, altrimenti non li avrebbe inseriti. Paccagnini poi mi aveva già un po’ catalogato così (autore particolarmente dotato per gli “interni”) in una recensione a un mio precedente libro (“Luce profuga”) e si sa che i critici sono affezionati alle loro etichette… (Preciso com’è, mi ha sorpreso che un lapzus gli abbia fatto confondere Italo con Cesare Balbo, uomo dell’Ottocento, refuso disgraziatamente riportato anche nel titolo del pezzo.)
    Quanto a Pent: mah, non so che dire. Amo molto Pratolini per la capacità di entrare sottopelle ai suoi personaggi senza apparenti artifici letterari, ma non mi sento un difensore né tanto meno uno sponsor di alcunché. La piccola borghesia dei tempi di Pratolini, lo dice anche Pent, non esiste più. In “Ali di sabbia” forse l’ho resuscitata (il personaggio di Lucia) ma non per cantarne le lodi, piuttosto per metterne in evidenza le ambiguità, le rimozioni. Quindi sono onorato dal paragone, ma non lo trovo del tutto pertinente.

  61. @ Sergio: pur essendo d’accordo che dobbiamo in qualche modo emendarci per il nostro passato coloniale, non riesco a dar torto a Giorgio Bocca (sul cui antifascismo e anticolonialismo non si può discutere) quando qualche settimana fa sul Venerdì di Repubblica ha scritto che se dovessimo pretendere che ogni Stato riparasse ai “torti” (eufemismo) che ha prodotto decenni o secoli prima (in condizioni sociopolitiche del tutto differenti) ad altri Stati, non ne usciremmo più. La Storia è fatta di nefandezze che dobbiamo sforzarci di denunciare ed evitare, ma pagare i danni di guerra e di occupazione alla Libia – diceva Bocca – è solo un atto politico: ci conviene farlo per motivi geo-energetici e lo facciamo, va bene così. Nulla più. Altrimenti perché non chiedere i danni all’Austria per l’occupazione del Lombardo-Veneto? E’ dura real-politik, purtroppo, ma temo abbia ragione.

  62. @Valerio Aiolli: complimenti!
    Confesso che ho avuto un attimo di paura prima d’inerpicarmi sulle tue parole. Oggi sembra che tutti debbano parteggiare, da un lato e dall’altro della storia o/e della politica. Sei riuscito a volare sulla storia in modo lieve. Al momento della fine dell’estratto mi sono sentito come se si fossero accese le luci in sala. La storia, comunque, la considero solo un pretesto, per raccontare storie; come quei nonni davanti alle cantine che ci mandavano ragazzini a comprare “le nazionali” e poi, per regalo ci raccontavano una storia, quasi sempre di guerra e di amori andati.
    A volte anche dei piccoli cantanti raccontano storie,
    io ti allego questo “stralcio” di storia, non è mio, ma come dice Massimo (Troisi) parafrasando Skarmeta/Neruda: “La poesia non è di chi la scrive, ma di chi la usa!”

    “Io sono un uomo/ tutti mi chiamano Joe Il Temerario/
    faccio mille acrobazie col mio aeroplano
    e diecimila volte ho già toccato il cielo
    perchè come un falco io
    arrivo a tremila metri e poi mi butto giù in picchiata
    Ma che emozione ogni volta sfidare la vita
    rotolando nel cielo sopra il mio aeroplano
    Ma ogni sera resto solo, come stasera sono solo
    cosa dici andiamo al cinema/ magari a fare un volo
    ma perchè non sorridi?
    presto dammi un bacio, presto dammi un bacio.”

    Ron – Joe Il Temerario

  63. @ Simona: grazie per il giudizio sul titolo! Come mi è venuto… non lo so! Quando il romanzo (che avevo cominciato a scrivere dalla “sabbia”) ha trovato un contrappeso nella storia del volo e nell’ultimo volo di Balbo, sono spuntate le “ali”… Tutto qui!

