Dicembre 21, 2024

187 thoughts on “DAVID FOSTER WALLACE

  1. Credo che David abbia visto le fiamme e abbia preferito buttarsi di sotto.
    Noi di sotto non dobbiamo giudicare, né in un senso né nell’altro

  2. Comunque Forster Wallace rimarrà. E questa fine contribuirà a mitizzarne la figura.
    Domani comprerò infinit jest.
    Vi saprò dire.

  3. Comunque Forster Wallace rimarrà. E questa fine contribuirà a mitizzarne la figura. Domani comprerò infinit jest.
    Vi saprò dire.

  4. Io Foster Wallace non l’ho mai letto, ma solo sentito nominare vagamente.
    Pero’ il fatto che, come me, anche lui rifiuti il modus vivendi e cogitandi statunitense, me lo ha fatto divenire simpatico. E questa risposta alla domanda del giornalista italiano – sopracitata – me lo rende addirittura vicino:

    Ritiene che il linguaggio televisivo sia dannoso anche per la letteratura?
    «Terribilmente, ma si deve estendere il discorso anche a realtà più nuove come Internet. Io insegno letteratura inglese, ed è deprimente vedere come ogni anno si registri meno passione, meno cultura, e conseguentemente una minore qualità nella scrittura».

    Di conseguenza, immagino che sia una grave perdita per la Letteratura contemporanea in lingua inglese e mi rammarico fortemente per la sua scomparsa.

  5. P.S.
    Cio’ inoltre conferma quel che sostengo da anni: gli unici statunitensi utili al mondo sono quelli che non si sentono statunitensi – ma spesso europei, come nel caso degli scrittori di qualita’.

  6. io ricordo ancora con intensità la carica di angoscia e tristezza profonda che ho visto nello sguardo di Easton Ellis, quando andai afarmi autografare ‘Lunar Park’.

  7. non ho mai letto foster wallace, ma lo conosco di fama. e questo post me lo ha fatto conoscere un po’ meglio. la domanda posta è molto interessante. probabilmente l’artista, ma in generale l’uomo che riesce a guardarsi più dentro è maggiormente esposto a certi rischi. forse chi è superficiale, paradossalmente, se la passa meglio. mai giudicare, però. la citazione sul post delle fiamme e del gettarsi giù mi pare perfetta

  8. David Foster Wallace era uno dei più grandi scrittori della letteratura americana contemporanea.
    Grande, grandissima perdita.

  9. Non conoscevo Wallace né i suoi scritti, quindi posso solo rispondere al quesito iniziale proposto da Massimo.
    La mia opinione è che gli scrittori (generalizzo un po’) tendano ad una superiore sensibilità rispetto al resto dell’umanità, posseggano una maggior riflessività, una interiorizzazione che esteriorizzano solo, o principalmente, nei loro scritti. Lo scritto, e l’idea in esso contenuta, è un componimento che richiede ragionamento, dibattito interiore, voglia di mettersi in discussione, apertura a nuove concezioni e soprattutto uno scavare nel profondo di se stessi. Può accadere, quindi, che tali tempeste interiori ed emotive insinuino un disagio insanabile che porta a gesti estremi. Nonostante ciò credo che la percentuale degli scrittori suicidi non sia superiore né inferiore alla media degli abitanti del nostro pianeta che ripiegano su questa pratica autodistruttiva.

    “Cio’ inoltre conferma quel che sostengo da anni: gli unici statunitensi utili al mondo sono quelli che non si sentono statunitensi – ma spesso europei, come nel caso degli scrittori di qualita’.” by Sozi
    Bella frase XD

  10. “MOLTO SPESSO
    mi sono domandato se esista nel mondo una disperazione che possa trionfare di questa brama di vivere,intensa e quasi oscena.E ho concluso che,a quanto pare,una simile disperazione non esiste; certo,fino a trent’anni; ma mi sembra che,passati i trent’anni,non vorrò più saperne.Questa brama di vivere certi moralisti tisici e mocciosi,specie i poeti,la dicono spesso pusillanime; verso i trent’anni,forse,butterò via il calice,anche se non l’avrò vuotato,e me ne andrò”.(Karamazov) E Majakovskij:”Perchè dietro non ci sia un’assurda menzogna,confesso; io solo sono colpevole del crescente scricchiolio di chi è stato spezzato dalla vita”. (Guerra e universo-5,63)
    Ciao Massimo ti leggo sempre con molto interesse quando posso e,ciò che fai è molto importante e prezioso.Attivi le intelligenze! Bianca 2007

  11. Del suicidio di Wallace se ne sta parlando un po’ ovunque. Ho dato un occhiata in giro qua e là. Questo mi sembra uno dei contributi migliori. Complimenti per l’ottimo lavoro e per quella domanda che fa riflettere. Se posso risponderò più tardi.

  12. Lo scrittore americano David Foster Wallace, che aveva raggiunto fama internazionale 12 anni fa con il fluviale romanzo Infinite Jest, è stato trovato morto impiccato nella sua abitazione a Clermont, nel Sud della California. Aveva 46 anni. È stata la moglie a scoprire il cadavere, e la polizia propende per l’ipotesi del suicidio. Attualmente Wallace insegnava scrittura creativa e letteratura inglese presso il Pomona College, in California. Il preside, Gary Kates, ha sottolineato come lo scrittore si prendesse cura con estrema attenzione degli studenti: col suo lavoro «ha trasformato la vita di molti giovani».
    …………………………………………………………

    Il suicidio di David Foster Wallace, autore tra i più brillanti della nuova narrativa americana, lascia sgomenti. Appena quarantaseienne, Wallace era già entrato a far parte di una cerchia piuttosto ristretta: quella degli autori su cui, all’alba del nuovo secolo, la critica d’Oltreoceano era davvero disposta a scommettere. Celebre anche presso il grande pubblico grazie all’opera-monstre Infinite Jest, romanzo di mille e più pagine ambientato in un futuro prossimo nel quale gli anni assumono un nome a partire da uno sponsor (la storia si svolge perlopiù nell’Anno del Pannolone per Adulti Depend, e ruota attorno a temi quali la dipendenza e la competitività, l’intrattenimento popolare e la pubblicità, ma anche i programmi di recupero, gli abusi di minori e il separatismo quebechiano), e definito dal New York Times «uno dei grandi talenti della sua generazione, capace di qualsiasi virtuosismo», Wallace amava sopra ogni altra cosa l’Oxford English Dictionary, da cui pescava parole inusuali e complicate per costruire le sue elaborate macchine narrative, e si faceva fotografare con tanto di bandana in testa, barba incolta e capelli lunghi, quasi fosse una rockstar salita alla ribalta all’epoca del grunge.

    Nato a Ithaca (New York) il 21 febbraio 1962, era invece figlio di un professore di filosofia e di un’insegnante d’inglese, e dopo essersi fatto notare come tennista almeno a livello regionale, e aver intrapreso e poi abbandonato gli studi di filosofia a Harvard, si era laureato nel 1986 all’Amherst College e poi all’Arizona University, ottenendo il Gail Kennedy Memorial Prize. Dopo essersi iscritto a un corso di scrittura creativa, aveva pubblicato il primo libro, La scopa del sistema, e subito alcuni recensori lo avevano lodato per le sue straordinarie capacità inventive, paragonandolo nientemeno che a Thomas Pynchon. Il successo letterario, raggiunto ad appena 25 anni, lo aveva aiutato in un certo senso a ripercorrere la strada battuta dai genitori. Nel 1992 aveva cominciato a sua volta a insegnare all’Università dell’Illinois. E dal 2002, come accade non di rado in America, si era ritrovato a giocare la sua partita col mondo a parti invertite, nel senso che proprio a lui il Pomona College aveva chiesto di tenere un corso di scrittura creativa, a cui potevano accedere dodici privilegiati studenti di certo increduli della loro fortuna.

    Già. Perché nel frattempo David Foster Wallace era diventato, forse suo malgrado, una sorta di brand o marchio di fabbrica. All’indomani del libro d’esordio, infatti, ne erano seguiti numerosi altri, di narrativa e di saggistica, benché nel suo caso sia sempre stato piuttosto arduo distinguere nettamente l’una dall’altra (la sua opera, contraddistinta da un grande uso di note a piè pagina, si era immediatamente segnalata per il fatto di essere influenzata dai mostri sacri della fiction post-moderna made in Usa, fra cui oltre al già citato Thomas Pynchon anche William Gaddis, Donald Barthelme e John Bart, per tacere del maestro di questi ultimi, Jorge Luis Borges). E all’interno dei suoi testi, da La ragazza dai capelli strani a Considera l’aragosta, passando per Brevi interviste a uomini schifosi o per Il rap spiegato ai bianchi (scritto a quattro mani con Mark Costello), i suoi lettori si ritrovavano a fare i conti con personaggi e storie che raccontavano in modo spesso assai divertente la complessità dell’America di oggi, con le sue innumerevoli ossessioni e nevrosi e paranoie, e poi i miti veri o presunti della cultura pop, dalla musica di Keith Jarrett ai talk-show di David Letterman, dal cinema di Lynch al tennis di Agassi, riservandosi magari un’incursione negli anni della presidenza di Lyndon Johnson.

    Dall’alto della sua celebrata intelligenza, Wallace sembrava tuttavia divertirsi sul serio. Specie quando si calava nei panni del reporter, si trattasse di seguire per conto di una rivista (il New Yorker o McSweeney’s, la famosa rivista di letteratura fondata da quell’altro enfant prodige che è Dave Eggers, oppure Playboy) la carovana di John McCain in campagna elettorale, o di raccontare gli Oscar del cinema porno, o ancora di aggregarsi all’agghiacciante crociera extralusso «sette notti nei Caraibi», diventata poi lo sfondo di quel libro esilarante ma innanzitutto feroce che è Una cosa divertente che non farò mai più. La sua era una comicità «alta», come si addice a un alfiere del postmoderno impegnato fin dagli esordi a tracciare la mappa immaginaria del caos contemporaneo, capace di dedicare cinque anni alla scrittura di Infinite Jest come di seguire gli U.S. Open per una rivista di settore. E malgrado la sua diffidenza nei confronti dell’ironia, specie quella mutuata dalla televisione, l’autore di Tutto, e di più. Storia compatta dell’infinito usava magistralmente anche questa, a partire dai titoli.

    Sia come sia. In uno dei suoi libri più recenti, Oblio, uscito in Italia alla fine del 2004, David Foster Wallace decise di includere un racconto assai bello, intitolato Caro vecchio neon. È la storia di un giovane baciato dal successo, che però deve fare i conti con la consapevolezza assai dolorosa di essere in fin dei conti un sopravvalutato. «Per tutta la vita sono stato un impostore. E non esagero. Ho praticamente passato tutto il mio tempo a creare un’immagine di me da offrire agli altri», è l’attacco del racconto. Queste sue parole tornano in mente ora, mentre ci si chiede di che cosa fosse fatto il male di vivere che se l’è portato via.

  13. segnalo quest’altra citazione di Foster Wallace sul tema televisione.
    “E con questo non sto dicendo che la televisione sia volgare e stupida perché le persone che compongono il Pubblico sono volgari e stupide. La televisione è ciò che è per il semplice motivo che la gente tende ad assomigliarsi terribilmente proprio nei suoi interessi volgari, morbosi e stupidi, e a essere estremamente diversa per quanto riguarda gli interessi raffinati, estetici e nobili”. [da “Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più”)]

  14. uno scrittore può essere più a rischio in termini di suicidio?
    Non lo so. Se alle spalle c’è una depressione credo che possano essere colpiti tutti, dalla persona più ignorante a quella piùcolta.
    Complimenti per il blog

  15. Wallace mi aveva divertito col suo “Una cosa divertente che non farò mai più”. Dopo cento pagine di “Infinite Jest” l’ho mollato lì. Ho sempre pensato che un libro è un po’ come una persona: dipende dal momento in cui la incontri. Prima o poi l’avrei ripreso sù e ci saremmo capiti. Oppure no. Certo, uno non se l’aspetta, che un vitalismo simile, si ripieghi su se stesso, annullandosi. Per quanto possa sembrare indelicato in questo momento, io, che amo scrivere e leggere, ho sempre segretamente pensato che è roba da malati. Perché una persona sana non può davvero preferire starsene rintanato in casa giorni e giorni, e mesi ed anni, piuttosto che avventurarsi fuori, nella vita.
    Poi è un po’ una magia, che da un malato, sgorghi, talvolta, qualcosa di così essenziale, per la vita di tanti.
    Onore a David Foster Wallace.

  16. Ho letto solo “la ragazza dai capelli strani”, e fui colpita dalla prosa e dal talento – ma non mi entrò dentro e non lo sentii in modo particolare. Ma un grande talento.
    Per la domanda di MAssimo, non generalizzerei. Rinvia alla tentazione del clichet, della letterarietà della sofferenza. Sono più sensibili gli scrittori?
    Gli scrittori hanno un’arma in più che è la cura della scrittura. Gli scrittori sono quelli che sopravvivono di più perchè si dicono, perchè la parola è una stampella, la parola è la correzione continua del mondo interno, e la lente di ingrandimento per vedere i desideri mancati. Soltanto i casi di un dolore travolgente e infinito travolgono la parola: ma vi provoco e dico, se uno scrittore suicida non avesse fatto lo scrittore eh beh sarebbe morto prima.
    Quando non c’è la parola la sofferenza cerca scorciatoie rapide nelle vie dell’autodistruzione o della malattia psicosomatica. I peggiori depressi sono gli alessitimici, coloro i quali cioè non riescono a riconoscere i propri vissuti e a razionalizzarli, e che fanno più presto: si ammalano. si bucano. non sopravvivono in modi diversi.

  17. Ehiiii ciao Zauberei… ho grande stima per te, anche se affrontiamo i problemi da altri punti di vista. Ma hai ragione quando, materializzandola, prendi la sofferenza come qualcosa che, se non si trasforma in pagina, quadro, scultura o quant’altro, ha la meglio sull’uomo, umile stelo in preda dei venti.
    ” E per le medesime ragioni, la magia – se così si vuol dire – dei suoni come dei colori; il fluido che da essi emana ed affascina come per incantesimo degli ascoltatori di Beethoven o i contemplatori di Beato Angelico, nascono dalla stessa virtù mediante la quale l’anima sdegnosa e dolorante del grande sordo di Bonn e l’estatica umiltà del frate pittore traducevano l’INTENSITA’ DEL SENTIRE nella limpidezza della forma.” – Queste parole le ha scritte un critico d’arte, uno che seguiva Benedetto Croce.
    Mi preme chiarire il concetto di intensità del sentire.
    Tempo fa ho letto, a proposito degli artisti che vengono ammirati per la loro sensibilità e capacità di traduzione al “molteplice”, che, in fondo infondo, proprio perchè non appartenenti al sistema di produttività economica, sono ritenuti esseri inutili. La società, attraverso strani sistemi non sempre avvertibili con buoni occhiali da vista, preferisce disfarsene.

