Ultimata la lettura de “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia” (Laterza, 2010) ho pensato: credo che questo sia uno dei migliori libri (se non il migliore) di Roberto Alajmo. E di ottimi libri – tra romanzi e saggi – Alajmo ne ha già scritti parecchi. Ricordo: Un lenzuolo contro la mafia (1993); Repertorio dei pazzi della città di Palermo (1995); Almanacco siciliano delle morti presunte (1997); Notizia del disastro (2001, Premio Mondello); Cuore di madre (2003, Premio Selezione Campiello, finalista al Premio Strega); È stato il figlio (2005, Premio Super Vittorini e Super Comisso); La mossa del matto affogato (2008); Le ceneri di Pirandello (2008) e – sempre per Laterza – 1982, memorie di un giovane vecchio; Palermo è una cipolla.
Prima di accennare ai contenuti di questo volume, vorrei soffermarmi sul brano scelto come epigrafe. Si tratta di un testo estratto da “La luce e il lutto” di Gesualdo Bufalino, che recita così: «Dicono gli atlanti che la Sicilia è un’isola e sarà vero, gli atlanti sono libri d’onore. Si avrebbe però voglia di dubitarne, quando si pensa che al concetto di isola corrisponde solitamente un grumo compatto di razza e costumi, mentre qui è tutto mischiato, cangiante, contraddittorio, come nel più composito dei continenti. Vero è che le Sicilie sono tante, non finirò di contarle. Vi è la Sicilia verde del carrubo, quella bianca delle saline, quella gialla dello zolfo, quella bionda del miele, quella purpurea della lava. Vi è una Sicilia “babba”, cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia “sperta”, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che si estenua nell’angoscia della roba, una che recita la vita come un copione di carnevale. Una, infine, che si sporge da un crinale di vento in un accesso di abbagliato delirio…»
La citazione riportata in epigrafe finisce qui, anche se poi – subito dopo – , in “La luce e il lutto”, Bufalino fornisce una sua risposta alla domanda “Tante Sicilie, perché?”
Bufalino risponde così: «Perché la Sicilia ha avuto la sorte di ritrovarsi a far da cerniera nei secoli fra la grande cultura occidentale e le tentazioni del deserto e del sole, tra la ragione e la magia, le temperie del sentimento e le canicole della passione. Soffre, la Sicilia, di un eccesso d’identità, né so se sia un bene o sia un male.»
Un bene o un male, dunque? Chi lo sa? Forse Goethe aveva le idee un po’ più chiare, giacché ebbe modo di sostenere (come è noto): «L’Italia senza la Sicilia non lascia immagine nello spirito: soltanto qui è la chiave di tutto».
Certo, per credere che soltanto in Sicilia ci sia la chiave di tutto ci vuole molta immaginazione. Del resto, come sosteneva Sciascia: « L’intera Sicilia è una dimensione fantastica. Come si fa a viverci senza immaginazione? »
E di immaginazione, a volte, ce ne vuole tanta… come quella che mosse il sommo Dante per la scrittura della sua Commedia:
«E la bella Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo
che riceve da Euro maggior briga,
non per Tifeo ma per nascente solfo… »
(dal Paradiso, canto VIII)
(Magari vi chiederò quale preferite, tra le suddette citazioni… e magari potreste proporne altre).
Ma torniamo a “L’arte di annacarsi”. La prima domanda che il lettore (non siciliano) deve necessariamente porsi nell’affrontarne la lettura, è la seguente: cosa significa annacarsi?
In verità, per trovare la risposta non dovrà faticare molto; basterà girare il volume e leggere quanto scritto in quarta di copertina:
“Annacare/annacarsi = affrettarsi e tergiversare, allo stesso tempo. Un verbo intraducibile che significa una cosa e il suo contrario. Il massimo del movimento col minimo di spostamento”.
Un esempio calzante dell’arte di annacarsi – lo evidenzia lo stesso autore – è fornito nell’ambito delle feste religiose… dove Madonne, santi e canderole vengono portati in processione con un andamento danzante, ondeggiante, non necessariamente (e comunque non solo) in avanti, ma spesso di lato e senza disdegnare piccole retromarce. Forse si potrebbe dire che l’arte di annacarsi (per rimanere nell’ambito della metafora danzesca) è una sorta di sintesi tra una appariscente tarantella e il ballo della mattonella. Insomma, ciò che conta è produrre, appunto, il massimo del movimento, con il minimo di spostamento. In linea, peraltro, con la celebre frase de “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Ecco: il cambiamento immutevole è un ossimoro che è ben contratto nel termine “annacarsi”.
L’arte di annacarsi, dunque. Un titolo che sintetizza le apparenti contraddizioni e gli immobili mutamenti di una terra multiforme dove però è possibile trovare la chiave di tutto con un po’ di immaginazione: Marsala, Palermo, Ustica, Porto Palo, Favignana, Agrigento, Siracusa, Tindari, Catania, Gela, Taormina, Messina (sono solo alcune delle tappe di Alajmo). Un viaggio che si tramuta in racconto ironico e sferzante, ma che – in fin dei conti – ha sullo sfondo l’amore per questa terra: “un amore che si prova per una canaglia. Tu sai che è una canaglia, ma non puoi farci niente”.
Che il siciliano sia avvezzo all’ironia lo sosteneva anche Cicerone (in Verrem – Actio Secundae – Liber Quartus – De Praetura Siciliensi) : “Numquam est tam male Siculis, qui aliquis facete et commode dicant (Qualunque cosa possa accadere ai Siciliani, essi lo commenteranno con una battuta di spirito).”
Ma l’ironia di Roberto Alajmo non si ferma alle classiche battute di spirito, o ai giochi di parole; essa – viceversa – si espande in ragionamenti volti a evidenziare paradossi, contraddizioni e situazioni ai limiti dell’inverosimile. È un’ironia intelligente e pessimista, quella di Alajmo; precisa e affilata come un bisturi, capace al tempo stesso di stigmatizzare facendo sorridere, lasciando tuttavia spazio alla speranza: “Ma esiste anche una parte di Palermo la cui coscienza non è ancora del tutto anestetizzata. Proprio quando tutto sembra annacquato e perduto, ecco che dal nulla, miracolosamente, la speranza rinasce. E a farla rinascere sono i pazzi. I famosi pazzi di Palermo. Quelli veri e quelli che vengono fatti passare per pazzi. Pazzo è colui che non si adegua allo stato delle cose, che non si lascia trascinare dalla corrente, che si rifiuta di portare coscienza e cervello all’ammasso. I talenti che nascono fuori dai circuiti convenzionali. I giovani che riescono ogni tanto a fare breccia nel deleterio scetticismo cittadino e a creare un movimento di opinione in grado di trasformarsi da un momento all’altro in autentica rivolta morale”. (cfr. pag. 30 – “L’arte di annacarsi” – Palermo. Teoria e tecniche dell’annacamento).
Non mi dilungo ulteriormente e vi rinvio alla bellissima recensione di Simona Lo Iacono (che ho coinvolto in questo post chiedendole di scrivere di questo libro e di darmi una mano a moderare e animare la discussione che ne seguirà). In chiusura del post… la prefazione del libro, gentilmente concessami dall’autore.
Per incentivare la discussione provo a porre qualche domanda:
– Ai siciliani (scrittori e non): vi ritrovate nell’arte di annacarsi? Ovvero… vi annacàte? E tra i due significati del termine, in quale vi ritrovate di più? (Questa domanda è finalizzata a sorridere un po’ insieme)
– Ai non siciliani che non hanno mai visitato l’isola: che percezione avete della Sicilia?
– Ai non siciliani che hanno visitato l’isola: la percezione che avevate della Sicilia, ha trovato riscontro nella vostra visita? Cos’è che vi ha colpito di più?
– La Sicilia rappresentata nei libri, nel cinema, nella televisione è rispondente alla realtà?
– Tra le citazioni sulla Sicilia (riportate sopra), quale vi sembra la più calzante? Ne avete altre da proporre?
Di seguito, l’articolo di Simona Lo Iacono e la prefazione del libro.
Massimo Maugeri
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Roberto Alajmo: “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia”
recensione di Simona Lo Iacono
Maupassant venne in Sicilia attratto dalla Venere conservata a Siracusa.
L’aveva vista per la prima volta nell’albo di un viaggiatore, in fotografia. “Fu probabilmente lei che mi decise ad intraprendere il viaggio; parlavo di lei e la sognavo in ogni istante, prima ancora di averla vista. (…) è la donna così com’è, così come la si ama, come la si desidera, come la si vuole stringere. (…). La Venere di Siracusa è una donna, ed è anche il simbolo della carne.”
Anche la Sicilia è donna. Anche la Sicilia è il simbolo della carne.
Affrontare un viaggio in Sicilia, dunque, da straniero o da isolano, da pellegrino o da esule, non è che affondare in quella carne. Percorrerne le cavità, i promontori. I vuoti. Con vista da amante. Con paura d’amante. Con la consapevolezza che prendere la Sicilia è anche lasciarla, o farsene abbandonare. È l’atto finale e disperato dell’amplesso là dove persino la compattezza dell’isola è un’illusione.
E possederla vuol dire frantumarla, farne scaglie. Resti.
Così Roberto Alajmo ne “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia”.
Annacarsi per un siciliano è più che affrettarsi. È anche prendere tempo senza fare realmente qualcosa, vivendo una sospensione mista di perplessità, noia, mancanza reale di voglia. E sembrerebbe forse assurdo a chi crede che la lingua sia un perfetto assioma e che le parole debbano avere un senso (e uno soltanto), che in una locuzione coesistano due significati tanto opposti quanto in “annacarsi”.
Andare, ma anche restare. Volere. Ma anche non volere. Non avere tempo. Ma anche averlo, allungarlo, impigrirlo. Vivere, in sostanza. Ma anche morire.
E tuttavia questa assurdità non stupirebbe mai un siciliano. Non chi – come noi – al tutto, e al contrario di tutto, si abitua fin dall’alzata dello sguardo su questa terra, e all’affioro dei sensi percepisce: no. Ma che vuol dire sì. E il mare. Che vuol dire anche cielo. E l’isolamento. Che vuol dire anche stare al centro del mondo.
Nessuno più del siciliano è triste e contento di esserlo, orgoglioso ostentando pietà, ostile palesando ospitalità, individualista fingendosi indignato di non far parte del tutto.
Contraddizione, o meglio adattamento, al caso, alle circostanze che mutano rotta, ai destini capovolti e poi di nuovo ristabiliti, a un andare della storia al rovescio e poi di nuovo al dritto, ma senza mai veramente sapere cosa è dritto e cosa è rovescio.
Una baldoria dell’uomo e delle sue oscenità, dei suoi vizi e anche delle sue debolezze, o forse solo ostinazione alla sopravvivenza. All’incosciente vivere oggi senza soppesare un futuro. Ché il futuro, alla fine, non è mai dipeso da noi.
Sorrido vedendo che Roberto ne “l’arte di annacarsi” elenca i “luoghi comuni” allumandoli di luce buona, di storia, di spiegazioni. Facendo crollare le certezze di ogni buon turista che approdando qui in cerca di fichi d’india, carretti siciliani, coppole e lupare, più di ogni altra cosa sarà segnato dalla luce e dall’ombra, dalle colature dei tramonti. Dagli scenari di certe città che si aprono come un sipario (Noto) e si svuotano di notte per non vivere che lontano dalle quinte. Che si parano a festa in sontuosi abiti da processione (Trapani), allungando il Venerdì Santo per tutto l’anno. O che edificano stadi del ghiaccio (Catania) a un passo dall’Etna che bolle.
Di Siracusa, non dirò, da buona siracusana, perché assaporo le parole che Roberto ha dedicato a piazza Duomo, alla sua luce bianca, lattea, di una qualità riservata agli dèi e alle creature dell’aria. Mi soffermerò invece su Avola, o su Portopalo, tutti territori facenti parte della giurisdizione del Tribunale che dirigo e da cui mi provengono quelli che io chiamo i “processi del mare”: clandestini ammarati e pescati dalle reti. Pesci con gambe e occhi scuri, sopravvissuti alle onde. Viandanti senza scalo e giunti a me senza nome.
Roberto ne raccoglie le storie riferite ai crocicchi di vie, sulle albe di pescherecci che rientrano. Racconta di quella notte del Natale ‘96 in cui si persero 300 naufraghi che s’inturbinarono tra le correnti. I loro fantasmi si aggirano ancora da queste parti, senza pace e senza sepoltura, forse rigettati in mare una volta ripescati dall’acqua.
Un discorso a parte merita Palermo, dove la decadenza degli edifici viene coltivata come un fasto e dove a ogni sbrecciatura più o meno grave di intonaci, a crepe e lineature del tempo, è facile rimediare con una decisione provvisoria che fa presto a diventare definitiva, o con una panacea adatta a ogni male: la transenna.
E poi l’effigie di madre. Che la Sicilia sa mascherare di reverenza al marito, ma che s’infratta dietro apparenze di remissività. Sorrido davanti alla buffa immagine della “madre ebrea” a cui sono assimilati, nel libro, i siciliani. Che non dice al figlio: se non mangi ti ammazzo. Dirà piuttosto, senza preoccuparsi di dissimulare il ricatto: se non mangi mi ammazzo.
E mi balza dal passato l’immagine di mia nonna, spannata come un’anima e drittissima su gambe che sostenevano una figuretta di nemmeno un metro e venti. Diceva: facite chiddu ca vulite (fate quello che volete). Tanto, poi, si faceva sempre quello che diceva lei.
La mafia, infine. L’unico luogo comune che esiste per davvero. E che ha invece l’abilità di fingersi irreale e fantasioso, più una leggenda eroica da brigante. Con molti ragionevoli motivi, in fondo, per esistere.
Un fumo, più che una mentalità. O piuttosto una ventata di quelle gustose, che portano odore di soffritto e padella, e che segui incantato come da una Circe. Salvo poi a scoprire che non provenivano dalla cucina.
Più che la sua abilità nel nascondersi colpisce la nostra capacità di non vederla, di non farsene toccare come se invece che cosa nostra, fosse sempre cosa d’altri.
Solo quando approda nei tribunali sembra assumere consistenza, materia, sangue.
Fino a che, dalle grate, torna a uscire fuori come un filo di fumo.
Roberto Alajmo non tace responsabilità. Non sorvola sulle ataviche ribaltature di ruoli. Lo stato che manca e lo stato che punisce. Che dà e che ritira la mano. Che non sa amare e che si sente in colpa.
È forse un siciliano verace, uno di quelli che per viaggiare resta al suo posto, e che per inforcare le lenti e guardare sa che non è necessario andare troppo lontano. Di certo, è un siciliano che ama pur sapendo che quell’atto d’amore è morte, discesa agli inferi, eremitaggio.
Se ammanta con ironia le mancanze, è solo perché – in fondo – sa che l’unico modo per sopravvivere, qui, ora è sempre, è svolare con leggerezza di acrobata, o con levità di illusionista.
Un circense, il siciliano. Che transuma di vita in vita, e che cambia solo in apparenza. Che forse è come quella “passiata” sullo stretto. Sempre in bilico tra due mondi. Su una soglia.
E allora meglio l’arte di “annacarsi”, di fare e non fare. Di allungare e accorciare.
A ben pensarci, annacarsi viene da “naca”, che è la culla del neonato che pencola lentamente.
Un buon modo per dire che oscillare è forse l’unico ormeggio alla terra ferma.
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LE MANI AVANTI: PREMESSA
Circola con insistenza l’idea che la Sicilia e i siciliani siano diversi, rispetto al resto d’Italia. Diversi e più complicati. La risposta può essere articolata pirandellianamente: no, ma credono di esserlo, e questo li rende diversi e più complicati. In ogni caso, però, a ogni passo di ragionamento si rischia di essere fraintesi, per cui meglio sgomberare il campo dai possibili equivoci. Non si tratta di una diversità rivendicativa. Non è la diversità della Catalogna o dei paesi Baschi. O meglio: certe volte sì, ma solo nelle sue manifestazioni più esteriori e velleitarie. Nella casistica più interessante il sicilianismo non è orgoglio, ma rimorso. La Sicilia si sente diversa dal resto d’Italia, e nei suoi abitanti migliori questa diversità si trasforma in senso di colpa. Perché si tratta di una diversità contagiosa, che col tempo ha infettato il resto del paese. Nemmeno più tanto una diversità, quindi, ormai. Da quando Leonardo Sciascia aveva preconizzato lo spostamento verso nord dell’ideale linea della palma, la sicilianizzazione del paese ha proceduto speditamente, fino a raggiungere l’arco delle Alpi. E ancora procede: è in corso una seconda passata, destinata a rendere il paese più omogeneamente arretrato.
Il viaggio in Sicilia rappresenta allora una indagine sull’identità nazionale. Indagine metaforica, a cannocchiale rovesciato. Se è vero quel che diceva Goethe, che non si può capire l’Italia senza vedere la Sicilia (“è qui la chiave di tutto”), attraversare il continente siciliano significa indagare il collasso di tutta la nazione. In questo senso, il viaggio può rappresentare una discesa agli inferi.
Anche per godere della bellezza più recondita è necessario immergersi in quell’abisso che è la Sicilia. Non si può fare a meno di ravvisare la bruttezza diffusa, il sistematico disprezzo per gli spazi comuni, l’incapacità delle persone anche migliori di fare rete e porre rimedio a queste distorsioni. Viaggiare attraverso la Sicilia significa sporcarsene. E si tratta di uno sporco persistente, di quelli più difficili da trattare.
Per chi in Sicilia ci è nato e ci vive, intraprendere un viaggio attraverso la propria terra è un modo di fare autoanalisi. Di scoprire tutta una serie di cose che già sapeva senza saperlo. Persino il viaggiatore interno ha sentito molto parlare di quest’isola, i luoghi comuni agiscono anche sul suo modo di vedere le cose. Ciò che rivede, in un certo senso, è come se lo rivedesse per la terza volta; le prime due attraverso i propri occhi e attraverso gli occhi del mondo. Si viaggia certe volte con l’intento di essere confermati nelle idee ricevute da altri. Oppure si viaggia per approfondire un viaggio precedente. E però capita pure un’altra cosa: di certi posti non ci si sazia mai. Ci si alza dalla tavola imbandita prima di essersi saziati del tutto, tenendo da parte un po’ di fame per la volta successiva. Oltretutto saziarsi di Sicilia è rischioso; significa un po’ pure sdegnarsene.
Raccontare l’esperienza di un viaggio in Sicilia è una responsabilità che nei secoli si sono assunti in parecchi, ognuno a modo suo, con risultati che ognuno è libero di giudicare in autonomia. Al Idrisi, il geografo. Ibn Giubair, il funzionario. Gregorovius, lo storico. Houel, il pittore. Brydone, lo scienziato. Swinburne, il poeta. Goethe, Maupassant e Dumas, gli scrittori. Questi solo per citare quanti hanno lasciato tracce nelle opere, del loro viaggio nell’estremo lembo meridionale d’Europa. Anche alla luce di questi precedenti, è inutile provare a essere oggettivi; e velleitario risulta provare a essere soggettivi. Bisogna tenere conto dell’occhio di chi legge, che in cambio dell’attenzione si aspetta qualcosa. Giusto. Questo però rende ancora più tormentoso il compito di chi viaggia e racconta la Sicilia essendoci nato. Perché i siciliani hanno la tendenza diventare apprensivi, quando devono rendere conto agli estranei di sé e della propria terra. Sanno che devono misurarsi con una quantità di luoghi comuni che vanno dalla mafia allo scirocco, e molto altro ancora.
Come se non bastasse, ci sono pure i luoghi comuni posticci. Per esempio, quelli che vanno sotto l’etichetta di invenzione della tradizione. È comodo per lo straniero credere, e per i siciliani lasciargli credere, una serie di cose. E la natura dà il suo contributo al consolidamento dei luoghi comuni più infondati: il paesaggio siciliano è ovunque contraddistinto da una pianta, il ficodindia. In ogni angolo, in ogni connessione fra roccia e roccia si trova un ficodindia. Non esiste una pianta più caratteristica. Eppure non è endemica, non è neppure di origini mediterranee, visto che l’importarono gli spagnoli dal centroamerica. E se la natura si permette queste integrazioni della realtà, perché gli uomini non dovrebbero travisare a loro volta? Ecco allora l’astuzia del fotografo che durante la mattanza mafiosa dei primi anni ottanta correva da un posto all’altro per documentare i morti ammazzati nelle strade. Per muoversi più rapidamente si muoveva in vespa, e sul predellino trasportava un vaso con un piccolo ficodindia. Arrivato sul luogo del delitto, disponeva il vaso in modo che almeno una pala della pianta entrasse nell’inquadratura. Sosteneva che i giornali del Nord in quel modo comprassero le foto più volentieri.
Altro equivoco che viene assecondato: il carretto siciliano. Ormai in giro se ne vedono pochissimi, e quelli che si vedono o sono dentro un museo o vengono adoperati come attrazione turistica: una foto sul carretto, sulla piazza di Monreale, vale cinque euro. Modica cifra per qualcosa che siamo portati a immaginare come genericamente antico. Eppure il carretto siciliano, così colorato e impennacchiato è un’invenzione che ha poco più di cento anni. Più che antico, al massimo può essere considerato vecchio. E nemmeno significativo, dato che il temperamento dei siciliani prevede pochi colori e ancor meno impennacchiamenti: quelli estroversi sono i napoletani.
Lo stesso discorso vale per il dolce più siciliano che ci sia, la cassata: un’invenzione pure quella. Ecco come nascono le leggende. C’era un pasticcere palermitano, tale Gulì, che alla fine dell’Ottocento decise di specializzarsi. Nel suo laboratorio di corso Vittorio Emanuele si mise a produrre quasi esclusivamente frutta candita. Come molti siciliani di tenace concetto, aveva deciso di contraddire l’opinione più radicata. Allora come oggi, tutto il mondo nutriva nei confronti della frutta candita un sentimento comune: la ripugnanza. Non la voleva nessuno. Se c’era, veniva scartata accuratamente. Non si conosce il motivo per cui Gulì si convinse del contrario, che ci fosse all’orizzonte un boom di richieste per la frutta candita. Sta di fatto che il suo laboratorio si ritrovò in breve tempo intasato di zuccata e mandarini imbalsamati. Col magazzino pieno e sull’orlo della bancarotta, ebbe un’intuizione che gli consentì di riciclare tutto quel ben di dio. Prese spunto da un dolce di origini molto più antiche, la cassata, quella che oggi viene chiamata cassata al forno: un involucro di pasta frolla ricoperto di cannella e zucchero a velo che custodisce il cuore di ricotta e cioccolato. Su questa base lavorò di fantasia, imbarocchendo il tutto con glassa di zucchero, pasta di mandorle e naturalmente montagnole di frutta candita a fare da guarnizione. Libero ognuno, poi, di scartare la decorazione e assaporare il resto. Il risultato venne prontamente denominato cassata siciliana in modo da sbaragliare anche l’ombra della concorrenza da parte dell’umilissima cassata originale, che si trovò da un momento all’altro privata della propria identità.
