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CALISTO, di Stefano Adami (Edizioni Effigi, 2015)
a cura di Claudio Morandini
Stefano Adami, nel breve romanzo “Calisto” (Edizioni Effigi, 2015), esplora le connessioni tra realtà e finzione, tra quotidianità e invenzione teatrale, e anche tra musica e parola. Lo fa con garbo, senza esagerare, senza rendere barocca a tutti i costi la vita quotidiana e senza forzare la contaminazione tra l’artificiosità del mondo del melodramma e le minuzie delle giornate dei diversi personaggi (con l’eccezione di un paio di momenti di cui parleremo più avanti).
L’occasione è data appunto da “La Calisto”, l’opera del veneziano Francesco Cavalli (1602-1676) del 1651 su libretto di Giovanni Faustini, ancor oggi riproposta a teatro. Cavalli, prolifico autore di melodrammi ispirati ai grandi miti greco-romani o agli eroi dell’antichità (citiamo un po’ a caso “La Didone” e “Gli amori di Apollo e Dafne”, entrambi su libretto del Busenello, “L’Elena” e “L’Egisto” su libretto dello stesso Faustini, “Il Giasone” su versi di Cicognini), è con Monteverdi il fondatore dell’opera barocca, e tra i primi a sperimentare certi stilemi che saranno sviluppati nei secoli successivi. “La Calisto”, ispirata a un episodio delle Metamorfosi di Ovidio (II, 401-495), narra di amori di dei, ninfe e uomini. Calisto (Callisto, cioè) è appunto una ninfa seguace di Diana, vincolata al voto di castità, della quale però Giove s’incapriccia: per amoreggiare con lei il re degli dei si fingerà Diana, senza pensare troppo alle conseguenze. Quando Diana stessa e poi Giunone, moglie di Giove, scopriranno che Calisto è incinta, la ninfa sarà oggetto della vendetta di entrambe.
Travestimenti, equivoci, confusione di generi, lesbismo neanche tanto latente, voyeurismo: nella prima parte della versione ovidiana del mito compaiono tutti gli elementi che potevano rendere particolarmente perturbante l’episodio (elementi che solo in un’ambientazione precristiana era possibile preservare dalle censure), come è dimostrato anche dal dipinto di Tiziano “Diana e Callisto”, del 1556-59, conservato a Edimburgo, che è tutto un tripudio di nudità e promiscuità femminili.
Adami omaggia con discrezione la struttura del melodramma alternando movimentate scene d’assieme che potremmo equiparare a recitativi declamati, e pensosi e tormentosi monologhi che ricordano le arie, secondo un procedimento che proprio nelle opere di Cavalli si andava fissando.
Ma perché ispirarsi proprio a “La Calisto”? Che cos’ha di particolare quest’opera rispetto alle altre di Cavalli? Lo chiedo a Stefano Adami.
«Ho scelto “La Calisto” per due ordini di motivi, uno più generale, l’altro molto personale» mi risponde Adami. «In generale, perché “Calisto” è uno dei modelli paradigmatici di opera barocca, una storia piena di colpi di scena, di ironia. Una storia di trasformazione, di meraviglia, d’amore, d’inganno. Dove ci si chiede cosa è davvero l’amore. “Calisto” è, come dice il librettista stesso in un verso, “uno strano misto d’allegro e tristo”. Ed è sostanzialmente un’opera di trasformazione in senso biologico e filosofico: Calisto viene trasformata, Giove viene trasformato. Dal punto di vista personale, invece, “Calisto” è profondamente importante per me. Come l’Inghilterra degli anni ’90. È la prima opera importante a cui ho lavorato. E ha alchemicamente trasformato anche me. Come spero che trasformi i lettori del romanzo.»
