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Può sembrare alquanto contraddittorio scrivere su Centochiodi, l’ultimo film di Ermanno Olmi, in un blog letterario. Il motivo è ben presente a chi ha visto la pellicola. L’immagine di questo film che colpisce maggiormente lo spettatore è proprio quella dei tanti libri aperti e inchiodati al suolo di una biblioteca da grossi chiodi. A realizzare questo “sacrilego” gesto è un giovane e brillante docente universitario, protagonista del film. Egli ha compiuto tale atto simbolico dopo essere giunto alla conclusione che i libri sono stati incapaci di togliere il male dal mondo, pur essendo detentori di culture e saggezze millenarie. “Tutti i libri di questo mondo non valgono un caffé con un amico”, affermerà poi verso la fine del film, quasi a volere suggellare il suo gesto compiuto contro i libri. A cui segue la sua decisione di fuggire via dall’università e dalla sua città. Una fuga che ha termine in un piccolo paese alle rive del Po, abitato da gente semplice con cui il docente stringe profonda amicizia, divenendo solidale con loro e con i loro piccoli problemi. Proprio per questo verrà da loro ritenuto un novello Cristo. Di fronte a tutto ciò, quanti amano i libri (compreso chi scrive) potrebbero giustamente insorgere.
Eppure non sembra essere il rifiuto dei libri, tout court, ciò che il regista ha voluto comunicarci attraverso la sua ultima pellicola. Olmi, infatti, ha affermato di non essersi voluto scagliare contro i libri, che ama, bensì contro quella cultura (anche religiosa) che, esclusivamente libresca, può imprigionare, “inchiodare”, ciascun uomo, incasellandolo in codici precostituiti e privandolo della mutevolezza e sacralità della sua vita vissuta. E tuttavia tale affermazione può costituire motivo di riflessione (e di turbamento) ogni qual volta ci si accosta ai libri ed al loro mondo.
Ad un esame più attento, però, in questo film Olmi pare volerci principalmente narrare la storia di un profondo cambiamento, di una “conversione”, che scaturisce da una crisi interiore. E lo fa partendo dal contatto col buio esistenziale del suo protagonista. Ad un certo punto del film, un primo piano dal basso racchiude il volto del giovane professore mentre, in silenzio, osserva da un ponte l’acqua del Po fluire di sotto: il suo volto è profondamente serio e intento, ed è illuminato dalla fioca luce crepuscolare che richiama la fioca luce del suo animo. Sembra la scena di un suicidio. Eppure, dopo qualche istante di silenzio, il professore getta la sua carta d’identità nel fiume insieme al suo lussuoso giubbotto e li osserva allontanarsi, trascinati dalla corrente. Abbandona poi ogni altro suo avere e, dopo aver trovato una piccola casetta diroccata posta sulla riva, in mezzo alla vegetazione, la elegge a sua dimora, ristrutturandola. Inizierà così la sua nuova esistenza in una solitudine agreste alternata dal contatto con gli abitanti del piccolo borgo della Bassa mantovana. Però da qui la trama sembra proseguire verso sviluppi scarsamente efficaci, perché la “morale” diviene didascalica e un po’ di maniera. A conclusione del film si ha l’impressione che quanto era stato promesso non sia stato mantenuto e sia ancora lì, irrisolto. Peccato. Eppure restano le immagini. Il fiume, la campagna, i tramonti, la vita quotidiana del borgo, i balli nella balera al fresco della sera: tutto questo è osservato e narrato con cura, attenzione e rispetto dall’obiettivo della macchina da presa. Non semplice “sfondo” scenografico o esercizio calligrafico, bensì –appunto- narrazione. Narrazione silenziosa. Giacché silenziose sono le immagini che raccontano questo piccolo mondo osservato e vissuto dal giovane professore. Viene da pensare ai film di Terrence Malick. Viene anche da pensare che, forse, quanto c’è di poco convincente ed irrisolto in questo film, troverà una sua continuazione nelle realtà raccontate dai futuri documentari a cui Olmi vuole interamente dedicarsi, avendo deciso di abbandonare il cinema di finzione. Non resta, allora, che augurargli di mantenere quel suo sguardo carico di sensibilità verso la realtà profonda delle cose.
Gabriele Montemagno
Premetto che non ho avuto la possibilità di vedere questo film di Olmi. Però la frase che segue mi ha molto colpito:
“Tutti i libri di questo mondo non valgono un caffé con un amico”.
Frase forte, ma forse opinabile. Voi che ne pensate?