La fortuna del nuovo dolce e del suo inventore fu quella di trovare subito un formidabile veicolo promozionale. La facoltosa famiglia dei Florio, che a Palermo ospitava regnanti e aristocratici di tutta Europa, fece della nuova cassata il suo dono di rappresentanza. Questi ospiti partivano da Palermo come altrettanti involontari testimonial, convinti che quel coloratissimo coacervo di zuccheri rappresentasse la Sicilia più vera. E ne incarnava, invece, soltanto la facciata.
Tutta questa premessa sui luoghi comuni serve a introdurre il luogo comune per eccellenza. Meglio affrontarlo subito, però, prima che cominci a impestare l’aria: la mafia. Il resto del mondo tende a credere che in Sicilia i mafiosi se ne vadano in giro col cartellino di riconoscimento o con la lupara a tracolla. Al contrario, quasi sempre tengono un profilo basso, confidando in un genere di riconoscibilità più sottile. Si palesano se questo si rende necessario, confidando che chi deve sapere chi sono, lo sa già. Per il resto, la mafia è un odore. Una puzza. Qualcosa che avverti senza necessariamente sapere da dove proviene. È come la puzza di qualcosa che uno dei tuoi ospiti ha calpestato. Tu non sai esattamente chi, ma sai che qualcuno l’ha calpestata. Magari per discrezione non sollevi il problema, perché pare scortese. Ma dovresti, invece, perché altrimenti sarai costretto a subire quell’odore per tutto il tempo che i tuoi ospiti si tratterranno. Quel che succede nella realtà di tutti i giorni.
Se si sforza un po’, tuttavia, anche l’osservatore più superficiale in certe situazioni può riconoscere la puzza che a zaffate ogni tanto gli capiterà di avvertire. È l’odore di un’apocalisse che è italiana e siciliana al tempo stesso. Quello che si profila come il Grande Collasso Nazionale è destinato a cominciare dal sud. O forse è già cominciato. Rimane da stabilire se sarà un’apocalisse climatica o sanitaria, un’ondata anomala di spazzatura o un’escalation criminale. E rimane da stabilire pure esattamente da dove comincerà: Campania o Sicilia. Le due regioni guardano alle rispettive piaghe con una torva, reciproca forma di consolazione, che confina con l’insidiosa formula del tanto peggio, tanto meglio. Tempo fa successe che a Napoli le casalinghe presero a pietrate i poliziotti che tentavano di arrestare alcuni rapinatori, e il questore commentò: Scene del genere non le ho viste nemmeno a Palermo. Questo smosse un bel po’ di suscettibilità fra la popolazione isolana, dove pure circostanze del genere si ripetono di frequente: come si permette questo signore di adoperare la Sicilia come parametro del peggio? Ma il questore aveva ragione: fra Napoli e Palermo si disputa una corsa al male maggiore.
Se anzi in tutto il meridione scene come quella delle pietrate ai poliziotti avvengono di rado, è solo perché lo Stato ha rinunciato a esercitare il proprio controllo su zone di territorio sempre più vaste, dove la polizia non prova manco a intervenire. In Sicilia se viene rubato un ciclomotore ci si fa una croce sopra, oppure si paga il riscatto per averlo restituito dalla stessa persona che l’ha rubato. La denuncia viene considerata un’usanza desueta perché c’è stata, nel corso del tempo, una tacita cernita dei reati perseguibili. La fase repressiva viene esercitata quasi solo se è destinata a ottenere il consenso generalizzato della popolazione. Quando in passato si sono fatte spettacolari retate di posteggiatori abusivi di colore, lavavetri o di prostitute extracomunitarie, è successo che la gente abbia persino applaudito allo spiegamento delle forze dell’ordine. Diverso è se si tratta di uno spacciatore indigeno. In questo caso scatta, per la morale comune, l’attenuante generica di sempre: Mischino, è patrifamigghia.
In fondo Sicilia e Campania sono figlie entrambe dello stesso Stato assistenziale, caratterizzato dall’essere allo stesso tempo troppo e troppo poco presente. Lo Stato si comporta col meridione come quei genitori che per farsi perdonare le proprie assenze compra un sacco di regali al figlio. In questo modo pensa di essersi lavato la coscienza, e si sorprende quando poi scopre che il figlio è cresciuto male, diventando un delinquente. Allora gli dà uno schiaffo, e si sorprende ancora di più quando il figlio glielo restituisce, lo schiaffo. Ecco, Palermo e Napoli sono figli dello stesso padre. Solo che questo padre ormai ha rinunciato a provarci, coi ceffoni. Un trattamento che riserva solo ai figli degli altri.
Non molto tempo fa i giornali si sono occupati di una ricerchina universitaria condotta nelle scuole di Palermo, un sondaggio dal quale risultava che per la maggior parte degli alunni, interrogati in forma anonima, la mafia era tutto sommato un male se non necessario, almeno accettabile. L’opinione diffusa che veniva fuori era un luogo comune più radicato di quanto si creda, almeno in Sicilia: la mafia dà lavoro. Non appena i dati vennero resi noti, si scatenò una tempesta di indignazione. Si andava dall’accusa di poca significatività del campione sondato, a un’altra più generica di scarsa sensibilità antimafia. In sostanza: gli autori della ricerca erano colpevoli quantomeno di aver lasciato agli studenti la possibilità di esprimere un’opinione del genere senza dar loro nemmeno una sculacciata. I titolari dell’indignazione erano intellettuali, magistrati, deputati, parenti di vittime della criminalità organizzata, e il risultato fu che il sondaggio venne seppellito dallo sdegno generale.
Era stato toccato un nervo scoperto. La coscienza delle persone perbene si rifiutava di accettare un’opinione tanto politicamente scorretta. Fu l’occasione mancata per avviare una discussione su questo semplicissimo argomento: oltre che spiacevole, è anche vero o no, che la mafia dà lavoro? Forse era l’occasione per ammettere che l’opinione maggioritaria emersa da quel sondaggio non era poi tanto inverosimile. Per chi in Sicilia ci vive, basta guardare alla realtà con disincanto per accorgersi che è proprio vero: è la mafia che distribuisce il poco lavoro che c’è. Durante le conversazioni in Sicilia capita di sentirselo dire nelle più svariate circostanze, soprattutto dalle persone culturalmente meno avvertite, che di questa affermazione non colgono anche la grossolanità e la superficialità. Il riflesso condizionato è di liquidare chi esprime un’opinione del genere con una dose di civile insofferenza. Ma a pensarci bene, non hanno torto. Anche quando materialmente è lo Stato a praticare un’assunzione, paramafioso è il sistema di reclutamento: a meno che non si creda che la mafia sia solo il braccio affiliato della mafia stessa. La condizione in cui l’aspirante lavoratore viene tenuto è di oppressione mafiosa. E la diffusione delle forme di lavoro a garanzia diminuita, con il lavoratore tenuto sulla corda praticamente in eterno, non fa altro che incrementare lo spirito di sudditanza: ciò che maggiormente fa il gioco della mafia, trasformando in favori quelli che veramente dovrebbero essere diritti. Applicate in terra di Sicilia – in assenza di una cultura d’impresa che sia veramente radicata, e veramente cultura – le regole del liberismo attengono sì alla sfera economica, ma vengono alterate da quella antropologica.
In Sicilia e nelle regioni del meridione d’Italia lo Stato ha deciso, più o meno consapevolmente, di delegare la funzione dell’ufficio di collocamento. Cercare un lavoro significa chiederlo agli amici, e tenerselo stretto significa tenersi cari gli amici. Per questo il precariato è un’arma nelle mani di chi altera il mercato del lavoro: rappresenta una garanzia di fedeltà. Gli amici contano. È sempre un amico quello che si cerca quando un parente viene ricoverato in ospedale, quando si vuole comprare un’automobile, quando si cerca un prestito e in cento altre occasioni quotidiane, dalle più innocenti in giù.
Anziché spiegare alle scolaresche che la mafia è brutta e cattiva, allora, sarebbe il caso di spiegare come davvero stanno le cose: la mafia dà lavoro, sì, ma lo fa pagare a un prezzo estremamente alto. Il prezzo da pagare è il sottosviluppo. Bisognerebbe spiegare una volta per tutte che l’arretratezza del meridione d’Italia è un’arretratezza creata artificialmente, che si nutre della secolare pioggia di finanziamenti regionali, statali ed europei. Spieghiamo che la mafia dà lavoro dopo aver personalmente creato la mancanza di lavoro. Spieghiamo che senza spezzare questo circolo vizioso la mafia continuerà a detenere il monopolio del mercato dell’occupazione. Spieghiamo che la mafia, ai siciliani, in un certo senso piace. Piace ai commercianti e agli imprenditori, che in cambio del pizzo ottengono dal racket servizi migliori di quelli dello Stato, e inoltre temono i costi e i tempi lunghi di un’insurrezione morale. Piace a tutti i siciliani, che assuefatti ai favori concessi alla loro sudditanza, sono disposti a rinunciare ai diritti della cittadinanza, ne hanno anzi persino dimenticato l’esistenza. Spieghiamo, infine, perché mai lo Stato ha ritenuto di cedere alla mafia la gestione del diritto al lavoro. E chiediamoci se per caso ha voglia di riprenderselo, prima o poi, questo famoso diritto.
Che la mafia dia lavoro è, in Sicilia, un luogo comune. Ma di una sottospecie particolarmente insidiosa: un luogo comune fondato. E di una sotto-sottospecie ancora più insidiosa: un luogo comune fondato su convinzioni superficiali. Nelle vignette del disegnatore Gianni Allegra, l’idea-immagine più forte è rappresentata da un omino appeso a un filo. È una specie di acrobata disperato: forse c’è stato un tempo in cui camminava sul filo, anziché aggrapparcisi. Magari in passato quell’omino è stato un’attrazione circense, capace di arrivare da un capo all’altro del suo filo con brillantezza e spavalderia. Ora l’omino a quel filo rimane appeso con una sola mano, a stento riesce a restare immobile senza precipitare di sotto.
L’omino appeso al filo è uno dei simboli più azzeccati della condizione di chi vive in Sicilia. L’omino si sforza di rimanere aggrappato al filo, di arrivare da un capo all’altro della sua esistenza, ma di nulla può essere certo. Deve stare attento pure alle risposte che dà al suo interlocutore, il grosso topo che nelle vignette rimane sul ciglio del burrone. L’omino si quartìa, come si dice: tende a tutelarsi. Istintivamente si sarebbe indotti a parteggiare per lui, se non altro per ripulsa nei confronti del topone. Ma colui che osserva farebbe bene a non scegliere, fra i due antagonisti. Di certo non può piacergli il topone, ma anche la condiscendenza nei confronti dell’omino appeso al filo non ha una vera ragion d’essere.
Anzi, sarebbe bello se una volta o l’altra quel filo si spezzasse, e che l’omino precipitasse. Che si schiantasse. Che per una volta il suo quartiarsi non fosse premiato con una forma di stentata sussistenza. Chi osserva, se non è un politico, non deve rispondere a un elettorato quartiandosi a sua volta, per cui è libero di rifiutare la solidarietà al più debole solo perché è il più debole. Dal più debole è giusto pretendere che aiuti se stesso in una maniera che vada oltre il semplice quartiamento. Troppe volte si sono visti omini che dopo essere rimasti più o meno a lungo a dondolare appesi a un filo, finivano per accettare l’aiuto del topone. Il quale topone, poi, non li salvava nemmeno: li rimetteva magari sopra il filo, ossia in una condizione di precarietà appena migliore di chi sta sotto. Quella condizione di precaria stabilità che ai toponi serve per guadagnarsi la gratitudine e il consenso.
Ecco, per questo sarebbe bello che una volta per tutte il filo si spezzasse, o che le forze abbandonassero l’omino lasciandolo precipitare. Perché ciò che nelle vignette di Allegra non si vede è quanto veramente sia profondo il baratro che si trova sotto ai suoi piedi. Potrebbe pure trattarsi solo di un piccolo salto, un saltello dopo il quale l’omino sarebbe in grado di camminare da solo, grazie alle sue gambe. Senza doversi quartiare di fronte a nessun topone.
Tutta questa desolazione non sarebbe poi tanto grave se riguardasse solo il nostro presente. Ma in realtà è il futuro che stiamo ipotecando. Ossia il tempo che lasciamo ai nostri figli. L’incubo delle persone perbene, in Sicilia è che il proprio figlio possa decidere di fare il negoziante, o l’imprenditore. Dovere di un buon padre è quello di educare il proprio figlio a non cacciarsi nei guai, ma una volta che c’è finito, cercare in ogni modo di tirarlo fuori. Al proprio figlio non si può raccontare la favoletta tutta teorica dell’antimafia e prescrivergli il coraggio di non pagare. Specialmente perché è nostro figlio e specialmente perché si tratta di questo Paese e di questo momento storico. A parte il fatto che il coraggio non è un medicinale che si possa prescrivere.
Se un ministro dichiara che con la mafia bisogna convivere, è facile che altrove la cosa venga classificata come l’ennesima boutade governativa e, nella confusione generale, presto liquidata. Ma a questo serve sparare molte cazzate: che poi qualche cazzata importante rischia di passare inosservata. A chi vive in Sicilia, la semplice frasetta pronunciata dal ministro un sacco di tempo fa è arrivata come arriva a valle, in forma di valanga, una palla di neve che qualcuno a monte ha lanciato per malignità o anche semplice noia. E vale più del lavoro di centinaia di insegnanti che per anni e anni si sforzano di inculcare agli alunni il senso della legalità. È facile che il dubbio se lo faccia venire un ragazzo che si appresta a entrare nella vita produttiva: è più giusto ascoltare uno sfigato insegnante sottopagato, teorico astratto dell’antimafia, oppure un autorevole ministro?
Il dubbio nasce pure dal fatto che le istituzioni hanno un atteggiamento schizofrenico, nella lotta alla mafia. Da un lato la fase repressiva: se non puntualissima, almeno volenterosa. Dall’altro un lavoro capillare nelle scuole, come educazione alla legalità. In mezzo, per quanto riguarda la fase propositiva, se si esclude l’antimafia da parata: zero assoluto. Anzi, tutta una serie di segnali in controtendenza, ostentati perché intenda chi ha orecchie per intendere.
In fondo anche in Sicilia vale la legge del mercato: il cittadino si rivolge a chi gli offre la miglior qualità di servizi. E moltissimi servizi istituzionali sono stati in quest’isola più o meno esplicitamente privatizzati e delegati a Cosa Nostra. Questo ottiene il negoziante in cambio del pizzo: servizi. Protezione, licenze annonarie, gestione controllata della concorrenza, prestiti agevolati, allacciamenti abusivi di luce, acqua e gas. Nemmeno tanto poco.
Che poi siano servizi illegali, regole distorte, e che illegale e distorto sia il metodo di applicazione, è un altro discorso. Così come è un altro discorso che a trovare molto comodo pagare il racket sia la grande maggioranza dei negozianti. Si fanno affari, col racket. Ci si marcia.
Bisogna purtroppo ammettere che lo Stato non rappresenta un’alternativa credibile. Non in Sicilia, dove Stato e Cosa Nostra si sovrappongono in continuazione. Per capire la frustrazione dei siciliani meglio intenzionati bisogna pensare al personaggio di Giancarlo Giannini in Mimì Metallurgico. Per non sottostare alle vessazioni del capomafia locale, che è Turi Ferro, caratterizzato da un triangolo di nei sulla guancia, Mimì si rivolge al maresciallo dei carabinieri, che però è impersonato sempre da Turi Ferro, sempre con i tre nei sulla guancia. Allora scappa al nord, ma anche qui il procacciatore di lavoro è Turi Ferro coi tre nei. Allora va al sindacato, ma persino lì c’è Turi Ferro con i suoi nei. E così via.
La mafia è come l’acqua, prende la forma del contenitore che la accoglie. E se il contenitore della mafia sono le istituzioni, anche ammettendo che un livello fisiologico di inquinamento sia inevitabile, mai in tempi storici si ricorda una capienza di questa portata. La forma dell’acqua mafiosa oggi è un grande lago tranquillo, talmente fermo da risultare stagnante.
Malgrado qualche segnale in controtendenza, il negoziante onesto viene messo nelle condizioni di chi esce dalla trincea e si lancia nel territorio avverso impugnando la bandiera della legalità, ma una volta in campo aperto si ritrova solo. Solo, malgrado tutte le rassicurazioni e i telefoni antiracket di questo mondo. Per cui la sensazione è che vada crescendo il numero di coloro che pensano, a torto o a ragione: né con questo Stato, né con Cosa Nostra.
Certo, i siciliani, tramite elezioni, hanno abbondantemente contribuito alla deriva di questo Stato e di queste Istituzioni. E altrettanto certo: ci sono i segnali di una prossima, nuova ondata antimafia, che arriva soprattutto dai giovani che hanno riempito i muri di Palermo di adesivi contro il racket e poi hanno fondato Addiopizzo, ricordando che proprio sul fatalismo, sul pessimismo è fondato il sottosviluppo che strangola la Sicilia.
Ma il dovere delle persone perbene è andare oltre la retorica e affrontare i nodi strutturali. È comprensibile che la mafia abbia interesse a tenere nascosta alla pubblica opinione la realtà del mercato del lavoro e quella delle estorsioni: la detenzione del potere passa attraverso la gestione di un profilo basso, senza ostentazioni. Meno comprensibile è che tante persone di provata militanza antimafia non accettino di ammettere quello che è uno stato di fatto. Nessuna persona perbene, se conosce le cose di Sicilia dovrebbe scandalizzarsi a sentir dire che la mafia dà lavoro, o che in certi ambienti pagare il pizzo risulta conveniente. Prendere atto della realtà è il passo preliminare verso qualsiasi ipotesi di soluzione del problema. Per riuscire efficacemente a spremersi un brufolo, bisogna prima procurarsi uno specchio e avere il coraggio di guardarci dentro.
Il viaggio più difficile è quello che si inoltra fin dentro lo specchio.
© Roberto Alajmo – Laterza
Diritti riservati
Nello scorso post, abbiamo discusso (e stiamo discutendo) di Napoli e Irpinia.
Qui, invece, parliamo di Sicilia…
L’occasione ce la fornisce Roberto Alajmo, con questo suo nuovo libro: “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia” (Laterza)
L’ho scritto sul post e l’ho detto anche all’interessato…
Credo che questo sia uno dei migliori libri (se non il migliore) di Roberto Alajmo. E di ottimi libri, come dicevo, – tra romanzi e saggi – Alajmo ne ha già scritti parecchi.
Nel post, mi sono diverito a inserire qualche citazione sulla Sicilia (ce ne sono un’infinità, lo so…).
A quella di Bufalino (scelta come epigrafe del libro da Roberto), ho inserito citazioni di: Goethe, Sciascia, Dante, Tomasi Di Lampedusa, Cicerone.
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Quali preferite tra le suddette citazioni?
Ne avete altre da proporre?
Ma torniamo a “L’arte di annacarsi”.
Come ho scritto sul post, la prima domanda che il lettore (non siciliano) deve necessariamente porsi nell’affrontarne la lettura, è la seguente: cosa significa annacarsi?
La risposta è in quarta di copertina:
“Annacare/annacarsi = affrettarsi e tergiversare, allo stesso tempo. Un verbo intraducibile che significa una cosa e il suo contrario. Il massimo del movimento col minimo di spostamento”.
Come dicevo sul post questo viaggio di Alajmo si è tramutato in un racconto ironico e sferzante, ma che – in fin dei conti – ha sullo sfondo l’amore per questa terra: “un amore che si prova per una canaglia. Tu sai che è una canaglia, ma non puoi farci niente”.
L’ironia di Roberto Alajmo, però, non si ferma alle classiche battute di spirito, o ai giochi di parole; essa – viceversa – si espande in ragionamenti volti a evidenziare paradossi, contraddizioni e situazioni ai limiti dell’inverosimile. Un’ironia intelligente e pessimista; precisa e affilata come un bisturi, capace al tempo stesso di stigmatizzare facendo sorridere, lasciando tuttavia spazio alla speranza.
Ringrazio Simona Lo Iacono per la bella recensione.
(Simona mi aiuterà a moderare e animare la discussione… ma la invito a non rispondere a eventuali considerazioni – e/o provocazioni – di natura politica).
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E ringrazio lo stesso Roberto Alajmo (che ovviamente parteciperà al dibattito) per aver messo a mia disposizione la prefazione del libro.
Nella sua prefazione Roberto mette le mani avanti.
Lo faccio pure io permettendomi di ricordare il testo dell’avvertenza che trovate nella colonna di sinistra del blog:
La libertà individuale, anche di espressione, trova argini nel rispetto altrui. Commenti fuori argomento, o considerati offensivi o irrispettosi nei confronti di persone e opinioni potrebbero essere tagliati, modificati o rimossi. Nell’eventualità siete pregati di non prendervela.
Vi ripropongo le domande del post…
– Ai siciliani (scrittori e non): vi ritrovate nell’arte di annacarsi? Ovvero… vi annacàte? E tra i due significati del termine, in quale vi ritrovate di più?
(Questa domanda è finalizzata a sorridere un po’ insieme)
– Ai non siciliani che non hanno mai visitato l’isola: che percezione avete della Sicilia?
– Ai non siciliani che hanno visitato l’isola: la percezione che avevate della Sicilia, ha trovato riscontro nella vostra visita? Cos’è che vi ha colpito di più?
– La Sicilia rappresentata nei libri, nel cinema, nella televisione è rispondente alla realtà?
Perdonate i commenti a raffica (mi sono annacàto un po’ troppo, lo so)… ma sto per chiudere, tranquilli.
@ Roberto Alajmo
Come stanno andando le presentazioni di questo nuovo libro, Roberto?
Che tipi di riscontri stai avendo?
Ci sono differenze (di riscontro… anche nel senso di reazioni) tra il Nord e il Sud del paese?
Auguro a tutti una serena notte.
Non mi ritrovo nell’ arte di annaccarsi. Sono un’ impulsiva e i miei movimenti spesso sono precipitosi. Eppure qualche volta “pencolo” non so decidermi. Arranco. Misteri dell’ animo umano. Adoro la Sicilia per quello che ho letto di Sciascia e per quello che ho visto. Palermo è un vulcano: armonia e fragore. Il più bel ricordo della Sicilia: il teatro graco di Siracusa e l’ Orecchio di Dioniso. Ho aperto le danze e saluto Massi e tutti i commentatori. Un saluto particolare a Simona Lo Jacono
L’arte di annacarsi mi sembra un titolo bellissimo.
Non sono mai stato in Sicilia. Diciamo che la conosco attraverso i libri, i film e le fiction tv.
Secondo me i libri la rappresentano un po’ meglio rispetto ai film, che si prestano un po’ più a scadere nei luoghi comuni.