    Penso che la società moderna (reduce dalla pop art e dalla tomato e dal consumo della faccia riprodotta in serie della monroe e di Hendrix, suicidi entrambi) non è ancora guarita da questo vuoto esistenziale, abissale, nel quale lo stesso srittore suicida è sprofondato, rinnegando, attraverso l’impiccagione, un sistema in cui probabilmente viveva con grande disagio. A quel paese anche le televisioni!!!!
    Scusate le sintesi d’intelletto ma anche il pensiero filosofico, quello che si occupava di questioni importanti e che in un certo senso sosteneva su un binario parallelo le arti, che fine ha fatto?

    Mi direte: nei secoli passati in molti l’hanno fatta finita, non è un problema solo del nostro secolo…
    Vi rispondo come James Ensor, fine e sagace pittore di maschere di fine ottocento, il quale amava penne e pennelli ora con le parole rosse, blu, ghiacce come il marmo, e che amò soprattutto gli inni alla luce contro una società beffarda dalla quale s’innalzò con grande sofferenza. Dipingendola.
    Un bacio
    ROSSELLA

  18. Assolutamente d’accordo con Zauberei sul potere curativo della parola. Ma a volte, tanto più uno scrittore (un artista) ha talento, tanto più ha una mente dotata di immaginazione e di esattezza della parola (del suo strumento) per comunicarla, tanto più è alto il rischio d’identificazione con il piacere che gli procura l’assoluto controllo del suo mondo creato. Quando ciò accade, la quotidianità viene progressivamente a prosciugarsi da qualsiasi possibilità di procurare piacere, degradandosi a mera necessità biologica, a perdita di tempo. Questo è un rischio che corrono solo i talenti più grandi, che, se innamorati della sirena infantile dell’Assoluto, non avendo raggiunta una sufficiente consapevolezza della propria arte, rischiano di esporsi al pericolo di un’esplosione o di un collasso di identità (tanto più frequente quanto più è uniforme il riconoscimento del pubblico). La consapevolezza del proprio talento, coi suoi limiti e coi suoi ambiti, richiede tempo. Per questo spesso i più talentuosi e più giovani ci lasciano. (Mi viene in mente il Gleen Gould del “Soccombente” Thomas Bernhard )

  19. grande talento anche se non mi colpiva. capisco poco l’osservazione di sozi sul fatto che gli scrittori americani più grandi sono quelli che americani non si sentono. ma è una osservazione sua ed è padronissimo di farla. Hemingway (anche lui suicida) era americanissimo anche se scriveva sulla spagna o sula francia. e non mi sembra fosse una pippa

  20. Ho letto infinite jest 4 anni fa… e si è trattato sicuramente dell’esperienza letteraria più ostica e difficile che abbia mai fatto.. e non mi riferisco alla mole del libro, alla migliaia di note al testo, o alla scrittura di david.. la difficoltà nasceva dal senso, forte, di disturbo emotivo che in me suscitavano le sue parole, così perfette nel raccontare meccanismi della ‘dipendenza’, in tutte le forme che essa può prendere.. una ‘dipendenza’ multiforme che, come i visori che usano i personaggi del libro, è per alcune persone l’unico schermo contro un dolore che scuote ogni giorno tutto il tuo essere..
    Riguardo la domanda che poni nel tuo post, beh.. non credo sia questione di essere artisti o non artisti.. non credo che questo ti esponga più o meno a certe tentazioni.. più probabilmente, come scrive anche Monda sulla repubblica di oggi, alcune persone lottano da una vita con dei cazzo di demoni, potenti… e capita che un giorno capiscono che si sono stancate..

  21. “L’artista può essere più soggetto di una persona “ordinaria” alla terribile tentazione del suicidio?”
    Non credo. Non in quanto ‘artista’, ma in quanto persona che non regge al male di vivere. E può essere artista oppure no.
    E rifiuto il pensiero che un artista sia sempre più sensibili di altre persone. Lo rifiuto perchè troppe volte non ho trovato rispondenza tra le parole scritte e la persona. Quindi, anche la presunta sensibilità non è influente in ciò.
    E ci possono essere apparenti motivi per ‘giustificare’ un suicidio, ma più spesso i motivi sono tanto intangibili che neppure l’autore del suicidio li conosce.
    E’ un insieme di cose che rende il tutto insopportabile e rende, invece, il salto nel vuoto più ‘affascinante’ di ciò che si ha.

  22. Wallace, ne avevo sentito parlare, ma mi sembrava molto ostico: piu’ di Michel Houellbeck che almeno è un europeo. E’ uno di quegli autori molto radicati su quello che è accaduro, accade ed accadrà nel loro Pase.Ora venendo alla sua tragica scomparsa, non c’è dubbio che chi è affetto da disturbi dell’umore o addirittura mentali abbia una sensibilità maggiore e a volte intelligenza superiore. Ma e’ altrettanto vero che la chimica e la genetica lo portano ad una maggiore propensione al suicidio. la percentuale di geni tra gli psicotici ed i “disturbati” è ahime’ molto bassa. Questo per dire che probabilmente Wallace avrebbe tentato il suicidio anche se fosse stato un imbianchino o un manager, cosi’ come Hemingway o altri.
    Wallace da scrittore è stato portatore di un “dono” ci ha regalato intuizioni e analisi “non convenzionali” ed acute. Grazie a David F. e grazie a Massimo, per averci spinto a riflettere.
    M

  23. Mah! Chissà che gl’è passato per la testa.
    Ero un suo detrattore, per metà però: un po’ lo amavo un po’ lo odiavo.
    Diceva Hermann Hesse che contrariamente a quanto si crede ci vuole un gran coraggio per scegliere la via del suicidio. Inutile fare supposizioni sul perché: sappiamo solo che si è impiccato, le ragioni del gesto no e con tutta probabilità non le sapremo mai, come sempre accade in questi casi. Non è il primo. Hemingway si fece saltare le cervella: ancora se ne discute. La lista degli scrittori suicidi è più lunga di quella che sono in vita!!!

  24. Per quale scrittore prova invidia?
    David Forster Wallace.
    Così ha risposto Sandro Veronesi alla domanda postagli da Mariano Sabatini in “Nuovi trucchi d’autore”.
    Io non ho letto nulla di Wallace, ma trovo questo post interessante per la domanda posta da Massimo. Credo che non ci siano più “folli” tra i poeti gli scrittori gli artisti, ma che questi trovino una canalizzazione delle loro paure e nevrosi nell’arte. Tempo fa è uscito un libro, “Toccati dal fuoco”, in cui si analizzavano le vite di tanti artisti che hanno sofferto di disturbi come schizofrenia, depressione, nevrosi… molti di loro si sono suicidati o hanno condotto vite sregolate e violente. Arte come canale, non so se come catarsi.
    Concordo con chi invoca comprensione e non giudizio – quello mai – verso il gesto di Wallace. Il suicida, anche quello più consapevole – ma si può nel pieno possesso delle proprie facoltà fisiche e mentali, psicologiche e spirituali, decidere di andare contro l’istinto di conservazione? – merita sempre la nostra comprensione e compassione.

  25. Cio’ inoltre conferma quel che sostengo da anni: gli unici statunitensi utili al mondo sono quelli che non si sentono statunitensi – ma spesso europei, come nel caso degli scrittori di qualita’.

    —-

    Quante sciocchezze (scusami, Sergio Sozi): DFW era quintessenzialmente statunitense, lo sapeva benissimo e l’ha dichiarato in ogni possibile modo, esattamente come ogni altro grande scrittore statunitense. Ma m’inchino alla perspicacia di chi DFW non l’ha letto, l’ha “sentito nominare vagamente” ma ha deciso che “conferma quel che sostengo da anni”. Cerchiamo di evitare sguaiataggini simili almeno per oggi, se non altro per un simulacro di rispetto.

    Calazio Pirouet

  26. sarei per quotare in toto zauberei, quando la sofferenza c’è,
    c’è comunque e quantunque…
    il male del vivere non rispamia nessuno, può rallentare forse… ma è lì…
    ho iniziato a leggere Infinite Jest, ma ho desistito verso la metà… ho fatto fatica molta fatica, non mi ha preso, ed è si profondamente statunitense… anzi io direi fin troppo …
    l’ambientazione a Boston è di per se strana per tutto quello che gira nel libro, troppe cose messe sulla graticola…e alla fine ho perso il filo ..e ho chiuso il libro..
    chicca

  27. Ad ogni buon conto, in effetti, un artista completo lavora con la sua fisicità, con le sue emozioni, la consapevolezza di quanto conosce e buon per lui, davvero buon per lui, se ha raggiunto la maturità equilibrandosi. Ci vuole del tempo, non è facile.
    Poi non è vero che star male- soffrire con tutti gli annessi e connessi – sia l’unico ingrediente per fare arte: la Gioia di Vivere di Matisse ne è ottimo esempio, questa sensuale ricerca di una curva perfetta che definisca la forma, semplice, che lo stesso pittore definisce “per niente folle”.
    Warhol guardava le sue opere con distacco emotivo.
    Rothko s’impiccò nel suo studio a New York dopo una festa glamour.
    Di Mondrian hanno scritto che non si possa riprodurre alcun quadro di questo pittore, nonostante l’estrema semplicità delle sue rette. Ma se avessi un bel pò di soldi acquisterei (in ordine) Rothko, Mondrian e Warhol, certa di appendere Rothko in camera da letto o in un luogo di ritrovo fra amici.
    Quando vidi i quadri di Van Gogh per la prima volta rimasi incantata dallo sguardo puro con cui vedeva le cose, i dolcissimi ritratti del Postino, dei Mangiatori di patate ne sono solo un banale esempio, ma questo è per dirvi che nonostante il manicomio, nonostante i suoi scoppi d’ ira e l’incapacità di comunicare, ha comunicato in maniera immortale.
    Pensate dunque che dipenda tutto dall’uomo, la sua arte, lo strumento con cui comunica?
    Togliersi la vita non è segno di equilibrio, d’accordo, fortunati coloro che riescono ad avere bilance e bilancette.
    Rossella

  28. Mi spiego meglio.
    Spesso la perdita di tempo non è altro che l’impossibilità di trovare le persone giuste che comprendano in modo adeguato lo sforzo dell’artista, oppure quel sentirsi oppressi da elementi concomitanti, come la chiusura delle famiglie, l’ostilità di chi incosciamente non riesce ad amare, la mancanza di mezzi, anche di mezzi economici che possano sostenere l’evoluzione della propria arte. Questo fa soffrire.
    Rossella

  29. Ho letto parecchie cose di FDW, soprattutto infinite jest (un mese e mezzo di lettura, mi aveva preso tantissimo).
    Se il genio della lampada mi avesse chiesto di esprimere un desiderio, io avrei risposto: “scrivere come David Foster Wallace”.
    Nessuno mi ha mai colpito come lui, in un suo saggio sulla televisione e letteratura, citava un sacco di autori (perlopiù sconosciuti a me) che ho acquistato, letto e amato.
    Devo tanto a quest’autore……che ho sempre considerato il più innovativo degli ultimi ventanni e quello che mi ha fatto riflettere di più.
    Non riesco a pensare ad altro…(ho saputo della sua morte poche ore fa).
    Grazie di Tutto…..
    Alex

  30. Quando segnalai la notizia della morte di Foster Wallace ne “La camera accanto” scrissi: “Grande tristezza. E grande perdita per la comunità letteraria internazionale”.
    Ne sono ancora più convinto di prima.

  31. Sul “Corriere della Sera” di oggi ci sono due articoli (uno di questi firmato da Fernanda Pivano).

    Pare che Foster Wallace soffrisse di depressione. E pare che soffrisse pure di una malattia autoimmune allo stomaco (è stato più volte in ospedale per questo).
    Forse la malattia ha peggiorato la depressione. E David ha preferito buttarsi dal palazzo in fiamme.

  32. Mi piacerebbe che potessimo parlare ancora di David Foster Wallace e delle sue opere.
    Vi aspetto con ulteriori contributi.
    (Magari qualcuno vuole ancora dire la sua sulla “domanda” delpost).

  33. Solo due parole sul suicidio: penso non siano tutti uguali, come non sono uguali le vite delle persone. In comune c’è quel “palloncino” che scoppia e mette in moto l’azione; quasi sempre curata nei dettagli, e a volte, custodita nella memoria da tempo infinito.
    Ho visto andarsene così: un’amica, un conoscente e un professore di storia.
    ——————————————————————————————–
    X Sergio
    “gli unici statunitensi utili al mondo sono…” Che cosa significa questa tua affermazione? Ho coltivato anche io, come molti, un certo antiamericanismo che mi portava a guardare con sospetto o con superiorità i prodotti e le idee del “Nuovo Mondo”. Ho continuato a farlo fino a quando il ridicolo ha ristabilito, in me, una certa ragionevolezza.
    In questi giorni, ricerco e prendo appunti, e frugo fra la storia dell’arte contemporanea, architettura compresa; ti basterebbe leggere Maledetti architetti di Tom Wolfe, per capire quanto sia assurda la tua affermazione. Scopriresti, così e non sarebbe poco, che, purtroppo, furono proprio gli europei ad imporre agli americani quello stile triste, destrutturato e squallido dei grandi casermoni a superfici spoglie. Furono Gropius, Il Dio Bianco, e Le Courbusier che ricambiarono la generosa ospitalità con l’espansione delle loro (scusatemi) cazzate. Gli americani finanziarono quello che non capivano perché quel complesso di colonia, era vivo e presente, quindi con abnegazione si sottomisero: commissionarono e pagarono le “teorie” degli “Ingegneri dell’anima” ( e non ti dico da chi fu coniata la definizione!) Però, e dagli americani, questo dovremmo proprio impararlo non rinunciarono ad una certa ironia individuando nell’espressione The Yale Box, i risultati di tanta sapienza europea applicata. Ci volle un po’ prima che l’influenza dei Bianchi e dei Grigi si trasformasse in Rats; ma loro, gli americani, mandarono un po’ a quel paese quelle teorie e individuarono altro, mentre noi, colti e sapientissimi, ancora le stiamo sopportando.
    Ciao, miriam

  34. «L’artista può essere più soggetto di una persona “ordinaria” alla terribile tentazione del suicidio?»
    Capisco il valore emotivo della domanda – soprattutto perché non è posta astrattamente, ma a fronte di una notizia di impatto emotivo ancor più grande: ma credo che che siano due falsi amici in questo interrogativo. Il primo è “l’artista”: non esiste una “sensibilità artistica”, ci sono individui più sensibili, e quindi più vulnerabili o indifesi a fronte del dolore dell’esistenza e dell’esistente. Non sempre sono artisti, e non sempre gli artisti hanno questa sensibilità. A volte la disperazione è accresciuta dall’incapacità di esprimerla, altre saperla esprimere è ciò che salva la vita (all’artista). Il secondo falso amico è “il suicidio”. Non credo che esista una cosa come “il suicidio” in astratto: è il gesto più singolare e individuale che esista, non ci sono due suicidi identici, non c’è alcuna possibilità, per noi che ne siamo fuori, di entrare nell’esperienza altrui del suicidio. Leopardi, che ne ha trattato senza giungere a una parola definitiva (come anche Cioran) ha colto in negativo la dimensione della singolarità del suicida: se chi soffre potesse realizzare quanta sofferenza il suo gesto arrecherà ai suoi cari, desisterebbe. Quello che mi viene da pensare è che in un mondo nel quale le relazioni si rarefanno sempre più, nel quale il vivere comune, di concerto, socialmente diventa sempre più difficile la solitudine autodistruttiva conquista sempre più spazio. C’è chi questa autodistruttività la scarica sui propri cari, e chi su se stesso.