  64. Come il nonno di Francesco, anche il mio fumava le Nazionali e mi mandava a comprarle.
    Al ritorno mi doveva una storia. Così cominciava a dire ogni volta di un posto diverso dell’Africa, quell’Africa dalla quale era ritornato con quattro doni: sordo, sposato per procura, decorato e con il rifiuto per la “tessera”.
    L’ultimo dei doni gli sarebbe costato la degradazione da ufficiale a sottufficiale e l’inizio di una vita vagabonda. Pensare che quando portava mia madre a Ciampino, bambina, con i boccoli e gli occhi azzurri come una diva del cinema muto, tutti i suoi soldati la festeggiavano dicendo “è arrivata la figlia del capo”. Grande uomo mio nonno. Come tutti quelli della sua generazione, partiti per la guerra ed in un modo o nell’altro anche tornati. Aveva visto la storia senza rendersene conto. L’unica consapevolezza era quella di essere diventato cittadino del mondo, essersi spogliato di quel provincialismo tutto italico. Tornando aveva ripreso ed intensificato le sue letture. Dante, tra i tanti, era il suo preferito e ne ricordava a mente l’intera opera. Io mi divertivo a provocarlo “Quando il settentrion del primo cielo, che…” e lui “né occaso mai seppe né orto né d’altra nebbia che di colpa velo, e che faceva lì ciascuno accorto di suo dover…” e così fino alla fine del Canto. Questa è stata la sua eredità.
    Nel breve estratto del libro, ma soprattutto nei commenti successivi di Valerio, ho ritrovato quella stessa lucidità, a stessa serena consapevolezza e forse mi è sembrato di avere ancora accanto mio nonno che mi raccontava la storia del suo volo.

  65. Anche la copertina è molto bella…manca in sottofondo “Sotto le stelle del Jazz” di Paolo Conte, o “Potato Head Blues” di Louis Armstrong, che mi sembra quest’ultima sia del ’39 ( i vecchi gerarconi se le sentivano di nascosto).

  66. Io sono d’accordo con Enrico. Massimo si potrebbe avere un qualcosa su cui cazzeggiare un po’? Anche spettegolare se vi garba. Amo spettegolare … dai facciamo scendere un po’ questo livello così aulico, che ne so, potremmo parlare male della Mazzantini ))))).

  67. Oops…!
    Un altro ragnetto in trappola!
    Le tele che tesse Gregori attirano libellule, oltrechè mantidi!
    Spettegolare cara Rigo, e come se tu fossi inciampata e la pistola fosse caduta sulla scrivania di Enrico, se non è partito un colpo che l’ha freddato (per il sollievo dei suoi giovani inviati), ora l’arma è tra le sue mani: un’altra tacca sulla tastiera dello sceicco di via del Tritone!

  68. @Enrì,
    Sceicco inteso come Ras, come quel Mallory, che Dio l’abbia in gloria (sono sempre i migliori che se ne vanno, per fortuna s’è portato all’inferno pure il cane, non ho nulla contro i cani, sono loro che ce l’hanno con me quando alle cinque del mattino vado a portare in giro il mondo!).

  69. Ringrazio moltissimo Valerio Aiolli per le ottime risposte fornite.
    Tra un po’ pubblicherò un nuovo post, ma spero che il dibattito su questo libro possa ancora continuare.
    (Massimo Maugeri)

  70. Caro Valerio Aiolli,
    infatti io parlavo solo di chiedere scusa, non di ”risarcire” stricto sensu. Un risarcimento almeno morale, sottintendevo. In ogni caso, le dominazioni novecentesche sono molto piu’ vicine di quelle precedenti, oramai archiviate a causa del tempo. Intendo dire che purtroppo, mentre sarebbe impossibile chiedere agli Austriaci i danni dell’occupazione del Lombardo Veneto, dovremmo contrattare coi Libici un qualche risarcimento anche economico della nostra occupazione del loro territorio nazionale, essendo questo un crimine internazionale novecentesco italiano. Una cosa recente e direttamente dipendente dall’entita’ statuale Italiana, non da uno Stato regionale precedente all’Unita’, come e’ il caso del Lombardo-Veneto. Ecco la differenza.
    Insomma, in soldoni: l’Austria non occupo’ un pezzo di Italia, ma lo Stato Lombardo-Veneto; invece l’Italia occupo’ la Libia. La stessa Italia di oggi che occupa la stessa Libia di oggi.
    Auguri Cari
    Sozi

  71. Oltretutto, ne’ noi abbiamo chiesto scusa agli Sloveni per l’occupazione di tre anni, ne’ loro a noi per i terribili giorni di Trieste.
    Iniziamo tutti a chiedere scusa, va’, che per chiedere scusa non c’e’ sempre tempo – come per pagare e per morire.