Tra le citazioni, quella di Bufalino mi pare la più completa, quella cioè che fornisce più indicazioni. Quella classica di Tomasi di Lampedusa, del Gattopardo, la più incisiva.
Che immagine ho della Sicilia?
Quella di una terra complessa e compressa, che ha ancora molto da dire e da dare. Magari prima o poi scenderò giù a visitarlam seguendo proprio l’itinerario di Alajmo.
Caro Massi, caro Roberto,
intanto buon giorno e grazie per avermi dato – entrambi – la possibilità di parlare della Sicilia. Un nodo col quale ciascuno di noi isolani fa i conti subito. Fin dal nostro ondeggiare nella “naca”.
“Annacarsi” ha quindi anche un senso originario, di primo sguardo sul mondo. Impensabile tradurlo se non facendogli perdere almeno una delle sue connotazioni, che sono poi anche suggestioni imprendibili, tremolamenti da scirocco: …tergiversare? Prendersela comoda? Affrettari o perdere tempo?
Annacarsi è tutto questo insieme ma è anche di più, è un atteggiamento dello sguardo e anche della postura del corpo. Che va. Ma stando fermo. E si ferma. Ma sembra stia per andare.
Un ossimoro, sì, ma anche una propensione a non decidere, direi, a prolungare uno stato contemplativo…Chissà che cosa abbiamo sempre da pensare, noi siciliani, eppure ci annachiamo sempre, anche quando sembra che abbiamo un moto d’efficienza.
Insomma, annacarsi è un carattere, o anche la buccia di un’anima. Di certo, non è un amletico “essere O non essere”, ma piuttosto un coesistente “essere E non essere”…
Come dire: “Luttuoso lusso, essere siciliani” (Bufalino)….
@Franca Maria Bagnoli:
Carissima… “arrancare” è invece il contrario di annacarsi, perchè indica uno sforzo, l’impossibilità di fare ciò che ci si era prefissati, ma anche la difficoltà nel realizarlo.
Invece chi si annaca è, tutto sommato, privo di qualsiasi agitazione. Di ansia, di difficoltà. E dire che un siciliano ne avrebbe tanti motivi per affrettarsi, per darsi da fare, per agitarsi.
Per questo l’atteggiamento è ancor più misterioso. Nessuno più di noi dovrebbe friggere di efficienza, nessuno più di noi dovrebbe “fare”. Eppure, pare che un immenso animale preistorico ci piova sulle spalle. Eternamente in bilico tra due ere, eternamente in attesa della meteora assassina o dell’ennesimo cambiamento climatico…
Un abbraccio (vieni a trovarci ancora!)
@Alfredo…sì, Roberto ha anche tracciato una mappa di un itinerario in Sicilia…sarebbe bello seguirlo!
@ Roberto…
Caro Roberto, grazie per questa tua fatica letteraria che ci trasporta, con la levità del sorriso e l’amarezza di una lacrima, nel cuore della nostra isola. Ma soprattutto per averne colto le mille sfaccettature, i mille innesti, le miscelature di carne e di anima.
Diceva il Principe di Salina ne “Il gattopardo” : “Siamo troppi”
…e anche
“Ho detto i siciliani, ma avrei dovuto dire la Sicilia. L’ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gli incongrui stupri hanno formato l’animo. Questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali. Questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuor di misura, quindi pericolosi. Questo clima che ci infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi. Questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo.Lei non lo sa ancora, Chevalley: ma da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia….”
E adesso un abbraccio a tutti! A più tardi!
Non conoscevo il significato di annacarsi. Parola affascinante, il cui significato però continua a sfuggirmi forse per la sua duplicità. Come è possibile che una cosa significhi una data cosa e pure il suo contrario?
Esitono altre parole che significano una data cosa e l’esatto contrario?
Mi sforzo di pensarci, ma non mi viene in mente nulla.
Non credo, Ludovico, che ne esistano altre, di parole contraddittorie come questa. Tranne una: “Sicilia”.
Salto i ringraziamenti per non risultare stucchevole, ma sono molto contento di ritrovare tutti voi e magari qualche altro nuovo amico.
A domande rispondo.
Le presentazioni non sono cominciate. Inizierò in aprile, con un calendario che è ancora sub iudice per via di certe vertenze lavorative che per ora mi tengono inutilmente occupato.
Il libro sta andando molto bene. Siamo alla terza edizione nel giro di 25 giorni. I riscontri di stampa sono stati veramente ottimi.
Sotto questo punto di vista, viviamo nel migliore dei mondi possibili.
Finora.
per roberto alajmo.
piacere di trovarla qui. sto leggendo il suo libro.
volevo chiederle questo: secondo lei ci sono aspetti postivi nell’arte di annacarsi?
A proposito di un passaggio della bellissima recensione di Simona, riflettevo sul fatto che Maupassant probabilmente pensava di trovarsi di fronte a un modello di bellezza greca. Invece l’Afrodite Landolina è una copia romana di un originale ellenista.
Ciò confermerebbe il fatto che non bisogna mai fidarsi troppo delle apparenze. Specialmente in Sicilia.
positivi, non postivi ( ovviamente).
sono più gli aspetti positivi o quelli negativi?
Francamente non ne vedo, Fernanda. La tesi del libro è anzi che il mal di Sicilia è causato proprio da tutto questo inutile dondolamento.
a questo punto verrebbe da chiederle se secondo lei esistono rimedi all’arte di annacarsi.
Caro Roberto,
trovo bellissimo che un saggio sulla Sicilia abbia riscontri di pubblico così forti. Leggevo che le classifiche premiano davvero tanto questa tua creatura di sguardi e di lutti.
Questo dimostrerebbe che la Sicilia incuriosisce sempre, e che scoprirla o darne una chiave di lettura equivale a fare un viaggio dentro se stessi…anche se non si è siciliani. Tanto più, e sempre per parafrasare il principe di Salina, che questi siciliani non solo sono troppi, ma “sono anche dappertutto…”
A Milano, a Roma, a Torino…figli di chi ha lasciato l’isola o nipoti di chi se ne è staccato pensando di tornarvi. Innestati e sempre con un occhio qui, per le feste Natalizie o Pasquali.
E poi c’è la capacità di questo tuo saggio di ammaliare come un racconto di luoghi ma anche di persone, di paradossi e di mancanze, di gioie esibite come ferite e fasti celebrati come riti iniziatici. Sacralità mista a superstizione e poi ancora smboli arcaici su segni cristiani, reminescenze ebree, spagnole, arabe, su tinteggiature di carni isolane.
Basta guardare la nostra gioventù per rendersene conto: ragazzi dalla carnagione scurissima e i capelli color del frumento, donne lattee dalle chiome come pece, figli olivastri con occhi blu. Tutti i colori della natura tatuati sulla pelle e provenienti da ogni continente…
Bravo, Roberto.
Un abbraccio
annacarsi è propriamente il dondolarsi nell’altalena( non in senso metaforico, ma letterale): vai avanti e vai indietro, ti si scompigliano i capelli, ti stanchi e ti rilassi, e alla fine…sei sempre lì!
nell’agrigentino il corrispettivo di annacarsi è “Muoversi”! A questo proposito Camilleri racconta un aneddoto che è capitato tale e quale a mia sorella. A casa dell’allora fidanzato Favarese (provincia di agrigento, come saprete), finito di mangiare si alzò per aiutare a sparecchiare la tavola; all’unisono tutti le dissero: “muoviti! muoviti! muoviti! Capirete che lei, come diremmo noi, si è sentita presa dai turchi. Ci ha messo un po’ per capire che quel “Muoviti” voleva dire “Stai ferma”…
Da siciliani dovremmo seriamente riflettere su quello che vuol dire per noi agire. L’ambiguità semantica denuncia una condizione antrologica su cui interrogarsi!
comprerò subito il libro
I rimedi… dovrei scrivere un altro saggio, per suggerire i rimedi. Uno facile facile ci sarebbe, però. Un disastro. Un disastro vero, però. Clamoroso. Qualcosa che si trasformi in una catarsi e metta fine a questo vivacchiare di infimo cabotaggio, costringendo i siciliani ad aprire gli occhi.
Qualcosa che interrompa questo annacarsi, insomma.
Alice, ma davvero dalle tue parti muoversi vuol dire stare fermi?
Ci sarebbe davvero da fare uno studio semantico-antropologico. Molto, molto affascinante.
a Roberto Alajmo volevo chiedere se, secondo lui, l’arte di annacarsi si manifesta in egual misura in tutta la Sicilia, o se ci sono delle zone dell’isola in cui ci si annaca un po’ più di altre.
@andrea sidoti, secondo me il maggiore dinamismo annacatorio lo possiamo trovare a piazza indipendenza a Palermo (vi troverai l’assemblea regionale e la presidenza della regione)! purtroppo non so in che via è la sede del PD…
I migliori auguri a Roberto Alajmo per questo nuovo libro e complimenti per aver scelto una relatrice d’eccezione come Simona per presentarlo qui. Dare una chiave di lettura sul carattere dei siciliani comporta sempre un certo impegno. e più si pensa di averla trovata, più ci si rende conto di essere al punto di partenza. In Sicilia non c’è spazio per i sogni, tutto sembra imbrigliato, tutto sembra dover passare attraverso la gestione clientelare della mala politica e del malaffare. Abbiamo il mare, il sole, la buona cucina ma manca tutto il resto. C’è ancora una questione meridionale da risolvere. Nel sud è sempre emergenza rossa: la mancanza di lavoro, di infrastrutture, la criminalità organizzata; l’Etna che erutta, la peste suina e bovina, il fuoco di Sant’Antonio, il torcicollo dei politici che li fa andare sempre nella direzione sbagliata. Insomma, non si riesce a programmare un piano di sviluppo economico serio e lungimirante. I fondi Ue: un fiume di miliardi dilapidato in corsi di formazione inutili, casolari ristrutturati per attivare improbabili agriturismi e opere incompiute. E intanto ci si continua ad annacare.
Eccellente prentazione del libro di Alajmo. Lo cercherò. Sembra che dica cose essenziali e illuminanti sui siciliani e sugli italiani (anche su quelli che s’illudono di non avere nulla da spartire con la Sicilia). Quanto al detto del «Gattopardo», così spesso citato e così spesso frainteso: in realtà, il protagonista del romanzo constata che molto è cambiato, e che il nipote Tancredi aveva torto sostenendo che nulla sarebbe mutato. Finisce un’epoca. Emerge la borghesia avida e mafiosa, e l’aristocrazia si mescola con essa, ne condivide la mentalità, la cultura. Si imborghesisce.
In certe zone ci si annaca di più, certamente. Nella sicilia occidentale, moltissimo. Meno a sudest.
Nel libro azzardo una specie di Atlante del Sottosviluppo collegando ciascuna area di degrado alla presenza, negli anni , di un uomo politico di riferimento. In sintesi: più soldi pubblici, più immobilismo, più sottosviluppo. Vi rimando alle pagine del libro per gli approfondimenti del caso.
A proposito del famoso detto gattopardiano così spesso citato e che ha fatto il giro del mondo, desidero far rilevare che la stessa frase, solo leggermente diversa, ma dai contenuti identici, l’aveva usata De Roberto nei Viceré. Insomma non è propriamente…una frase di primo pelo e forse la gloria è stata eccessiva.
se il libro mantiene i livelli dell’ottima prefazione deve’essere un vero gioiello. lo comprerò senz’altro.
complimenti anche a maugeri e lo iacono per le recensioni-presentazioni.
Caro Roberto,
parlaci anche di queto essere donna della Sicilia. Anzi, del suo essere madre in due accezioni almeno. Quella “ebrea” che tu evochi qui a Siracusa (col suo passato giudaico a ridosso del barocco). E quella naturale, di magma e di sangue, che evochi a Catania parlando dell’Etna, della quale dici:
“L’Etna è feminile. Addirittura: confidenzialmente femminile. Quando c’è un’eruzione in corso loro dicono: si è svegliata. Oppure: si vede che è nervosa. In ogni caso la chiamano al femminile, l’Ena. Ossia : La montagna. ….Eppure il Vesuvio è maschile….A parità di minaccia per la popolazione umana, forse il motivo va ricercato nel fatto che l’Etna, molto più del Vesuvio, pare discendere e affondare le sue radici nel centro della terra..”
Sembra quindi che la dipendenza dalla madre sia cosa di carne, di necessità.
E’ così? Un matriarcato anche in natura?
è così, sebbene mi risulti difficile spiegare un saggio, che dovrebbe spiegarsi da sé.
A quel che ho scritto e a quel che hai citato tu, posso aggiungere che sì: la Sicilia è femmina. Femmina Buttanissima.
Ho già scritto una lettera a Roberto Alajmo qualche mese fa a proposito di un articolo da lui scritto su La Repubblica e che trovai molto interessante.
Oggi vorrei intervenire iniziando a parlare si dell’Arte di annacarsi che, secondo me, traduce oltre a quanto avete saggiamente spiegato, soprattutto l’ondeggiamento del bacino a destra e a sinistra, vanità non solo femminile di una terra famosa per quel suo senso di precarietà eterna.
TRINACRIA PRECARIA.
Da che cosa deriva il sentimento di eterna precarietà della nostra bella Sicilia?
Lo sdegno provato dagli intellettuali, di chi si occupa di arte e cultura, o semplicemente da parte di coloro che hanno una spiccata sensibilità nei confronti dei problemi della propria regione, raddoppia d’ intensità se allo sgomento si aggiunge la rassegnazione.
Mi è venuto in mente il volto pieno di grinze di Sciascia e quella sua espressione contratta di fronte ai fatti di sangue di Palermo, ho pensato alla fronte alta e spaziosa di Gesualdo Bufalino, alle sue criptiche espressioni letterarie di quando la sua Comiso ricca di pietra antica e poesia, si trasformò in un mostro di cemento dai piani edilizi aberranti, per non parlare della base militare americana. E’ straziante dover assistere ai toni violenti che toppo spesso propone questo territorio, alla barbarie dei capoluoghi di provincia, al disordine, ai problemi d’immondizia mai completamente risolti, alla delinquenza ad ogni angolo di quartiere, allo stato di paura che quotidianamente ci attraversa per evitare i pericoli e restare in piedi con i nostri piccoli diritti di sopravvissuti, nella vana ricerca di istituzioni che possano proteggerci.
“La libertà di restare siciliani senza dipendere dalla Sicilia” rimane una massima delle anime libere, traduce (in parole semplici e soprattutto concrete) il concetto che lo “status di ricchezza” possiede il privilegio di fare marameo all’inefficienza delle strutture sociali, persino la propria attività, se si ha la possibilità di farla procedere con contatti e relazioni oltre lo stretto o addirittura all’estero, generalmente godrà di sviluppi certi senza venir contaminata da recessi o fallimenti. Ovviamente mi riferisco alle persone oneste.
Viceversa, per un siciliano che vive in bilico fra la quadratura del suo bilancio e le strutture pubbliche, il rischio è quello di venire travolti dalla loro generale inefficienza, con la conseguente nascita del desiderio di uscirne in fretta, per evitare il peggio, oltre al fatto che ha rischiato di non realizzare le sue sane speranze di miglioramento.
(Ci sono Stati dove i servizi alla collettività sono indice di benessere e sviluppo per tutti, niente di strano se ne usufruisce chiunque senza distinzione di censo).
Comunque sia, non c’è niente di più comico come prendere un autobus a Catania o a Palermo, inoltrarsi nelle stanze di palazzi comunali, risaputa la simpatia di medici e degli ambienti nei quali lavorano, il terziario quasi è sempre allegro basta non farlo lavorare con ritmi frenetici, tutto induce alla risata per evitare la disperazione.
Il denominatore comune fra i siciliani benestanti, i poveri, la nobiltà, la borghesia, popolo, popolino, dinastie, arricchiti, emigrati, rimpatriati, è l’atavico sentimento d’impotenza di fronte al malvagio destino regionale, sentimento che esclude fede e speranza a consolidamento di un paganesimo proposto dagli dei. La robba.
L’argomento si apre e si chiude con una risata (forse è la reazione dei siciliani ogniqualvolta qualcuno fa notare loro delusioni – aspettative un po’ come fossero causa- effetto) e, dal momento che l’ironia rimane l’ultimo antidoto all’amarezza, Allora domando: i Siciliani moderni in che cosa credono?
Logicamente, se programmi e progetti (così come vengono preannunciati) si portassero a compimento, l’intero destino dell’isola potrebbe cambiare insieme a quello dei suoi abitanti, la catena e gli anelli che la compongono non più spezzata ma unita verso una direzione opposta, di “realizzazione”: questo presuppone un radicale capovolgimento di mentalità, introduce il senso della collettività, del non sentirsi un’”isola dentro“ (Bufalino scrisse isola+ solitudine =isolitudine) Impone inoltre l’abbandono di quel sentimento di una Sicilia sentita come l’eterna provincia o l’eterna colonia dove prevale il feudo privato insieme a cordate e rimpasti politici.
Sicilia eternamente precaria, bisognerebbe cambiarti dentro, tutta quanta, ma come si fa ad introdurre nel tuo dialetto il verbo al futuro?
Saluti.
baci per Simona
A Roberto Alajmo.
Una curiosità. Quanto tempo ha impiegato ad effettuare il giro della Sicilia?
Spero per lei che non abbia usato le ferrovie.
Cara Rossella…un bacio a te. E’ vero. Il siciliano non conosce il futuro, usa sempre il passato nel linguaggio, anzi un particolare tempo del passato: il passato remoto. Noi non diciamo: hai fatto questa cosa? Ma: la facesti? O : sono andato là. Ma : andai là. Oppure : che cosa è stato? Ma: che fu?
Il passato prossimo dovrebbe considerare eventi in qualche modo ancora attuali. Mentre il passato remoto indica un tempo lontano, che va riempito col ricordo, e che se anche fosse quasi attuale (o da pochissime ore trascorso) il siciliano non considererebbe mai presente.
La lingua tradisce, come giustamente diceva Alice e come suggerisce Alajmo, le propensioni dell’anima e del pensiero, gli approcci con il reale e con l’apparenza del reale.
Tutto sommato, nell’uso del passato remoto c’è un bell’esercizio di immaginazione. Fingere che tutto sia talmente distante da non riguardarci.
Caro Roberto, all’osservazione di Matteo aggiungo questa.
Nel libro dici: “Il viaggio in Sicilia è una responsabilità. Si attraversa l’isola, idealmente, sulle spalle di coloro che l’hanno fatto prima di noi, trovando le stesse cose o cercandone altre. Goethe cercava una determinata Sicilia, strettamete imparentata con un ideale di classicità greca”…
E tu, caro Roberto, cosa cercavi nell’isola?E …l’hai trovata? O forse un siciliano parte con meno “bagagli”?
ulteriori elementi di riflessione:
a Corleone, e non solo, la “naca” è la culla (come è già stato detto), ma anche il bacino di un lago (per modo di dire, visto che noi laghi veri e propri non ne abbiamo). E ,sempre Corleone, l’atteggiamento dell’annacarsi è propriamente detto del mafioso
Il viaggio l’ho fatto in una cinquantina d’anni. Il viaggio di scrivere questo libro in due. E se avessi usato le ferrovie, a quest’ora non avrei finito.
Cosa cercavo… Facile sarebbe rispondere: me stesso, la mia identità.
E l’ho trovata? non direi. Semmai, devo averla smarrita durante il viaggio. Il finale del libro, sullo stretto di Messina, voleva essere a suo modo metaforico di questa pulsione di fuga, innanzi tutto da me stesso.
Che bella discussione. Salvo Zappulla giustamente ricorda i «Viceré» di De Roberto, a proposito del detto attribuito a Tancredi nel «Gattopardo». Tomasi di Lampedusa volle scrivere un anti-«Viceré». De Roberto credeva realmente che nulla fosse cambiato, a dispetto delle apparenze. Il protagonista del «Gattopardo» invece – a differenza di Tancredi – non riesce più a riconoscersi nella nuova realtà, e da ultimo aspira solo alla morte.
l’identità siciliana, contraddittoria per quanto si vuole, la si trova un po’ ovunque. nei testi e nelle teste. nelle pagine e nel mondo. ma non mi ricordavo, o forse non sapevo, che Dante avesse parlato di Sicilia (Trinacria) nel Paradiso. grazie per la citazione.
la discussione è interessante. in bocca al lupo ad alajmo per il libro. mi consideri un suo nuovo lettore.
Da buona Palermitana esiliata al nord, Roberto Alaimo è uno dei miei preferiti ;-))
Posso testimoniare di aver conosciuto personalmente alcuni dei pazzi della città di Palermo (la Signora Carta, che raccoglie cartoni..)
Il significato di annacarsi letteralmente è cullarsi, da naca = culla.Nel nostro splendido dialetto, pieno di contraddizioni:
Annacati = muoviti, sbrigati… Mostra tutto
Un t’annacari = non perdere tempo, quindi muoviti, sbrigati
Sbaglio???
Corro a comprarlo
Dimenticavo la citazione preferita “Numquam est tam male Siculis, qui aliquis facete et commode dicant “
la vita è una continua contraddizione…
Parliamo anche dell’ironia, Roberto.
Che non viene tanto da una pulsione al riso, quanto da un lutto. Anzi, da “una parabola luttuosa che viene spesso reiterata nella storia di Sicilia: l’idealismo sconfitto….i siciliani hanno elaborato una tecnica umoristica finalizzata allo scetticismo” dici nel capitolo dedicato a Mineo (città natale di Bonaviri e Capuana).
E’ come se col riso si distruggesse ogni sogno, ogni possibilità di creazione. Ogni speranza.
Non ti pare che questo sarcasmo sia anche una forma di autodifesa dalle delusioni?
Lo è, Simona, e in certi casi risulta anche perniciosa. La tendenza a liquidare tutto con un sorriso (che riscontro anche in me) può funzionare come una camera di decompressione per tutto il furore che certe volte dovrebbe prenderci tutti, noi Siciliani, di fronte a quello che ci fanno.
Ridi che ti passa: e non vorrei che mi passasse proprio, certe volte.
Forse la principale causa delle nostre disgrazie siamo proprio noi siciliani. Popolo straordinario che, per usare un’espressione alla Camilleri, e citata anche da Alajmo, prende la forma dell’acqua. Si adatta a tutto. Accetta supinamente quello che classe politica, imprenditori e mafiosi propongono. Senza ribellarsi. Tranne in casi rari ed estremi. Come nel dopo-stragi del 1992. Piccoli lampi di rabbia in un cielo sempre opaco. Le cifre parlano chiaro, sono numeri disastrosi, con la disoccupazione giovanile al 30% e il reddito medio ai limiti della povertà. Cii si dovrebbe aspettare la rivoluzione, la guerra civile. E invece niente. Tutto tace. Lavoro nero diffuso, assistenzialismo dilagante, poche regole, infrastrutture fondamentali viste come una conquista dopo 20 o 30 anni. La verità è che a molti siciliani questo stato di cose sta bene. E sta bene anche alla classe dirigente perché gli permette di mantenere il potere sul bisogno della gente. Un circolo vizioso che “imprigiona” l’Isola. Il fiume di miliardi arrivato con i fondi europei in questo decennio avrebbe potuto rimettere a nuovo la Sicilia. Come hanno fatto l’Irlanda o le regioni più povere della Spagna. E invece no. Noi li abbiamo dispersi in mille rivoli per garantire l’esistente, finanziare corsi di formazione inutili e ristrutturare casolari di campagna per trasformarli in improbabili agriturismi. Quanti posti di lavoro hanno prodotto? Boh, nessuno lo sa. Mentre il divario con il Nord, certificato da Bankitalia, aumenta.