  35. Uh grazie a tutti! Anche io saluto caldamente la Rossella e la Gea la chicca e certo anche Massimo.
    Riflessioni ulteriori.
    Mi sembra che siano state tirate fuori delle belle citazioni e delle belle cose. POsso solo aggiungere, in merito alla sovrapposizione tra scrittura e depressione.
    La questione è che la depressione e noi, veniamo prima della parola. Dunque non può darsi mai, come credo CarloD. ha ipotizzato, che un talento pazzesco si faccia annichilire da quanto scrive. Il cupio dissolvi è un tarlo che ha cominciato a mangiarlo all’origine, e lavora malgrado e alle volte malignamente con, gli sforzi narrativi.
    Io credo che la parola porti a una specie di landa internedia della sofferenza, che è meglio della catastrofe ma che non combacia necessariamente con la salute. Lo dico per non sembrare pazza visto che mesi fa, su questo blog avevo scritto che no, non sempre la parola è terapeutica. Alle volte, la follia della parola è il mezzo con cui un malessere mantiene se stesso e galleggia nello spazio in cui si può raccontare. Allora, tante vole la parola ti fa saltare in avanti. Ma tante volte ti mette in un circolo vizioso. Se essa è cura, nel sangue di chi la usa c’è il talento per sapersi curare.
    Pensiamo a un problema che suona così – e che ricordando le sue lettere mi viene da chiamarlo – il male di Kafka.
    “Non riesco a fare”
    Pensiamo a uno che tutta la vita scrive, in mille salse, con mille arabeschi, e mille spiegazioni: “Io non riesco a fare”.
    Eh
    a voja a scrive.

  36. Sì.L’artista, lo scrittore è, senza dubbio, più sensibile di un’altro individuo, al momento e solo per dare un’idea, definito ” ordinario”. Qualcuno scrisse “l’ignoranza ci fa godere” , perdonate è solo un modo per dire che chi è portato alla riflessione , ad approfondire, incespica sempre in qualcosa che turba e mette in discussione. Per cui tiene sempre in agitazione la coscienza e i pensieri.
    L’artista è sempre a metà strada. Tra il sogno e la realtà. I sogni sono il rifugio, la realtà lo schianto dell’anima. Una sosta forzata si può pagare cara.

  37. Forse Wallace si sara’ pure sentito ”statunitensissimo”, ma perfino il titolo ”Infinite jest” ( ossia ”La burla infinita”, misteriosamente mai tradotto dai nostri traduttori esterofilissimi per motivi che non voglio chiedermi) e’ stato ripreso da Shakespeare.
    Che l’opera di questo autore abbia avuto molte affinita’ con la cultura europea? mi chiedo.

  38. Si’, io sono antiamericano, lo dico a chiare lettere. Ma lo sono nel senso che quel Paese mi interessa poco e niente, mentre invece sono costretto a rivedermelo dappertutto: sui giornali, in tivu’, nei libri, eccetera. E’ un martellamento pazzesco, continuo e fatto di opere volgari e spesso stupide. Invece di quel Paese mi interessano le voci che sento simili o confrontabili a quelle di noi italiani ed europei, dunque i ”veri statunitensi” rappresentano un argomento al di fuori dei miei interessi: di ogni Nazione del mondo apprezzo le tradizioni locali e l’antichita’. Caratteristiche che trovo magari nella piu’ sperduta landa africana piuttosto che negli USA.
    Con rispetto umano parlando, ovviamente.

  39. D’accordo con Zaub.
    Virgina Woolf rinviò il suicidio di vent’anni grazie alla scrittura. Lo dicono i suoi diari.
    Perchè la parola si sovrappose alla sua patologia e la tenne in vita, libro dopo libro. Dando alle “voci” una identità.Un destino. Una direzione. Dicendo: vai lì, verso il finale.
    E anche Rosa Montero (ne “la pazza di casa”)lo dice :”la scrittura è una schizzofrenia autorizzata”, cioè una pazzia che tiene a bada la vera pazzia. Che è il non senso. Il vuoto. Il clangore di un cristallo senza anima.
    Che non sa dire.
    Niente come la scrittura aiuta a progettare. A intuire. A fissarsi una meta.
    A fare di un libro una vita di carta.

  40. Concludendo: mi sono messo a parlare di un argomento che non mi interessa e quindi la colpa e’ la mia. Avrei dovuto soltanto dire: mi dispiace per la morte di uno scrittore che – per quanto ne so – era molto bravo. E tant’e’.

  41. Ciao Sergio:)
    E’ questo che ci rende perplessi, credo – o forse dovrei parlare solo per me:
    Cioè non ragioni gerarchizzando in termini di qualità, ma in termini di somiglianza – pretendendo erroneamente che le due cose possano essere sinonimi, e scambiando l’ostilità con competenza. Ma se non ti interessano mai codesti scrittori americani, non puoi rivendicare competenze per giudicarli.
    Un po’ come un amico mio di Civitavecchia: no io non ci vado al ristorante cinese, perchè magno solo le tajatelle de mamma. Niente è più bbono delle tajatelle de mamma. Ora i buongustai di qualsiasi complemento oggetto a un certo punto usano le tajatelle di mamma come palestra, poi assaggiano altro. E apprezzano. SforzetePPPPP!

  42. Personalmente non credo che ci sia più predisposizione al suicidio negli artisti, anche perché spesso e volentieri, nei momenti di crisi e di astinenza creativa, maturano una sorta di suicidio intellettuale, denigrandosi, mettendosi i piedi in testa, una sorta di autopunizione che assai raramente si concretizza in un atto estremo. E’ un modo di sfogarsi, questo, di scaricare quella tensione che deriva dalla momentanea incapacità di creare.

  43. Ciao, cara Zauberei,
    mi sembra che l’ambiente statunitense sia confrontabile, in termini di organizzazione sociale e politico-economica, a quello europeo; pertanto, visto che per fare confronti credibili e’ necessario che ci si capisca su certi termini storico-politico-culturali di fondo, confronto l’Europa con gli USA in base ad una comune piattaforma civile, ed in questo confronto trovo degradante il livello medio della cultura statunitense – come a voler confrontare, in Italia, la qualita’ della vita di un palazzone di dieci piani con quella di una zona residenziale fatta di villette unifamiliari.
    Inoltre, non sono io ad impormi agli americani, ma loro a me coi loro prodotti d’ogni tipo: e chi si propone dappertutto, dappertutto raccoglie per forza opinioni e giudizi. Anche negativi.
    Ma i libri buoni e percio’ il compianto Wallace in questo discorso entrano per nulla: loro rappresentano il lato europeo ancora sussistente nell’elite culturale statunitense. Pagano, senza averne colpa, l’idiozia delle masse dei loro connazionali, esattamente come gli intellettuali italiani pagano l’omologazione verso il basso della nostra Nazione.
    Dunque per questi motivi preferisco di gran lunga la civilta’ britannica, ad esempio, o, osservandole con occhi ben piu’ curiosi, le civilta’ ”altre” del mondo. Che sono tante e spesso ci stanno geograficamente accanto senza che ce ne accorgessimo.
    Ciaobbella
    Sergio

  44. Ciao Enrico, come stai?
    Nel Cinquecento e anche nel Seicento, la ”produzione culturale” italiana era fra le piu’ ”esportate” d’Europa… secondo me potresti vederne delle evidenti tracce in molti libri europei dell’epoca. Compreso Shakespeare, il quale, da umanista, non poteva esimersi dall’assorbire certi dettami letterari italiani – pur rimanendo britannico, certo, ma molto affascinato dalla cultura italiana, come tutti a quei tempi.

  45. willie nostro è stato, come tutti gli autori elisabettiani, influenzato dalla tragedia latina, se vogliamo.
    il punto è che shakespeare fa parte di un qualunque bagaglio culturale che si rispetti, soprattutto se di lingua inglese.
    in america lo studiano a scuola come noi studiamo dante.
    è definibile ”cultura europea” come dante è ”cultura toscana”.
    è cultura.
    e basta.

  46. @ sergio:
    sto bene e spero anche tu.
    allora, i madrigali italiani sono stati anche influenzati dal ciclo bretone. e allora? se la mettiamo così non se ne esce vivi. prima di shakespeare c’è stato altro e molto. l’odissea, per esempio. ma non è che chi arriva prima è il migliore per forza. sarà mica il musichiere!

  47. Sergio per la verità a me non paiono molto molto confrontabili – anzi mi paiono lontano anni luce. E insomma, magari per te è un complimento, ma l’orianafallacizzazione per me è un incubo, cioè quel modo di guardare a un contesto culturale ampio variegato e complesso interpretandolo come un unico monolite, suffragando il proprio pensiero in base a stereotipi. Esiste MC Donald esiste il multiculturalismo. Esiste Marylin Monroe esiste il cinema indipendente, esistono le minchiate di massa ed esiste un’America antiamericana estremamente sofisticata e interessante.
    Ah se penso a come mi sento quando all’estero dico che sono Italian e giù! Spaghetti Mafia e Mandolino…

  48. Zau,
    anche il dire che non esistono luoghi comuni e’ un luogo comune. Secondo me, anzi, il piu’ pericoloso. Preferisco pizza e mandolino – che oltretutto mi ci sento bene ”dentro” e mi piacciono entrambi.

  49. Enrico, scusami ma io non ne facevo una questione di ”chi viene prima”, ma ho detto esattamente che la cultura italiana, all’epoca di Sheakspeare (e dunque nel Cinquecento, non prima o dopo) era forse la piu’ importante cultura d’Europa. Gli altri la assorbivano. Che c’entrano i madrigali e il ciclo bretone?

  50. sergio, per favore..
    la localizzazione estrema non fa bene alla cultura.
    ci sono capisaldi che prescindono, ringraziando il cielo.
    ogni realtà produce qualcosa che è immerso nei tempi e nei luoghi. è giusto conoscere, è giusto capire.
    ed è giusto che chi scrive in una lingua conosca la letteratura preesistente in quella lingua. negli stati uniti parlano inglese, e l’inglese non può prescindere da shakespeare. il titolo di dfw non è impregnato di europa, è impregnato di cultura.
    questo è quello che cercavo di dire.
    se io cito moby dick o il corvo o foglie d’erba non sto facendo dell’americanismo, dannazione.
    sto facendo cultura.
    e la metterei con la maiuscola, non fosse che ogni maiuscola di questo tipo mi mette l’orticaria.
    🙂

  51. Di Foster Wallace ho letto solo “considera l’aragosta”, nel quale mi avevano colpito le sue “considerazioni sulla comicità di Kafka che forse dovevano essere tagliate ulteriormente” (è un testo molto breve, e solo il titolo è un capolavoro di autoironia) e mi ero ripromesso di leggere cose più corpose come “oblio” e “infinite jest”. Non l’ho più fatto: me ne ero dimenticato e ora me ne pento, ma cercherò di rimediare.
    Quello che più mi ha colpito comunque della sua scrittura è la sua straordinaria capacità di miscelare con estrema naturalezza alto e basso, umorismo e disperazione, eleganza e cialtroneria, con un’ironia a volte sottile, altre volte grassa, spesso sublime.
    Quanto ai discorsi sulla depressione, il suicidio, l’estrema sensibilità degli artisti, si rischia di dire troppo spesso generiche banalità e ripetere con poca o troppa convinzione aria fritta. Ma sono interessanti gli spunti di Zauberei ed opportune le citazioni della Wolf e della Montero fatte da Simona; e condivisibili (almeno anche da me) le opinioni espresse da Girolamo.

  52. Quanto al tuo antiamericanismo, Sergio, conosciamo la tua posizione in proposito e la foga con la quale la difendi, talvolta (ed è forse questo il caso) pisciando un po’ anche fuori dal vaso. Ma se lo fai spesso è per eccesso di passione, e non mi sento di condannarti per questo.
    La tua onestà intellettuale peraltro non può non esserti riconosciuta, e va a tuo onore la tua autocritica quando ammetti in fondo di aver sbagliato a impelagarti in un discorso che fondamentalmente non ti interessa. Ma a quel punto, caro Sergio, a mio parere era meglio ti fermassi lì.

  53. Sì, probabilmente il caso di Virginia Woolf – che cita Simona – è emblematico.
    E ci fa tornare al concetto di “potere salvifico” della scrittura… di cui abbiamo parlato altre volte.

  54. Trovo anch’io – come Carlo – condivisibile il commento di Girolamo.

    Anzi, ringrazio tantissimo Girolamo perché ha scritto una frase che potrebbe dare origine a un ulteriore filone di dibattito: non esiste una “sensibilità artistica”.
    Voi cosa ne pensate?
    Siete d’accordo con Girolamo?
    Esiste o non esiste, una sensibilità artistica?
    (vediamo chi risponde).

