Ricordiamo Mario Rigoni Stern in occasione del centenario della sua nascita, riproponendo questa bellissima intervista rilasciata a Andrea Di Consoli (e pubblicata su Letteratitudine il 26 giugno del 2007).
In occasione della sua morte, invece (avvenuta il 16 giugno 2008), pubblicammo questo articolo
* * *
Mario Rigoni Stern (Asiago, 1º novembre 1921 – Asiago, 16 giugno 2008) è stato un militare e scrittore italiano.
Il suo romanzo più noto è Il sergente nella neve (1953), un’autobiografia della ritirata di Russia. Legatissimo alla sua terra, l’altopiano di Asiago, era il discendente dell’ultimo cancelliere della federazione dei Sette Comuni. Primo Levi lo definì “uno dei più grandi scrittori italiani”.
* * *
LE VALLI MALEDETTE DI MARIO RIGONI STERN (di Andrea Di Consoli)
Dietro le quinte del teatro “Persiani” di Recanati, in attesa che Mario Rigoni Stern venga chiamato da Paola Pitagora, conduttrice del premio letterario Recanati (che ha vinto Mario Rigoni Stern), e presentato da Ernesto Ferrero (che dice, non appena lo chiamano: “Parlare di Mario è come essere a casa, come arrivare a baita”), il grande scrittore de Il sergente della neve e del recente Stagioni se ne sta seduto da solo su una sedia e guarda buono, con le mani in grembo, verso il palcoscenico. Gli domando se da Asiago è venuto in macchina o in treno. “In macchina” mi dice, “mi sono venuti a prendere”. Mi fa cenno di sedermi al suo fianco e mi domanda, con estrema semplicità, il nome (non mi domanda chi sono, ma come mi chiamo), mi chiede da dove vengo e, quando sente che sono lucano, lui subito mi parla della Basilicata, e mi dice che è stato a Bernalda, a Matera e, quarant’anni fa, a Metaponto: “A Metaponto ci sono stato a ferragosto. Non c’era nessuno. C’eravamo soltanto io e i grilli. Era come stare fuori dal mondo”. Adesso, invece, a Metaponto, a ferragosto, è impossibile trovare un angolo non turistico. E gli domando del Sud (a lui che è così indissolubilmente legato a un’idea forte di Nord): “Il Sud è bellissimo” mi dice, “ma più di tutto amo la Sicilia. La Sicilia è meravigliosa”.
Il teatro è caldo, sudiamo, ma per non fare rumore siamo sempre più vicini, parliamo fitto fitto; a bruciapelo gli domando se la neve – che lui ha “cantato” in tutti i modi – sia guerra o pace. Rigoni Stern curva la mano e la posa sull’orecchio – forse, per l’imbarazzo, ho parlato troppo a bassa voce. Gli rifaccio la domanda. Mi guarda e risponde con sicurezza: “La neve non è né buona né cattiva. Non è mai colpa della neve. E’ sempre colpa degli uomini se la neve è cattiva”.
Ma si può impazzire in guerra? Cosa è stata la campagna di Russia? E si può amare la neve dopo averla vista azzannare le gambe dei propri compagni? Nel giro di pochi minuti ci troviamo lontani dalla festa letteraria di Recanati e immersi in una strana intimità pensosa. Mi dice Rigoni Stern: “Certo che si impazzisce sul fronte. Soprattutto per il poco dormire. Ci provi a non dormire per otto giorni. Io forse ero impazzito. Mi ero sdoppiato. In quei giorni mi sembrava che un altro Mario mi dicesse le cose che dovevo fare. La vera guerra è stata in Russia”. Prima di essere chiamato sul palco dalla Pitagora ci diamo appuntamento per la mattina successiva, nella sala colazioni dell’albero dove Rigoni pernotta.