I miei complimenti per la bella presentazione di Alajmo e la poetica recensione di Simona a cui mando un bacio!
Mi ha molto colpito,perchè parla di qualcosa che vivo e conosco, quando lei Alajmo parla di Napoli e Palermo,anzi Sicilia e Campania come figli dello stesso padre.Sono d’accordo,ma direi oggi orfane dello stesso genitore e ancora incapaci di accudirsi da sè,nonostante le menti,il cuore e lo spirito.Anche incapaci di vivere la rabbia, riconoscerla e trasformarla in progetto.L’ironia aiuta ma come dice lei talvolta si fa rassegnazione, non ci si stupisce più laddove si dovrebbe inorridire,strillare e reagire.La platealità delle reazioni è spesso così forzata e fasulla proprio come se fosse impersonificazione di maschere.Le persone autentiche dove sono?Si riesce ad essere padroni delle nostre vite senza dover rinunciare alla dignità dell’individuo,senza conformarsi alla violenza che ci circonda e senza dover rinunciare alla nostra storia di gente del sud?
Quello che diceva Eduardo De Filippo a Napoli io non lo voglio dire ai miei figli e ai figli dei miei figli”Fujetevenne”=fuggitevene!Secondo lei cosa dovremmo dire a chi nasce e cresce nelle nostre terre- parlo di Campania e Sicilia- ?Non dovremmo trovare la forza necessaria per dire Restate e riprendetevi la vostra terra…anche se è per noi la cosa più difficile a cui credere dal profondo del nostro cuore.
un caro saluto e in bocca al lupo per questo libro che con grande piacere leggerò.
E’ da tempo che parlo di un viaggetto in Sicilia,dopo la lettura avrò modo di comprenderla meglio.
Non conoscevo questo termine “annacarsi”,interessante, un pò l’idea di quando negli incubi notturni da bambina sognavo di correre con le gambe che si muovevano a vuoto nell’aria e restavo sempre nello stesso posto?
grazie mille.
…annnacarsi è anche un pò l’arte della mistificazione o no?quindi i politici italiani dovrebbero essere degli esperti e navigati annacatori?!
Bellissima discussione sulla sicilianità per me che siciliana lo sono in tutto e non avendone avuto consapevolezza per molto tempo.Siciliana lo sono quando rinvio ad un domani ipotetico e immaginario le cose da fare che ritengo urgenti e mi vedo anche sorridere con quella particolare ironia che non esprime affatto allegria nè gioia.Siciliana lo sono guardando tutti i giorni lo splendore dei Templi di Agrigento e restando ancorata ad un passato che non ci appartiene più.Siciliana lo sono quando mi indigno per la rassegnazione della mia gente,per l’apatia ,per la rabbia che non riesce ad esplodere.Siciliana lo sono quando cammino per le strade di Roma, MIlano,Firenze o qualche altra città distante dalla Sicilia, sono siciliana perchè mi stupisco delle cose più semplici che noi non riusciamo ad avere.Sono siciliana per questo senso di identità scomposta e potente che mi porto addosso, sono siciliana nel linguaggio e nei miei sentimenti tipici e scontati che provo per questa isola:amore,odio,distacco,senso di appartenenza,solitudine,dolore…
Un caro saluto a tutti.
Grazia Nobile
Io mi sento siciliano perchè porto in me la cultura mafiosa, è parte integrante della mia educazione, niente la potrebbe estirpare. Quasi un vessillo di cui andare orgogliosi. Certe situazioni che da altre parti farebbero rabbrividire, noi li accettiamo e li avalliamo. Una volta mi trovavo in provincia di Agrigento, vado da un barbiere per radermi. E quello che fa? Sputa sul pennello per ammorbidire la schiuma. Solo una leggera sorpresa da parte mia. Sarà la mancanza d’acqua, penso leggermente schifato. Il barbiere me lo passa sul volto, mi rade. Io non mi muovo di un millimetro. Pago, elargisco persino la mancia per l’ottimo servizio. Chiedo solo se per lui è cosa usuale sputare sul pennello destinato ai clienti. “Oh no!” risponde meravigliato. “Ai locali sputo direttamente in faccia. A lei l’ho rispettata, perchè viene da fuori e si capisce che è persona distinta”.
Lo ringrazio per il trattamento di favore e gli allungo altre cinque euro.
Mio figlio sa che dovrà partire a 18 anni. Dissento dal precetto di Tomasi di Lampedusa (“presto, prima che si formi la crosta”) perchè con una piccola crosta si apprezza meglio il resto del mondo: come una lunga discesa dopo una breve salita.
Un rapido passaggio per ringraziarvi per i numerosi commenti e contributi.
Un bentornato a Roberto qui a Letteratitudine.
Un ringraziamento speciale a Simona per la sua presenza costante in questa discussione (oltre che, come già detto, per la recensione del libro).
Tornerò più tardi per “riprendere” qualcuno dei vostri commenti e fornire ulteriori informazioni e spunti su questo nuovo libro firmato da Roberto Alajmo.
A dopo!
Miiiii ….come s’annaca ! – Disse Renato Guttuso mentre dipingeva il dietro di una bella donna che si muoveva, dondolandosi, fra i banchi della uccerìa di Palermo. Un quadro splendido, sensuale, pieno di luce, dove tutto vibra: le rotondità femminili come fossero curve di violoncello, la frutta sgargiante, i pesci, le luci, i venditori, suoni, colori, movimenti, relazioni fra gli elementi, che radiosa allegria popolare!
A Catania e provincia, quando una persona è affascinante, attraente, di piacevole aspetto in dialetto si dice “ simpaticuni” (molto simpatico), come a voler sottolineare che l’estetica è una qualità del carattere e della comunicazione oltre che presenza fisica; al contrario “liscio” (senza sale) è colui che non coinvolge. Quindi il gesto, la mimica, la dialettica hanno il dono della comunione, ed è proprio con questa simpatia che la comunicazione fra gli individui raggiunge un alto grado di amicizia, in inglese si chiama feeling.
Attraverso il sorriso i siciliani si sentono gli uni dentro gli altri e si comprendono fra di loro al volo, senza grandi discorsi, soprattutto sugli argomenti più seri. Riflessione morale immediata.
Ciò che si dovrebbe temere di più è il sarcasmo non solo siculo, quella grassa risata che sfotte il destino amaro in questo caso dei siciliani, come a volerli privare della speranza di cambiamento, come a voler sottolineare la loro impotenza.
Tutto qui.
Concordo con Rossella. In Sicilia non occorrono grandi discorsi, basta un cenno d’intesa per decretare la condanna a morte di una persona.
@ Grazia Nobile
Un tempo avevo un amica con questo nome, ho ancora il suo sguardo impresso nella memoria, non potrò mai dimenticarla per il semplice fatto che da lei mi sono sentita amata. Forse anche capìta.
Nel nostro miglioramento interiore lo sdradicamento non è possibile. Neppure sposando un marito russo o azteco.
Ciao
Ciao Salvo,
hai ragione, molto significativo al riguardo lo spettacolo di Emma Dante “cani di bancata”.
Eccomi di nuovo qui.
Per prima cosa (come mia abitudine) ci tengo a salutare e ringraziare personalmente tutti coloro che hanno partecipato alla discussione fino a questo momento (dando il benvenuto a chi è intervenuto per la prima volta.
Un caro saluto, dunque, a: Franca Maria Bagnoli, Alfredo, Ludovico, Fernanda Auteri, Alice, Andrea Sidoti, Salvo Zappulla, Arnaldo Di Benedetto…
E ancora: Luca Di Giorgio, Rossella, Matteo, Itala Greco, Roberto Ferri, Mariagrazia Cirami, Francesca Giulia Marone, Grazia Nobile.
Grazie a tutti per il vostro apporto alla discussione.
@ Salvo Zappulla e Arnaldo Di Benedetto
Interessante il parallelismo tra “I Viceré” di De Roberto e “Il Gattopardo” di Tomasi Di Lampedusa.
Vi invito (se avete tempo e voglia, s’intende) a trovare qualche citazione tratta proprio da “I Viceré” in tema con questo post.
Concordo con Grazia Nobile…
Per me essere siciliana è essere profondamente radicata ad una terra e al susseguirsi delle sue culture.
Parlare e scrivere nel dialetto dei miei nonni.
Sentirmi fiera e nel contempo vergognarmi.
Bravo Roberto, di cui leggo sempre il forum. Brava come sempre Simona…
Condivido l’inquietitudine di Francesca Giulia. Andare. Restare. Credo che noi tutti, ci siamo posti almeno una volta la domanda : cosa fare?
E l’amore, fatto di luci, ombre, rimorsi e slanci di Grazia Nobile.
E’ poi vero, come dice Rossella, che l’essere siciliano si coglie soprattutto nella lingua. Nei gesti. Nei silenzi.
E che della sopportazione fa un’arte, come racconta Salvo.
Una delle metafore più belle del libro di Roberto è quella della rete idrica di Agrigento.
Credo che riassuma tutto. Che evochi tutto…ve la riporto nel successivo commento ( a me ha ricordato la descrizione degli intrichi fognari di Parigi ne “I miserabili” di Hugo)
Ne approfitto per salutare Maria Lucia e Simona, mentre mi accingo a inserire (qui tra i commenti l’indice del libro).
L’indice, direte voi? E a che serve?
Serve, serve… o quantomeno è davvero… indicativo sull’opera (grazie ai sottotitoli di ciascun capitolo).
–
Lo inserisco, qui di seguito a blocchi (per favorirne la visualizzazione).
Premessa. Le mani avanti
1. Marsala e Calatafimi. Visto che da qualche parte bisogna cominciare –
2. Palermo. Teoria e tecniche dell’annacamento –
3. Ustica. L’isola che mette in scena la rappresentazione di se stessa –
4. Lampedusa. L’evoluzione non esclude che gli uomini possano comportarsi come certe razze animali, e segnatamente le testuggini
5. Mazara del Vallo. In attesa del meglio, forse conviene accontentarsi del meno peggio –
6. Portopalo. La ubris non era un’invenzione dei tragici greci –
7. La Scala dei Turchi. Ogni popolo ha il suo scheletro nell’armadio –
8. San Vito Lo Capo. Il destino di trovarsi accanto al posto più bello del mondo –
9. Intermezzo. Vita sentimentale e vicissitudini postume di Federico II –
10. Favignana. Forse il cubismo esisteva già in natura –
11. Selinunte. Certi posti si capiscono meglio andando da un’altra parte –
12. Segesta. Il malinteso teatro, i teatri malintesi –
13. Agrigento. Elementi di pirandellismo applicati all’idraulica e alla meteorologia –
14. Sciacca. Ogni testa è tribunale –
15. Polizzi Generosa. Sfortuna è scoprire la propria felicità quando è troppo tardi –
16. Intermezzo. Don Chisciotte e gli altri –
17. L’habitat ideale dei personaggi romanzeschi –
18. Pantelleria. L’invenzione dell’invenzione –
19. Gibellina. Le buone intenzioni quasi mai riescono a bastare –
20. Noto e Avola. Esistono città cicala e città formica, e di solito non vanno per niente d’accordo fra loro
21. Siracusa. La variante siciliana della madre ebrea –
22. Scicli. La Madonna bellicosa e suo figlio che manco scherza –
23. Tindari. Del resto chi l’ha detto che una Madonna non possa essere suscettibile? –
24. Intermezzo. A una festa non bisogna chiedere troppa coerenza, né politica né religiosa –
25. Enna, Nicosia, Niscemi, Caltagirone, Palazzo Adriano. C’è sempre un cuore che batte al centro
26. Castelbuono. Un’eccezione che conferma le peggiori regole –
27. Intermezzo. Il viaggio in Sicilia come genere artistico a sé stante –
28. Catania. A un certo punto qualcuno deve aver dato il segnale di immersione rapida –
29. Le Gole dell’Alcantara. Non è che bellezza e perversione siano incompatibili, anzi –
30. Le Eolie. Persino la bellezza più pacificata nasconde un’inquietudine latente
31. Mozia. Bisogna sì volare alto, ma certe volte la bellezza si trova in un dettaglio –
32. Castel di Tusa. Antonio Presti, ovvero la strategia del dono –
33. Mineo. I sogni fatti in Sicilia non durano mai troppo –
34. Cefalù. L’osmosi della somiglianza prende il sopravvento –
35. Intermezzo. Breve storia del vino siciliano, dove si capisce che la fortuna conosce solo strade tortuose
36. Taormina. Elogio delle strade traverse e del vivere nascostamente –
37. Trapani. I sensi sono cinque, ma certe popolazioni ne sviluppano alcuni meglio di altri –
38. Erice. Nella lotta dell’uomo contro l’omologazione il fronte passa dal sonno pomeridiano –
39. Modica. Il vantaggio di trovarsi lontano da ovunque –
40. Ragusa. Un’isola nell’isola nell’isola –
41. Messina. Prima o poi, in un modo o nell’altro, i viaggi trovano comunque una conclusione possibile
@ Simona
Prima di continuare aspetto il tuo commento sulla metafora della rete idrica di Agrigento.
“E’ un’Agrigento sotterranea quella degli allacciamenti abusivi all’acquedotto. Ognuno degli abitanti conosce un tratto di tubatura che gli consente di dragare l’acqua necessaria alla sopravvivenza della propria famiglia. …Quel che sfugge, che non esiste, o nessuno sa dove si trovi, è una mappatura delle rete idrica pubblica. Gli stessi operai che ci lavorano, i funzionari dell’azienda comunale procedono empiricamente, intervenendo sui singoli punti critici. Ma il giorno in cui un’amministrazione decidesse di rifare la rete idrica pubblica non si saprebbe da dove cominciare… Non si sa chi l’abbia detto per primo, ma ad Agrigento si dice che l’acqua non serve a togliere la sete, ma la fame…”
—
Caro Roberto, tutto questo correre di tubi sotto terra in effetti è una metafora della Sicilia “nascosta”, abusiva, sfuggente a controlli, razionalità, mappe. Insomma, che rapporto hanno i siciliani con l’acqua?
Grazie mille, Simona cara.
Procedo inserendo la recensione firmata da Goffredo Fofi, pubblicata su “L’Unità” del 14 marzo 2010.
E adesso…buonanotte a tutti!A domani! Un grazie di cuore a Massi per l’accoglienza e a Roberto per il viaggio. Un bacio grande a Mari e, per chiudere, uno all’intera isola che dorme.
Grazie ancora
Simo
“Viaggio d’amore in Sicilia” di Goffredo Fofi
da L’Unita del 14.3.2010
–
Il primo amore non si scorda mai? Di innamoramenti se ne vivono tanti, ma alcuni lasciano un segno più forte, durano una vita. Con gli alti e con i bassi, con le delusioni e con i ritorni di fiamma. Due grandi amori, anzi grandissimi, sono stati per me quello per la Sicilia e quello per Napoli, e il primo specialmente. Sono stati, come sono i grandi amori, di dedizione e di furia, esigenti e contrastati. Ad amori forti corrispondono spesso forti delusioni, e le mie sono state dettate da aspettative che non hanno avuto il riscontro sperato. Ti aspetti che una persona migliori grazie alla tua povera dedizione, alla tua amicizia e al tuo fervore, e invece quella se ne va per la sua strada e magari peggiora, fa vistosamente il contrario di quel che sarebbe – pensi tu – il suo bene, e ti costringe a voltarle le spalle, a mandarla a quel paese. Difficilmente, anzi quasi mai, le cose si aggiustano più tardi, perché non tutti riusciamo a prendere esempio dalla parabola del figliol prodigo, e c’è anche chi, come a me è capitato, metaforicamente lo ammazza, il figliol prodigo, per nutrire un vitello già grasso di suo…
La lettura del “viaggio in Sicilia” di Roberto Alajmo (L’arte di annacarsi, Laterza) mi ha risvegliato l’amore per la grande isola conosciuta e vissuta negli anni della prima giovinezza, quando si è più disponibili all’amore. Tanti dei luoghi che egli visita li ho visitati molti anni fa, prima del boom e della motorizzazione, delle grandi migrazioni verso il Nord, della fine del mondo contadino eccetera. Ed erano immagini e incontri meraviglianti, spesso sconvolgenti, di luoghi e di persone, dove la bellezza non riusciva a nascondere la miseria e dalla miseria nascevano le spinte alla lotta. Come doveva poi succedermi a Napoli, il mio atteggiamento era di stupore – di fronte a una diversità di luoghi e persone, di modi di vivere e ragionare. La sorpresa spingeva al rispetto: quel che non capivo non stava a me giudicarlo, per parteciparne dovevo accettarlo, acquisirlo, e solo dopo, da dentro (per quel tanto che mi era possibile entrarvi), cercare alleanza con chi chiedeva giustizia, non con chi denigrava e sfruttava il presente. Gli anni della delusione vennero dopo, nella constatazione del cambiamento divorante e di ipocrisie nuove ed efferate – la mutazione da cui voleva metterci in guardia Pasolini – che erano bensì nazionali, e di tutto e di tutti.
Misto di storia e di presente, di cultura e paesaggio, il viaggio di Alajmo è un susseguirsi di luci e di ombre in grado di risvegliare l’amore per l’isola, ma un amore ora adulto, e simile a quello che si può e deve avere per la penisola tutta, nel suo soggiacere alla stessa lebbra. È l’amore che si deve avere per un malato, un amore che cerchi gli antidoti, la medicina. Più che dei capitoli-luoghi di questa Sicilia dell’annacamento (annacare o dondolarsi vuol dire «il massimo del movimento col minimo dello spostamento») si deve però parlare della “chiave” del viaggio, che sta nell’introduzione in cui Alajmo affronta e smonta molti luoghi comuni, a cominciare da quelli sulla mafia. Condivido la sua ripugnanza per l’“antimafia da parata”, la stessa che provava Sciascia. Perché «lo Stato non rappresenta un’alternativa credibile, là dove Stato e Cosa Nostra si sovrappongono in continuazione», perché la retorica coltivata da preti e politici, giornalisti e giudici serve a costruire piccoli successi e piccoli poteri e non a cambiare le cose, se non si affrontano “i nodi strutturali”, perché «prendere atto della realtà è il passo preliminare verso qualsiasi ipotesi di soluzione del problema. Per riuscire efficacemente a spremersi un brufolo, bisogna prima procurarsi uno specchio e avere il coraggio di guardarci dentro», perché se chi agisce e lotta si ritrova poi solo di fronte alla complicità dei più e alle chiacchiere dei predicatori non può alla fine che pensare, dice amaramente Alajmo, «né con questo Stato, né con Cosa Nostra».
Palermo e Napoli, due amori difficili. «In fondo, Sicilia e Campania sono figlie entrambe dello stesso Stato assistenziale, caratterizzato dall’essere allo stesso tempo troppo e troppo poco presente. Lo Stato si comporta col Meridione come quel genitore che per farsi perdonare le proprie assenze compra un sacco di regali al figlio, e si sorprende quando poi scopre che il figlio è cresciuto male, diventando un delinquente. Allora gli dà uno schiaffo, e si sorprende ancora di più quando il figlio glielo restituisce, lo schiaffo. Ecco, Palermo e Napoli sono figlie dello stesso padre. Solo che questo padre ormai ha rinunciato a provarci, coi ceffoni. Un trattamento che riserva solo ai figli degli altri», cioè agli immigrati.
Grazie a te, Simo.
Buonanotte. :-))
@ Roberto Alajmo
Roberto, nei giorni scorsi Corrado Augias ti ha invitato nella sua trasmissione (“Le Storie”) che conduce alla Rai, per parlare di questa tua nuova opera letteraria.
Ha fatto tanti complimenti a te e al libro… ma ha criticato il titolo e l’immagine di copertina.
Secondo lui, “L’arte di annacarsi” – come titolo – è incomprensibile per un lettore non siciliano… e ciò non favorirebbe il libro.
Tu cosa ne pensi?
E perché hai scelto quell’immagine in copertina? Cosa rappresenta per te?
A proposito… chi lo desiderasse può vedere la citata trasmissione di Augias cliccando qui:
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-d9fc0f44-cf58-4f0a-b640-9eecb3cbb8ac.html
Comunque, secondo me l’idea di legare il termine “annacarsi” a l’immagine di un’automobile è vincente.
Ed è già stata esportata all’estero…
Guardate qua:
http://www.annacars.gr/
Ovviamente quella di sopra era una battuta…
Lo so, lo so… abbiate pazienza. Il mio è spirito siculo di bassa lega (nessun riferimento alla nord, giuro).
A tutti voi una serena notte.
Scusatemi ancora se questa sera scrivo e scrivo e scrivo.
Vi voglio augurare la buonanotte con un Gesualdo Bufalino “L’OMU SOLITARIO O E’ ARMALI O E DIU”. “SULITA’ SANTITA’ “.
Isola più solitudine uguale isolitudine. A questa parola inesistente m’è spesso piaciuto ricorrere per tradurre il sentimento dei siciliani…
Soli su una terra che, gira rigira, in qualunque direzione si vada, termina contro una barriera di mare: una terra dalle budella di lava, che sussulta sopra le acque come una paranza bucata, disposta quanto mai ness’altra ai naufragi, alle catastrofi… Soli, infine, in un letto: sognando nessuno, sognati da nessuno…Ne verrà per la solitudine il doppio destino d’essere ora patita come uno stigma, ora vantata come uno stemma: secondo che il reietto obbedisca a un’urgenza di sodalizio e di compagnia,: ovvero in soprassalto d’orgoglio, si cinga dentro le quattro mura della sua tana la corona di santo e di Domineiddio.
da MUSEO D’OMBRE di Gesualdo Bufalino.
Rossella
Solo il titolo, non era piaciuto ad Augias, non la copertina.
Io ovviamente sono convinto che sia invece un ottimo titolo. Spero che incuriosisca. Ed è collegato alla copertina, che raffigura il cofano posteriore di una automobile dipinto coi colori di un carretto siciliano. Mi è sembrata una metafora della sicilia che segue il progresso senza schiodarsi dalla tradizione: si annaca, appunto.
Una contraddizione che riguarda anche l’acqua, per rispondere sinteticamente a Simona: avete notato che nella stessa stagione è successo che si invocassero gli aiuti sia contro la siccità che contro le inondazioni?
