Non si comprende oggi Conversazione in Sicilia se non si torna al 1937 quando Elio Vittorini comincia a scrivere il suo capolavoro che dall’anno dopo uscirà a puntate su “Letteratura” e nel 1941 in volume, costituendo con il concomitante Don Giovanni in Sicilia di Brancati il primo romanzo che mira al cuore del fascismo. Sono gli anni ruggenti del consenso di massa al regime, sebbene all’orizzonte comincino a profilarsi nubi di guerra, e in Spagna è appena cessata la guerra civile. Vittorini ha 29 anni ed ha interamente completato quello “scarico di coscienza” avviato nel ’29 e durato fino al ’36, quando rompe con il fascismo e viene espulso dal partito, decisiva rivelandosi proprio la guerra franchista.
Il 1936 è l’anno nel quale Vittorini ripudia Il garofano rosso, romanzo ispirato a un sentimento del “fascismo di sinistra” – del fascismo inteso come aggettivo e non ancora come sostantivo – che lo ha portato, attraverso Alessio Mainardi, a sentirsi rivoluzionario, ma anche a vagheggiare di essere màs hombre. Scaricata finalmente la coscienza anche delle influenze strapaesane di Malaparte, dal quale era rimasto soggiogato, non si libera però da una febbre che lo smania. Sente di essere chiamato a “nuovi doveri”, diversi da quelli che hanno infiammato la sua adolescenza, e avverte l’aria di un’offesa portata al mondo alla quale si addice a dare riparo scrivendo appunto Conversazione in Sicilia, il libro che su tutti gli altri riconoscerà come il suo più proprio. La genesi del romanzo riflette anche implicazioni esistenziali, oltre che civili e ideologiche. Vittorini vive a Milano dove lavora come correttore di bozze e, sentendosi lontano da casa, si trova a comprendere negli “astratti furori” che lo ghermiscono anche la mancanza della Sicilia, vista come la terra impareggiabile e smarrita che diventa metafora della perdita della patria con i suoi valori di libertà e democrazia. Il furore che nutre contro il suo tempo si trasforma in rabbia per se stesso avendo inseguito chimere sbagliate (l’aquilone che alla fine del romanzo vede volteggiare è il simbolo della libertà che non c’è) e sentendo di dovere nuovamente entrare in azione, stavolta contro il “dolore del mondo” che imputa al fascismo. In questa chiave la Sicilia e il fascismo sottendono i poli complementari e simultanei sui quali Vittorini esercita il suo magistero di scrittore rinato agli ideali democratici. Lo fa sfidando il regime con un’opera chiamata a superare la censura, nelle cui maglie è già incappato Il garofano rosso. Per riuscire in questo sforzo sa di dovere alzare al massimo l’asticella del realismo mitico fino anche all’astratto e all’astruso: ciò che tuttavia non impedirà a Italo Calvino di iscrivere Conversazione in Sicilia nel triangolo realistico, insieme con Paesi tuoi di Pavese e I Malavoglia di Verga, che scalderà il neorealismo postbellico.
L’allegorismo che pervade il romanzo nasce dunque non tanto da una scelta di tipo letterario, che comunque è chiaramente ricercata e consapevole, quanto dall’esigenza di non consegnare il romanzo alla censura. L’impresa è allora affidata a uno stile che, ricco com’è di iterazioni, polisindeti e antifrasi, assurge al rango di orazione civile qui e là imbevuta di risonanze linguistiche che evocano il racconto biblico. Lo sviluppo integra un’escalation che, partendo da basi analogiche, fatte di un linguaggio piano e di un fondo quasi mimetico, diventa via via sempre più elitario e simbolico fino a punte di estremo surrealismo. E in questo andamento è curioso notare come lo sviluppo stilistico si accompagni fedelmente allo spostamento dell’interesse tematico dalla Sicilia al fascismo, ovvero dal viaggio reale da Milano a Neve – e dentro Neve tra le case nel “giro delle iniezioni” e negli incontri con i “compagni di strada” – al viaggio onirico che finisce per assumere forme anche paranormali. Di più: i personaggi cambiano natura man mano che il viaggio da reale si fa spirituale, sicché dall’Uomo coi baffi, dal venditore di arance e dal Gran lombardo si arriva a Calogero, Porfirio, Ezechiele che sono maschere virtuali, evanescenze che culminano nell’incontro di Silvestro al cimitero con il fratello morto in guerra.