Durante la notte, prima di addormentarmi, penso allo strano destino critico di Mario Rigoni Stern, uno scrittore che è sempre rimasto schiacciato tra due categorie abbastanza anguste (“scrittore di guerra”, o “di testimonianza”, e “scrittore della natura”; eppure “guerra” e “natura” non sono sempre topoi logori e prevedibili); penso, invece, alla durezza della sua narrativa poetica, al suo guardare sempre in faccia il dolore e, direi, il controdolore – non c’è niente di “naif” nella sua scrittura, anche perché la natura non dà mai davvero risposte consolatorie, anzi, è più “muro” del “muro” del pensiero filosofico – anche la guerra è un “muro” nel pensiero. Rivedo, prima di prendere sonno, il viso buono di sua moglie, e risento le parole di Rigoni Stern su Roma: “Roma me la sono goduta nel 1973, quando c’è stata la crisi petrolifera. Non circolava neanche una macchina. Me la sono girata tutta a piedi. Quel giorno andai anche a trovare Walter Binni e Emilio Lussu”.
La mattina mi sveglio in ritardo e scendo di corsa. Lo trovo che beve un caffè al bar. Mi saluta e mi indica un tavolo all’aperto. Accendo una sigaretta e gli domando se ha mai fumato. “In guerra fumavo le ‘Makorka’, le sigarette dei kulaki. Ho fumato tantissimo, ma poi ho smesso, perché ho avuto problemi di cuore. Ho avuto un arresto cardiaco. Quel giorno sentivo i medici che dicevano che ero morto. Non è stata una brutta sensazione. La morte non è brutta. E’ la sofferenza che fa paura”. A Recanati c’è un dolcissimo vento che ci scompiglia i capelli. Bevo un caffè e, mentre apro il taccuino, Rigoni mi dice che a Recanati c’era stato altre volte: “E’ un grande poeta, Leopardi, ma la sua opera più importante è Lo Zibaldone. Tanti anni fa, visitando la sua casa, mi attardai di sera nella sua biblioteca. Per me fu una grande emozione rimanere lì nella penombra”.
I ricordi di Rigoni si sciolgono: “La mia famiglia era abbastanza benestante prima della guerra. A casa nostra di libri ce ne sono sempre stati. C’era dimestichezza con i libri. Mio fratello maggiore ha anche pubblicato un libro di poesie: sonetti enigmistici”. E in guerra? Serve la letteratura in guerra? Davvero può aprire un varco di salvezza come nel “Canto di Ulisse” di Primo Levi? Rigoni Stern non ha dubbi: “Certo che serve la letteratura. Io avevo con me la Divina Commedia e L’Orlando furioso. La letteratura aiuta a superare i momenti brutti. Quando ero in Albania c’era un compagno militare, che faceva il pastore, che mi diceva ‘dai Rigoni, fammi contento, leggimi la Divina Commedia’.
La guerra è l’ossessione di Rigoni Stern: “I russi stavano attaccando. Avevo la responsabilità di 70 uomini. Li ho riportati vivi in Italia. E’ stato il più grande capolavoro della mia vita. C’era un sergente che ricevette una lettera dalla sua fidanzata. Eravamo sul Don. Nella lettera la fidanzata gli diceva di non amarlo più, e di aver trovato un altro uomo. Dopo aver letto questa lettera il sergente fece azioni di guerra disperate. Cercò la morte. L’ha cercata con tutto se stesso, la pallottola che lo ha ucciso. Si chiamava Achille, quest’alpino. Lui almeno è morto per amore. Noi, per quale amore siamo morti noialtri?”
“Natura” e “guerra” s’intrecciano come due serpenti poco pacificati; e sono due serpenti che ora sembrano nemici, e ora si avvinghiano in amore (un amore vischioso): “La natura non ha sentimenti, la natura dobbiamo accettarla. Dobbiamo salvarla, dobbiamo rispettarla. Non possiamo piantare il frumento al Polo. Però non c’è solo la rosa, non c’è solo la valle fiorita, ci sono anche le valli maledette. La nostra fortuna è stata quella di aver perso la guerra, così è finito il nazismo e il fascismo. Ma chi ricorda la grande battaglia del 1943 in Russia? Ci pensa? Un milione contro un altro milione di soldati. Milioni di persone morivano e nessun giornale ne parlava”.