Nel romanzo di Adami si legge che, “dinanzi allo squallido presente che tutti i componenti del pubblico condividono giorno dopo giorno, lo splendore di questa storia, di queste parole, di questa musica, rappresenterà per loro l’esperienza più bella e più vera di una vita.” Sembra una dichiarazione sentita, anche se tutto, in questo romanzo, per influsso del fitto gioco di mascheramenti di derivazione teatrale e barocca, suona sempre virato verso sottintesi ironici che smentiscono nel momento in cui confermano, in un vortice di finzioni che accomuna il mondo dell’opera all’oggi (per dirne una, nemmeno Paul è il nome vero del protagonista, ma solo un alias datogli dal regista). Ma insomma, riteniamo di poter credere alla sincerità del personaggio del regista quando dice: “Un’opera che regala così tanta saggezza, così tanta bellezza, che può dare senso ad una vita, o almeno a una serata, meglio non esagerare. Voglio dire… è un’opera di travestimenti, di cambi di persona… Noi ci travestiamo tutti i giorni, cambiamo maschera tutti i giorni… per distruggere… distruggere rapporti, concorrenti, fiducia… Qui lo fanno per creare…” Il mondo della Calisto, del mito, è comunque più semplice, più giusto, meno ambiguo del nostro: gli errori sono puniti, gli inganni sono scoperti, i rei (Giove a parte) sono puniti; e alla fine tutto si sistema, attraverso un sistema di metamorfosi che trasforma ciò che era in qualcosa di completamente nuovo, al riparo dalle iniquità.
L’opera barocca, definita appunto nel romanzo “un pezzo d’oro di un mondo in cui gli sconosciuti erano dei, i pastori s’innamoravano delle divinità, e tutto il dolore si trasformava in stelle”, alterna momenti seri, drammatici, ad altri comici, fondamentali se si pensa che opere come questa andavano in scena nel periodo di Carnevale (personaggi come Satirino e Linfea hanno proprio la funzione di alleggerire la seriosità dell’impianto, introducendo elementi scherzosi, parodici, che confermano con tono più lieve l’assunto alla base del dramma maggiore).
Sta proprio in questa complessa bellezza il fascino persistente dell’opera barocca? Lo chiedo ancora all’autore.
«La musica europea – e quella italiana in particolare – tra ‘500 e ‘600 ha dentro di sé una complessa, calda tessitura di saperi sull’uomo, sulle emozioni e sensazioni umane, di dono, che è davvero difficile da definire e da cogliere» mi dice Stefano Adami. «Le cronache dell’epoca ci raccontano che le signore bene svenivano dal turbamento ascoltando musica, o all’opera. Non è più solo musica, dunque, è alchimia, è magia, di estrema potenza. E questo lo tocca con mano qualunque esecutore, direttore o ascoltatore di quella musica lì. È un tipo di musica che tocca davvero, e in grande profondità, certe corde interiori dell’essere umano. È il tipo di sapere musicale, di tocco, di cui parla spesso Sir Arthur in “Calisto”.
La potenza magmatica, vulcanica di quella musica si struttura poi meravigliosamente nell’opera lirica» prosegue Adami. «Perché l’opera barocca, mi chiedi dunque. Perché l’opera antica nasce come reinvenzione del teatro musicale greco. Perché nasce – nella Toscana del ‘500 – come alchimia, come esperienza catartica: per trasformare il piombo dell’umanità nell’oro dello spirito. Ed è un’alchimia – basta guardarsi intorno – di cui oggi abbiamo bisogno più che mai.»
Di quest’opera, in cui si racconta un mondo (due mondi, anzi, quello degli uomini e quello degli immortali) governato dalla forza irresistibile dell’eros, Stefano Adami racconta appunto le prove fino alla première, concentrandosi sulle fasi iniziali, quelle della lettura, del primo approccio interpretativo, attraverso il punto di vista del protagonista, Paul, che condivide con l’autore l’attività di ripetitore e aiuta i cantanti nella lettura e nell’interpretazione dei versi di Faustini. In questi episodi emerge con chiarezza quanto nell’opera seicentesca fosse importante il libretto, quanto il connubio tra parola poetica e musica fosse condizione essenziale (la voce, si legge a un certo punto, va “addomesticata” sulle parole). Il racconto delle sedute di lettura e di prova, assai gustoso e anche istruttivo, è fatto con competenza, dal momento che l’autore stesso ha collaborato, come si diceva, a diversi allestimenti di melodrammi, compresa la “Calisto”.
Adami, che ha contribuito anche con una voce sulla librettistica tra 1600 e 1750 al secondo volume dell’Atlante della Letteratura Einaudi, è attento a non strafare, dicevamo: cioè non allaccia legami troppo espliciti tra l’opera olimpica di Cavalli e la quotidianità dei suoi personaggi, non instaura parallelismi troppo evidenti. Però, certo, anche i suoi personaggi sembrano sballottati da Eros, per quanto sia un eros assai più modesto, e quel senso di ebbrezza del vivere che lo stile di Cavalli (assieme agli stilemi barocchi) stilizza e nobilita finisce anche per coinvolgere Paul e gli altri, sebbene in occasioni più dimesse.