  72. Ed evitiamo la guerra. E di rompere i Santissimi ai nostri connazionali in primis. Che se stiamo sempre a litigare, ci diamo la zappa sui piedi e ci carichiamo di un odio assurdo, cieco e mortifero.
    Scusatemi per la prolissita’
    Sergio
    P.S.
    Auguri, Letteratitudiniani!

  73. Non posso partecipare al dibattito su Ali di Sabbia in quanto non ho letto il libro nè conosco il suo autore.
    Grandi romanzi che intrecciano trame di guerra con altre vicende ce ne sono talmente tanti!
    Ultimamente sono state riempite tante pagine anche sui talebani e le tristi vicende che civilmente troviamo tutti inspiegabili e che ricordiamo a malincuore.
    Oriana Fallaci, per esempio, si è dedicata molto a quest’argomento: lo ha fatto da acuta intellettuale femminista, stranamente rispettata anche dalle correnti di pensiero dell’estrema destra che, probabilmente, ammirava in lei “la combattente”. Alleanze maschili che peraltro vanno bene solo per qualche ora e solo nei salotti. Ma lei questo lo sapeva molto bene.
    Cordialmente
    Rossella

  74. Rispondo ancora a Silvia riguardo alle mie affinità con i personaggi. La premessa è che in tutti i personaggi, davvero, c’è parte di me: anche e soprattutto in quelli più lontani, almeno apparentemente, da me. Balbo, per esempio. Proprio perché mi è lontano, nel momento in cui scrivevo i brani che lo riguardavano ho cercato di mettermi nelle sue scarpe ogni mattina appena mi alzavo dal letto (immagine rubata a Yehoshua) e chissà se la forma dei piedi non mi si sia un po’ modificata (spero di no!)… Ciò detto, direi il tenente. Per come sta con i piedi (ancora!) per terra e la testa fra le nuvole, credo. Per come gli viene naturale astrarsi dal contesto che lo circonda, pur rimanendone partecipe. Direi il tenente, sì.

  75. @ Valerio.
    Caro Valerio, grazie per essere stato qui. Ti ringrazio per la disponibilità. Magari ci sarà qualcuno che vorrà farti ulteriori domande.
    Io intanto ne approfitto per augurarti buon Natale e per complimentarmi con Alet per essersi “accaparrata” questo tuo libro.
    Auguri anche ad Alet!

  76. E naturalmente un ringraziamento a tutti coloro che hanno scritto qui e al caro Gianfranco Franchi che ha recensito il libro e mi ha dato una grossa mano nell’animare e condurre il dibattito.

  77. Grazie a te per la sensibilità e per l’ospitalità, caro Massimo, e all’artista per la sua disponibilità e la sua gentilezza. Grazie a quanti sono intervuti. In primis Sergio nostro. (ho un debole per il Sozi, dichiarato. Bella intelligenza, limpida e indipendente. Viva, e letteraria. Grande.)
    *
    Aiolli è narratore di razza. Dovremmo – devo – recuperare la sua opera omnia. Prima possibile.
    *
    Valete,

    gf

  78. Gianfranco, il tuo ”debole” per me e’ perfettamente ricambiato. Un ”debole” molto ”forte”, direi!
    Auguri Carissimi!
    Vale
    Tuo
    Sergio

  79. Grazie a tutti voi per gli stimoli e per l’attenzione, in particolare certo a Massimo e Gianfranco per la loro stima e il loro affetto che ricambio di cuore.
    Che il 2008 ci sia propizio

  80. Valerio Aiolli è un romanziere portato a sperimentare sempre strade nuove, a passare da un registro narrativo all’altro mutando, a volte vistosamente, l’oggetto della propria ricerca narrativa.

