Cinema e Giornata della Memoria – Due ritratti femminili “eversivi” per raccontare la Shoah: “Anita B.” e “Hannah Arendt”
Recensione di Ornella Sgroi
“Quanta goccia c’è nell’oceano? Quanta stella c’è nel cielo? Quanto capello sulla testa dell’uomo? E quanto male nel cuore?”. Da questo primo verso di una ballata del poeta ungherese Sándor Petöfi prende titolo il romanzo autobiografico della sua connazionale Edith Bruck, “Quanta stella c’è nel cielo” (Garzanti), la cui trasposizione cinematografica nei giorni scorsi è arrivata nelle sale italiane (penalizzata purtroppo da una distribuzione a volte ottusa) con il film “Anita B.” del regista torinese Roberto Faenza.
Quest’anno, per il Giorno della memoria, il cinema ha deciso di raccontare la Shoah con due ritratti femminili eversivi e coraggiosi.
Uno è appunto quello di Anita, protagonista di una storia che è prima di ogni altra cosa una storia d’amore. Amore per la vita, soprattutto, che rinasce dopo la morte e che guarda al futuro con speranza. Anita, poco più che bambina sopravvissuta ad Auschwitz, costretta a fare i conti con il silenzio che avvolse il dramma della Shoah persino tra gli stessi ebrei. Un po’ per rimozione di un trauma con cui era difficile fare i conti. Un po’ per pudore. E un po’ per vergogna di una colpa che non c’era. La sua lotta per la vita è commovente, come la dolcezza di questa piccola eroina, cui l’attrice Eline Powell restituisce al contempo fragilità e forza. Sotto lo sguardo affettuoso di Roberto Faenza, maestro nel costruire con i suo attori (nel cast anche Andrea Osvart, Robert Sheehan, Antonio Cupo e Moni Ovadia) un rapporto di cura, che traspare nel sentimento del film. Immerso da Arnaldo Catinari in un’atmosfera elegante e densa che si può quasi toccare, complici le musiche del siciliano Paolo Buonvino, che innalzano le emozioni del film e ne accompagnano la scena più bella, spiegando al pianoforte il mistero dell’amore.
L’altro ritratto è quello della filosofa ebreo-tedesca Hannah Arendt, figura affascinante e controversa cui si deve la sconcertante teoria della banalità del male. Nel film diretto da Margarethe Von Trotta, “Hannah Arendt”, la regista tedesca racconta proprio il periodo in cui la filosofa (interpretata dalla brava Barbara Sukowa) seguì come inviata del New Yorker a Gerusalemme il processo contro il funzionario nazista Adolf Eichman, esperienza che fece da spinta propulsiva per l’elaborazione del suo libro più discusso. Nel ripercorrere quei mesi di ricerche, dibattiti, riflessioni e introspezioni, che costrinsero la Arendt a fare i conti anche con le proprie ferite legate alla Shoah, la Von Trotta ci regala un viaggio nelle contraddizioni della Storia e nel pensiero di una delle più grandi intellettuali del Novecento, con un film del quale vale la pena non perdersi nemmeno una parola. Fosse anche solo per non dimenticare mai che l’orrore, persino quello legato alla Shoah, è figlio non di mostri ma della mediocrità.
[articolo pubblicato sul quotidiano La Sicilia, 27/01/2014]
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Leggi l’introduzione di Massimo Maugeri
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