Buon risveglio a tutti!
Prima di correre in ufficio volevo ricordarvi che il famoso “parlare a cenni” dei siciliani è un’invenzione proveniente da Siracusa! Nacque infatti dalla proibizione fatta dal tiranno Ierone che temendo una congiura ai suoi danni vietò ai siracusani di parlare tra loro…
Storia vecchia, dunque. Che gli scrittori si ostinano a ribaltare.
Ti chiedo allora, Roberto: che rapporto hanno i siciliani con la parola e il suo contrario (il silenzio)?
Si annàcano anche in questo caso?
E poi….parola scritta e orale…Forse la prima è una via d’uscita. Un insperato accesso alla libertà.
Che rapporto hanno i siciliani con la libertà?
Buon proseguimento a tutti e un bacio a Rossella e al suo meraviglioso Bufalino!
A dopo!
Non ho ancora letto il libro ma non vedo l’ora di averlo in mano per assaporarne ogni parola con il gusto che immagino gia’ armonioso e sensoso, fino a diventare struggente …Si perche’ la Sicilia te la senti dentro come un boccone buono. Io l’ho conosciuta poco ma l’ho girata tutta. L’ho conosciuta poco perchè non mi sono saziata. avrei voluto …viverla e viverla ancora. ” Annacarsi.”…non mi appartiene ..ho pensato. Io sono impulsiva. Io non annaco..( si dira’ così) ma pur non è vero, adoro annacare..cioè vivere sospesi …sono momenti magici e divini.
sono momenti che ci portano a trascendere l’imminente. E allora penso alle marine di un pittore siciliano , credo che sia Guccione, sospese e vere
chè anche il mare in Sicilia può essere così… va ..viene, e sempre uguale ma anche diverso.
Ritornerò ancora e parlerò del libro. Grazie a tutti. e soprattutto a Letteratitudine.
Una domanda per Roberto Alajmo.
Dei difetti è stato detto. Secondo lei qual è il miglior pregio dei siciliani?
a proposito di citazioni, ne lascio una di Sciascia……
I siciliani – dice il Di Castro – generalmente sono più astuti che prudenti, più acuti che sinceri, amano le novità, sono litigiosi, adulatori e per natura invidiosi; sottili critici delle azioni dei governanti, ritengono sia facile realizzare tutto quello che loro dicono farebbero se fossero al posto dei governanti. D’altra parte, sono obbedienti alla Giustizia, fedeli al Re e sempre pronti ad aiutarlo, affezionati ai forestieri e pieni di riguardi nello stabilirsi delle amicizie. La loro natura è fatta di due estremi: sono sommamente timidi e sommamente temerari. Timidi quando trattano i loro affari, poiché sono molto attaccati ai propri interessi e per portarli a buon fine si trasformano come tanti Protei, si sottomettono a chiunque può agevolarli e diventano a tal punto servili che sembrano nati per servire. Ma sono di incredibile temerarietà quando maneggiano la cosa pubblica e allora agiscono in tutt’altro modo… E prima aveva avvertito: la Sicilia è stata fatale a tutti i suoi governanti; e la maggior parte di essi ha lasciato sepolta in quel Regno la reputazione in modo tale che nemmeno nella posterità ha potuto mai più risorgere.
(Leonardo Sciascia: da “Sicilia e sicilitudine”, pp. 961-962)
aggiungo che la Sicilia è una terra che adoro. scendo ogni estate per trascorrere le vacanze e ho un sacco di cari amici siciliani. per questo non sono del tutto d’accordo con la citazione di sopra.
ciao a tutti e auguri ad Alajmo per il libro.
Un esempio dell’annacarsi, presente nelle manifestazioni religiose in Sicilia, lo si può trovare qui: http://www.youtube.com/watch?v=_HZVFDl9QIU&feature=related
Si tratta dell’incontro di Pasqua a Ribera. La tradizione è presente in molti comuni siciliani ma a Ribera assume questa forma particolare di ‘annacamentu’ attraverso cui i ‘santi’ sembrano partecipare alla grande gioia che coinvolge tutti i partecipanti che celebrano così l’evento che ricorda la resurrezione di Cristo. Ma è anche celebrazione della rinascita, della vita che riprende, della natura che si risveglia dopo i lunghi mesi invernali.
@ Roberto Alajmo
Le vorrei porre una domanda; ma la pongo un po’ sottovoce, dal momento che non ho ancora letto il suo libro. Non riesco però a non approfittare della sua presenza qui.
Ripetutamente si è detto che “La Sicilia” e “I Siciliani” sono contraddittori, ambigui ecc.
Non trova che questa ambiguità nasca dal modo di porre la domanda? O meglio, dal modo in cui posiamo lo sguardo su questo oggetto, che è la sicilia? Voglio dire, porsi la domanda “sui Siciliani” inevitabilmente ci porta a scontrarci contro una realtà composta da 5 milioni di persone, in primo luogo;siciliane, in secondo luogo.
Se tentiamo di fare entrare queste 5 milioni di persone all’interno di pochi, o tanti che siano, ben delimitati caratteri, inevitabilmente queste vi staranno in maniera contradittoria e ambigua.
Le ripeto che il libro non l’ho letto, quindi non è un atto di accusa, semmai un’ autocritica: noto che troppo spesso anche noi siciliani, amiamo guardarci attraverso le lenti della leggenda, della letteratura (nonchè del pregiudizio), che del resto abbiamo la fortuna di avere prodotto in grande quantità; Non rischiamo così però di perdere il contatto con la realtà?
Spero di non apparire impertinente!
Come altro esempio di annacata religiosa c’è questo delle candelore di S. Agata a Catania http://www.youtube.com/watch?v=LinsxrSSkvk
Qua c’è un esempio di annacata trapanese http://www.youtube.com/watch?v=9P21P9R0Mcc
Simona, mi chiedi che rapporto hanno i siciliani con la parola e il suo contrario. Mi rifiuto di risponderti – e ti ho risposto.
Quanto al rapporto con la libertà, io credo che i siciliani amino più la propria di quella altrui.
Infine, Luciana: il pregio migliore dei siciliani è forse quello di sapersi trasformare, non appena si allontanano dal contesto. La capacità di adattamento, che sull’isola diventa subito sottomissione, sul continente è spesso trasformata in flessibilità e intelligenza.
Non sei affatto impertinente, Alice. Anzi, diamoci del tu, come con tutti.
La tua domanda è complicata, e la risposta non può essere sintetica.
Ho qualche speranza che però, nel libro la risposta sia possibile trovarla.
Gentile Roberto Alajmo, lei ha parlato spesso dell’aspetto matriarcale della società siciliana. Mi ricordo il suo romanzo ‘Cuore di madre’ e credo che ne parli anche in questo libro.
Secondo lei la Sicilia è più madre o matrigna?
E i siciliani la percepiscono più come madre o come matrigna?
Grazie e auguri.
Ho dato anch’io del “lei”. Passo con piacere al “tu”.
Teoricamente mi trovo nella categoria di “non siciliano che ha visitato l’isola”.
Sono un piemontese che ha visitato la Sicilia un’estate di qualche anno fa. E sono un piemontese la cui vita si intreccia alla Sicilia, da sei anni a questa parte, dato che ho sposato una ragazza di famiglia siciliana.
Ci sarebbe molto da dire sui siciliani che vivono fuori dalla Sicilia, e del rapporto di avversione-amore che hanno con la loro terra di origine.
Ma, tornando alle mie impressioni di quel viaggio in Sicilia, la mia sensazione è stata di un troppo pieno, troppe cose belle, troppe cose brutte, troppe cose agli antipodi le une dalle altre che convivono sotto lo stesso cielo, un troppo pieno che tuttavia genera una tensione scintillante di tizzoni ardenti, sicchè il mio ricordo più vivido è il fuoco, i falò sulla spiaggia di Aci Trezza in una fantastica notte di ferragosto, l’aria mossa del fuoco che si mescola alla brezza che si mescola al movimento delle onde che si mescola alle danze e ai canti intorno al falò,
e naturalmente non mi aspettavo nulla di tutto questo.
Sì, credo che regalerò questo libro ai miei suoceri.
Paolo
ho visitato la sicilia un paio di volte e secondo me l’immagine data dai film e da certi libri è falsa. mi riferisco a certi stereotipi, non ai problemi reali che ci sono e sono pure gravi.
ecco.quell’immagine distorta della sicilia andrebbe corretta, per mettere in risalto i problemi veri . credo che roberto alajmo faccia questo nel suo libro, anche se non l’ho ancora letto. ma mi pare di capire che ci sia anche il tentativo di fare un po’ piazza pulita di certi falsi miti e di convinzioni sbagliate.
Mi sono piaciute molto le osservazioni di Paolo Cacciolati che coglie gli eccessi della terra, il troppo e il troppo poco, la pienezza e il vuoto. La sazietà e la fame. Sono queste le contraddizioni dei siciliani, poter essere tutto, ma solo in nuce, quasi rinviando la compiutezza a un’indecifrabile tempo che pare non arrivare mai.
E però. In questa attesa quante possibilità perdute. Quante croci. Quanto sangue. E quante differenze, quanta ingiustizia nei fasti accanto ai lutti, nelle povertà estreme e nelle ostentazioni estreme, nel brillìo di ori saraceni misti a sabbia sbriciolata delle strade.
Sì, l’annacarsi ci strappa un sorriso. Ma spero ci sradichi anche da noi, ci rivolti e ci imponga un urlo, o anche un lamento.
Eccovene uno: Il lamento per il sud di Salvatore Quasimodo.
****
La luna rossa, il vento, il tuo colore
di donna del Nord, la distesa di neve…
Il mio cuore è ormai su queste praterie,
in queste acque annuvolate dalle nebbie.
Ho dimenticato il mare, la grave
conchiglia soffiata dai pastori siciliani,
le cantilene dei carri lungo le strade
dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,
ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru
nell’aria dei verdi altipiani
per le terre e i fiumi della Lombardia.
Ma l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria.
Più nessuno mi porterà nel Sud.
Oh, il Sud è stanco di trascinare morti
in riva alle paludi di malaria,
è stanco di solitudine, stanco di catene,
è stanco nella sua bocca
delle bestemmie di tutte le razze
che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi,
che hanno bevuto il sangue del suo cuore.
Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,
costringono i cavalli sotto coltri di stelle,
mangiano fiori d’acacia lungo le piste
nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.
Più nessuno mi porterà nel Sud.
E questa sera carica d’inverno
è ancora nostra, e qui ripeto a te
il mio assurdo contrappunto
di dolcezze e di furori,
un lamento d’amore senza amore.
ops, scusate il refuso e la stanchezza : un indecifrabile tempo, non un’indecifrabile tempo.
Ed ecco cosa dice Sciascia della nostra ambiguità (per riprendere il commento di Alice):
“Questa dualità contrastante, tra la natura aperta e l’uomo diffidente e in se’ chiuso, in effetti ha complesse motivazioni:non del mare che li isola, che li taglia fuori e li fa soli, i siciliani diffidano. Ma del mare che ha portato alle loro spaigge i cavalieri berberi e normanni, i militi lombardi, gli esosi baroni di Carlo D’Angiò…E’ la paura storica, dunque, che è diventata paura esistenziale.Ed è perciò nella storia che va cercata la spiegazione di ogni particolarità siciliana”.
E, infine, per chi volesse un IDENTIKIT DEL SICILIANO ecco un decalogo di Gesualdo Bufalino.
“Caratteristice del siciliano eccelente:
-la tendenza a surrogare il fare col dire,
-il pessimismo della volontà e non solo della ragione,
-lo spirito di complicità popolare contro il potere,
-l’orgoglio e il pudore in inestricabile alleanza,
-la sensibilità patologica (se non vogliamo chiamarla permalosità) al giudizio degli altri,
-la vanagloria virile,
-il sentimento dell’onore perduto,
-il sentimento della giustizia offesa,
– il sentimento della malattia come colpa e vergogna,
-il sentimento della proprietà come artificiale prolungamento di sé e sussidiaria immortalità
“…. Difetti, per la maggior parte, ma soltanto in apparenza, perché attraverso una misteriosa alchimia essi finiscono col tramutarsi in guizzi d’intelligenza e d’umore e diventano, press’a poco, virtù. S’aggiunga, anche, la capacità quotidiana d’avvertire la vita come teatro all’aperto, con parti assegnate a ciascuno, come in un copione dell’opera dei pupi” (Sicilia vista da vicino, “Qui Touring”, giugno 1987, Gesualdo Bufalino)
E con questo auguro un sereno Giovedì Santo a tutti! Grazie a coloro che ci stanno seguendo e un grande in bocca al lupo a Roberto! A Massi, come sempre, un abbraccio forte di infinita e fraterna condivisione.
A domani!
@simona,
nella tua risposta, si ripresenta il motivo del mio domandare.
“come disse sciascia, come disse bufalino…”. Si tratta di scrittori che io amo alla follia; ovviamente capisco quanto sia importante la letteratura nell’offrirci le sue chiavi di lettura del reale, nel dare un senso ad una realtà che altrimenti rischia di presentarsi magmatica e informe. Lo capisco.
Ma noi esageriamo (lo dico brutalmente)! Ho paura che le immagini della letteratura si stiano frapponendo tra noi e la realtà.
Certo così c’è più gusto!
Andando a Corleone si percorre una strada dove l’unico albero che si presenta alla vista è l’eucalipto. Vincenzo Consolo vedeva quest’albero come metafora del mafioso (in particolare del gabellotto): piantato per bonificare le paludi, va a finire che si succhia tutta l’acqua e inaridisce il terreno. Metafora stupenda! Ogni volta che percorro quella strada e vedo le file di eucalipti non vedo più (come vedevo prima) semplicemente degli alberi orribili; no, vedo il gabbellotto! Che mi guarda dal margine della strada. Immobile. Padrone di sè.
Il viaggio diventa più gustoso e romantico! Non faccio più neanche caso alle buche che mi stanno distruggendo la macchina.
Ma l’eucalipto rimane sempre quello schifosissimo albero!
@ simona
del resto condivido il tuo appello, con Sciascia, alla storia!
Salve a tutti e Grazie, in particolare a Massimo Maugeri e Roberto Alajmo, autore che apprezzo molto e di cui ho letto diversi libri, oltre che i commenti sul suo blog e su rosalio. “L’arte di annacarsi: un viaggio in Sicilia” non l’ho ancora letto ma ho già apprezzato l’anticipazione concessa dall’autore. Credo da siciliano che questa arte sia soprattutto rappresentata, ed embleticamente, dalla classe politica e burocratica siciliana, nell’accezione negativa, una delle classi più lente nel produrre atti di interesse per la collettività, indipendentemente dal colore politico. Dalle candidature al momento delle elezioni, dall’insediamento degli eletti al momento di mettersi al lavoro all’interno delle commissioni si assiste ad una annacata costante, accompagnata dai privilegi che questa classe si è concessa e continua a concedersi nonostante le “cattive notizie” della recessione. Dicevo accezione negativa perchè l’annacarsi forse presenta anche un aspetto peculiare dela nostra cultura, abituata storicamente a non attendersi nulla dai governanti e dalle istituzioni (una volta i dominatori ora gli eletti votati ‘democraticamente’). Annacandosi si prende tempo, pur dando l’idea del movimento, del dinamismo (apparente), e col tempo si valuta meglio il contesto in cui si agisce, si osservano gli altri e le loro azioni e si può “aggiustare” il tiro…E in Sicilia si sono sono riusciti annacandosi tra le carte anche ad aggiustare alcuni processi, o a non istruirli addirittura. Infatti l’aspetto più intimamente correlato a questo atteggiamento dell’annacarsi è la mancanza di senso di responsabilità. Io mi annaco per non decidere, per nin rischiare di indebolire i miei interessi e al mia posizione privilegiata. In Sicilia anche il disoccupato e l’invalido si “annacano”, in alcuni casi e in alcune forme si cultura suburbana la loro posizione è una posizione privilegiata (buono casa, buono libri, assegno di disoccupazione, pensione , accompagnamento..). Ovviamente c’è una parte consistente della comunità siciliana, più di quanto si possa pensare e percepire attraverso i media che è operosa e non si annaca…
Un saluto e un ringraziamento ai nuovi intervenuti: Teresa Sinno, Luciana , Nené, Le mie idee, Maria Grazia Ionata, Vito, Paolo Cacciolati, Benito Ravelli, Carlo Baiamonte.
E grazie mille all’ottima Simona per i nuovi spunti forniti.
Vi porto i saluti di Roberto Alajmo. È in viaggio, diretto all’estero… ma proverà lo stesso a connettersi e a partecipare alla discussione (salvo imprevisti).
Prima di chiudere volevo inserire un piccola nota “dialogica” su Catania… frutto di un giro in macchina effettuato con Roberto nell’estate del 2008.
(nel commento a seguire)
Piccola nota catanese: un aneddoto da spiaggia
—
Luogo: strada che costeggia la plaja di Catania.
Sono alla guida della mia automobile, Roberto Alajmo mi è seduto accanto.
Dico: “Ecco, questo è il posto per eccellenza dove i catanesi vanno a fare il bagno (l’altro è la scogliera)… anche Brancati veniva a fare il bagno qui…”
“Sì, ma dov’è il mare?”
“Lì, alla nostra sinistra…”
“Lì? Dove?”
Giro il capo e mi accorgo che, in effetti, il mare non si vede: gli stabilimenti balneari ne impediscono la visuale.
“Hai ragione. Il mare c’è, ma non si vede”.
“Ma tempo fa si vedeva?”
“Be’, sì. Certo che sì”.
“E ora non si vede più.”
“Già.”
“Strana, Catania. Sembra quasi che, a un certo punto, qualcuno abbia dato il segnale di immersione rapida”.
Cerco di distrarlo indicandogli una grande struttura sulla nostra destra.
“Cos’è?”, domanda.
“Il Palazzo del Ghiaccio”.
“Non ci credo.”
“È vero”, dico con una punta di orgoglio. “Possiamo vantare la presenza di un Palazzo del Ghiaccio praticamente in riva al mare.”
“Della serie: dell’essenziale ci manca tutto, del superfluo non ci facciamo mancare nulla.”
Riferimenti a questo aneddoto e ad altri, li trovate nel capitolo dedicato a Catania… che ha come sottotitolo: “A un certo punto qualcuno deve aver dato il segnale di immersione rapida”
Per stasera, essendo piuttosto stanco (mi sa che mi sono annacato troppo), chiudo qui.
Vi ripropongo le domande del post, invitandovi a rispondere (se ne avete voglia, s’intende)…
– Ai non siciliani che non hanno mai visitato l’isola: che percezione avete della Sicilia?
– Ai non siciliani che hanno visitato l’isola: la percezione che avevate della Sicilia, ha trovato riscontro nella vostra visita? Cos’è che vi ha colpito di più?
– La Sicilia rappresentata nei libri, nel cinema, nella televisione è rispondente alla realtà?
– Tra le citazioni sulla Sicilia (riportate sul post), quale vi sembra la più calzante? Ne avete altre da proporre?
Auguro buonanotte a tutti.
La Sicilia viene ricordata soprattutto come Terra calda e di passione, il brancatismo è qualcosa di più del semplice gallismo meridionale.
Ancora Gesualdo Bufalino:
Con una sua carrettella, divisa all’interno in cellette come un alveare, e zeppa di bocche capaci, “l’acqualuoru” vendeva nei rioni più lontani l’acqua della fonte di piazza, sfiancando nell’interminabile giro l’asino, quasi mai recalcitrante. Salvo quando, nei mezzogiorni di maggio, incalorito da una subitanea urgenza d’amore, prendeva la mano al padrone e si scatenava attorno alle bocche d’acqua, dove tra il folto dei concorrenti aveva sentito l’afrore dell’asina amata.
La sarabanda che ne nasceva faceva accorrere ai davanzali mille occhi di avide scandalizzate zitelle e rotolare nella polvere basti, bidoni, e boccali, finchè, placata la mischia, scioltosi il viluppo dei carri e dei corpi, s’udiva, a mò d’assolo di tromba guerriera, risonare nell’aria un unico lungo raglio felice.
@ Cara Simona, caro Roberto, caro Massimo, cari convenuti , per proseguire sull’onda di una Pasqua divertente e divertita, rimanendo altresì su un piano culturale che introduce tematiche profonde, lo vogliamo aprire il simpatico ed interessante argomento “ sesso di trinacria” e sull’ansia erotizzante dei siciliani? E dove lo lasciamo l’erotismo di luoghi, paesaggi, città dell‘isola?
Eros fu elemento predominante in Brancati, Verga, Pirandello, ma è lirismo poetico fra le pagine di Bufalino e le tele di Fiume … ?
Rossella
Scusate l’intermittenza, ma ho difficoltà a connettermi, in questi giorni.
Rispondo in maniera random: la sicilia mi pare matrigna ai siciliani stessi.
E sul sesso, copio e incollo un passaggio del libro di cui stiamo parlando…
…Leonardo Sciascia era un praticante sostenitore della tesi secondo cui nel mondo c’è già abbastanza sesso perché uno scrittore si senta obbligato a doverne aggiungere nei propri libri. Tesi rispettabilissima, che mette lo scrittore di Racalmuto al riparo da illazioni postume e interpretazioni indebite. Questa convinzione non gli impedì di essere ammiratore e per molti aspetti anche continuatore dell’opera di Vitaliano Brancati, l’autore che almeno da un punto di vista geografico e cronologico sentiva a lui più vicino.
Leonardo Sciascia è forse la chiave di volta per capire come nella letteratura siciliana si sia passati, in capo a cinquant’anni, da Vitaliano Brancati a Melissa Panarello. E tutto questo partendo dalla Rosa Fresca aulentissima di Ciullo D’Alcamo. Vale a dire dal non detto al fin troppo detto. Come se negli ultimi decenni, i decenni dominati in Sicilia dalla gigantesca figura di Sciascia, sotto la traccia della letteratura alta si sia verificata una mutazione genetica. Quel che poteva essere demandato a un gioco di sguardi lanciati o negati si trasforma nella consumazione esplicita di un’orgia. Nei suoi romanzi – Don Giovanni in Sicilia, Il Bell’Antonio, Paolo il caldo, sopra tutti – Brancati tratta un materiale che pure è ossessivo con un’ironia che è siciliana e quasi anglosassone, al tempo stesso. Pirandello è appena fuori dalla porta, e pirandelliano è l’approccio problematico a ogni tematica, erotismo compreso.
Dopo Brancati, per quanto riguarda l’erotismo in letteratura si registra un segnale di immersione rapida. La sfera sessuale diventa una specie di fenomeno carsico, che sprofonda all’improvviso e riemerge da tutt’altra parte, completamente trasformato. Cosa succeda nel frattempo sembrerebbe un mistero. Forse Sciascia, il grande antierotico, userebbe toni di understatement brancatiana per avanzare l’ipotesi che di certe cose più si parla (e si scrive), meno si pratica. E viceversa. Ma è solo un’ipotesi.