  55. uh
    risponno io!
    Secondo me esiste una sensibilità per tutti, che è un po’ la potenza di Aristotele, poi questa faccenda della sensibilità, l’atto, diventa una specie di muscolo, un diapason, una cosa che si impara a suonare. Ricordando che ci sono quei pochi che riescono a suonare tutto, e ci sono gli ottimi che Chopin gli riesce benissimo, e su Ravel sono una cagata assoluta.
    (Massimo è tardi perdona il francese:)

  56. “uno dei miti più pericolosi è quello secondo il quale chi sta per suicidarsi diventa sempre positivo e generoso e altruista. la verità è che le ore prima di un suicidio sono fatte di enorme presunzione ed egocentrismo”
    (DFWallace, da Infinite Jest, pag. 262, ed. Einaudi)

  57. E’ vero quello che dice anche Francesco Gianino.
    E Pavese:“I suicidi sono omicidi timidi. Masochismo invece che sadismo”, 17 agosto 1950.
    E sì, la sensibilità si esercita. Perchè le parole rimandano ad altre parole. E la musica ad altra musica. Le immagini ad altre immagini.
    Una palestra. E una scoperta.
    Per il resto, Massi:mi è piaciuto come lo ha detto Zaub: nanotte!

  58. Si’, ma questo Wallace secondo me lo scriveva quando non pensava a suicidarsi. Quando l’ha fatto sul serio si sara’ sentito proprio egocentrico e presuntuoso come aveva sostenuto prima?
    Ai posteri…

  59. Carlo, ciao caro.
    Si’, hai ragione, avrei dovuto fermarmi prima e li’; ma quando la misura e’ colma, si fa la pipi’ anche fuori dal vasetto, e’ umano, no?
    Ciaobbello

  60. Alla nuova domanda di Massimo, non avendo capito bene quello che dice Zauberei a questo giro (sarà l’ora, sarà la sua vodka, o sarà la mia grappa) rispondo ribadendo quanto detto da Girolamo: la sensibilità artistica non esiste. Esiste una maggiore o una minore sensibilità nelle persone. Alcuni la incanalano nell’arte, altri in diverse e più terrene occupazioni: dal volontariato al bricolage, dalla meditazione trascendentale all’esercizio del pollice verde.

  61. A lecture of Prof. Keir Elam Douglas (Univ. di Bologna, Bologna, 2006)

    L’Italia rappresenta per Shakespeare un grande alibi: un ‘altrove’ sufficientemente distante, geograficamente e culturalmente, dall’Inghilterra elisabettiana da sembrare esotico, eppure sufficientemente vicino e simile da servire da specchio rispetto alla stessa società inglese. L’Italia di Shakespeare è il luogo deputato della civiltà, della cultura rinascimentale delle arti umanistiche e della cortesia come grande valore sociale e morale; nel contempo, è lo spazio del pericolo personale e politico, della corruzione e dell’amoralità machiavellica. Tali aspetti contradditori riguardo alla percezione dell’Italia vengono raffigurati in Shakespeare tramite una serie di miti associati con le particolari ambientazioni italiane delle opere (per esempio la Padova della Bisbetica domata, dimora per antonomasia della cultura umanistica ed accademica, o la Mantova di Romeo e Giulietta, fonte primaria della cortesia alla Castiglione, ma anche e soprattutto leggendario luogo di perfidia omicida).

    Indubbiamente il più importante dei luoghi ‘mitici’ di Shakespeare è Venezia, ambientazione prediletta dei drammi in quanto – storicamente – repubblica potente, civilizzata e politicamente avanzato, ma diventata, nella percezione inglese del fine Cinquecento, emblema della decadenza sociale e dei valori morali meramente mercenari. Su una Serenissima in parte realtà geopolitica, in parte costruzione immaginaria, Shakespeare e i suoi contemporanei proiettavano le loro ambizioni per un’Inghilterra dominatrice dei mari e del commercio, ma anche i loro timori riguardo all’eccesso di civilizzazione e di sofisticazione.

    L’Italia era per Shakespeare anche la grande fonti di ‘miti’ nel senso di storie: si rivolge spesso alla letteratura italiana per le trame delle sue opere, e non è esagerato affermare che senza il modello della narrativa e del teatro italiani, la drammaturgia shakespeariana non avrebbe assunto la forma e la ricchezza che conosciamo. E’ di nuovo Venezia il luogo privilegiato dei miti narrativi presi in prestito dal drammaturgo. La conferenza farà particolare riferimento al Mercante di Venezia e ad Otello.

  62. “La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla finestra per dare un’occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme. ” (DFW)

    Tutti hanno paura di qualcosa una volta o l’altra, e non c’è bisogno di una particolare sensibilità artistica per averne.
    Ma quella che ti porta alla situazione insopportabile descritta da Wallace non è la semplice paura di qualcosa, ma la paura della propria paura. Qui la sensibilità artistica, se esiste, può essere un fattore aggravante, perchè essa non è altro che una immaginazione particolarmente fertile, che spesso assume toni e intensità morbosi.
    La mia risposta alla domanda di Massimo è: non occorre essere artisti per essere tentati al suicidio, ma le tentazioni degli artisti sono sfrenate come la loro fantasia.

  63. In Italia il primo (e unico vero) editore di ‘Infinite Jest’ è stato Fandango, e cioè Sandro Veronesi per la sua collana in particolare, Mine Vaganti. Il libro realizzato da Fandango era molto più bello di quello stampato da Einaudi. E molto più bella la copertina, curata come sempre da Gianluigi Toccafondo. Alla lettura fiume (72 ore) tenutasi al Politecnico Fandango dal 15 al 17 dicembre 2000 io c’ero: ero tra i lettori, ho letto per un’ora la domenica mattina tra le 9 e le 10. Ero stata ingaggiata dall’ideatore del faraonico progetto, da ‘Lui in Persona’. E’ una cosa a cui tengo tanto.
    SK

  64. Ciao Simo:)
    Carlo S. Ti spiego meglio quello che ieri ner sonno non riuscivo a dire forse troppo chiaramente.
    1) Partiamo dalla distinzione di due concetti di sensibilità che spesso la lingua tende a sovrapporre. Sensibile nella direzione dell’altro e sensibile nella direzione del se:
    a. soggetto che ha una intelligenza emotiva tanto raffinata che lo porta a capire meglio umori pensieri sentimenti etc di chi ci ha davanti.
    b. soggetto che non solo ci ha un’intelligenza emotiva tanto raffinata etc, ma in virtù di queste cose è più fragile degli altri, è più esposto alla sofferenza.

    Quando si dice, gli artisti sono più fragili degli altri, si pensa al sensibile di tipo b. E nel mio intervento sopra dicevo, no questo non si da perchè la fragilità umana c’è a prescindere e non è l’arte a potenziarla, caso mai un pochino la sostiene. L’arte viene dopo i nostri sentimenti.
    Ma la sensibilità di tipo a. è invece un muscolo: è qualcosa che parte dall’emotivo e si sviluppa nel razionale: è il talento per cogliere dei mutamenti psichici e mentali. E’ un muscolo perchè flirta con delle conoscenze e delle sensazione e costruisce nel tempo una capacità discriminatoria e discriminante. Pensa al concetto di “sensibilità storica”. Pensa a quel livello in cui gli studiosi diventano seri e per esempio ci pole essere uno che scrive solo di settecento inglese. E quello ci ha lasensibilità allenata su quelle corde quei tasti quella sintassi. Sa suonare quell’insieme di melodie.
    E’ una buona palestra per cui se lo confronti con il novecento italiano dirà cose interessanti. Ma potrebbero esserci invece molti campi semantici in cui la sua sensibilità non è esercitata e fa fatica a trovare complementi oggetti.

  65. Non ho mai letto Foster Wallace. Immagino che adesso le vendite si impenneranno e io che amo i libri/mattoni comprero’ “Infinite Jest”, lo leggero’ e magari lo trovero’ appassionante. O forse no. Ho letto un sacco di interviste, ricordi e coccodrilli, ho visto un sacco di foto dello scrittore che ha deciso di togliersi la vita ad un’eta’ che e’ solo di un anno piu’ pesante della mia. Sono cose che colpiscono. Io non sono certa che un artista sia piu’ incline all’autodistruzione, anche se fa piuttosto “fico” atteggiarsi a maledetti. Mi ricordo di aver letto di un paio delle scrittrici famose italiane: depressa, ha sofferto di anoressia e bulimia, ha anche tentato il suicidio. Come se un curriculum cosi’ renda piu’ appetibile cio’ che quelle scrittrici scrivono. Sono convinta che aver sofferto nella vita, o meglio aver vissuto, renda la scrittura migliore. E mi viene da pensare che il demone che ha spinto David Foster Wallace a dire addio ad una vita che, dall’esterno, appariva bella e soddisfacente, sia quella che io chiamo “empatia”. Sembra un’assurdita’, ma posso parlare (non essendo un’esperta e zaub mi perdonera’ se dico delle castronerie) solo di quello che sento io. Come sapete scrivo, questo non vuol dire che io sia necessariamente un’artista, di sicuro non lascero’ l’impronta che Foster Wallace aveva lasciato gia’ a 25 anni, ma la mia scrittura (pur attraverso la strettissima collaborazione con Loredana) nasce dalla necessita’ impellente di immaginare scenari, realta’, vite che possano dare un senso compiuto a quello che mi vedo intorno. Oppure che possano rappresentare una fuga da tutto cio’ che non vorrei vedere, sentire, toccare, odorare. Mi sento spesso oberata dal dolore. Non il mio personale. Il dolore che leggi negli occhi delle persone che incontri. Il dolore che immagini dietro a una schiena piegata dall’eta’, dietro la mano tesa di un bambino, dietro lo sguardo di un pensionato che non si decide a mettere nel carrello il chilo di pasta troppo caro. Mi pesa addosso l’empatia con le foto di persone percosse dalla vita, dagli elementi, dall’essere nate nel lato sbagliato del mondo. Se mi fermo a pensarci, piango. Piango leggendo l’arido resoconto della morte di una persona per colpa del solito pirata della strada. Piango per l’omicidio che non trovera’ mai giustizia, per la ragazzina uccisa dall’errore del medico, per il bambino abusato da chi lo doveva difendere. Non so se riesco a spiegarmi. Io credo che questa terribile empatia la provino in molti, ma forse una persona che si nutre di creativita’ la soffre di piu’, riesce a esprimerla di piu’, alla fine puo’ soccombere piu’ facilmente. Forse.
    Laura

  66. Sì, Zau, ora capisco un pò meglio quello che volevi dire. Specialmente la prima parte (definizioni di a. e b.). Ma ciò che segue (la “muscolarità” del tipo a.) è una cosa da ragionarci su: ieri era sera tardi, e stamattina forse è ancora presto. Spero di metabolizzare in giornata.
    Ciao.

  67. Cara Zauberei,
    sei molto divertente quando dici la tua.
    Sicuramente l’America non è soltanto fatta di logotipi che i colti europei sdegnano arriccinado il naso sui valori culturali e, se non sbaglio, tu hai preso una laurea in filosofia oltre ad essere una brava psicologa e conoscerai molto bene la differenza tra anima vegetativa e anima reale, riconosci la distinzione tra il buonissimo panino col wurstel e Descartes, i bisogni di cui è composto l’essere e qui ha ragione Carlo D quando con lucidità e molto sottilmente ci suggerisce che occore più lucidità – gli artisti spesso portano il peso di tale casino – e dunque la società necessita di una distinzione degli elementi in concomitanza ad un epoca che sente (Stati uniti compresi) esigenze evolutive non esclusivamente legate al bassoventre.
    Oggi si tende a mettere da parte il problema dell’anima nel suo aspetto metafisico e allo stesso modo vi è una tendenza a fare filosofia senza metafisica e quindi non c’è più posto per i concetti di sostanza, essenza, di essere, ecc. Le crisi di un artista o di chi recepisce il mondo, il senso di vuoto, la voglia di farla finita, non possono slegarsi dal concetto di anima naturale come anima vegetativa e dal concetto di anima reale.
    L’anima ha in sè, ancora, un ritmo dialettico: dapprima è anima naturale la cui verità effettiva è solo nell’individualità e nella soggettività dell’anima senziente (la psicologia ha dato una grande mano in questo campo e le manifestazioni artistiche rimangono fenomeni del soggetto) per giungere infine – con la contrapposizione a sè del proprio essere immediato come corporeità che l’anima informa – a compiersi come anima reale. Il problema non è affrontato solo dalla mistica cristiana, magari qualcuno non lo sa ma sente un profondo bisogno dello spirito.
    Ho scritto questo amando profondamente la natura, i fiori, i prati, gli animali, ogni forma di vita, persino il vento ed i circensi.
    Rossella