Il viaggio allegorico e tutto mentale di Silvestro che torna in Sicilia perché preda di astratti furori, per metabolizzarli o scoprirne la causa, è dunque «un intermezzo d’anima», scrive l’autore, un «trovarsi in un punto della memoria» dove il ricordo diventa «l’in più di ora», un modo cioè per superare il varco che nel fatale 1936 lo conduce dal passato vissuto in taccia di fascista a un futuro di redenzione del «dolore del mondo offeso». Benché nella nota finale Vittorini neghi – per gabbare la censura e non rischiare di esporsi in prima persona – che si tratti di un romanzo autobiografico e che la Sicilia «solo per avventura», per il migliore suono della parola, «inquadra e accompagna» il protagonista, molti sono i riferimenti che provano come Conversazione in Sicilia integri piuttosto un viaggio testimoniale e sostenga una denuncia a nome proprio.
Apprendiamo infatti che Silvestro, come dice alla madre, è partito dalla Sicilia quindici anni prima e che ha quasi trent’anni. Nella realtà quando Vittorini comincia a scrivere il romanzo è il settembre 1937 e quindici anni prima, nel 1922, era fuggito per la prima volta da Siracusa per poi nel 1924 trasferirsi a Gorizia. Sappiamo inoltre dalla sua biografia che all’età di tre anni vide a Scicli la Cavalcata di San Giuseppe. Dopo che nel Garofano rosso, l’autore rinverdisce il ricordo anche in Conversazione dove la madre dice a Silvestro che aveva solo tre anni l’unica volta in cui l’ha vista. E ancora: la madre ricorda al figlio che aveva sette anni nel 1915 e Vittorini ha proprio questa età nel primo anno di guerra. Inoltre il padre di Silvestro è un ferroviere e un attore dilettante oltre che un autore, proprio come il padre di Vittorini. La personalizzazione è decisamente voluta.
Viene allora fatto di chiedersi perché mai l’autore nega di essere Silvestro, pur assomigliandogli nella discrezione romanzesca anche fisicamente, quando poi cosparge il testo di espliciti rimandi alla sua anagrafe. La risposta è nell’atteggiamento che lo scrittore siracusano terrà ancora per molto tempo sugli anni giovanili, circonfusi nella nebulosa da lui stesso creata quanto al passaggio dagli ambienti anarchici e dei comunisti a quelli dei fascisti. Soltanto nel ’46 scriverà sul “Politecnico”: «Avevo già quattordici anni l’anno della Marcia su Roma. Avevo sentito parlare di come era nato il fascismo. Eppure (dopo una prima diffidenza dovuta al fatto di essere stato iscritto d’ufficio, come studente di scuola, nelle organizzazioni giovanili fasciste) anch’io “mi agitai” su fogli fascisti più o meno di provincia». Poi nel ’49 aggiungerà, dimenticandosi del ‘46: «Ero stato iscritto d’ufficio nel 1926, mentre frequentavo ancora la scuola, come accadeva ad ogni studente».
Sennonché nel 1926 Vittorini non ha quattordici anni, età in cui ha detto di essere stato iscritto d’ufficio nelle organizzazioni giovanili, bensì diciotto. Probabilmente dunque l’iscrizione a quattordici anni nelle organizzazioni giovanili si ha realmente d’ufficio (benché egli dica di averla nello stesso anno richiesta al partito) mentre quella a diciotto segue a una sua formale domanda. Dopotutto nel 1926 Vittorini ha già abbandonato la scuola ed ha appena conosciuto Curzio Malaparte dal quale rimane affascinato e che comincia a farlo pubblicare su “La fiera letteraria” e “Solaria”. È a questo punto che lo scrittore prende la tessera del partito, due anni dopo Brancati e Pirandello, quando dice – altra menzogna – di aver scoperto, alla prima leva fascista, di essere stato nel ’22 burlato dopo aver fatto richiesta di iscrizione al Pnf.