E ci sarebbe da discutere anche sul fatto che “Olmi ha affermato di non essersi voluto scagliare contro i libri, che ama, bensì contro quella cultura (anche religiosa) che, esclusivamente libresca, può imprigionare, “inchiodare”, ciascun uomo, incasellandolo in codici precostituiti e privandolo della mutevolezza e sacralità della sua vita vissuta”.
Bisognerebbe rifletterci un po’ su. Voi che ne dite?
“Tutti i libri di questo mondo non valgono un caffé con un amico”.
Mah! A me il caffè fa venire il nervoso, e a volte anche gli amici.
Un libro, un buon libro, invece riesce a rilassarmi o comunque a farmi uscire da me stessa. Ci sarebbe ben altro da inchiodare al pavimento, invece dei libri: per esempio, le bollette da pagare.
Ciao.
In fondo è l’eterna contrapposizione tra azione e riflessione tra flusso vitale e controllo del flusso (o si vive o si scrive). Sullo sfondo il flusso, il Po, continua e continuerà fregandosene dei nostri libri e dei nostri pensieri, ma anche di noi. Ma noi possiamo fermare anche il Po, nelle nostre visioni, e fissare l’effimero della nostra vita nei libri e collegarci così ad altri noi, farli rivivere. Come sempre occorre non essere sbilanciati, vivere in equilibrio tra i due flussi, quello reale e quello di coscienza, e rendersi conto che la scalata al Parnaso è difficile e pericolosa e fa molte vittime, pochi arriveranno in cima: ne vale la pena?
Olmi mipiace molto come regista e come uomo. A me arriva un messaggio da questo film: un atto di accusa non rabbioso contro certi intellettuali
supponenti e aridi che leggono e leggono libri ma non sanno leggere e ascoltare le persone.
Olmi mipiace molto come regista e come uomo. A me arriva un messaggio da questo film: un atto di accusa non rabbioso contro certi intellettuali
supponenti e aridi che leggono e leggono libri ma non sanno leggere e ascoltare le persone.
Ottima la recensione di Gabriele Montemagno del film di Olmi.Credo che Olmi sia un sottovalutato. Io non ho visto tutti i suoi film e non ho ancora visto Centochiodi, ma la recensione di Montemagno è talmente affascinante che lo vedrò al più presto. Di Olmi ricordo i suoi primi due film: Il Posto ed I Fidanzati. Film teneri e bellissimi. Abbastanza originali per quei tempi in quanto non assomigliavano a quelli di altri registi della scuola romana. Tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico. Affermazione discussa, discutibile, ma rispettabile. Leggere libri non può essere un fatto fine a se stesso. Intendo dire che dopo aver letto si deve portare all’esterno il risultato delle letture. Se queste rimangono solo dentro di noi, allora è inutile leggere e capire il mondo.Ed è anche in questo senso che sono utili ed importanti blog come Letteratitudine.Tornando ad Olmi, mi aveva molto ben impressionato il suo film su Giovanni dalle bande nere, non ricordo il titolo. Grande meraviglioso, da paragonare all’altrettanto grande film di Rosselllini: La presa del potere di Luigi XIV.
Anch’io mi complimento con Montemagno per la recensione. Non ho visto questo film, ma sicuramente lo cercherò. Credo che leggere libri sia importante, che arricchisca, ma se non abbiamo dentro l’umanità necessaria per far fruttare questa ricchezza è come se aggiungessimo sabbia nel deserto.
non potevo non andare a vedere l’ultimo film di olmi
e così, ieri, mi sono sorbita due ore di primi piani a un gesù contemporaneo che era una bestemmia
lui, il fico, era una bestemmia, non il film, non le parole che diceva, non i libri che inchiodava (anche se in alcune scene ho chiuso gli occhi)
diciamocelo: raz degan è un gran bel vedere, ma, porello, c’ha l’espressione sciapa di un ciocco di legno levigato dalle acque del po
la storia: un professore di filosofia della religione a bologna, c’ha una crisi
l’ultimo giorno di lezione prima delle vacanze estive, decide che la parola di dio non deve essere affidata ai libri, che anzi, i libri così belli, che stanno tutti ordinati in una libreria in radica di quelle che ti ci faresti volentieri rinchiudere dentro, non solo non sono ispirati da dio, ma portano un messaggio fuorviante
la vera parola di dio è l’amore per la gente (prendere un caffè con un amico, anche se quell’amico gli tocca interrogarti per poi mandarti in galera)
il professore, prima pomicia con una studentessa, poi inchioda cento libri con cento chiodi grossi come quelli della croce di cristo, poi piglia la macchina cabrio ultimo modello e da bologna parte alla volta del delta del po, dove occupa abusivamente una casetta fatiscente sulla riva e lì trascorre l’estate