  68. David Foster Wallace si è tolto la vita impiccandosi nella sua casa di Claremont, in California. Ne ha scoperto il cadavere la bellissima moglie Karen, che ha chiamato inutilmente i soccorsi e poi la polizia. Allo sconcerto del mondo letterario si è aggiunto lo sgomento degli ammiratori, ed al dolore degli amici, quello dei lettori di ogni parte del mondo, che si sono identificati sin dai primi scritti con il suo stile inimitabile e rivoluzionario, e, in particolare, con il suo sguardo originalissimo sul mondo. Aveva compiuto quarantasei anni a febbraio, e specie negli ultimi tempi, aveva dato a tutti gli amici l’ impressione di essersi liberato dai demoni che lo tormentavano sin da quando era bambino, ed aver trovato la serenità, se non addirittura la felicità con la moglie, che chiamava con il nome e cognome: Karen Green. Non si trattava di un vezzo, ma di un elemento rivelatorio del carattere e del suo sguardo sull’ esistenza: in quel modo di rivolgersi per esteso alla donna che amava, c’ era certamente un misto di ironia ed affetto, ma soprattutto l’ esigenza di comprendere e definire con precisione ogni elemento dell’ esistenza, anche il più intimo. Quando venne ospite delle “Conversazioni” a Capri cercai di farlo parlare del suo approccio letterario «postmoderno». Mi spiegò con lucidità e candore che non aveva mai capito cosa significasse quel termine, ma poi, dialogando in pubblico in assoluto stile postmoderno, mescolò quello che gli americani chiamano «highbrow» con il «lowbrow», la cultura alta con quella popolare, improvvisando lunghissime divagazioni su quello che lo aveva colpito maggiormente da quando era arrivato nel nostro paese. Il suo modo di parlare, coinvolgente e ironico, non era differente dallo stile di scrittura, fatto di periodi lunghi anche un’ intera pagina intervallati da brevi affermazioni fulminanti, e commentati entrambi da sterminate note a pie’ di pagina. La sera della conversazione caprese catturò un’ enorme cavalletta che aveva fatto fuggire inorriditi gli altri scrittori e la regalò alla sua Karen, invitandola ad ammirare la meraviglia della natura. Era l’ estate dei mondiali di calcio, e durante il festival si appassionò a quello sport che non conosceva ed in particolare alle partite dell’ Italia, che cominciò ad analizzare con il consueto approccio a metà tra lo scientifico ed il creativo: la cosa che lo colpì di più fu il gesto del «ciucciotto» di Totti dopo il rigore contro l’ Australia. Voleva sapere cosa significasse, se il giocatore si stesse rivolgendo alla moglie o al mondo intero, se era davvero un fuoriclasse o un mezzo campione. Esultava insieme a noi per le vittorie dell’ Italia, ma non osava azzardare commenti tecnici, ribadendo un altro elemento fondamentale del suo modo di essere: era estremamente umile, ed evitava di parlare di cose che non aveva studiato a fondo. Appariva addirittura spaventato quando scopriva di essere considerato un maestro, e che il suo modo di scrivere lontano da ogni canone classico aveva influenzato un’ intera generazione di giovani scrittori, cosi’ come gli allievi dell’ Università di Ponoma, che oggi invadono Internet con affranti messaggi di lutto. Era un uomo molto gentile, timido, e sorprendentemente formale. Fin quando non diventava intimo del suo interlocutore, usava l’ appellativo «Mister», e questo approccio così signorile, e per nulla ironico, smentiva l’ imponenza del corpo da ex campione di tennis, il modo di vestire sciatto e perennemente con la bandana, la barba non coltivata, ed il rozzo tatuaggio sull’ avambraccio. Aveva un’ amicizia autentica, ma intrisa di rivalità con Jonathan Franzen: durante «Le Conversazioni» si divertirono a farsi domande a vicenda, per mettersi in difficoltà. Le schermaglie continuavano persino in giochi di memoria e di società. Ma l’ ammirazione nei confronti di Franzen era sincera, come per molti altri scrittori della sua generazione, come Jeffrey Eugenides, Rick Moody, Zadie Smith e Nathan Englander. Ammirazione assolutamente ricambiata: il suo sterminato romanzo Infinite Jest (in Italia pubblicato da Fandango e poi da Einaudi) era unanimemente riconosciuto come un punto di riferimento imprescindibile della letteratura contemporanea, così come i saggi e i racconti, tra i quali svettano Brevi interviste a uomini schifosi (Einaudi) e Ragazza con i capelli strani (minimum fax), sempre caratterizzati in egual misura dall’ ironia e l’ angoscia. Era in grado di scrivere con la stessa competenza di Kafka e di Agassi, di David Lynch e di John McCain, al quale dedicò un saggio memorabile in occasione della sua prima campagna elettorale, quando il senatore dell’ Arizona venne sconfitto da Bush grazie al devastante operato di diffamazione da parte di Karl Rowe. A rileggerlo oggi, il saggio sorprende per la lucidità con cui descrive il carattere impulsivo dell’ attuale candidato alla presidenza, per la mancanza assoluta di faziosità ideologica, e l’ ammirevole distacco con cui riesce a raccontarne le strategie, il talento ed i limiti. Era molto affascinato dai meccanismi della politica, e tra i suoi scritti più folgoranti rimane il racconto Lyndon che vede per protagonista un giovane omosessuale che viene assunto come assistente da Lyndon Johnson all’ epoca in cui il presidente era ancora un potente senatore texano. Anche in quel caso era interessato a raccontare l’ umanità dei protagonisti, che risultavano, sotto le sembianze imponenti e la voce stentorea, molto umani e terribilmente fragili. Si trattava, con ogni probabilità di un modo per raccontare se stesso e le proprie angosce più intime. Negli ultimi tempi, e negli ultimi saggi che ha scritto, sembrava alla ricerca di ideali di perfezione che lo potessero riconciliare con il fatto stesso di esistere e di dover affrontare la quotidianità. Individuava questi ideali negli elementi più inaspettati, come ad esempio nella elegante perfezione del rovescio di Federer, o nella ricchezza della cucina napoletana: dopo una cena da Mimì alla Ferrovia era diventato golosissimo delle mozzarelle di bufala e dei polipi, che non aveva mai mangiato prima del suo viaggio italiano. Ma questi autentici momenti di serenità, che lo portavano a distendersi in un sorriso coinvolgente, finivano per essere sopraffatti dai suoi demoni, che lo portarono a sbandare e a drogarsi in gioventù: finiva perennemente per scoprire l’ ingiustizia ed il lato doloroso dell’ esistenza, che gli appariva raggelante, violenta e assurda. Nei momenti più sereni riusciva ad esorcizzare questa scoperta con la solita ironia: Una cosa divertente che non farò mai più è un racconto esilarante su una crociera organizzata ai Caraibi, e lo stesso approccio è evidente in Tracy Austin mi ha spezzato il cuore, dedicato ad una campionessa del suo sport preferito. Tuttavia, molto più spesso, riaffiorava uno sguardo sgomento sulla quotidianità dei comportamenti umani: nel saggio che dà il titolo alla sua ultima raccolta, Considera l’ aragosta (Einaudi), racconta il modo atroce con cui muoiono i crostacei per soddisfare le nostre esigenze gastronomiche. Nel giro di poche righe l’ ironia cede il passo al solito approccio distaccato e scientifico, ma poi, irrefrenabilmente, allo sconcerto. Ed è ancora più raggelante rileggere oggi nella raccolta Oblio (Einaudi) uno dei racconti più forti e dolenti, intitolato Good Old Neon, nel quale compare in prima persona come Dave Wallace e racconta il suicidio di un suo studente. Il racconto è narrato in prima persona dal suicida che confida al lettore il segno di totale una disfatta esistenziale: «La mia intera esistenza è stata una frode. Non sto esagerando. Molto di quello che ho fatto in ogni momento è stato il tentativo di creare una certa impressone di me negli altri. Per lo più per essere apprezzato o ammirato». David Foster Fallace era tutt’ altro che una frode e chi lo ha conosciuto sa che la sua strabordante generosità era sincera, e rappresentava l’ opposto di un atteggiamento vanitoso. Oggi sappiamo che dietro la timidezza dello sguardo, l’ umiltà del confronto dialettico e la lettura illuminante degli avvenimenti più disparati, provava un enorme dolore al quale non ha saputo resistere. Tutti noi che ne sentiamo la mancanza lo ricordiamo con il titolo di uno dei suoi ultimi, bellissimi racconti: La morte non è la fine.
    – NEW YORK

  69. NEW YORK – Lutto e sgomento nel mondo della letteratura americana dopo il suicidio del 46enne David Foster Wallace, trovato impiccato dalla moglie venerdì sera nella loro casa di Claremont, in California. La notizia ha suscitato un’ emozione profonda in America dove lo scrittore, famosissimo dopo il successo internazionale di Infinite Jest, (complesso ed ironico romanzo di 1.079 pagine in edizione originale, inserito da Time tra le cento migliori opere in lingua inglese dal 1923 al 2005 e pubblicato in Italia da Fandango ed Einaudi), era stato paragonato a Thomas Pynchon, Jorge Luis Borges, John Irving e persino a James Joyce. Dalle prime pagine dei quotidiani ai blog e dai talk show radiofonici ai Tg, i critici sono concordi nel definirlo «lo scrittore più geniale, influente e innovativo degli ultimi 20 anni. Sul New York Times persino Michiko Kakutani, la critica più caustica e temuta d’ America, gli dedica un rarissimo encomio, definendolo «mago della prosa» e «scrittore dai doni prodigiosi». Per tutta la giornata di ieri l’ articolo della sua morte è stato il più letto sul sito web del Los Angeles Times, costretto ad aprire una chat room per ospitare gli innumerevoli commenti dei fan affranti. «A ispirare il suo gesto disperato è stata la depressione, leitmotiv della sua opera» teorizza uno di loro, «la stessa orribile bestia che l’ autore ha anestetizzato per anni col suo inconfondibile humour». Ma il motivo che l’ ha indotto a farla finita potrebbe essere anche un altro. Nel luglio scorso, nel programmare un’ intervista con il Corriere, la sua agente letteraria Bonnie Nadell aveva spiegato che Wallace «era stato ricoverato in ospedale» e che quindi sarebbe stato meglio «rimandare tutto al mese successivo». Venerdì scorso, quando il Corriere ha nuovamente tentato di fissare un incontro, la stessa Nadell si è scusata per i ripetuti ritardi: «David è ancora molto malato – ha dichiarato – ha gravi problemi di stomaco causati da una malattia autoimmune e la cosa migliore è rinviare il tutto all’ inizio del 2009». Forse è stata la misteriosa malattia a indurlo a disertare la palestra che un tempo frequentava tutti i giorni e a prendere un sabbatico dal Pomona College, dove insegnava scrittura creativa dal 2002. «Aveva uno splendido rapporto con i suoi studenti – ricorda il rettore del college Gary Kates – si curava con estrema attenzione di loro e col suo lavoro ha trasformato la vita di molti giovani». A New York, dov’ erano riuniti per l’ annuale meeting del board, i critici del National Book Critics Circle hanno reagito con sbigottimento alla notizia. «Quella che era iniziata come una festa si è trasformata in un funerale» racconta David Ulin, responsabile della pagina culturale del Los Angeles Times. «David Foster Wallace era l’ autore che tutti gli altri scrittori guardavano con riverenza» lo incalza Michael Pietsch, l’ editor che ha curato Infinite Jest. «Anche se i suoi libri erano estremamente complessi, teneva incollato il lettore con la sua ironia e senso dell’ umorismo straordinari». * * * Passioni e paure Quel sogno di studiare le tarantole in amore NEW YORK – «Era come un giocatore di scacchi sempre avanti di tre mosse rispetto all’ avversario» spiega il professor John Seery, suo amico e collega alla Pomona University cui David Foster Wallace aveva confessato di soffrire di agorafobia. Per anni Wallace e Seery (come lui cresciuto nel Midwest e laureatosi al prestigioso Amherst College) hanno coltivato un sogno segreto: «Andare insieme nella foresta di Claremont a osservare l’ accoppiamento delle tarantole a fine autunno» dice il docente «quando escono allo scoperto per riprodursi, correndo numerosissime e come forsennate lungo i sentieri battuti dai cingolati antincendio». «Wallace si sentiva attratto soprattutto dal pericolo corso dagli esemplari maschi durante l’ amplesso» incalza «ma, anche se ci teneva da morire, per un motivo o l’ altro non è mai successo».
    (A. Far)

  70. Questa non ce la dovevi fare, David. Non dovevi lasciarci così. Con il cuore lacerato. Ora, siamo tutti un po’ più soli. È come se ci mancasse l’ aria. David Foster Wallace ci ha lasciato. Aveva 46 anni ed era diventato un «eroe» amato e apprezzato col romanzo Infinite Jest (1996). Il suo primo libro è stato il romanzo «The Broom of the System» (La scopa del sistema, Fandango), uscito nel 1987 a 25 anni. In Infinite Jest, riprendendo spunti linguistici sperimentati nel primo romanzo, David Foster Wallace ha alternato forsennate lungaggini con scattanti moduli di slang, riversando nelle pagine le esperienze contenutistiche assorbite dalla lettura dei romanzi di Thomas Pynchon, William Burroughs e William Gaddis, suoi maestri più o meno segreti, mentre quelli ufficiali si sono affermati col leader postmoderno John Barth, del quale ha frequentato le lezioni, e soprattutto con la filosofia del linguaggio di Wittgenstein, del cui biografo Irving Malcolm è stato allievo il padre di David Foster Wallace, James Donald. Il successo nel 1987 del suo primo romanzo lo ha turbato e lo ha condotto a sperimentare droghe e alcol; ma Wallace aveva provato a risolvere la crisi proprio scrivendo Infinite Jest, il cui vero tema è il rapporto fra droga e guarigione. Questo libro coraggioso e straordinario ha cambiato la struttura, il linguaggio e l’ uso dell’ ironia nella narrativa americana. L’ uso a piene mani dell’ ironia è «lo» Stile degli Anni Novanta, come hanno dimostrato per esempio Mark Leyner e Chuck Palahniuk, gli scrittori protagonisti dello scorso decennio. Nel suo stile massimalista, reazione al minimalismo caro a Raymond Carver, David Foster Wallace si abbandona a frasi lunghe, complesse, a volte sonore, a volte satiriche, e passa da monologhi analfabeti dei poverissimi alle spiegazioni tecniche ad esempio di certi medicinali, con un linguaggio base che è casuale e complesso, ricco di slang e anche di erudizione, capace di alternare precisione e imprecisione a proposito di uno stesso argomento. Qualche anno fa, in un’ intervista intitolata «Il culto del Cool» Wallace ha detto: «Infinite Jest è stato immaginato come un libro triste. Non so come sia per voi e i vostri amici, ma so che la maggior parte degli amici miei è molto infelice». Chissà quanto infelice era lui. E così, io non riesco a dimenticare quanti miei amici sono stati infelici: Cesare Pavese quel tragico 27 agosto 1950 mi aveva telefonato alle 14.30, come aveva fatto con altri amici chiedendo di tenergli compagnia. Avevo dovuto dirgli che non potevo: una telefonata che non riesco a cancellare dai miei più drammatici sensi di colpa. Quella sera aveva inghiottito la sua polvere assassina; nessuno di noi gliela aveva tolta dalle mani. Ci ha perdonato, ci ha chiesto perdono. Di che cosa, Pavese? Che cosa le avevo fatto, che cosa mi aveva fatto, che cosa ci aveva fatto dopo aver aiutato decine di scrittori a farsi conoscere, con quel suo viso tragico che aveva dimenticato il sorriso, quella sua vita segreta che non aveva svelato a nessuno, quella sua infinita conoscenza del mondo che non le è bastata per sopportarlo. Ci eravamo ritrovati tutti lì davanti alla sua bara, ciascuno strangolato da qualcosa che forse lo aveva offeso, che riaffiorava ora nella memoria, oddio se ci avessi pensato. A troppe cose non abbiamo pensato, Pavese, grande poeta, grandissimo maestro, intellettuale con tutte le speranze bruciate, fragile uomo in un mondo troppo brutale. Siamo noi che dobbiamo chiedere perdono a lei, per sempre. Ernest Hemingway, pochi giorni prima di spararsi in bocca, mi aveva chiamata e mi aveva detto: «Non posso più bere, non posso più mangiare, non posso più andare a caccia, non posso più fare l’ amore. Non posso più scrivere». La morte di cui Hemingway aveva condensato la tragedia della sua vita e aveva fatto visualizzare i molti piccoli preavvisi, le impalpabili previsioni, a chi lo aveva conosciuto; ma il dolore, l’ orrore, lo spavento per il vuoto in cui ci aveva gettato ci aveva colti lo stesso di sorpresa. Ancora un suicidio, adesso. Un altro amico, dolce, fragile e generoso che se ne va. Che ci lacera il cuore. Ma questa proprio non ce la dovevi fare, David Foster Wallace.