L’infatuazione fascista dura dieci anni esatti, dal ’26 al ’36, periodo all’inizio del quale dirà di essersi «accorto della realtà meravigliosa di questi ragazzi in camicia nera che rivoltavano il fondo melmoso della quiete provinciale»: sentimento questo che nel ’33 alimenta il tirtaico Garofano rosso, uscito a puntate su “Solaria”, e che tre anni dopo si muterà nel risentimento posto alla base di Conversazione in Sicilia.
Nell’intento primario di non ripetere l’esperienza censoria fatta con Il garofano rosso, Vittorini non scombina solo la storia personale consegnando Silvestro alla sfera del personaggio da romanzo, pur non rinunciando alla prima persona narrante, ma disordina anche la geografia: elenca con pignoleria località reali che si snodano lungo la Ferrovia secondaria e nel percorso per arrivare a Sciacca in treno, cita luoghi come Messina, Enna, Piazza Armerina attenendosi al vero, ma quando si tratta di indicare il paese dove vive la madre, che elegge a teatro dell’insorgenza dei nuovi doveri, sceglie non solo di dargli un nome fittizio, chiamandolo Neve, ma anche di situarlo a cinquanta chilometri da Enna e non lontano da Piazza Armerina, in quella Sicilia lombarda che lo ha stregato al punto – lui milanese di adozione – da convincersi dell’esistenza proprio in quella zona di una comunità di discendenti di popolazioni lombarde che vivessero in isolamento.
Ma Neve non fa pensare a nessun paese dell’Ennese perché risponde anche nei particolari a Scicli, la città dove, all’età di tre anni, il padre vi si ferma solo pochi mesi, che sono però sufficienti al piccolo Elio per prendere il morbillo e contrarre un grande amore per il paese. A Scicli nel 1912 nasce la sorella Jole, che ricorderà come il fratello non mancasse mai di andare a Scicli ogniqualvolta tornava a Siracusa: «Non faceva che parlare di Scicli, sempre di Scicli. Ci andava sempre e portava pure noi. Era particolarmente attratto dalle sue feste. Debbo dire che era come se ci fosse nato».
Come in Garofano rosso, anche in Conversazione in Sicilia il viaggio che Silvestro Ferrauto intraprende porta in un paese e non in una città. Giunto a Siracusa, Silvestro prende infatti un treno fino a Vizzini e, dopo una notte passata nell’odore dei carrubi (che è un tipico albero degli Iblei) parte in pullman per Neve, posta a tre ore di distanza, sulle montagne innevate: un’indicazione falsa perché non ci sono montagne innevate a tre ore da Vizzini né linee di trasporto che coprano tanta distanza.
Che Neve sia perciò Scicli non v’è dubbio. Se non bastasse la Cavalcata di San Giuseppe, valgano i riferimenti agli «anditi di abitazioni scavate nella roccia» che sono le grotte di Chiafura dove la madre porta Silvestro nel “giro delle iniezioni”. Ma la prova d’identificazione viene dal raffronto con un altro romanzo, Le città del mondo, dove Scicli, finalmente chiamata col suo nome, viene descritta «all’incrocio di tre valloni». I tre valloni sono gli stessi che troviamo nella Conversazione di vent’anni prima, attraversati da Silvestro nel pullman diretto a Neve. Dove il romanzo perde sempre più aderenza con la realtà e si sciolgono tutti i nodi che sottendono il libro. Ma è Scicli che Vittorini ha presente, il paese nel quale finirà per vedere Gerusalemme, la città per eccellenza, il paese che vale come luogo dell’anima che diventa mito.