E dopo? Dopo la guerra? Dopo c’è stata la prigionia in Austria, nel 1944, in una miniera di ferro (“era quasi bello stare in miniera, dopo la guerra, ma è stato anche duro, con quel poco che ci davano”); ci sono stati i libri da Einaudi, ma anche l’impiego come diurnista di terza categoria presso l’amministrazione finanziaria dello Stato, e poi la famiglia, la moglie, i tre figli, le passeggiate nei boschi, “fare legna”.
E la morte? Rigoni Stern è lapidario: “I giovani muoiono meglio dei vecchi, perché i giovani hanno tanta vita. I vecchi, invece, sono attaccati fino alla fine all’unico barlume di vita che rimane”.
La tranquillità domenicale di Recanati – la sua ritrosia indecifrabile e suggestiva – è spezzata, nella mia mente, dalle dure parole di Rigoni (il racconto degli arti congelati dei soldati); eppure c’è, nonostante tutto, una possibilità di tranquillità nello stare al fianco di Rigoni (nel suo correre in albergo alla ricerca della moglie, nel far giocare mio figlio con la sua barba bianca, nel suo fare colazione con pane e formaggio). E’ una tranquillità che colpisce per l’estrema semplicità. Poi, però, non appena si parla dell’uomo in pericolo, della guerra, della natura, il volto di Rigoni Stern diventa “freddo” e solenne. In certi momenti è normale pensare a Omero.
* * *
«Una parola definitiva sulla pietà e sulla misericordia che consentono agli uomini di continuare a guardarsi in faccia senza vergogna». Eraldo Affinati
I ricordi della ritirata di Russia scritti in un Lager tedesco dall’alpino Rigoni Stern nell’inverno del 1944 vennero pubblicati da Einaudi nel 1953 nei «Gettoni» diretti da Vittorini sotto il titolo Il sergente nella neve. Apprezzato inizialmente soprattutto per il valore della testimonianza, il romanzo ha mostrato le sue grandi qualità espressive con la progressiva distanza temporale dai drammatici avvenimenti narrati. E ormai è giustamente considerato un classico del Novecento: per la lingua intensa e sempre concretissima, per l’alta moralità di fronte a esperienze estreme, per la totale mancanza di enfasi retorica, per il candore e la forza con cui viene rappresentata la lotta dell’uomo per conservare la propria umanità.
Cronologia della vita e delle opere a cura di Giuseppe Mendicino.
* * *
Mario Rigoni Stern esordì con Il sergente nella neve (1953), una delle più notevoli testimonianze letterarie della seconda guerra mondiale, alla quale l’autore partecipò con gli alpini sul fronte russo. Dopo anni di silenzio Rrigoni Stern è tornato alla narrativa con i racconti Il bosco degli urogalli (1962) e i romanzi La guerra della naia alpina (1967), Quota Albania (1967), Ritorno sul Don (1973), Storia di Tönle (1978, premio Campiello), emblematica biografia di un solitario montanaro durante la grande guerra, uno dei suoi esiti più alti. Successivamente, accanto a nuovi romanzi, L’anno della vittoria (1985) e Amore di confine (1986), lo scrittore ha pubblicato diverse opere che testimoniano di una sua crescente adesione al mondo della natura: Uomini, boschi e api (1980), Il libro degli animali (1990), Arboreto selvatico (1991). In Le stagioni di Giacomo (1995, premio Grinzane) ha raccontato i luoghi d’origine. Nella produzione successiva tornano i suoi temi dominanti: Sentieri sotto la neve (1998), Tra due guerre e altre storie (2001), Stagioni (2006), I racconti di guerra (2006).
* * *
© Letteratitudine – www.letteratitudine.it
LetteratitudineBlog / LetteratitudineNews / LetteratitudineRadio / LetteratitudineVideo