    Fernanda Pivano

  71. Devo confessare una debolezza, che non so come altro esprimere se non in modo diretto: scrivere qualcosa su uno scrittore che si è appena suicidato, mi sembra una cosa di altri tempi. Come se mi fosse capitato di leggere tante volte dei ricordi increduli o sconvolti, ma fossero letture antologiche di tempi che non potevano più tornare. Mi sembra, oltretutto, ancora più impossibile per uno scrittore del tutto innovativo e contemporaneo come David Foster Wallace. È una debolezza perché è una stupidaggine quello che dico, però allo stesso tempo forse era un modo per credere che una cosa del genere non solo non potesse più succedere, ma soprattutto che non fosse successa. Ieri mi sono svegliato e ho acceso la tivù per guardare il telegiornale di Sky: volevo sapere cosa era successo nella notte nelle trattative per Alitalia. Quando ho visto passare nella striscia informativa questa frase iniziale: «Lo scrittore americano David Foster Wallace…», ho capito immediatamente. Perché in nessun modo uno scrittore può passare in una striscia informativa in una mattina qualsiasi che non sia il giorno del Nobel. Sono rimasto impietrito, per molto tempo. Non ho mai conosciuto personalmente Wallace, nonostante lo abbia tradotto, abbia letto la sua opera intera. Ho pensato subito che mi sarebbero mancati tutti i libri che non avrebbe più scritto, mi sarebbero mancati tanto. Per chi non lo conosce, è uno dei grandi scrittori dei nostri tempi. Ha cambiato il modo di concepire un libro, sia per quantità (ha scritto un romanzo di più di mille pagine, senza che fosse una saga di genere) sia per aver mescolato per sempre il saggio e il romanzo e il reportage – per aver assunto una forma narrativa del tutto libera e moderna. In più, si è occupato con molta serietà di crociere o fiere di bestiame o partite di tennis, e per questo motivo è stato un maestro, anche se coetaneo, di molti di noi. Parlo anche specificamente di scrittori italiani; potrei fare un lungo elenco di ammiratori di Wallace, e questo elenco coinciderebbe con un altro elenco, quello di scrittori condizionati dalla letteratura di questo americano giovane, un po’ folle, debordante. Ciò vuol dire che chiunque lo abbia letto e amato, poi non ha potuto metterlo da parte quando si è rimesso a scrivere per proprio conto. Questa affermazione è pesante, direi quasi grave, eppure sono convinto che sia inconfutabile. Non ho qui lo spazio per dimostrarlo, ma scommetto con chiunque che il tempo mi darà ragione. Wallace faceva così: prendeva una storia che avrebbe potuto essere molto semplice, la divideva in tanti piccoli frammenti, che poi metteva in un’urna. Mescolava a lungo. Poi, come se fosse un giocatore di tombola a Natale, tirava fuori i frammenti uno dopo l’altro, in ordine assolutamente sparso. Però poi ti accorgevi che alla fine il cartellone della tombola era composto da tutti i numeri necessari, allo stesso modo che se fossero stati tirati fuori in ordine cronologico. Era capace di raccontare qualsiasi cosa, di prendere qualsiasi luogo o argomento o evento e mettersi a sviscerarlo con uno sguardo profondo, cattivo, cinico, e tenerissimo. La sua America eravamo noi, tutto il mondo occidentale. Conservo sul mio computer una sequenza di foto che Marco Cassini, l’editore di Minimum Fax, mi mandò dalla California. C’erano lui e Wallace che si scambiavano una bandana e una maglietta. Era la prima volta che lo aveva incontrato, e mi aveva subito spedito le foto, con una mail entusiasta. Lo aveva fatto perché per noi era un mito, anche se sapevamo che era uno come noi, e quelle foto lo dimostravano. Non conta per niente, ora, dire chi lo ha scoperto. Però conta dire che in un periodo brevissimo Minimum Fax, Einaudi Stile libero e Fandango, la rivista «Nuovi Argomenti» e vari singoli scrittori-lettori si innamorarono di lui e fecero una gara a chi lo pubblicava prima. Una frenesia che prende solo quando si è di fronte a qualcuno di veramente speciale. Poi una domenica mattina ti svegli e scopri che questa persona speciale è stata trovata morta; si è impiccata. Qualcuno ha detto che forse lo ha fatto perché aveva scoperto di essere molto malato. Anche se fosse così, ti sembra impossibile capire. E poi, ti sembra una cosa di altri tempi. Ma intanto, poche ore dopo, fai già lo sforzo di parlare di lui al passato.

  72. “La sua America eravamo noi, tutto il mondo occidentale.”
    Cito dall’articolo di Francesco Piccolo proprio qui sopra.
    Per tutti quelli che parlavano di americanismo e antiamericanismo.

  73. Si può essere filoamericani o antiamericani naturalmente, e sono entrambe posizioni legittime. Ma non si può negare che nel secolo scorso l’america abbia assunto un ruolo di leadership politica, economica e culturale per tutto il mondo occidentale e che ancora oggi tenti di difendere e potenziare questa posizione di forza cercando di imporla anche ai paesi extraoccidentali (specie dopo la caduta del blocco sovietico), al mondo intero.
    Che ciò sia giusto, legittimo o corretto o anche solo possibile è naturalmente altra faccenda, e non è questa la sede. La mia premessa è semplicemente per avvalorare quanto non sia possibile oggi disinteressarsi di quanto accade a livello culturale in america pena mantenere una visione del mondo (e della cultura) fortemente miope e limitata, indipendentemente dai gusti personali o dagli specifici interessi culturali. Questo non vuol dire ignorare quanto accade a casa nostra o in paesi meno (o addirittura ancora non) “americanizzati” (o più genericamente “occidentalizzati”, ma data la premessa, in realtà le cose coincidono). Anzi. Viviamo in un momento in cui un certo conflitto tra modelli culturali è in atto, e nulla andrebbe ignorato. E del resto nulla impedisce (anzi, è doveroso) di cercare quali siano le ascendenze di tale cultura, perché è la nostra cultura (direi che oggi è volenti o nolenti il ramo portante di un grande albero le cui radici affondano in Omero e i cui rami primari sono rappresentati tanto da Dante, quanto da Shakespeare, Cervantes e Rabelais).
    Del resto la critica al modello americano, al suo ruolo di leadership nella cultura occidentale, al suo tentativo di imporsi al mondo è fortemente viva nell’america stessa come in tutto il mondo occidentale specialmente dalla metà del secolo scorso, ed è fortemente presente nei contemporanei D.F. Wallace, come in Frenzen, in De Lillo, come nello stesso McCarthy di cui abbiamo a lungo a suo tempo parlato. Direi che tutta la letteratura contemporanea americana esprime forti critiche e disagio nei confronti di tale modello, anche se poi l’america vota Bush, voterà McCain e la sua orrida vice Palin.
    L’america che vota, l’america che decide, l’america che impera e che “esporta” militarmente il suo (nostro) concetto di democrazia e il suo (nostro) stile di vita in realtà legge pochissimo e probabilmente non sa neanche chi fossero David Foster Wallace o Mark Rothko. E’ un’america che difende a denti stretti la pena di morte ed il diritto a portare liberamente le armi. A malapena conosce Bob Dylan, sicuramente ignora Charles Yves.
    Ma Wallace, DeLillo & Co. vanno letti non perché “antiamericani”, ma proprio perché americani, o meglio “occidentali”. E non saranno dimenticati.

  74. Vado contro corrente.
    Primo: Wallace non l’ho ancora letto (d’altro canto trovo assolutamente illeggibili i suoi maestri, se tali sono, come Pynchon e Barth).
    Secondo: proverei una enorme difficoltà umana a entrare in sintonia con uno che decide di farsi trovare impiccato dalla propria “amata” (a parole) moglie.
    Tutta la solidarietà umana e la pietas per chi decide un gesto estremo come quello di togliersi la vita. Però cercate di non far trovare il vostro corpaccione freddo e rigido proprio dalle persone che dite di amare. Se no siete morti, almeno un po’, un po’ tanto, da stronzi.

  75. Oh Ringhio! Ho promesso a Massimo di stare brava, ma fatico a contenere la voglia di affogarti in uno stagno!
    🙂
    sempre ammesso che ci riesca…però potrei sempre prenderti a stampellate. Vabbè, altra faccina

  76. con uno che decide di farsi trovare impiccato

    Dal necrologio del New York Times, l’altroieri:


    His father said Sunday that Mr. Wallace had been taking medication for depression for 20 years and that it had allowed his son to be productive. It was something the writer didn’t discuss, though in interviews he gave a hint of his haunting angst.

    (…)

    James Wallace said that last year his son had begun suffering side effects from the drugs and, at a doctor’s suggestion, had gone off the medication in June 2007. The depression returned, however, and no other treatment was successful. The elder Wallaces had seen their son in August, he said.

    “He was being very heavily medicated,” he said. “He’d been in the hospital a couple of times over the summer and had undergone electro-convulsive therapy. Everything had been tried, and he just couldn’t stand it anymore.”

    —-

    Questo, quanto alla natura della “decisione” di DFW. Forse Luciano non l’aveva letto e questo spiegherebbe qualcosa.

    Mi pare invece irredimibile la povertà umana di chi dà dello stronzo a un suicida di cui conosce a malapena il nome.

  77. Scusami per i modi bruschi delll’ultima frase. Avrei potuto e forse dovuto evitarli ma mi è venuto così.

  78. Mi sento molto vicino a Ringhio, per il quale nutro una istintiva simpatia e col quale condivido il grande amore per l’immenso Bolano. Ma questa volta mi pare sia stato lui a pisciare un pò fuori dal vaso e pertanto mi schiero con Miriam e con Calazio.

  79. Quota Carlito sia nelle vicinanze che nelle tazze.
    Ma Luciano, quando si tratta di umane vicissitudini ce l’ha un pochino questo vizio dello strabismo da tazza. E’ il Lutero che è in lui:))))

  80. non dò ragione a luciano né entro nel merito della vicenda umana di Wallace. Posso dire però una cosa, per quel che vale.
    Ho lavorato a innumerevoli casi di suicidio. Quando questo avveniva sotto gli occhi di una persona “amata” oppure la persona amata era la prima a vedere il cadavere, la dose di strazio era pressoché insopportabile.
    Se il cadavere veniva ritrovato da altri e, successivamente, la persona amata veniva avvisata e trovava il corpo composto e adagiato su una lettiga della mortuaria, alla disperazione non si aggiungeva la visione di una scena che non si sarebbe più cancellata dagli occhi e dall’anima. tutto qui.

  81. Sì, Enrico, hai ragione. Io ricordo un amico che rincasando dal lavoro trovò la madre e fu devastante. Per anni infiniti. E l’acqua per la pasta stava bollendo… ma la disperazione di quella donna non aveva più misura…
    Chiudiamo questo post?
    :)))

  82. Io non mi sono nemmeno sognato di scrivere (nè lo penso) che DFW fosse uno stronzo. Nel mio commento ho scritto una cosa ben diversa. Ho scritto che se uno decide di farsi trovare dalla donna che dice di amare stecchito e impiccato è morto un po’ (un po’ tanto) da stronzo. Perchè gli stronzi sono quelli che dei sentimenti altrui se ne fottono. E (in quei momenti) lui se n’è fottuto. Strafottuto. Perciò in QUEI momenti s’è comportato da stronzo.
    Io non mi permetto di dare nessunissimo giudizio morale su chi si suicida. Ci mancherebbe…è un atto così estremo e così tragico che è difficilissimo cercare di decifrarlo, visto che coinvolge l’intera esistenza della persona in questione. Cercavo solo di esprimere la mia rabbia/dolore/amarezza e totale sconcerto per il MODO in cui Wallace ha deciso di compiere il PROPRIO suicidio. Per la decisione (che io trovo disgustosamente egoistica e crudele) di far trovare dalla moglie il proprio cadavere impiccato. Perciò il mio giudizio si riferiva soltanto ed esclusivamente alle irresponsabili circostanze e non alla tragica fine della vita di DFW.
    Fatti i debiti paragoni, è morto con lo stesso disprezzo e la medesima insensibilità verso i vivi di chi (per suicidarsi) sceglie di farsi saltare in aria col gas, coinvolgendo tutti coloro che abitano nello stesso caseggiato.

  83. puoi farlo Luciano chi te lo impedisce – tuttavia è come rimproverare a un pesce di non fare le fusa. A un cavallo di fare la settimana enigmistica, a un antico romano di essere femminista. Insomma prescinde troppo dalle condizioni metali di chi vive una situazione che lo ha messo in altre coordinate in altre direzioni.
    Oltre tutto se si ammazza chi ami, nella memoria ti si infliggerà la prima immagine della morte, decorata, non decorata addolcita non addolcita. Persino la non immagine, persono il vuoto. Persino la cenere.
    Ti taglierà comunque.

  84. Luciano, o non hai letto il mio messaggio precedente o non leggi l’inglese. In un caso e nell’altro, mi hai stufato.

  85. Caro Luciano:
    potresti anche far tesoro delle sensibilità degli altri. La ragionevolezza del silenzio, a volte, aiuta.
    Faccina.

  86. Miriam, il discorso sulla sensibilità forse non è il più appropriato. Luciano e Calazio esprimono una sensibilità diversa (verso soggetti diversi), ma entrambe legittime e degne. Si può essere d’accordo con l’uno o con l’altro fino a rimenere nei toni civili. Luciano li ha usati, spiegando il suo punto di vista. L’ultimo commento di Zaube (che tra noi è la più esperta in materia) credo possa essere molto chiarificatore, e se Luciano vorrà ne prenderà atto. I giramenti di balle di Calazio possono essere motivati da un’incomprensione di fondo, ma a questo punto lo inviterei a seguire l’invito che Luciano gli fa. E raccogliere il tuo precedente a chiudere qui.