C’è poi da considerare che il vuoto erotico che ingombra la letteratura siciliana della seconda metà del novecento conosce qualche eccezione, e di eccezione sintomatica si tratta. Non bisogna dimenticare un fenomeno come Lara Cardella, che pure con una gradazione sessuale di molto inferiore rispetto alla Panarello, presentava alcune analogie con l’autrice di Cento colpi di spazzola. Uguale è la mutria erga omnes e uguale è un atteggiamento di generica insofferenza nei confronti dell’ambiente familiare e sociale. Dopo Volevo i pantaloni, Lara Cardella scrisse un altro paio di romanzi dal successo calante. Le ultime sue notizie riguardavano un ennesimo scatto di insofferenza nei confronti del paese d’origine. Tramite stampa comunicò che aveva deciso di lasciare Licata in reazione a tutte le meschinità di cui era fatta bersaglio. Dopodiché si trasferì a Gela, paese in cui pensava evidentemente di trovare aria metropolitana, e dove si sono perse le sue tracce.
Messa così, l’evoluzione della letteratura erotica siciliana potrebbe suscitare reazioni sconfortate, ma prima di abbandonarsi alle lamentazioni sui tempi letterari che corrono, bisogna considerare che i cinquant’anni che passano fra Brancati e Melissa Panarello sono gli stessi dell’omologazione nazionale galoppante. Se la sessualità raccontata da Brancati era profondamente siciliana, in quella di Melissa Panarello di Sicilia non c’è traccia o quasi. Le pratiche descritte – e le inquietudini, e le dinamiche sociali – potrebbero essere ugualmente ambientate in qualsiasi periferia del mondo occidentale, viste le ormai comuni aspirazioni. Quel che Lara Cardella cercava, sia pure nel posto sbagliato.
Il fatto che la Panarello, come Brancati, sia nata a Catania è puramente casuale. A cambiare non è stato tanto il baricentro della letteratura. A cambiare è stata Catania, che adesso tende a somigliare a una qualsiasi provincia con tendenze centripete.
Anche questa è un’ipotesi. Ma forse tutti gli equivoci possono essere dissipati chiarendo un paio di sfumature lessicali. L’aggettivo siciliano, per esempio, mette assieme una quantità di individui anche molto diversi fra loro. Circa sei milioni sono i siciliani viventi, cui vanno aggiunte tutte le trascorse generazioni. Nel mazzo della parola siciliano ci stanno persone anche molto diverse fra loro. Biondi e bruni. Mafiosi e antimafiosi. Antichi e moderni. Arrapati e platonici. Poi c’è il cruciale sostantivo Libro, che sta a indicare, dizionario alla mano, ogni insieme di pagine collettivamente rilegate. Libro è un sostantivo onnicomprensivo, nel quale rientra qualsiasi cosa che venga scritta e pubblicata da chiunque. Da Vitaliano Brancati a Melissa Panarello, appunto.
…
bellissimo il brano postato da Alajmo su i siciliani e il sesso. Grazie.
Gran bella discussione.
Stimato Maugeri, colgo sempre con piacere le sollecitazioni culturali del suo pregevole sito. Nel caso di specie, sono un campano innamorato della Sicilia e delle sue suggestioni letterararie, poetiche e paesaggistiche. Dopo aver letto Aglianò (Che cos’è questa Sicilia), Bufalino (Il fiele ibleo, La luce e il lutto), Consolo (Di qua dal faro, L’olivo e l’olivastro, Le pietre di Pantalica), Freni (Al limite della ragione), Bonina (L’isola che trema), Collura (In sicilia, L’isola senza ponte), Edit de La Héronnière (Dal vulcano al caos) – tutti, in qualche modo, riconducibili allo schema del viaggio nell’isola da parte di scrittori siciliani, non mancherò di leggere anche il libro di Alajmo. Ho girato abbastanza l’isola del sole per poter dire che colà ho trovato il mio aleph, nel senso borgesiano del termine, ossia il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi del mondo: quelli fantastici e suggestivi sotto il profilo naturalistico e paesaggistico, e pure quelli “irredimibili”, concepiti, lampedusianamente, in una fase delirante della creazione, quali apparvero ai cacciatori del Gattopardo, Don Fabrizio e Tumeo. Io stesso ho scritto un racconto che, nel trarre spunto dalla vicenda del petrolio in Val di Noto, mi ha dato l’occasione per riflettere su qualcuna delle questioni ambientali del nostro tempo e sulle contraddizioni di questa vostra terra metafora e riassunto del continente. Se mi comunicherà il suo indirizzo, sarò lieto di inviarle una copia del libro.
Buona giornata a tutti!
Leggo con piacere moltissimi spunti di riflessione!
—-
@alla cara Alice, acutissima e davvero penetrante nel suo esame del sogno letterario che precede la percezione della realtà siciliana, vorrei dire che a mio avviso questa sovrapposizione può essere positiva e negativa a seconda dell’occhio che scruta….
Credo che sia positiva se, attraverso la metafora (anche indotta dalla narrativa), il nostro pensiero, il cuore, l’azione vengono sospinti ad un’osservazione “morale” della realtà. E dico “morale” nel senso di realtà da decifrare attraverso una direzione, un approdo di bene e di giustizia. In questa ottica ben venga vedere in ogni eucalipto un gabellotto, se di quel gabellotto colgo con consapevolezza la capacità di insinuazione, di destabilizzazione, di profonda invasività nella mia vita e in quella della mia terra.
Ecco…credo che questo sia il miglior modo per vivere “letterariamente” la Sicilia: farsi cambiare dalla letteratura, dalla sua potenza creatrice e urlante. Da profonda svelatrice di apparenze e conoscitrice del destino umano.
Trovo invece che la sovrapposizione sia sterile se non induce a riflessione e a un “senso”, a un “significato”, a una “direzione”. Se si limita a suggerire non un sogno, ma una mera visione, simile al tremolare del caldo sull’asfalto.
Quando ci passi sopra e lo tagli ti accorgi che si dissolve. Che non era reale. Che non ti ha indotto a chiederti perchè, soprattutto su te stesso.
Che, in sostanza, era solo un miraggio.
Bellissime e vere, poi, le riflessioni di Carlo Baiamonte e quel suo rivendicare con passione l’esistenza di una buona fetta di siciliani che non si annàcano…E’ a questi, credo, che è affidato il futuro della Sicilia.
Un carissimo saluto e felicissime feste Pasquali!
sono d’accordo con il post di emilio sarli, sul fatto che la sicilia è il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi del mondo. del resto mi pare che proprio sciascia abbia detto che la sicilia è metafora del mondo.
ciao massimo, sono alfredo polizzano, un giovane scrittore catanese. Spesso leggo i tuoi post che trovo molto interessanti e stimolanti. questo in particolare, e quindi voglio rispondere alle domande.
– è bellissima la descrizione del verbo “annacare” sopratutto perchè è una cosa e il suo contrario, ed è vero. beh credo che ogni siciliano, si possa ritrovare in questo termine, proprio perchè è complesso e ha tante sfaccettature.
– la visione che danno storie e film sulla sicilia…si potrebbe dire sì quanto no perchè sono profondamente convinto che la sicilia è una terra così completa, perfetta sotto moltissimi aspetti che qualsiasi angolo o spiraglio ne descrivi o ne commenti, è sicilia essa stessa; sia che se ne descrive la mafia, l’ignoranza o la profonda cultura e la legalità, la civiltà millenaria e l’estremo slancio modernatore è sempre tutta completamente sicilia, per cui credo che non sia sbagliato dire che…sì, secondo me rispecchiano la realtà, o meglio una piccola parte della realtà, che non è tutta ma lo è essa stessa.
grazie mille per lo stimolo alla riflessione. a presto
alfredo
Mi annaco! Sì, mi annaco! Oh, se mi annaco!
Perché l’annaco è una filosofìa,
del nulla, l’affrettarsi nello sbraco,
l’arte del fare senza camurrìa
lasciare al tempo il tempo di un sospiro
che ti accarezzi l’anima e il suo giro.
E pure annaco è il fianco tondeggiante
e femminino che ondeggiando va
mentre lo sguardo mascolino errante
si posa e si riposa in quel liolà
felice in quell’atavica annacata
dell’eterna speranza disperata.
E annaco è l’erba che si annaca al vento
annaco è bimbo che si culla in seno
annaco è meraviglia e sentimento
d’immobilismo mobile e terreno
in una terra, splendida e fanciulla,
che annaca il cambio per cambiare il nulla.
Ma una canaglia no, non questa terra!
Non l’ami come s’ama una canaglia!
Canaglia è chi distrusse e la sua guerra,
chi la disfece e accese la sterpaglia,
col disgraziato Garibaldi in testa
e i savojardi a suggerne le resta.
La politica, poi, sicula e prona,
rinnegando sé stessa e la sua schiatta
ci guida, ci governa e ce cogliona.
E er popolo? Se sa, quello se gratta,
già lo disse Trilussa, e mentre sbraca
un siciliano che po’ fa’…s’annaca!
Giovanni Piazza
Ed è poi calzantissimo quell’essere “irredimibile” della Sicilia di cui parla benissimo Emilio Sarli (di cui ho ammirato la bellezza delle letture).
“Irredimibile” è l’espressione con cui Tomasi di Lampedusa chiude il famoso capitolo del discorso tra il principe di Salina e Chevalley ne “Il Gattopardo”…
“Era appena giorno. Quel tanto di luce che riusciva a trapassare il coltrone di nuvole era di nuovo impedito dal sudiciume immemoriale del finestrino. Chevalley era solo. Fra urti e scossoni si bagnò di saliva la punta dell’indice, ripulì il vetro per l’ampiezza di un occhio. Guardò; dinanzi a lui, sotto la luce di cenere, il paesaggio sobbalzava, irredimibile”
Giometrico! …Bellissimi versi! Un sorriso e un abbraccio!
E sono anche d’accordo con Alfredo Polizzano che di “annacarsi” non mette in evidenza solo la contraddittorietà, ma la complessità…
Bravo!
Infine, un bacio a Rossella che giustamente ricorda “il sesso di trinacria” e a Roberto che riporta un bellissimo e illuminante frammento del suo saggio.
Trovo che il siciliano dal dopoguerra in poi non parli di sesso, ma di erotismo e senso della morte, che sovrapponga all’abbaglio dei sensi la precarietà della vita e della condizione umana e che, soprattutto, colga nella carne l’annodante richiamo a un’identità.
E’ esemplare Addamo ne “il giudizio della sera” (edito per la prima volta nel 1974 e ora riproposto da Bompiani) che attraverso l’iniziazione erotica di un gruppo di adolescenti catanesi in piena seconda guerra mondiale svela la contraddizione di un mondo che cambia, che si sfalda, che si sgretola e distrugge.
E’ forse il senso più vero che può darsi all’erotismo siciliano, anche di Brancati: sovrapporre al sopore dei sensi appagati, al vendersi delle prostitute, all’amplesso consumato senza amore, un sentore di vita che si agita senza trovarsi e rispecchiarsi in se stessa, contagiandosi in una malaria di desideri.
A dispetto delle apparenze di virilità la letteratura siciliana racconta il sesso con malinconia. Come chi si cerchi e si perda senza tregua.
Riprendo lo spunto della dott.ssa Lo Iacono per segnalare l’originalità o la peculiarità del concetto di “irredimibilità” applicato da Tomasi di Lampedusa al paesaggio e non, come ordinariamente si usa, alle persone. E’ una di quelle intuizioni che contribuiscono alla preziosità di un’opera che non passa, nonostante l’inesorabile passare del tempo.
Massi! Mi hai fatto morire dal ridere col tuo racconto!
In effetti…uno stadio del ghiaccio a Catania…a un passo dal mare e dall’Etna che sputa fuoco!!!!
….Diciamo che non era forse tra le nostre priorità averne uno in Sicilia…
Un grandissimo bacio e una felicissima giornata!
Caro Emilio, sono d’accordo! Una felicissima giornata anche a lei!
grazie simona per la tua bella risposta! Non me ne dimenticherò.
“L’Italia senza la Sicilia non lascia immagine nello spirito, la Sicilia è la chiave di tutto..” io propendo per questa citazione di Goethe che rispecchia la mia idea di siciliana puro sangue.”larte di annacarsi” m’intriga molto, lo leggerò…, col temine ‘annacarsi’, intendo una disposizione d’animo tutta siciliana,un habitus mentale suggerito dalla diffidenza, dal bisogno di guardarsi attorno e non dare risposte affrettate. A mio parere può essere considerata un ossimoro, c’è chi la usa per affrettare qualcosa e chi per ritardarla all’infinito.
Che bella recensione! Sintetica, incisiva, chiara, elegante. Sono pugliese e non mi stanco mai dire, sì, la Puglia è bella, ma la Sicilia ancora di più. La terra più bella d’Italia. E forse la “naca” fu culla d’ogni siciliano, un tempo, quando l’intrecciarsi culture e lingue era consuetudine…Un’amica palermitana mi ha detto che ogni sicialiano è come una cipolla: più sbucci e più trovi strati diversi, tutti da capire. Io so che Palermo mi commuove, che i siciliani possono avere grande stile, eleganza, straordinaria intelligenza, cultura, ma nei cui strati, appunto, io mi ci perdo. Tutto è possibile e contemporaneamente niente è possibile. La Sicilia mi strugge tra il troppo e il niente, e mi chiedo perché tanta bellezza non riesca a re-incidere i cuori le anime e a modificare una situazione che ora non può che essere solo nella volontà siciliani. Penso anch’io che l’Unione d’Italia abbia fatto piuttosto male al sud rispetto ai vantaggi che ne ha tratto. Ma in Puglia c’è Vendola, oggi, e in Piemonte Cotta, oggi. E la Sicilia e la sua letteratura a volte barocca, potrebbe avere un meravilgioso domani.
Franca Maria Bagnoli: io sono siracusana e non mi stanco mai di tornare al Teatro Greco o nell’Orecchio di Dionisio…
ANNACARSI ha tanti significati: quando qui si vuol dire a qualcuno di sbrigarsi gli si dice ANNàCHITI!
Però ha anche il senso opposto, antifrastico, di – cito Camilleri – “fissiarisìlla, tambasiare…”, cioè di girare a vuoto, prendersela comoda.
Ludovico: una forma antifrastica è PARRA MUTU cioè letteralmente “parla muto”, quindi taci. Ed anche MOVITI FERMU, cioè “muoviti fermo”, ovvero stai fermo.
In Puglia c’è Vendola che sta scatenando entusiasmo tra i giovani, aria di rinnovamento e di pulizia, cittadini con la voglia di essere protagonisti, di rendersi parte attiva nella vita sociale. Cotta non lo conosco. Anni fa i siciliani tra Rita Borsellino e Totò Cuffaro scelsero quest’ultimo, con il risultato che tutti conosciamo. Ora c’è Raffaele Lombardo indagato. Spero bene per lui e per tutti i siciliani. Una condanna sarebbe un altro colpo mortale. La letteratura aiuta a sognare ma con la pancia vuota i sogni si trasformano in incubi. Annaca di qua, annaca di là, i problemi rimangono sempre gli stessi. Non vorrei sembrare menagramo ma esiste una generazione di giovani che non trova spazi in Sicilia, che per lavorare e inseguire i sogni deve lasciare la propria terra. Un fenomeno silenzioso che sta lentamente svuotando l’isola di risorse umane, compromettendone il futuro. Al nord ci sono le più importanti aziende, banche, associazioni e una pubblica amministrazione che realizza servizi e strutture per i cittadini. L’autostrada Milano-Venezia è un alternarsi continuo di insediamenti produttivi. Da Catania a Palermo c’è praticamente il deserto. Ci si adagia in uno stato torpore, con un assistenzialismo e un clientelismo che permettono a larghe fasce di popolazione di vivacchiare tranquillamente. Con partiti e politici che hanno monopolizzato il “mercato” del lavoro, trasformandosi in uffici di collocamento. La politica che si alimenta creando bisogni. E’ la classe dirigente e l’abbraccio politica-mafia il cancro che non riusciamo a estirpare. La Sicilia gattopardesca, la Sicilia dell’isolitudine, la Sicilia dei quaquaraquà; la Sicilia dai mille volti e dalle mille contraddizioni. Ma è davvero così complessa quest’isola? Si può rimanere senza farsi invischiare dal sistema? Forse sì, ma i più preferiscono emigrare. Eppure ci sono spazi straordinari anche da noi in molti settori. A Catania c’è un polo d’eccellenza sulle biotecnologie. C’è poi l’agricoltura e ovviamente il turismo. Un patrimonio straordinario da valorizzare attraverso la realizzazione di servizi, collegamenti e infrastrutture a misura di turista. A Pantalica, la necropoli patrimonio dell’Umanità Unesco, a pochi chilometri da Sortino avevano costruito una casetta in legno pensata per offrire informazioni e servizi. E’ una delle cosiddette “Porte di Pantalica”. Peccato che sia già in stato di assoluto abbandono. Mah, rimango ancora fiducioso, nonostante tutto e penso anche che libri come questo di Roberto alajmo siano utili a sensibilizzare le coscienze.
@Salvo: io dico sempre che uno scrittore è un laboratorio di analisi. Ti dice il livello di colesterolo. Ma poi devi andare dal medico a farti curare: altrimenti è inutile.
Vi copio e incollo un altro frammento che secondo me può fare discutere:
“…Non molto tempo fa i giornali si sono occupati di una ricerchina universitaria condotta nelle scuole di Palermo, un sondaggio dal quale risultava che per la maggior parte degli alunni, interrogati in forma anonima, la mafia era tutto sommato un male se non necessario, almeno accettabile. L’opinione diffusa che veniva fuori era un luogo comune più radicato di quanto si creda, almeno in Sicilia: la mafia dà lavoro. Non appena i dati vennero resi noti, si scatenò una tempesta di indignazione. Si andava dall’accusa di poca significatività del campione sondato, a un’altra più generica di scarsa sensibilità antimafia. In sostanza: gli autori della ricerca erano colpevoli quantomeno di aver lasciato agli studenti la possibilità di esprimere un’opinione del genere senza dar loro nemmeno una sculacciata. I titolari dell’indignazione erano intellettuali, magistrati, deputati, parenti di vittime della criminalità organizzata, e il risultato fu che il sondaggio venne seppellito dallo sdegno generale.
Era stato toccato un nervo scoperto. La coscienza delle persone perbene si rifiutava di accettare un’opinione tanto politicamente scorretta. Fu l’occasione mancata per avviare una discussione su questo semplicissimo argomento: oltre che spiacevole, è anche vero o no, che la mafia dà lavoro? Forse era l’occasione per ammettere che l’opinione maggioritaria emersa da quel sondaggio non era poi tanto inverosimile. Per chi in Sicilia ci vive, basta guardare alla realtà con disincanto per accorgersi che è proprio vero: è la mafia che distribuisce il poco lavoro che c’è. Durante le conversazioni in Sicilia capita di sentirselo dire nelle più svariate circostanze, soprattutto dalle persone culturalmente meno avvertite, che di questa affermazione non colgono anche la grossolanità e la superficialità. Il riflesso condizionato è di liquidare chi esprime un’opinione del genere con una dose di civile insofferenza. Ma a pensarci bene, non hanno torto. Anche quando materialmente è lo Stato a praticare un’assunzione, paramafioso è il sistema di reclutamento: a meno che non si creda che la mafia sia solo il braccio affiliato della mafia stessa. La condizione in cui l’aspirante lavoratore viene tenuto è di oppressione mafiosa. E la diffusione delle forme di lavoro a garanzia diminuita, con il lavoratore tenuto sulla corda praticamente in eterno, non fa altro che incrementare lo spirito di sudditanza: ciò che maggiormente fa il gioco della mafia, trasformando in favori quelli che veramente dovrebbero essere diritti. Applicate in terra di Sicilia – in assenza di una cultura d’impresa che sia veramente radicata, e veramente cultura – le regole del liberismo attengono sì alla sfera economica, ma vengono alterate da quella antropologica.
…”
Altra nota linguistica: per ANNACATA si intende la parlata locale, anzi la cantilena, il tono che caratterizza un dialetto. Meglio: la variante.
Ad esempio: l’annacata catanese è diversissima da quella palermitana. Ecco perché ascoltare i dialoghi della fiction “I Vicerè” è atroce.
Esiste nella cinematografia una parlata, un’annacata “siciliana”, stereotipata.
Ho giusto il tempo per un passaggio al volo. Naturalmente vi ringrazio per i nuovi interventi.
Anticipo gli auguri di buona Pasqua anche qui.
Qui, un post specifico: http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/04/02/auguri-di-buona-pasqua-2008/
Ringrazio Roberto per il brano postato alle 7:30 pm.
Il brano fa parte dell’introduzione (la premessa) pubblicata sul post. Vi invito a leggere, dunque, anche la prosecuzione del ragionamento di Roberto.
Potrò tornare a commentare solo molto tardi o domattina.
Una buona serata a tutti.
So bene so bene, caro Roberto, tuttavia sta proprio a noi, alla gente che riusciamo a mettere su carta due frasi decenti ( nel tuo caso facciamo tre) a cercare di smuovere le coscienze sopite (speriamo non atrofizzate). I libri di Sciascia non hanno fatto arrestare nemmeno un mafioso ma sono serviti a spezzare il velo di omertà, a rendere di pubblico dominio anche all’estero il fenomeno mafia. A volte anche in maniera pittoresca, altre tragica ma in ogni caso alla portata di tutti.
@Rossella
Felice di ricordarti la tua amica,se i ricordi sono belli.
Un abbraccio
Grazia Nobile
E a proposito di annacare:ricordo, da bambina, le donne anziane in visita da mia nonna quasi centenaria che sentendo discutere le donne più giovani di qualche dissapore con il marito dicevano loro:”e tu annacalu tanticchia” Riferendosi al marito,naturalmente!
Adesso,a distanza di tempo,attribuisco un significato diverso!
Ho letto con vivo e doloroso interesse l’ultimo post di Roberto Alajmo.Dalle mie parti hanno aperto dei centri commerciali di proprietà di mafiosi e tanta gente è stata assunta.Vai a dire a queste persone che il loro datore di lavoro è un criminale:ti ucciderebbero! Sono famiglie che morirebbero di fame senza questo lavoro.E non puoi spiegare loro nulla.Perchè noi siciliani conosciamo benissimo la mafia e le sue innumerevoli sfaccettature.Naturalmente tutto ciò è possibile per l’eterna assenza dello stato. .Il fenomeno è preoccupante perchè denuncia una vera mancanza di coscienza sociale e di una cultura della legalità.
Ringrazio di cuore tutti: Mari, Salvuccio, Maria Inversi, Chiara, Alice e soprattutto Roberto e Massimo. E vorrei chiudere la serata ricordando, sulla scorta dell’ultima riflessione proposta da Roberto, queste parole….che adesso suonano malinconiche, ultime, profetiche:
“Nella lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”.