    Questo ultimo romanzo ha al centro la passione per il volo che da un padre ufficiale nella guerra di Libia combattuta dall’Italia nel 1911 si trasmette al figlio, e racconta –come si dice nella quarta di copertina- “le passioni, i miraggi, i sogni di gloria e le miserie di una generazione di italiani”.

    ALI DI SABBIA è un romanzo storico. Intercalata agli episodi storici si racconta anche una succinta storia dell’aviazione, che parte da lontano ad opera di uomini audaci, animati dal sogno di costruire una macchina capace di volare, dai primi bislacchi esperimenti fino al primo vero aereo costruito nel 1904 dai fratelli Wright.

    Ma insieme alle ali troviamo la sabbia, quella del deserto sul quale sorse la colonia italiana della Libia, fino ad arrivare al giugno del 1940 quando Italo Balbo, asso dell’aviazione italiana negli anni Trenta e gerarca fascista di primissimo piano, trovò la morte proprio nel cielo della Libia di cui Mussolini lo aveva nominato governatore

    ALI DI SABBIA è un romanzo affascinante e originale, costruito giustapponendo episodi storici e storie d’amore, come quella tra Lucia e il giovane ufficiale a cui essa è fidanzata e di cui, all’inizio del romanzo, nel 1915, le giunge la notizia della morte.

    Protagonista del romanzo si potrebbe forse considerare proprio il deserto, la sabbia dove cadde Balbo e con lui il suo giovane aiutante, Settimio, che era stato allevato da Lucia e che era figlio dell’uomo da lei amato ma che era nato da una fugace relazione da lui avuta con una donna nel 1915, durante un drammatico combattimento tra i soldati italiani ed i guerriglieri arabi.

    Il romanzo di Aiolli ha una struttura complessa. Ho l’impressione che l’autore abbia mescolato episodi realmente accaduti, forse attestati da documenti di cui ha potuto prendere visione, con altri frutto di fantasia. Mettere insieme le due cose ha richiesto certamente allo scrittore qualche sforzo, lo ha impegnato in una performance, in una prova di abilità costruttiva che presentava il rischio di dar vita ad una trama troppo complicata. Ma il risultato finale mi pare che sia pienamente soddisfacente.

    Il romanzo racconta eventi di un tempo lontano, e lontano e suggestivo è lo spirito della narrazione, che ci parla di eroismo, di amor di patria, di valore militare, di spirito avventuroso. Il tutto giocato su vari piani narrativi: racconto, diario ed epistolario.

    Il libro di Aiolli racconta una guerra, quella italo-turca del 1911 a cui seguì una guerriglia degli indomiti arabi contro l’occupante italiano, che fu la prima prova impegnativa dell’imperialismo italiano, di quello che il sarcasmo di Lenin chiamò “l’imperialismo degli straccioni”. Guerra e guerriglia che conobbero episodi di una ferocia inaudita, ad opera di ambedue le parti in conflitto,e nelle quali l’esercito italiano si fregiò di un triste primato, quello di essere stato il primo esercito al mondo ad impiegare l’aviazione per bombardare il nemico.

    Chi racconta a pezzi e bocconi la storia dell’aviazione è il giovane ufficiale impegnato nel 1915 contro i resistenti libici, nel fortino sperduto nel deserto assediato dai ribelli. E che forse è il capitolo più bello ed emozionante del romanzo.

    Il figlio del tenente è proprio quel Settimio che cadrà insieme a Balbo, colpito dal “fuoco amico” della contraerea italiana in un episodio misterioso la cui dinamica non fu mai chiarita.

    ALI DI SABBIA ha un’ispirazione che direi romantica, per gli episodi ardimentosi che narra, per il senso spavaldo di sfida alla morte che animava i due soldati, il padre e il bambino che nascerà da lui, destinati ambedue a morire giovani come chi è amato dagli Dei.

    Leandro Piantini

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