  87. Volevo citare per Luciano quello che scrive la bravissima Lia Levi nel suo libro “L’amore mio non può” edito da E/O. La protagonista, una giovane donna, si trova a dover sopravvivere nel terribile periodo delle leggi razziali. A dover crescere una bambina. A dover lavorare per portare avanti la famiglia, devastata dal suicidio del marito, un poeta che si getta da un muraglione del Pincio. Un poeta. Come Wallace. La donna, pur amando il marito, è presa dalla rabbia per la sua depressione – il marito perde il lavoro, intuisce che per gli Ebrei si preparano tempi bui, si chiude sempre di più in se stesso fino al suicidio.
    Esasperata, parla al medico e questi nella sua saggezza più che per scienza medica le risponde: “Lei non pretenderebbe che suo marito alzasse la mano per accarezzarla se sapesse che ha la mano paralizzata”.
    Chi giunge ad un gesto come quello del suicidio non solo lotta contro l’istinto di conservazione ma non riesce a farsi raggiungere dall’amore dei suoi cari né a porgere una mano per farsi salvare.
    Comprensione, compassione.

  88. Ho letto di Wallace alcuni libri, tranne appunto il monumentale Infinte Jest.
    Mi è piaciuto soprattutto Considera l’aragosta,era comunque uno stile elegante e credo solo apparentemente popolare.

    Quanto alla sensibilità dei poeti od intellettuali. Non credo siano più sensibili di altri, come categoria intendo.
    Ci sono semplicemente persone che sono più sensibili di altre, e possono essere poeti o idraulici. I poeti o gli scrittori possiedono le parole per esprimere il proprio dolore. Un privilegio che hanno tutti.
    E’ per questo che la percezione della vita diventa talmente chiara e disperante, l’unica soluzione che si trova è quella di farla finita.

  89. Non piangere sulla mia tomba,
    perchè io non sono là sotto.
    Io non dormo.
    Io sono mille venti che soffiano,
    io sono lo scintillio del diamante sulla neve,
    io sono la luce del sole sul grano maturo,
    io sono la pioggia gentile d’autunno.
    Nel dolce silenzio del chiarore mattutino
    io sono l’uccello che vola veloce.
    Non piangere sulla mia tomba,
    io non sono là sotto,
    io non sono morto.

    da ANONIMO NATIVO AMERICANO

    Ricordiamo il titolo di uno dei suoi ultimi racconti:”La morte non è la fine”.

  90. Ho visto che l’argomento è partito sul “suicidio come forma di riflessione sui
    grandi problemi della società” (AMERICANISMO E NON) per finire sul “suicidio come forma di omicidio dei sentimenti di chi ama”. Legittimo.
    Domanda: che cos’è la viltà?
    @ Miriam: vivendo in Sicilia ho imparato che ci sono silenzi diversi: il tacere per rispetto (tenere la lingua al prorio posto) ed il tacere per omertà (in aiuto al male).
    Ciao
    Rossella

  91. X tutti, anche per i più antipatici.
    Vi volevo ringraziare per la disponibilità che dimostrate nel colloquiare sui problemi che denota la non indifferenza a quanto accade intorno a noi.

  92. Maria Agnese, cara,
    il Nativo Americano mi sembra tanto simile a quel che pensa il qui presente Nativo Italiano.
    Grazie.
    Sergio

  93. Caro Carlo,
    io sono Italiano e, poi, Europeo. Gli altri si sentano pure quel che vogliono. Ma storicamente ho ragione io – mode e guerre perse a parte.
    Senza polemica
    Tuo
    Sergio

  94. … ma l’argomento e’ giusto che ora si sia spostato sull’argomento che – giustamente – ben riassume Rossella, con domandina finale che vorrei ripetere e portare a tutti noi (me escluso che sono dormiente):
    “suicidio come forma di omicidio dei sentimenti di chi ama”. Legittimo.
    Domanda: che cos’è la viltà?

    ‘Notte a tutti
    Sergio

  95. Caro Sergio,
    nessuna polemica: ognuno “sente” le proprie ragioni, ed è in possesso della “propria” verità. Io (che non sono uomo di fede) alle “verità assolute” non credo. La verità quindi alla fine si riduce sempre ad un’opinione. Ed è sempre interessante scambiarle.
    Un abbraccio.
    Carlo

  96. Quanto alla domanda di Rossella sulla viltà, beh, la prima cosa che mi viene in mente è che Rossella pone sempre domande difficili. La seconda è che la viltà ha a che fare col tradimento. Di sè e/o di qualcun altro.
    Ma non mi sentirei di generalizzare nell’equazione suicidio/viltà.
    Il tema è molto più delicato, e Zauberei nel suo ultimo commento diretto a Luciano “Ringhio” aveva detto in poche righe molte più cose di una serie di altri che avevano innescato una polemica apparentemente inconciliabile. Io credo (e Zaube mi scuserà se sto dicendo una stronzata) che nel momento del suicidio chi lo compie è sopraffatto da un ego smisurato che tutto il resto esclude. E che lo travolge e lo risucchia come un buco nero. Difficile pertanto esprimere un giudizio, come quello di “viltà”, che implica una scala di valori che non hanno alcun peso in tale contesto.

  97. Sulla morte di David Foster Wallace ha scritto un bel pezzo anche Daria Bignardi. Lo avete letto? Non ho guardato tutti i commenti sopra, magari qualcuno l’ha già segnalato. Nel dubbio ve lo copio.

  98. Se uno così si uccide noi come faremo?
    Dopo il suicidio di David Foster Wallace, ci resta una domanda. Senza risposta

    Quando domenica pomeriggio ho saputo che David Foster Wallace era stato trovato impiccato a casa sua, in California, mi sono sentita come se fosse morto il più brillante dei miei amici, il più lucido, geniale, il più simpatico, bravo, spiritoso, il più talentuoso e divertente: quello dal quale mai e poi mai avrei potuto aspettarmi niente del genere. Mi sono sentita persa. Ho telefonato al mio compagno di banco del liceo che il giorno prima avevo rivisto a Ferrara: avevamo parlato dei film di Venezia, dei nostri vecchi compagni che non vediamo da trent’anni, del diario di Jacovitti del 1976 con sopra scritte le canzoni di De Gregori e De André.
    Non era un caso se io e Bobo eravamo stati così amici: avevamo gli stessi gusti, anche se lui era molto più raffinato di me, che sul diario ricopiavo anche qualche canzone di Cocciante mentre lui già ascoltava i Pink Floyd e Peter Hammill. Non avevamo parlato di libri, ma quando ho letto su Internet di Wallace l’ho chiamato subito, senza sapere se avesse mai letto qualcosa di suo: mi ha risposto sconvolto che aveva saputo e che non riusciva a pensare ad altro. Che dopo aver finito di leggere Infinite Jest, il capolavoro di 1.400 pagine di David Foster Wallace, si era sentito perso perché avrebbe voluto non finisse mai. Io avevo pensato la stessa cosa leggendo i racconti della Ragazza dai capelli strani, che Minimum fax doveva ripubblicare il mese prossimo: «Questo è genio assoluto».
    Leggere Wallace voleva dire che tutto il resto poi ti sembrava una pappetta, perché le sue descrizioni, i dialoghi, i personaggi, le storie erano al tempo stesso follemente originali e normali. Ci ritrovavi tutto: lo sguardo stupito, curioso, angosciato su questo presente folle che avevi anche tu, sulle dipendenze, la televisione, il potere, i punk, gli omosessuali, l’amore. Solo che lui sapeva raccontare storie e descrivere personaggi come nessuno. David Foster Wallace era uno di noi, classe 1962. Aveva avuto un successo pazzesco, anche se non era tipo da classifiche, ma continuava ad andarsene in giro con l’aria da Lebowski, la bandana annodata sui capelli lunghi e la faccia facciosa da nerd americano. Aveva scelto di insegnare in una piccola facoltà in California, niente di prestigioso, pur di starsene per i fatti suoi con sua moglie e la sua scrittura. La sua ultima raccolta di romanzi brevi, Oblio, aveva quattro anni.
    Quando si uccide uno scrittore, uno scrittore unico come David Foster Wallace, il mondo trema. Primo Levi, Cesare Pavese, Ernest Hemingway, Sylvia Plath, Virginia Woolf, Mishima… tutti grandi. Ma David era diverso. Era uno che ci provava, che non indulgeva nella sofferenza, nell’eccesso, nell’assolutismo, uno che sapeva scrivere ma sapeva anche ridere. «Era un cazzone come me», ha detto il mio amico Bobo, sul punto di piangere. Se uno come David Foster Wallace si ammazza, come faremo noialtri ad andare avanti?
    Forse ha scoperto che era malato, e non ha voluto soffrire. È l’unica spiegazione che posso accettare. Accidenti, David.

  99. Era un cazzone come me, dice Bobo, l’amico di Daria Bignardi, e per questo la cosa lo colpisce. Ed è per questo, forse, molto semplicemente, che ha colpito anche me. Che mi sento far parte dello stesso club di cazzoni.

  100. ma come mai quando ho sentito della morte di Foster Wallace non mi sono stupita?
    mi sono rattrista, ma io quel genere di autori americani con quell’ironia postmoderna li trovo tutti terribilmente tristi

  101. ma come mai quando ho sentito della morte di Foster Wallace non mi sono stupita?
    mi sono rattrista, ma io quel genere di autori americani con quell’ironia postmoderna li trovo tutti terribilmente tristi

    È vero, devo dire che anch’io non ne sono rimasto davvero stupito. Sconvolto sì, e costernato, ma non completamente stupito.

    Wallace però con l’ironia del postmoderno (e forse con il postmoderno) non c’entra. La sua affermazione teorica più nota e citata è una veemente confutazione dell’ironia.

  102. grazie della precisazione, Calazio.
    Io associo F.W. al postmoderno, e questa cos adell’ironia non mi è sufficientemente chiara:e scopro che F.W. aveva fatto dell’ironia una confutazione.
    (comunque, coem sensazione emotiva, vale l’associazione che ho fatto con gli autori del postmoderno, con quel che ne consegue)

  103. Caro Maurizio, cara Simona, al solito commenti intriganti e sollecitanti alla partecipazione.Sul suicidio torno alle pagine di Dostoevskij.Colloco F.W.- che non ho mai letto- fra i creativi intelligenti che amano la trans-formazione liberatoria dal dolore del macigno che quotidianamente sovrasta ogni spirito che pensa più della norma.C’é chi si duole per qualche disgrazia, chi soffre di spaesamento o altra pazzia, e non pensa al dolore e si uccide di colpo. C’é chi- é il caso di W.- che sa che la vita si sconta soffrendo, che la vita é dolore, é paura indotta- ma da chi?- e l’uomo vive questo inganno e riflette- gli spiriti illuminati agiscono così- sulla possibilità di essere un “uomo nuovo”, libero dal peso della sofferenza e forse- chissà?-portatore di un nuovo messaggio pregno di libertà e di gioia.Uccidendo se stesso ucciderà il “daimon” portatore di sofferenza, lui indifferente se vivere o no e carico di coraggio.Del resto conosceva bene la lezione epicurea.Tra i creatori intelligenti colloco W..Pertanto mi riprometto di leggerlo.Con l’atto del suicidio ci ha interpellati sul Kaos annichilente per riportarci alla conoscenza dei dettagli della vita che sono quelli che potrebbere risanare il mosaico oramai sfasciato?Al solito la domanda apre al senso, e non attende nessuna risposta.

  104. Colloco F.W.- che non ho mai letto-

    Ah beh sì beh. Questo conferisce alla tue impegnative riflessioni un insight tutto particolare, in effetti.

  105. @Calazio Pirouet:la quetsione dell’ironia non mi era sufficientemente chiara.Adesso forse capisco meglio.
    Visto che mi pare tu sia un suo grande estimatore, una curiosità:io associo F.W.a Pynchon, d’istinto.Sbaglio?
    CosI’ come loa ssociom a voci della narrativa recente americana recente che mi pare si siano ispirate alui, tipo:Aimee Bender, la Homes.
    Te lo chiedo per curiosità, perchè, come avevo scritto , più che il dibattito sul suicidio, preferisco prendere occasione per approfondire la mia conoscenza di F.W

  106. le tue impegnative riflessioni, scrive Calazio…; io penso che si tratti di buon senso: F.W. non doveva essere una persona “normale”, dato lo sconforto che ha disseminato in tutto il mondo. E uno spirito avveduto non s’impicca per un amorazzo o per una malattia fisica.La riflessione costante di un romanziere-poeta verterà sul sentirsi schifato perché si trova gettato al mondo senza che l’abbia voluto, si sente ( in effetti lo é, come tutti)oggetto manovrato dall’esterno,,non vede alcuna via d’uscita per sé e per gli altri, dato che il nuovo padrone é la TECNICA che ha asservito la politica;s’avvede che l’uomo( in particolare l’intellettuale)non serve più ai grandi disegni, dato che la finalità dell’esistere impone non di ricomporre la bellezza e dis-velare la verità per una convivenza accettabile nell’oggi,ma l’accumulo di guadagni per spettacolarizzare una pseudo immagine del mancato sé.E W. ha ragionato così: meglio farla finita con questo mondo idiota, dalle finte emozioni, falso per comodo, ed io lo stimo e lo leggerò per il suo grande coraggio. Il Suo logos, avveduto e profondo, diverso anni luce dalla mente dell’uomo qualunque, stoico per la costanza del pensiero e perché mai anestetizzato, é stato determinantenell’ultimo atto.Doveva farlo e lo ha fatto. Gli altri blaterano, sanno che la sofferenza é nel normale percorso labirintico della vita, vita che non é mai un continuum ma un discretum, e mancano di coraggio. Di W. ce ne sono pochissimi e sono i migliori.Lucia Arsì

  107. Rispetto al suicidio
    La sensibilità dilata la percezione e la lettura della realtà, tale che la realtà stessa diviene eccessiva e quindi a fasi difficile e poi sempre più difficile da accettare. Il suicidio, non riguarda solo le e gli artisti le cui storie ci sono note. Il suicidio, dal mio punto di vista, è come espressione di una personalità, una soggettività. I suicidi (quasi tutti), quando vengono salvati anche in extremis, non ritentano più, come se riuscissero a vedere e a superare, nel gesto estremo, il senso e la terribile attrazione per la morte e il niente. Molti grandi artisti, inoltre, sono morti anziani.