Paolo Borsellino ai cittadini siciliani.
La letteratura è il campo della libertà. Perchè la parola nasce per essere libera, nuda di paure, resistente alla morte. Credo quindi che una rinascita morale possa e debba passare dalla cultura, dalla narrazione, dal coraggio della parola.
Ancora Paolo Borsellino: “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”.
—-
Una felice sera a tutti.
Buonasera Roberto Alajmo.
Concordo con il tuo pensiero e con la tua realistica analisi sull’eros siciliano di un tempo confrontato con quello attuale.
I personaggi di Vitaliano Brancati o di Luigi Pirandello vengono attraversati da una tensione spirituale centrata sull’impotenza. Quest’ossessiva paura di non essere abbastanza “uomini” fu il risvolto di un’altra paura ben più profonda e radicata, ovvero l’impotenza di fronte al destino della terra natia e dei suoi abitanti. Personaggi come il Pricipe Tommasi Di Lampedusa o Paolo il Caldo, sono uomini ormai arresi all’evidenza, rintanati nei loro palazzi e nelle vicende personali, lontani dalle questioni politiche poiché profondamente delusi dal sistema e traditi nei loro ideali. In effetti il loro animo veniva mosso da inquietudini molto diverse da quelle che serpeggiano nella Catania o nella Palermo trasgressive di oggi (per certi versi nauseanti) omologate nel costume al resto della società attuale; forse Brancati o Pirandello a quel tempo prospettavano gli anni delle guerre e del malessere dell’emigrazione, intuivano altresì un futuro nel territorio non più di struttura feudale ma votato ad altri vassallaggi politici dove “ignoranza – clientelismo – padrini” sarebbe divenuto il trinomio per salire al potere. CUMMANNARI E’ MEGGHIU DI FUTTIRI (= comandare è meglio di fottere), ovvero il gusto di comandare supera il piacere di conquista, più adrenalinico di un letto, restare sul trono, a questo punto, azzera non solo la propensione ad essere “veri uomini” nel perseguimento dei valori e del cambiamento, ma spazza via anche il maschio Mimì Metallurgico, per lasciare il posto ad ambiziose sanguisughe ed alla mercificazione.
saluti
Buona giornata a tutti e grazie per i nuovi interventi. Mi pare che Simona abbia fatto in maniera perfetta gli “onori di casa”.
Grazie mille, Simo.
@ Roberto
Grazie per aver postato il brano sui “siciliani e il sesso”.
Saluti e ringraziamenti ai nuovi intervenuti: Giacomo Tessani, Emilio Sarli, Alfredo Polizzano, Giometrico, Chiara, Maria Inversi.
@ Emilio Sarli
Grazi mille, Emilio. Scrivimi pure all’indirizzo del blog (lo trovi nella sezione info, o indicato in alto nella colonna di destra del sito).
@ Alfredo Polizzano
Grazie anche a te e in bocca al lupo per il tuo libro.
http://www.ibs.it/code/9788864020495/polizzano-alfredo/lettere-atlantide.html
@ Giometrico (Giovanni Piazza)
Bellissimi i tuoi versi, grazie mille.
C’è un passaggio che potrebbe aprire una nuova coda di discussione, in cui stigmatizzi la figura di Garibaldi.
Non c’è dubbio sul fatto che, oggi, la figura di Garibaldi sia oggetto di “revisionismo”.
Roberto Alajmo ne parla nella parte iniziale del suo libro…
@ Roberto Alajmo
Roberto, se puoi (se è possibile e se hai tempo) riporteresti tra i commenti il brano relativo alla figura di Garibaldi?
A proposito del “sesso di Trinacria”, Simona cita giustamente “Il giudizio della sera” di Sebastiano Addamo (ri-edito, di recente, da Bompiani).
Per chi fosse interessato a saperne di più, ne abbiamo parlato qui: http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/09/22/il-giudizio-della-sera-di-sebastiano-addamo/
Riprendo questo passaggio di Alice:
Ho paura che le immagini della letteratura si stiano frapponendo tra noi e la realtà.
Certo così c’è più gusto!
Andando a Corleone si percorre una strada dove l’unico albero che si presenta alla vista è l’eucalipto. Vincenzo Consolo vedeva quest’albero come metafora del mafioso (in particolare del gabellotto): piantato per bonificare le paludi, va a finire che si succhia tutta l’acqua e inaridisce il terreno. Metafora stupenda! Ogni volta che percorro quella strada e vedo le file di eucalipti non vedo più (come vedevo prima) semplicemente degli alberi orribili; no, vedo il gabbellotto! Che mi guarda dal margine della strada. Immobile. Padrone di sè.
–
Ahimé, cara Alice… temo che la maggior parte dei siciliani (considerando i dati scoraggianti sui livelli di lettura) non sappiano granché né di Consolo, né della metafora dell’eucalipto.
Auspico che sempre più persone (come te) riescano a cogliere nella realtà delle cose, le sfumature della metafora che – in alcuni casi – riescono a farcela interpretare meglio.
Prima di chiudere e di augurarvi buona giornata metto in evidenza questa frase con cui Carlo Baiamonte termina il suo intervento:
Ovviamente c’è una parte consistente della comunità siciliana, più di quanto si possa pensare e percepire attraverso i media che è operosa e non si annaca…
Buona giornata a tutti!
@ Roberto
“Anche quando materialmente è lo Stato a praticare un’assunzione, paramafioso è il sistema di reclutamento”.
di solito ci si limita a dire che la mafia nell’elargire i suoi favori si sostituisce ad uno stato assente. Tu aggiungi che lo stato agisce secondo modelli paramafiosi. Del resto basterebbe l’immagine del boss che entra nell’uffico del presidente della regione, e del presidente della regione che va nel covo del boss latitante…per dire che il confine non esiste proprio più.
Io penso che questo sistema in fondo convenga ai più. Chi chiede il favore sa di non contare granchè, sa che da solo non ce la può fare. Quindi se l’unico impegno che richiede la partecipazione ad un concorso è quello di cercare lo “sponsor” ,allora quella persona, che magari era l’ultimo della classe, sa che finalmente può competere con il primo della classe.
Quando tu esorti tuo figlio ad andare via, stai lasciando libero quel posto che , a questo punto, si contenderanno gli asini.
Riguardo a quel sondaggio, se non ricordo male fu fatto dopo la fiction il capo dei capi, a seguito della quale ci fu un innamoramento collettivo della figura di Totò Riina. Perchè è successo? (Riina che prima era considerato l’incarnazione del male). A pensarci bene, che differenza c’è tra un boss, che scorazza per le strade con il macchinone, elegante, circondato da oche in quantità (e mi fermo qui…) ed un Flavio Briatore qualunque?
Se si amano quei personaggi, se ci vengono proposte come persone da invidiare, da emulare, perchè non si dovrebbe amare un Totò Riina qualunque?
Cara Alice, tocchi un tasto doloroso. Io sono rimasto. Ma non me la sento di prescrivere a mio figlio una scelta ideologica che a me è costata tante umiliazioni sul lavoro.
Ecco poi un estratto del capitolo dedicato a Garibaldi
“…Fino a una ventina di anni fa, a scuola Garibaldi era un soggetto vincente. Un argomento su cui puntare. Specialmente nei temi di storia bisognava stare attenti a non urtare eventuali suscettibilità del docente, e con Garibaldi si andava sul sicuro. Nessun professore avrebbe messo in discussione il contributo dell’eroe nizzardo alla causa risorgimentale. Era un guerrillero, certo: ma combatteva dalla parte giusta. Dalla parte dell’Italia unita. E l’Italia unita era un valore condiviso. Se facevi il tema su Garibaldi, almeno la sufficienza era assicurata.
Poi è successo qualcosa. Una volta fuori dall’universo scolastico, di Garibaldi arrivavano notizie saltuarie, ma sempre positive. La sua fortuna storica pareva stabile, o addirittura in leggera crescita. Persino un soggetto discutibile come Bettino Craxi ne coltivava la memoria, con tanto di pellegrinaggi a Caprera e collezione di cimeli. Per indicare il massimo della trasgressione si diceva: parlar male di Garibaldi. Come qualcosa da evitare assolutamente.
Da un certo momento in poi, però, qualcosa è cambiato. Un sovvertimento integrale per cui adesso parlar male di Garibaldi è diventato un passatempo nazionale. Ma quand’è cominciata la sua parabola discendente? Che errore può aver commesso, e da morto, per veder crollare tanto miseramente il grafico della sua popolarità? Nell’empireo risorgimentale è stato surclassato persino da quel tristanzuolo di Mazzini, dall’opportunista Cavour, dallo sciupafemmine Vittorio Emanuele. Ormai chiunque risulta più figo di Garibaldi. La sua immagine appare sorpassata, e di sorpasso a destra si tratta. Nessuno l’ha ancora messo nero su bianco, ma poco ci manca che diventi opinione di maggioranza assoluta: questo Garibaldi doveva essere un mezzo comunista. Quando verrà il tempo pure di quest’altro revisionismo, il suo nome verrà espurgato dai libri di storia. Se non ci fosse stato lui, tutti quanti ce la saremmo passata meglio, a quanto pare.
Nell’ottica leghista, è lui il responsabile di aver unito nord e sud, e dunque di tutti i mal di pancia che sono conseguiti da quell’unione. Ma anche al sud, per quanto folkloristici, negli ultimi anni fioccano i movimenti neoborbonici. Tutti a sostenere che stavamo meglio quando stavamo peggio. A rigor di storia, bisogna pur dire che il tanto magnificato sostegno dei picciotti siciliani alla causa garibaldina fu una questione puramente incidentale. Le entrature di Crispi presso i peggiori ambienti dell’isola avevano garantito almeno in un primo momento l’appoggio passivo della popolazione e di chi era in grado di manovrare gli umori della popolazione. Ma la svolta vera e propria si è registrata a Calatafimi….”
Cordiali saluti e diffusi ringraziamenti anche da parte mia, Massimo.
A ttia ed a tutta la compagnia ed un ricambio d’abbraccio a Simona.
Epperò (e te pareva!), mi premeva sottolineare che quella informe ed endecasillabica mia (..azz…in realtà sono sestine che quello stupidotto di editor automatico mi ha ‘ncucchiato senza ritegno alcuno) era corsa a sottolineare, a sua volta, una sottolineata tua, che qui ti risottolineo
“un amore che si prova per una canaglia. Tu sai che è una canaglia, ma non puoi farci niente”.
Bene, e adesso che son riuscito ad uscire da quest’orgia di sottolineature, chiarisco che fu l’abbinamento canaglia/Sicilia, a darmi la sveglia e la voglia.
Perchè la mafia non è una prerogativa sicula che lombrosianamente ci portiamo addosso, inchiodata alle sicule coscienze ed ai rimorsi ed ai brigantàggici (?) sensi di colpa, ma par che sia un fenomeno post unitario, gentile omaggio di sua graziosa (e galantuoma) maestà.
E nun ce levo il condizionale perché in cuor mio non cell’ho mai messo, ma questo, anche e soprattutto, vuol dire che, se ha avuto un inizio, anche la mafia è destinata ad avere una fine.
E se la derivazione savojarda non è certo una giustificazione, per l’insipienza sicula (soprattutto politica), quest’altra viene invece a ribadire che la ricerca della verità sia, di per se, imprescindibilmente imprescindibile.
Perché non è il Garibaldi (peraltro personaggio ben misero) ad essere rimesso in discussione, ma tutto il “glorioso risorgimento”.
E se è certo che il mio essere di parte non conceda eccessiva legittimazione alle mie tesi, è altrettanto certo che la storia la scrivono i vincitori.
Ebbene, due di quei vincitori, così si esprimono.
Luigi Settembrini, patriota risorgimentale imprigionato dai Borbone, dopo aver “assaggiato” i Savoia, nelle sue Rimembranze, rimembra: “Maledite la memoria di Ferdinando. La colpa fu sua, perché, se avesse fatto impiccare me ed i miei amici, avrebbe risparmiato al Mezzogiorno tante incommensurabili sventure. Lui fu debole e noi facemmo peggio.”
Questo, invece, è Garibaldi in persona, in una lettera ad Adelaide Cairoli del 1868
“Gli oltragi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio.”
ESSENDOSI COLA’ CAGIONATO SOLO SQUALLORE.
Micacòtica.
E se lo dice Peppino il magnifico…
Piatto ricco, mi ci ficco. Si parla di Sicilia, anzi delle Cento Sicilie bufaliniane, di Meridione, di Garibaldi. E mi tocca scrivere mentre pende sopra di me, come una spada di Damocle (che c’entra pure perché il suo nome è legato a Dionisio il Grande, tiranno dei Siracusani, quelli di una volta…), il post di Giometrico. Ammazza, ‘sto Gadda de noantri che sciabolate rifila al povero “generale”. Allora, mi permetto di citare uno storico che scrive la storia dei vincitori ed è stato assoldato da un erede di don Peppino. Traggo dal “Corriere della Sera” del 29 novembre 2007, pag. 51. L’intervista è di Antonio Carioti, il professore intervistato è Alfonso Scirocco, in Italia tra i massimi studiosi di Garibaldi, di cui ha scritto una biografia. Ecco il testo: “Le riabilitazioni postume dei Borbone non convincono Alfonso Scirocco, biografo di Garibaldi e autore di un pamphlet “In difesa del Risorgimento” (Il Mulino): “Quando Francesco II perse la corona nel 1860, la classe dirigente del regno lo aveva già abbandonato da tempo. I principali esponenti della cultura napoletana erano in esilio o in carcere. E Garibaldi non avrebbe vinto con tanta facilità, se la borghesia meridionale non lo avesse appoggiato”. Il fatto è, prosegue lo storico, che il re delle Due Sicilie prediligeva l’assolutismo: “Non voleva concedere alcuna forma di libertà politica, né era in grado di stare al passo con la rivoluizione industriale in corso nel resto d’Europa. Invece sotto i Savoia, pur tra molte difficoltà, il Sud ebbe la possibilità di partecipare ai progressi dell’Italia, che si affermò come una potenza europea. Se il Mezzogiorno fosse rimasto isolato, non avrebbe conosciuto alcuna forma di sviluppo”. Scirocco critica chi sostiene che il regno di Napoli non fosse così arretrato. “Su 800 chilometri di ferrovie in Italia, solo 40 erano al Sud. Le poche officine meridionali erano assistite dallo Stato. I primati borbonici decantati dai nostalgici erano pure illusioni”. Neppure il brigantaggio postunitario dimostra il legame tra popolo e dinastia: “Fu una ribellione di disperati, che solo nei primi tempi, fino all’autunno del 1861, ebbe una coloritura politica. Il legittimista José Borjés, inviato dai Borbone tra i briganti, abbandonò la partita quando capì che gli insorti non volevano la restaurazione, ma erano contadini fuorilegge, mossi dalla miseria, dall’odio per la borghesia e dalla brama del saccheggio. Fu creato a Roma un comitato per coordinare le bande ribelli, ma nessun principe borbonico li raggiunse per mettersi alla loro testa. Quando poi il capo brigante Carmine Crocco si rifugiò nello Stato pontificio, nessuno volle avere rapporti con lui e venne chiuso in prigione. Anche i legittimisti lo consideravano un predone”. Fine.
Sul motto che meglio si attaglia alla Sicilia, e ai siciliani, opto per quello di Cicerone, nella versione corretta però. Quella proposta da Massimo è infatti scorretta sul piano morfosintattico nella seconda parte. Ecco la frase giusta: Numquam tam male est Siculis, quin aliquid facete et commode dicant, cioè ai Siciliani le cose non vanno mai tanto male che non riescano a dire qualcosa di appropriatamente spiritoso. Ecco, credo che questa sia la salvezza dei siciliani. Anche dentro la cambronniana “merde”, sanno essere ironici e autoironici, per sopravvivere. Altrimenti, travasi di bile, colesterolo, corde pazze avrebbero fatto sprofondare quest’isola traballante. Già ai tempi di Cicerone, quando gli amministratori romani erano la profezia incarnata di quelli odierni.
Paolo Fai
@ Giometrico
Mi dispiace per le tue sestine. Purtroppo il sistema wordpress elimina le interlinee, per questo – a volte – utilizzo i punti (o i trattini) per separare le frasi.
E grazie per il tuo nuovo intervento.
@ Paolo Fai
Caro Paolo, grazie anche a te per essere intervenuto nella discussione.
E grazie anche per la precisazione sulla citazione di Cicerone… che era – in effetti – scorretta.
Per espiare riporto l’intero brano, con il rischio di dover inserire questo post all’interno della rubrica “Babelit” (e chiedendo preventivamente scusa per eventuali refusi): http://letteratitudine.blog.kataweb.it/category/babelit/
😉
–
Nemo Agrigenti neque aetate tam adfecta neque viribus tam infirmis fuit qui non illa nocte eo nuntio excitatus surrexerit, telumque quod cuique fors offerebat arripuerit. Itaque brevi tempore ad fanum ex urbe tota concurritur. Horam amplius iam in demoliendo signo permulti homines moliebantur; illud interea nulla lababat ex parte, cum alii vectibus subiectis conarentur commovere, alii deligatum omnibus membris rapere ad se funibus. Ac repente Agrigentini concurrunt; fit magna lapidatio; dant sese in fugam istius praeclari imperatoris nocturni milites. Duo tamen sigilla perparvula tollunt, ne omnino inanes ad istum praedonem religionum revertantur. Numquam tam male est Siculis quin aliquid facete et commode dicant, velut in hac re aiebant in labores Herculis non minus hunc immanissimum verrem quam illum aprum Erymanthium referri oportere.
A tutti voi e ai vostri cari, i migliori auguri di una serena Pasqua.
Credo che difficilmente domani e dopodomani potrò connettermi.
Mi raccomando… fate i bravi, eh!
(Nessun riferimento, però, ai bravi de “I promessi sposi”).
😉
Voglio rispondere all’intervento di Grazia sull’occupazione, il supermercato, la mafia, i ceeni storici di cui avete giustamente scritto.
Non pensate che il mio sia un discorso antidemocratico nei confronti di classi di misera estrazione, ma in questa Sicilia così alla deriva la politica che viene “dal basso” è stata la causa primaria della sua rovina. Mi spiego meglio.
Il sovvertimento dello stato feudale dove nobiltà ed aristocrazia si avvalevano di un sistema di vassallaggio composto da mezzadri operai contadini, è stato spazzato da una repubblica che in Sicilia ha mantenuto lo storico retaggio di “eterna provincia italiana” e dove gli stessi mezzadri operai contadini, pur di “contare qualcosa” o “essere qualcuno” in fretta, hanno comprato voti e incarichi avvalendosi dell’appoggio della mafia. Un potere forte, soprattutto economico, un sotterraneo giro di denaro riciclato, supermercati, loschi finanziamenti, commerci vari. Nessuna classe politica forte si è opposta all’avanzare di questo fenomeno, anzi, molti “signorotti” hanno collaborato con la loro inerzia e fiacchezza morale. Persino gli intellettuali se la sono fatta aal larga.
Le famiglie “perbene” si sono salvate attraverso l’istruzione impartita ai figli, spesso emigrati da bravi professionisti in terre lontane, oppure sopravvissuti in loco natìo accettando compromessi nel ruolo di medici, avvocati, ingegneri e quant’altro li facesse restare in piedi. Non di rado l’usura ha operato come una falce su coloro che non hanno saputo reagire …
Nell’IDENTIKIT DEL SICILIANO Massimo ha scritto che i siciliani sono invidiosi: è verissimo. Lo sono se i parenti del continente li visitano mostrando di aver raggiunto onestamente una buona posizione, lo sono nei confronti di chi li fa sentire inferiori, nei confronti dell‘aristocrazia di cui ne invidiano la mondanità, di dame perbene che chiamano puttane, di uomini superiori che chiamano cornuti, della cultura e dell’arte come segno evolutivo di civiltà. Non sto parlando della cultura in senso lato, ma della cultura come conoscenza delle cose e capacità concreta di gestione, dell’applicazione delle leggi, per fare le cose per bene bisogna sapere come farle. La classe poltica è rappresentata da questo elenco di mezzi uomini, ominicchi e quaquaraquà.
In chi “vuol fare” o “vuol essere” senza averne le competenze necessarie , serpeggia un nefasto sentimento di distruzione nei confronti del prossimo, un inconscio desiderio di eliminare per paura di essere scoperti ed a loro volta eliminati. Il popolino, purtroppo, che non è il popolo, è soprattutto questo.
Buona Pasqua
E dove stanno, le sciabolate rifilate al “povero generale”?
Io ho solo citato un Settembrini, savojardo doc, e lo stesso generale.
Certo, così come una rondine non fa primavera, un paio di stringatissime esternazioni non possono riscrivere la storia.
Cheppoi, se ci aggiungiamo pareri di autorevolissimi storici meridionali, come Rosario Romeo, che sostengono la ineluttabilità del sacrificio del sud, appare evidente quanto infondate possano ritenersi le teorie revisioniste.
Epperò, se di fatti bisogna parlare, parliamone.
Perchè per decenni si è negata l’esistenza degli eccidi delle foibe, eppure ancora adesso siamo lì, a recuperare poveri resti.
Ebbene, erano, le Duesicilie, più ricche di tutti gli altri stati messi insieme?
E come conciliare la “risorgimentale” certezza che la miriade di primati borbonici fossero pure illusioni, con il piazzamento al secondo posto (dopo Inghilterra e Francia) alla esposizione universale di Parigi del 1856?
E qualcuno è andato ad ammirare il meraviglioso ponte sul Garigliano, che manco i tedeschi in fuga riuscirono a distruggere?
E la famosa interpellanza di Angelo Manna è il frutto di uno sciocco revisionista?
E la miriade di documenti, che saltano fuori ad ogni piè sospinto, è anch’essa una insulsa strumentalizzazione?
E i lager dei Savoia, quanti prigionieri accolsero e quanti ne trucidarono?
E perchè il brigantaggio pre unitario non esisteva, ed anzi esiste almeno un depliant di una agenzia di viaggi inglese che rende merito ai Borbone per aver reso sicure le strade del regno?
Una chicca sull’eroe dei due mondi, infine, è stata pubblicata qualche mese fa su Panorama, e rivela l’esistenza di lettere nelle quali “il magnifico” chiede, al regno d’Italia che gli fornisce le colf, che quelle colf rispettino dei precisi e ben definiti parametri fisici.
Perchè è chiaro a tutti che una colf 90-60-90 lava, stira, spolvera e scopa mooolto meglio e con maggior soddisfazione di tutti.
Eppoi (evvabbè, avevo detto infine, ma oramai che abballo…) come spiegare che prima dell’unità non esisteva emigrazione, ma il suo opposto?