Non a caso Scicli ricorre nei soli romanzi di Vittorini che evocano l’idea del viaggio. Viaggia Silvestro da Milano a Neve, viaggia Alessio da Siracusa fino al paese delle fornaci, viaggia Rosario con il padre ne Le città del mondo. Ma, a ben vedere, più che viaggiare essi ritornano. Per Vittorini l’idea del viaggio integra due aspetti che involgono altrettanti valori mitici: può significare fuga («Si nasce assuefatti a fuggire in Sicilia») e può significare ritorno. Quando assume il senso del nostos ecco comparire Scicli, pur se in figura di un paese innominato. Il mito del ritorno a casa, cioè a Scicli, ha però in Garofano rosso e in Conversazione in Sicilia il senso di una discesa agli inferi mentre in Le città del mondo assume una forza redentrice. Ed è soltanto nel suo ultimo e incompiuto romanzo che Vittorini nomina Scicli, decisamente posta in cima all’elenco delle «città belle» dove vivere e dove salvarsi.
Ma Scicli appare nei tre romanzi di viaggio-ritorno sotto forme diverse. Quando scrive Conversazione, Vittorini ha già pubblicato da poco e in parte Il garofano rosso, romanzo dove Scicli è intramata in forma ambivalente come scoperta del male sociale e come salvezza da esso. Scicli non è nominata, ma i riferimenti sono espliciti: il paese con le tre torri delle fornaci è il paese che «sarebbe stato il più bello del mondo», «attraversato da un fiume tutto sassi», lo stesso che nella Conversazione corre come un torrente da Vizzini a Neve e che nelle Città del mondo è la fiumara sul cui letto sta a cavallo la grande piazza di Scicli. Le Ferrovie secondarie sono le Ferrovie associate del Garofano rosso ed entrambe portano al paese natale, che è di Silvestro come di Alessio Mainardi. Di questo paese Vittorini dice: «Non l’ho più dimenticato» e ne definisce il ricordo «tagliente» per l’impressione che da bambino gli ha lasciato la Madonna a cavallo sciclitana, all’esistenza della quale né la sorella Menta né la donna fatata Zobeida vogliono nel Garofano credere. «Io pensavo di sposare una donna a quel modo», dice Alessio a Zobeida, alla quale finisce per confessare il suo amore: «Sei tu la Madonna a cavallo».
L’accostamento ha un significato soterico e rappresenta uno dei tanti piani di lettura di un romanzo nel quale (per quanto riguarda i più rilevanti significati ideologici e politici e il senso di condanna che il ritorno in paese postula) «l’offesa del mondo» della Conversazione è «il fossato dell’offesa» che divide gli operai dai figli del padrone della fornace in Garofano. E sarà pour cause un operaio a compiere in Conversazione il viaggio di conoscenza in Sicilia «in preda ad astratti furori».
Ma dicendo di Scicli che «avrebbe potuto essere il paese più bello del mondo», Vittorini si impone una epoché che in qualche modo troverà chiarimento nel ’59 quando di Le città del mondo preparerà una sceneggiatura per un film che proporrà una Scicli colta nella sua cruda condizione di paese sottosviluppato. Nell’opera vittoriniana Scicli appare un oeil de boeuf attraverso il quale Vittorini guarda a una realtà che gli appare trascodificata, più precisamente mitica. È a Scicli che nel 1950 viene per prendere gran parte delle fotografie per un’edizione illustrata di Conversazione. Sono fotografie che arieggiano quelle di Americana, come quelle capaci di rappresentare ossimoricamente una realtà vista con «gli occhi della mente», che è appunto lo specimen del realismo mitico quale massima espressione artistica di Vittorini. Che in Conversazione in Sicilia raduna tutti i suoi temi e si mostra nella veste più riconoscibile e identitaria. Nella celebre prefazione al Garofano rosso dirà che il suo libro ce l’aveva già ed era Conversazione: nato per aduggiare il fascismo, il romanzo si rivela un mezzo autoscopico, non più di denuncia ma di introspezione, non più realistico ma psicomachico, di conoscenza di sé e della propria circostanza: nella prima parte la Sicilia e nella seconda, entro un processo di progressivo ampliamento, del mondo. Cosicché il viaggio aristotelico che parte dalla terra, dalla propria terra, diventa un viaggio platonico nella sfera delle idee universali dove i “nuovi doveri”, tutti civili, si trasfondono nel dolore del mondo che è tutto il genere umano.
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[è da poco uscito il nuovo libro di Gianni Bonina: “Fatti di mafia” (Theoria)]
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