E capita anche che dopo un po’ di prove il vissuto della compagnia si sovrapponga alla trama dell’opera, che interpreti e ruoli si confondano, e Calisto e Giove diventino i nomi anche di chi si calerà nelle parti sulla scena, e Giove si senta presuntuoso e strapotente come il re degli dei (riuscendo più che altro a fare una scenata ai danni della povera Calisto).
Due momenti si distaccano dal realismo del resto del racconto e assurgono a una dimensione allegorica, si impongono come una parafrasi del mito: il primo è il prologo, in cui un virtuoso di viola da gamba, solo sulla scena davanti a un pubblico venuto ad ascoltarlo, invece di suonare i pezzi in programma si lancia in un monologo dapprima misterioso e divagante poi sempre più chiaramente profetico sull’ipocrisia degli uomini e sulla loro responsabilità: quando profetizzerà la prossima distruzione del teatro gli daranno del pazzo – ma il teatro sarà colpito da un furioso incendio.
“L’azione” si legge nel romanzo “inizia proprio quando il mondo è distrutto da un fuoco devastante… no? Non viviamo tutto i giorni, oggi, nell’ansia della distruzione, nella passione della distruzione? Quest’opera ci dice cosa succederà dopo.” Nell’intreccio ovidiano, a cui è fedele anche l’opera di Cavalli, si tratta dell’incendio provocato dal figlio di Febo Fetonte, uno dei tanti traumi che resettano il mondo prima di una nuova rinascita.
Il secondo momento è costituito da un lungo episodio centrale in cui compare un nuovo personaggio di cui si è sentito parlare con reverenza già nelle pagine precedenti, sir Arthur. La centralità della scena (una cena-orgia nella villa di sir Arthur) pesa nel romanzo come, verrebbe da dire, il banchetto a casa di Trimalcione nel Satyricon di Petronio. Troppo importante, vasta, anomala, per passare inosservata, la scena ci vuole suggerire una chiave di lettura: segna la più evidente connessione tra presente e passato, tra sogno e realtà, tra tempo della storia e atemporalità del mito. Sir Arthur vi troneggia: all’inizio appare come un eccentrico e esuberante artista, interprete sopraffino, autorità riconosciuta da tutti, sostenitore ironico del potere salvifico dell’arte, un misto rabelaisiano di Zeffirelli, Ken Russell e Orson Welles, arbiter elengantiarum ben al di là del mondo della musica; ben presto il suo stentoreo cicalare diventa sintomo di una potenza sovrumana, da regista del mondo. Sir Arthur è Giove, insomma, un Giove calatosi dall’Olimpo a rimescolare le esistenze degli uomini, il depositario dei destini individuali, il giocoliere nelle cui mani diventiamo giochi. Evoca attraverso la musica (e gli strumenti, che della musica sono il tramite) Mozart, Bach, l’abate Casti, ed ecco che gli evocati sono lì, tangibili, presenti. Evoca l’amore come sola verità del mondo, ed ecco che una miriade di creature, mitologiche e non, appare a confermare concretamente la sua visione pansessualistica. Solo quando appare lui la combinazione tra l’aureo artificio del mito messo in musica e la nostra povera vita funziona, e appare evidente come la forza che governa ogni nostro gesto e pensiero e ogni elemento in natura sia un eros cui è impossibile opporsi.
Prima di concludere, chiedo a Stefano Adami qual è, secondo lui, il modo migliore di presentare oggi un’opera barocca, tra la proposta rigorosamente filologica e l’attualizzazione a tutti i costi.
«L’allestimento ideale per un’opera barocca è un po’ come il Santo Graal» mi dice Adami. «Ho avuto la fortuna di vedere dall’interno la preparazione di molti allestimenti di opere barocche. In “Calisto” ci sono varie, e divertenti, discussioni sugli allestimenti in generale, e sull’allestimento in particolare dell’opera che i protagonisti stanno preparando, “La Calisto”, appunto. Sono d’accordo con alcune delle cose che vengono dette in quelle discussioni. Direi, per esempio, che gli allestimenti attualizzanti hanno ormai stancato. È banale vedere, ormai, in scena, Zeus in divisa nazista o vestito come Berlusconi, Renzi o Obama. Dal mio punto di vista, l’allestimento ideale è invece quello che ha una linea sobria, essenziale, eleusina, che ricorda un po’ la mano del De Chirico del mito scarno, delle “Piazze d’Italia”.»
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