diventa amico del postino del paese, della panettiera -che si innamora (e ci credo, quando le ricapita?), di un gruppo di diseredati che abita prefabbricati abusivi pure quelli e organizza una balera all’aperto, ogni tanto, per far passare la notte
questa è la trama (inconsistente)
il messaggio è ancora meno consistente
e le metafore (pietro, pesci, maddalena, ultime cene eccetera), per carità, nemmeno le suore alla materna ce le spiegavano in modo così superficiale
però è olmi, però ci sono i diseredati, però c’è un pianto finale che lèvati, però c’è il dialetto e i volti intensi che raccontano dolori, abbandoni, le parabole evangeliche vissute dal popolo, quello vero
e poi, per fortuna (e questa è dunque unica cosa che mi è piaciuta e tanto del film), tutto finisce in niente: il professore, si può immaginare, torna alla sua bella università e abbandona i poverelli alla loro trista sorte
dunque, il peccato più grande, a mio avviso, è stato affidare a una faccia del tutto inespressiva, con la barba troppo ben curata, ocn quei ricciolini freschi di tinta e di messimpiega, il personaggio principale
se olmi voleva portare un messaggio, sorry, non ci è arrivato
il figone è un figone finché sta fermo in posa per i servizi fotografici e è vero che recitare gesù non è mai stato facile, e che non ce ne è piaciuto forse nessuno nella storia del cinema e dei film tv di pasqua, ma raz degan è davvero troppo per la nostra pazienza
cordialmente,
LS
Caro Massimo,
OLMI voleva provocare una
certa categoria di persone.
OLMI sa che i libri accompagnano la nostra vita.
Senza libri non c’è memoria
storica del passato – presente
né dibattito sul futuro.
I nuovi mezzi di comunicazione
aiutano a completare, ma non
riusciranno mai a sostituire i libri
cari saluti—-
E’ vero che la vita vissuta è irriducibile al racconto, ma Olmi per comunicare questo concetto emozionando chi riceve la comunicazione ha avuto bisogno di un “media”: il film. Io adopero il romanzo e il racconto. Altri adoperano la musica…
Grazie a Massimo e a tutti per i vostri interessanti commenti e le vostre recensioni. Mi auguro che ciò possa continuare. Un saluto a tutti e a presto.
Gabriele.
Grazie a Massimo e a tutti per i vostri interessanti commenti e le vostre recensioni. Mi auguro che ciò possa continuare. Un saluto a tutti e a presto.
Gabriele.
Neanche io ho potuto vedere il film, però la recensione che ho letto qui, i pareri e le altre recensioni che mi è capitato di leggere mi hanno fatto riflettere sul “messaggio” di Olmi. è vero che molto spesso gli integralismi sono nati da distorsioni dei libri sacri ma è la Bibbia stessa a dirci che lo spirito vivifica mentre la lettera uccide. Questo vale per tutti i libri e specialmente per il Libro sacro per eccellenza. La Parola divina che si fa parola di uomini è qualcosa di meraviglioso. Dio ha fatto il passo in più: mandarci la Parola viva, Gesù Cristo, il Verbo che dà la voce al silenzio del Padre e che quando lascia la Terra lascia il canto, il soffio vitale dello Spirito. Questo vale anche per chi non crede nella divinità di Cristo. Egli infatti è grande perché ha messo in pratica quello che ha detto con le parole. Un libro fa questo: dà vita perché gli altri – i lettori – abbiano vita. Altrimenti resta soltanto un’interminabile serie di parole messe in fila. Tanto vale inchiodarli? Non direi. Cristo si è lasciato inchiodare per amore, non per masochismo. Questa mi sembra un’inutile iconoclastia, anche se ha provocato un dibattito abbastanza vivace. Un libro è anche tutte le persone che vi sono dietro. Io non getterei mai un libro, figurarsi bruciarlo o inchiodarlo. Un libro non vale un caffè con un amico? Un libro E’ un amico. Ed io prendo il caffè con gli amici di carne e con quelli di carta. Viva i libri!
La finitudine umana, secondo Angela Vettese è il tema della Biennale, vedi il Sole 24 h di oggi. Il suo intervento, suggestivo e, per la sua lucidità, inquietante, termina con queste parole:non è malinconia, solo ricerca di un senso in bilico con l’accettazione della mancanza di senso, della storia oltre che della vita.Purtroppo non ho visto il film di Olmi, l’ho inseguito inutilmente, per le sale del circondario; ho però letto le recensioni e la presentazione di Montemagno e da questo ho tratto la mia impressione. Penso che Olmi volesse dire che anche Cristo, in questi tempi di finitudine, sentirebbe il bisogno di una conversione. Atto che per ognuno di noi è libero e soggettivo ma assolutamente rivoluzionario.