Claude Duvoisin, console svizzero, così si espresse qualche tempo addietro:
“nel secolo precedente, il Meridione d’Italia rappresentò un vero e proprio eden per tanti Svizzeri, che vi emigrarono, spinti soprattutto da ragioni economiche, oltre che dalla bellezza dei luoghi e dalla qualità di vita. Luogo di principale attrazione: Napoli, verso cui, ad ondate, tanti Svizzeri, soprattutto Svizzeri tedeschi di tutte le estrazioni sociali emigrarono con diversi obiettivi personali. Verso la metà dell’Ottocento, nella capitale del Regno delle due Sicilie quella svizzera era tra le più numerose comunità estere”.
Ecco, parliamone.
Per cercare di dare una risposta alla madre di tutte le domande:
dopo l’unità, la condizione del sud può dirsi migliorata?
Io penso di no.
Anzi, ne sono convinto.
E ne era convinto anche Napoleone terzo, che scriveva a Vittorio Emanuele
“I Borbone non commisero in cento anni , gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di sua maestà in un anno”
Alla faccia di quel disgraziato di Garibaldi!
Egregi Giometrico e Fai,
non per voler essere salomonico, ma credo che la verità, come spesso accade, stia nel mezzo.
Augh, salomonico Andrea.
Condivido la tua credenza sulla residenza della verità, se si parla di verità assolute e se pensiamo che anche un orologio fermo ha ragione due volte al giorno.
Ma qui si parla dell’annacata sicula e del carattere e della mafia e dell’indolenza e della insofferenza alle leggi e di disperazione e di emigrazione e di mancanza di speranze che non siano quelle di andare a lavorare al nord de “la megghiu gioventù cu la valiggia”.
Caratteristiche irredimibili che sembrano permeare lombrosianamente l’essenza stessa dell’essere meridionale e siculo.
Caratteristiche che hanno inchiodato ai nostri sensi di colpa.
Cercare di comprendere se l’immobilismo sacrale dell’ufficialità risorgimentale sia un romanzetto strappalacrime costruito a tavolino per nascondere una sporca guerra di conquista è, allora, un dovere di quel nostro essere ed un diritto di chi ha dato la vita per difendere quello stato?
Dovere che, alla ricerca di verità, avesse lo scopo di ridare dignità ad un popolo “cornuto e mazziato”?
Dubitarne si può, ma discuterne si deve.
Sempre e comunque, alla faccia di quel disgraziato di Garibaldi.
complimenti a Roberto Alajmo. ho appena finito di leggere questo suo ottimo libro.
auguri di buona Pasqua.
FINALMENTE…
caro Roberto, non immagini da quanto tempo cercavo questo termine.
Come sai, ne abbiamo parlato forse al telefono la scorsa estate, da emiliana pura ho lavorato due anni nella tua Palermo, e mi chiedevo come facessero le persone con cui dovevo collaborare a portare avanti i loro compiti, facendo sì che poi ci si ritrovava sempre più indietro…
ora lo so: ANNACAVANO!!!
Salve, a proposito del tratto ironico dei siciliani, cosa ne pensate del sorriso dell’ignoto marinaio? Mi è capitato di recente di visitare il dipinto di Antonello da Messina presso la Fondazione Mandralisca di Cefalù: effettivamente colpisce quel sorriso che dice e non dice. Attonito, beffardo, distaccato, enigmatico, pungente; forse rispecchia qualcuna delle caratteristiche dei siciliani, specie la finezza e l’ironia. Mi piace la definizione che ne dà il Consolo (Il sorriso dell’ignoto marinaio):
gentile emilio,
il sorriso che dice e non dice mi ricorda quello della gioconda. ma al di là delle battute, ritengo che il tratto ironico e autoironico sia sempre una risorsa che aiuta a vivere meglio. in ogni circostanza, ma soprattutto laddove esistono condizioni meno favorevoli che altrove.
A partire dalle h. 21:20 circa, Roberto Alajmo sarà ospite di Massimo Maugeri nella puntata odierna di “Letteratitudine in Fm” – in onda su Radio Hinterland, Fm 94.600 MHz (nel territorio della provincia di Milano e oltre) e in streaming via internet da qui: http://www.radiohinterland.com/streaming/radiolimpia.asx
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Per ulteriori informazioni:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/letteratitudine-radio-hinterland/
http://www.radiohinterland.com/?q=node/4347
Carissimo Emilio,
ecco la risposta di Leonardo Sciascia alle domande che suscita il sorriso dell’ignoto marinaio….Un abbraccio!
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«A chi somiglia l’ignoto del Museo Mandralisca?» si chiede Leonardo Sciascia (Scritti d’arte, RCS Libri, 2000) «Al mafioso della campagna e a quello dei quartieri alti, al deputato che siede sui banchi della destra e a quello che siede sui banchi della sinistra, al contadino e al principe del foro; somiglia a chi scrive questa nota (ci è stato detto); e certamente assomiglia ad Antonello. E provatevi a stabilire la condizione sociale e la particolare umanità del personaggio. Impossibile. È un nobile o un plebeo? Un notaro o un contadino? Un pittore, un poeta, un sicario? Somiglia, ecco tutto».
Cari amici,
vi scrivo – innanzitutto – per scusarmi.
Per un problema tecnico, non dipendente dalla mia volontà, la puntata radio di stasera (“Letteratitudine in Fm”) non può andare in onda.
L’incontro radio con Roberto Alajmo è dunque rinviato alla prossima settimana.
Mi scuso con Roberto e con tutti coloro che fossero collegati in Fm (o connessi in streaming via Internet) in attesa della trasmissione.
Abbiate pazienza…
Ne approfitto per ringraziarvi per i nuovi commenti.
Vi comunico che sabato 17 aprile 2010, a partire dalle ore 18.00 – presso il Centro Fieristico “Le Ciminiere” Viale Africa – Catania – (Sala E 1), sarà presentato il libro di Roberto Alajmo oggetto di questa discussione: “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia” – (Laterza)
Sarà presente l’autore.
Introdurrà il prof. Tino Vittorio.
I siciliani della costa Est (e non solo) sono invitati a partecipare.
Con il sorriso dell’ignoto marinaio, auguro a tutti voi una serena notte.
Grazie Simona per il pensiero di Sciascia, uno degli scrittori che apprezzo in modo particolare, essendo la sua letteratura mai fine a sé stessa o inutile virtuosismo, ma forma di testimonianza ed impegno civile. Con il suo linguaggio sempre così asciutto ed essenziale, giunge alla serafica conclusione: . Bellissima davvero!
Quanto al post di Viviana, sono d’accordo che la autoironia aiuta sempre, specie nei momenti di sfavore. Ritengo che sia un tratto delle persone intelligenti, di quelle che non si prendono troppo sul serio. Buona giornata a tutti.
Non ho ancora letto “L’arte di annacarsi” di Roberto Alajmo ma lo farò al più presto. Nel frattempo vorrei partecipare al dibattito sui siciliani. Sono davvero come li descrivono gli scrittori di un tempo o sono cambiati? Che aria si respira nell’isola?
Parlando di Verga, Pirandello dice che “i siciliani, quasi tutti, hanno un’istintiva paura della vita, per cui si chiudono in sé, appartati, contenti del poco, purché dia loro sicurezza…è il mare che li isola, cioè che li taglia fuori e li fa soli…”
Tomasi di Lampedusa osserva che “i siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro miseria”. Ne viene fuori un quadro desolante, una condanna in eterno ad una condizione di isolamento senza possibilità di riscatto. Un fatalismo che non lascia spazio alla speranza
Sciascia non è più ottimista. Con lucidità nota che il marcio della Sicilia si sta estendendo in tutta Italia come un male incurabile: “ gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno…La linea della palma … Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato…E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali su su per l’Italia, ed è già oltre Roma…”
In sintesi, sono i siciliani ad avere esportato mafia e corruzione sicilianizzando il resto d’Italia. La palma avanza, corrompe, distrugge. Vero! Ma, come afferma Bufalino, “è altrettanto vero che la ‘ linea degli abeti’ , se vogliamo così chiamarla, cala sempre più verso il Sud….La Sicilia insomma invade ma è invasa. Passerà poco ( mesi, anni) e sarà impossibile distinguere una coppia di ragazzi che passeggia per un viale del parco di Monza da un’altra che balla allacciata in una discoteca di Canicattì. E’ un processo di omologazione reciproca, che produce una perdita di identità, ma, in compenso, regala più di un vantaggio”.
Chi vive in Sicilia, chi, come me, è stata per tanti anni a contatto con le nuove generazioni non può non accorgersi che tutto è cambiato e continua a cambiare con la velocità dell’età moderna.
La Sicilia piagnona non esiste più o almeno sta scomparendo! Anche gli scrittori raccontano l’isola in maniera diversa: non più mafia e solo mafia ma la rievocazione del passato, delle tradizioni, dei cibi e poi il giallo dal sapore tipicamente isolano che incanta sempre.
Grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, internet soprattutto, i giovani parlano lo stesso linguaggio, si vestono allo stesso modo, hanno le stesse aspirazioni. C’è una Sicilia attiva, energica, combattiva, capace di indignarsi di fronte alla corruzione e all’incapacità dei politici, una Sicilia che prima o poi mostrerà la sua grinta. Una Sicilia di giovani costretti ad emigrare ma con la segreta speranza di ritornare per costruire una terra migliore. Una Sicilia che dice di no al pizzo – cosa un tempo impensabile! Una Sicilia dai lenzuoli bianchi che crede nella profezia di Giovanni Falcone: “la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”.
@Leda Melluso. Mi è piaciuto molto il suo intervento. In un sol colpo spazza via immagini stereotipate e sentenze risalenti al secolo scorso. Il mondo si evolve e la Sicilia anche e quanto affermato da Pirandello, Tomasi di Lampedusa, Sciascia e altri illustri intellettuali sa di stantìo. Manlio Sgalambro, a un giornalista che gli chiedeva che differenza ci fosse tra la sua generazione e quella di oggi, ebbe a rispondere: “Quando ero giovane io aspettavo l’alba per alzarmi e andare a lavorare. I giovani di oggi aspettano l’alba per rientrare dalle discoteche e andare a dormire”. I mezzi di comunicazione massificano tutto, annullano le distanze, limano gli ancoraggi legati alle tradizioni. Oggi un problema più imminente è riuscire a fare integrare gli extracomunitari con la popolazione locale. Tuttavia rimango scettico sulla Sicilia energica e combattiva. Le intelligenze non mancano, i giovani di oggi hanno la possibilità di studiare, essere più eruditi dei loro predecessori e quindi consapevoli di quanto li circonda, ma se si continua a tenere in ginocchio l’economia, se non si dà una sterzata netta in questo senso, sarà sempre una minoranza ininfluente a ribellarsi, i più preferiranno sottostare, rendersi complici di questo sistema perverso per trarne benefici personali. Guarda caso in Sicilia e in buona parte del meridione la gente vota per i partiti che stanno al Governo, vota per il più forte, come se da loro tutto andasse bene e intendessero manifestare il loro consenso, l’approvazione a lasciare le cose come stanno. In realtà quei voti esprimono sudditanza, rassegnazione, incapacità di ribellarsi, se non connivenza.
Spero di leggere al più presto “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia”.
Un libro che mi attrae davvero tanto.
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Lascio un mio piccolo contributo riportando il noto brano di Manlio Sgalambro “Teoria della Sicilia” (recitato dallo stesso Sgalambro con musiche di Battiato). Mi piacerebbe leggere (anche) l’opinione di Roberto Alajmo relativa a questo brano.
Ringrazio di cuore Massimo Maugeri, Roberto Alajmo e Simona Lo Iacono, e tutti gli intervenuti. E auguro tanta buona fortuna a “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia”.
Ecco il testo di Manlio Sgalambro:
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“Là dove domina l’elemento insulare è impossibile salvarsi. Ogni isola attende impaziente di inabissarsi. Una teoria dell’isola è segnata da questa certezza. Un’isola può sempre sparire. Entità talattica, essa si sorregge sui flutti, sull’instabile. Per ogni isola vale la metafora della nave: vi incombe il naufragio. Il sentimento insulare è un oscuro impulso verso l’estinzione. L’angoscia dello stare in un’isola come modo di vivere rivela l’impossibilità di sfuggirvi come sentimento primordiale. La volontà di sparire è l’essenza esoterica della Sicilia. Poiché ogni isolano non avrebbe voluto nascere, egli vive come chi non vorrebbe vivere: la storia gli passa accanto con i suoi odiosi rumori ma dietro il tumulto dell’apparenza si cela una quiete profonda. Vanità delle vanità è ogni storia. La presenza della catastrofe nell’anima siciliana si esprime nei suoi ideali vegetali, nel suo taedium storico, fattispecie del nirvana. La Sicilia esiste solo come fenomeno estetico. Solo nel momento felice dell’arte quest’isola è vera.”
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P.S.
Ad un mio sguardo rapido, mi pare che non sia stato qui citato un racconto sulla Sicilia tra i più belli di tutta la letteratura italiana: “La sirena” di Tomasi di Lampedusa.
Un saluto a Emilio Sarli.
Un ringraziamento a Leda Melluso per il bel contributo… e a Salvo e Gaetano per i loro nuovi interventi.
@ Gaetano
In effetti “La sirena” di Tomasi di Lampedusa è un racconto, forse, un po’ trascurato.
Contribuisco a renderlo un po’ più noto segnalando questo link:
http://www.repubblicaletteraria.it/TomasiLampedusa_Lighea.html
Mi posso ricollegare soltanto ora, e chiedo scusa per la mancanza di tempo che mi impedisce di rispondere a tutte le sollecitazioni, alcune veramente stimolanti.
A margine del ritratto del Mandralisca e delle sue somiglianze, segnalo una cosa che dal libro è rimasta fuori. Avete mai visto una foto dello scrittore Antonio Castelli, cefaludese d’adozione?
Identico.
Per spiegarsi l’arte di “annacarsi” del siciliano ,così come per spiegarsi atteggiamenti comportamenti, progetti, metafore nostre, io che da cinquanta anni sono appassionata della “vita” di Sicilia(non dico storia ,perchè la storia è passato, in Sicilia la storia è la stessa vita , un soffio che parte dalle origini e ingloba tutto e tutti in un infinito presente) di solito per capirmi e per capire scindo gli eventi “in prima e dopo il Vespro”
Può sembrare banale ma, credimi Alaimo, questa frontiera storica segna un confine tra un prima ed un dopo ed è peggio dell’ex muro di Berlino. Non che il Vespro abbia modificato la identità del siciliano, ma l’ha messa in luce. La ribellione all’angioino è diventata nel tempo l’habitus della sicilianitudine.
La rivolta del 1282 in Sicilia ha fatto si che cambiasse il padrone , ma non ha inciso sul comportamento personale- sociale che da una parte è rimasto timido e paziente dall’altro si è fatto, non coraggioso, ma arrogante( un suddito ha avuto il coraggio di uccidere un dominatore!) costituendo la piattaforma su cui poi si sono potuti solidificare i comportamenti mafiosi.
La rovina della Sicilia è stata la vittoria dei siciliani su “Droetto”.
Questa vittoria ha dato fiato al maschilismo narcisista che è il modello a cui si ispira il comportamento mafioso con le relative conseguenze.Così succede che qui nella nostra stupenda Trinacria ognuno deve stare al suo posto perchè da un lato ci devono stare i soprusi e dall’altro le umiliazioni.
Anche se il fenomeno richiederebbe pagine di indagini ed esplicitazioni, da questo breve accenno si rende evidente che questa nostra è un’Isola lacerata, dove ognuno va come i cavalli di Ercole, verso parti opposte evitando la corsa per non incorrere nello trappo. Va…. “annacandosi”.
La Sicilia resta sempre una piccola Grecia e come tale non sa muoversi se non nel mondo degli dei, tra la poesia di Pindaro e la caverna di Platone per cui “annacarsi” non è un modo di temporeggiare ma è la nostra stessa natura più intima, il nostro “essere”, ed essere la Grecia.
Fuori da questa luce-ombra in cui il siciliano è sempre vissuto la sua identità diventa un quid senza forma ed il nascere ed il morire diventano o miracoli o eventi assurdi.
Il siciliano porta con sè il dolore del proprio tempo. I tempi cambiano,ma il dolore resta sempre lo stesso e quando c’è il dolore non si può correre, allora ci si muove “annacandosi”.
@ Mela Mondì
Cara Mela,
grazie mille per il tuo intervento. E complimenti per il tuo romanzo “Alla corte del nonno masticando liquirizia” (Edizioni Agemina Firenze), di cui parlerò su libri segnalati speciali.
DANTE ALIGHIERI E LA SICILIA
***
Non poteva non amarla. La conosceva attraverso i libri e le carte di Tolomeo , eppure ne parla come se vi fosse nato! Ne ammira la bellezza, ne lamenta il triste destino quasi presagendo che cosa sarebbe successo nei secoli seguenti. Sovrani senza scrupoli, viceré corrotti, moderni amministratori incapaci. Tutto e di più. E’ l’isola dai colori violenti, dalle tinte forti, dai sentimenti estremi.
E’ la Sicilia, terra di poeti, di sangue e di rapina. Terra di miti!
Lì si ascolta ancora il canto delle Sirene, la voce suadente di Lighea, il grido di rabbia di Polifemo, il lamento di Odisseo in cerca della sua petrosa Itaca. Lì si vedono le fiamme che si levano dalle navi incendiate dalle donne troiane, stanche di seguire Enea in un viaggio senza fine.
Dante Alighieri avverte il fascino dell’isola. Si era formato sui versi di Giacomo da Lentini, Guido delle Colonne, Pier delle Vigne, poeti che, dopo avere raccolto la lezione dei provenzali, avevano dato vita alla prima Scuola poetica in Italia. Senza quella esperienza forse lo Stilnovismo non avrebbe prodotto testi così raffinati.
Ammira Federico II per i suoi molteplici interessi, l’amore per la poesia, il senso dello Stato. Lo ritiene l’ultimo imperatore degno di questo nome, perché si era opposto all’arroganza del pontefice, affermando l’autonomia del potere temporale. Poi lo scaraventa nell’inferno tra gli eretici, ma questa è un’altra storia.
Di Manfredi, figlio naturale del sovrano, delinea uno splendido ritratto, che emoziona il lettore.
Quando lo incontra nel Purgatorio fra gli scomunicati che attesero gli ultimi attimi di vita per pentirsi, nota la sua straordinaria bellezza deturpata nel volto da una ferita che gli ha spaccato un sopracciglio. Manfredi è un eroe, degno di ammirazione e di rispetto.
“Biondo era e bello e di gentile aspetto, ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso…”
Coraggioso e sfortunato, muore combattendo valorosamente, nel 1266, nella battaglia di Benevento. Con lui tramonta l’impero svevo, ha inizio il regno degli Angioini.
Il pontefice scomunica Manfredi, Dante Alighieri lo salva. Lo pone nel Purgatorio, immaginando un pentimento in fin di vita. Con un colpo di penna, disintegra l’infallibilità papale.
Di fronte alla rivolta dei Vespri siciliani il poeta non ha dubbi. E’ la “mala signoria” degli Angioni a spingere Palermo a gridare “Mora, mora!” Aveva intuito la tragedia di un popolo sfruttato da regnanti senza scrupoli, impoverito nelle sue risorse ma capace di riscattarsi se offeso nella sua dignità. E’ successo in passato, può ripetersi in un futuro prossimo!
Dante consegna alla storia la sua condanna dei politici corrotti, con il prestigio dell’intellettuale che fa della letteratura uno strumento di lotta civile.
Ringrazio Leda Melluso per il bell’intervento su “Dante e la Sicilia”.
Grazie, Leda.
A partire dalle h. 21:30 circa, Roberto Alajmo sarà ospite di Massimo Maugeri nella puntata odierna di “Letteratitudine in Fm” – in onda su Radio Hinterland, Fm 94.600 MHz (nel territorio della provincia di Milano e oltre) e in streaming via internet da qui: http://www.radiohinterland.com/streaming/radiolimpia.asx
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Per ulteriori informazioni:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/letteratitudine-radio-hinterland/
http://www.radiohinterland.com/?q=node/4347
Ringrazio e saluto Roberto Alajmo, graditissimo ospite di questa nuova puntata di Letteratitudine in Fm. Ne approfitto anche per ringraziare gli amici di Radio Hinterland, e in particolare Federico Marin (che ha curato la regia della puntata e mi ha assistito in studio).
Da non siciliana, appassionata di Sicilia, posso dire che ciò che più mi colpisce durante i soggiorni in questa terra splendida è l’accoglienza quasi esagerata, la gentilezza e la disponibilità che si riscontra nelle persone, qualità che sono quasi del tutto sparite nelle nostre città del nord. Da qualche anno mi diletto a scrivere in maniera semplice (per chi non ha tempo di leggere) brevi sinossi di romanzi che riguardano la Sicilia, scritti da autori siciliani, che sono tantissimi, famosi e non, e le pubblico sul sito: http://www.sicile.net/. Questa esperienza mi permette di affermare che la Sicilia rappresentata nei libri è molto spesso rispondente alla realtà, tanti scrittori denunciano le contraddizioni, la decadenza, lo Stato che manca e la mia impressione comunque è che chi scrive ami la sua terra di “un amore che si prova per una canaglia. Tu sai che è una canaglia, ma non puoi farci niente”.
Cara Nada, grazie mille per il tuo commento.
Agli amici siciliani della costa Est: vi ricordo che oggi, 17.4.2010, h. 18.00 – presso il Centro Fieristico “Le Ciminiere” Viale Africa – Catania – (Sala E 1), sarà presentato il libro di Roberto Alajmo “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia” – (Laterza).
Sarà presente l’autore. Introdurrà il prof. Tino Vittorio.
Ringrazio Massimo Maugeri e Roberto Alajmo per l’incontro di ieri sabato 17 aprile a Catania.
Mentre guidavo per ritornare a casa, mi chiedevo chi sono veramente i Don Chisciotte che combattono per non far affondare la zattera, chi sono i naufraghi agganciati ai bordi, chi i rematori, la coscienza civile, gli artisti, le brave persone, i silenziosi, quelli che fanno casino. Approdata ad un pensiero che mi schiarisce le idee, capisco che qualsiasi tentativo d’arte porta già con sè i semi di una possibile trasformazione. Il linguaggio nelle sue forme espressive (scrittura, pittura, recitazione, fotografia, scultura, etc.) lascia le sue orme se il lavoro di preparazione è andato in profondità e quindi in altezza, una direzione, questa, che “panza larga e bocca striminzita” non possiede.
Roberto Alajmo non è un Sancho Panza.
Ciao. Grazie.
Rossella Grasso
Grazie a te, cara Rossella. È stato un piacere averti potuta riabbracciare.
E grazie a tutti gli amici di Letteratitudine che sono passati, ieri, alle Ciminiere per ascoltare Roberto (con molti di voi ho avuto modo di scambiare un rapido, m affettuoso saluto).
Scusatemi se sono dovuto andare via un po’ prima della fine della presentazione.