  108. Ciao Sergio! Un grande saluto per te ma scrivo @ Carlo. S.
    Mi lusinga il fatto di essere ritenuta una persona che pone quasi sempre domande difficili su questioni come il suicidio che, se permetti, facili non sono. Non mi trovi quindi d’accordo dall’arroccarsi su una posizione intellettuale semi- atea che esclude il voler applicare una scala di valori su tematiche importanti come la vita e la morte. Non so proprio su cos’altro si dovrebbe applicare la scala di valori!!!
    Tutto il mondo si chiede cosa ha spinto a fare un gesto così drammatico e, come saggiamente scrive Lucia Arsì, al di là di chi si è suicidato cerca di comprenderne il demone come la causa dominante, riflette sui vuoti di contenuti come ultimo strascico di un fine novecento che sul binario parallelo di arte e pensiero filosofico ha fatto viaggiare la storia verso una meta contraria ai bisogni dell’anima spirituale, sempre così dedicato a non occuparsi del profondo senso che avrebbe dovuto avere lo stesso viaggio.
    Concludo che non occuparsi dei valori dello spirito significa depotenzializzare l’artista di una grande forza, privarlo di quella forza logica ed illuminata che presiede all’autodistruzione e quindi alla distruzione del motivo per cui è vissuto fino a quel momento.
    Ritengo che tutti i commenti che non hanno questo perno sono smancerie intellettuali di cui molti leader del pensiero moderno si sono soddisfatti come fossero pugnette.

  109. Vedi Rossella, il problema è che sei tu a tentare di imporre perni ai commenti su determinati argomenti. Io non impongo perni a nessuno; semplicemente mi interrogo e diffido di tutti i perni che chiunque vorrebbe impormi. Tu invece mi appari un pò arrogantella e al limite dell’offensivo quando parli di “smancerie intellettuali di cui molti leader del pensiero moderno si sono soddisfatti come fossero pugnette” per tutti i discorsi che escludono questo perno. Il “tuo” perno naturalmente. Ma si sà, lo sforzo di dialogare e comprendere sono virtù, anche per i cristiani, di facile enunciazione ma di non altrettanto facile pratica.

  110. Avevo una sola cosa in comune con Dave Wallace: il vizio di masticare tabacco. Anzi, in realtà, ce n’era anche un’altra: tutti e due venivamo dal Midwest. Ah, e poi probabilmente ho copiato da lui più che da ogni altro scrittore. Ma la nostra amicizia, in effetti, si basava soprattutto sul fatto che tutti e due masticavamo tabacco, e lo masticavamo mentre scrivevamo, e spesso ci odiavamo per questo nostro vizio. L’ultima volta che l’ho visto, in primavera, ero reduce da un’operazione alla bocca – la mia terza operazione alla bocca, a dirla tutta. Avevamo parlato tanto della nostra abitudine ma non avevamo mai masticato tabacco insieme, ed era la prima volta che ci vedevamo da parecchi anni. Si può dire che eravamo conoscenti più che amici. È difficile instaurare un’amicizia con una persona che si ammira così tanto quanto io ammiravo Dave, e la dice lunga sul suo garbo e la sua gentilezza il fatto che, pur sapendo benissimo quanto ero in debito con lui come scrittore, mi abbia anche solo lasciato entrare nella sua vita. Comunque sia. Tornando al tabacco. Lui aveva smesso per un po’ , ma poi aveva ricominciato. Io avevo smesso da tre settimane. Dopo lunghe contrattazioni, decidemmo che potevamo concederci almeno una masticatina insieme, una sola. Finita quella, ci mettemmo a giocare a scacchi. Mi stracciò due volte di seguito, senza mai smettere di esternare la sua sorpresa per quanto mi stessi rivelando una schiappa. (Prima di cominciare, mi aveva detto che i suoi amici si sorprendevano sempre di quanto fosse una schiappa lui.) Quando poi, al termine delle partite, gli chiesi di firmare la mia copia di Infinite Jest (che avevo comprato nel 1996, mentre ero al college, quando spendere 30 dollari per un libro cartonato ti mandava in bancarotta sul serio, e che da allora mi ero portato dietro praticamente ovunque, perfino nel mio soggiorno in Uzbekistan con i Peace Corps, altra cosa non facilissima, date le limitazioni di bagaglio e di spazio a cui eravamo sottoposti), lui me la firmò in un modo molto tenero e bello, ma anche un po’ sardonico, disegnando uno schemino che mostrava il progredire delle nostre partite a scacchi, quasi a lasciar intendere che mi aspettava tutta una serie di partite a scacchi con lui in futuro: fece due segni di spunta sotto il suo nome e lasciò vuoto lo spazio sotto il mio. Poco prima della fine del weekend, però, finalmente riuscii a batterlo. Mi scordai di fargli correggere lo schemino, ma mi dissi che la prossima volta che ci saremmo visti gliel’avrei chiesto, e magari ci saremmo anche fatti un’altra partita.

    L’unica cosa che posso dire di Dave è che la persona che leggiamo sulla pagina – le circonvoluzioni da Via Lattea del suo cervello, l’integrità quasi da uomo di altri tempi, la capacità di rendere colloquiali le cose intellettuali e di dare eleganza alle cose scatologiche e di raccontare con onestà le cose orribili, l’impressione che dava di non cercare mai di mentire al lettore – coincide, di fatto, con la persona che era. O se non altro, con la persona che è sempre stato quelle volte che l’ho incontrato e ci ho parlato, che non sono state molte, ma che proprio per questo, adesso, mi sono ancora più care. Per quanto sia difficile crederlo, nei rapporti personali e virtuali era altrettanto spiritoso che sulla pagina. Qualche giorno dopo quel weekend passato insieme, ho ricevuto un’e-mail in cui Dave commentava lo stato in cui erano rimasti i cani suoi e della moglie dopo la partenza della mia ragazza, la quale aveva legato talmente bene con quegli animali che la separazione aveva lasciato parecchio turbate tutte le parti in causa. In questa e-mail scriveva che i cani continuavano «a vivere, sul piano emotivo, in una sorta di stato apparentemente post-coitale; lei gli ha fatto qualcosa, a livello fisico, che sembra essere stato tutt’altro che spiacevole». Gli mandammo anche dei cioccolatini, e lui ci assicurò che la moglie Karen ci si sarebbe «avventata sopra strillando di letizia, mentre io mi mordo le mani per l’invidia». «Stato apparentemente post-coitale». «Strillando di letizia». Nessun altro scrive così. Anche adesso, oggi, quando col cuore di piombo sono andato a recuperare queste e-mail, nel rileggerle, chissà come, ho riso di nuovo. Era una persona schietta, sì, e spiritosa, certo, ma era anche l’uomo più gentile e più corretto che si possa immaginare: una specie di gentilezza da vecchietta del Midwest, di correttezza non priva di ostinazione che però aveva dentro anche lo spazio per cose pesanti.

    Io non riesco a capire come possa esistere un mondo in cui uno come lui ci lascia in questo modo, ma le opere di Dave, se cercavano di insegnarci qualcosa, cercavano di insegnarci che non esistono risposte semplici. In questo secondo e impenetrabile giorno dalla sua morte non riesco a levarmi dalla testa l’ultima frase di Infinite Jest, in cui Don Gately, probabilmente il personaggio più complicato, affascinante e straziante che Dave abbia mai creato, si risveglia su una spiaggia dopo una pesantissima abbuffata di droghe. «E quando ………..». In questo periodo la marea sembra più lontana, e il cielo più basso, che in qualunque altro momento della mia vita, e l’unico scrittore che consideravo in grado di mostrarmi esattamente quanto era lontana, e quanto ci avrebbe messo a riavvicinarsi, se n’è andato.

    Ai suoi genitori, a sua sorella, ai suoi amici e a sua moglie, Karen, posso solo offrire il magro conforto di un ennesimo cuore spezzato, sia pure in maniera diversa dal loro. Gli volevo bene e mi mancherà.

    Tom Bissell

    ***

    Contattammo per la prima volta David Foster Wallace mentre mettevamo in piedi la rivista letteraria Might, nel 1996. Avevamo letto La scopa del sistema e quindi gli chiedemmo se gli andava di mandarci qualcosa: un articolo, un racconto, un appunto su un tovagliolo di carta. Lui ci mandò un pezzo, sul sesso all’epoca dell’AIDS, che fu di gran lunga la cosa migliore che la rivista abbia mai pubblicato. Mi ricordo che ci arrivò in condizioni impeccabili, senza un refuso o un errore di punteggiatura: di fatto era impossibile da editare. Ma uno dei nostri editor ci si mise d’impegno e cominciò a riempirlo di freghi rossi come se fosse stato il pezzo di un esordiente. Tornammo in noi appena in tempo, e ci rendemmo contro che in fatto di scrittura quel tizio ne sapeva molto di più di quanto ne sapessimo, o ne avremmo mai potuto sapere, noi.

    Un paio d’anni dopo lo conobbi per la prima volta di persona. Abitavo a New York e lavoravo per Esquire: lui aveva appena pubblicato un racconto sulla rivista. Insieme ad Adrienne Miller (che all’epoca era la responsabile della narrativa) lo portammo a cena in una tavola calda dietro l’angolo. Notai con sollievo che di gastronomia sembrava saperne poco quanto me, o interessarsene poco quanto me. La tavola calda fu un sollievo per tutti e due. Parlammo del fatto che era cresciuto a Champaign-Urbana, nell’Illinois, e che io ci avevo frequentato il college, e che suo padre ci insegnava, e rivangammo le bellezze e le stramberie dell’Illinois centrorientale.

    È un’esperienza molto strana e di rara intensa quella di conoscere di persona uno scrittore che consideri straordinario e rivoluzionario ma che al tempo stesso proviene dalla tua stessa parte del mondo: e che ha proprio tutta l’aria di provenire dalla tua stessa parte del mondo. Era spiritoso, aveva una correttezza perfino eccessiva e una totale mancanza di supponenza. Era – tutti l’hanno detto e continueranno a dirlo – esattamente come uno avrebbe sperato: era esattamente come uno avrebbe voluto che fosse la persona che aveva scritto quei libri. E lo si capiva già dopo essergli stati accanto un paio di minuti. Era un vero essere umano, molto più colloquiale e normale di quanto ci si poteva immaginare, vedendo ciò che riusciva ad architettare sulla pagina.

    Per tutta la cena tenne una tazza sotto il tavolo, mezza nascosta alla vista, in cui sputava il succo di tabacco. Fino a quel momento non avevo idea che avesse il vizio di masticare tabacco. Era buffissimo, perché è un’abitudine molto bizzarra, e molto problematica se non si vive all’aria aperta. Un cowboy o un giocatore di baseball possono sempre sputare per terra, ma chiunque altro si deve portare appresso una tazza piena di sputo marrone. Come quella che lui tenne sotto il tavolo per tutta la cena. Dovevo trattenermi dal guardarla in continuazione.

    Qualche mese dopo, Dave fu la prima persona a cui chiedemmo di scrivere qualcosa per McSweeney’s, convinti di non poter cominciare la rivista senza di lui. Per fortuna ci mandò un pezzo immediatamente, a quel punto capimmo che si poteva iniziare. Avevamo davvero bisogno del suo incoraggiamento, del suo nulla osta, perché stavamo cercando, almeno all’inizio, di concentrarci sulla letteratura sperimentale, e in quel campo lui era talmente più avanti di tutti gli altri che senza di lui tutta la nostra impresa sarebbe apparsa ridicola.

    Insieme al primo pezzo ci mandò anche un assegno di 250 dollari. Era una cosa inaudita: insieme al contributo letterario, ne mandava uno finanziario. E così fu il primo benefattore della rivista, anche se insistette perché in quel primo numero la sua donazione restasse anonima. Non mi venne facile incassare quell’assegno: avrei voluto conservarlo, incorniciarlo, passare ore a guardarlo.

    Il biglietto che ci mandò era scritto a corpo 8, in un carattere con le grazie, ed era ritagliato in modo tale che non andasse sprecato neanche un po’ di carta. Non aveva ancora cominciato a usare l’email, cosa che fece solo molto più tardi. Fino a quel momento, spediva buste da Bloomington, Illinois, con dentro un solo foglio, tagliato in modo tale da utilizzare solo la carta strettamente necessaria per quel messaggio. Il resto lo conservava, o lo usava per altre lettere. E così, ti capitava di trovare nella busta un foglietto di dieci centimetri di altezza e venti di larghezza. E, anche in questo caso, non c’era neanche una parola fuori posto.

    Queste lettere diventarono il mio modo di comunicare personalmente con Dave. Anche se lo ammiravo come persona e come scrittore più di quanto sia mai riuscito a dirgli, restammo amici sul piano professionale. Io gli chiedevo di mandarci i suoi pezzi ogni volta che voleva, e tutto quello che ci ha mandato l’abbiamo sempre pubblicato.

    Dave Eggers

    ***

    Era il mio scrittore preferito. Secondo me, fra gli scrittori viventi non aveva uguali. Ci siamo scritti e incontrati di persona diverse volte, ma io mi mettevo sempre a balbettare e mi tremavano le mani. I suoi libri significavano tantissimo per me: ero fondamentalmente una sua fan. Di persona aveva una grande purezza. In sua presenza provavo un senso di vergogna, come se esercitasse una cura meticolosa nel mettere la gente a suo agio. Era esattamente lo stesso tipo di purezza che si trova nei suoi libri: Se proprio dobbiamo dire qualcosa, almeno diciamo solo cose vere.1 È questo il principio su cui si basava la sua scrittura, per come la vedo io. È per questo che i suoi libri mi sembravano così belli, e così essenziali. Con l’unica eccezione di quello sulla matematica, che ero troppo stupida per capire. Un giorno, poco dopo la pubblicazione David mi telefonò, con un sincero tono di scuse, e mi disse: «No, guarda… ti basta sapere la matematica che si studia alle superiori, ti assicuro che anch’io di fatto so soltanto quella». Era molto spiritoso. Era un vero genio, il che in campo letterario è altrettanto raro che essere persone gentili: e lui era anche quello. Era il mio preferito, il mio mito letterario. Lo adoravo, e mi mancherà per sempre.

    1 E diciamole in maniera grammaticalmente corretta.

    Zadie Smith

    ***

    Ecco come sono diventata una traduttrice: nel 1998 ho comprato A Supposedly Fun Thing… in una libreria internazionale di Roma: il primo pezzo mi ha lasciata interdetta, il secondo mi ha tenuta sveglia quasi per tutta una notte, il libro intero mi ha esaltata come forse non aveva mai fatto nessun altro libro prima di allora; io e un mio amico abbiamo sentito dire che una casa editrice cercava un traduttore proprio per quel libro; non avevamo esperienza; gli abbiamo chiesto di farci provare; ci hanno fatto provare; la prova gli è piaciuta. Da allora ho tradotto più di 30 libri dall’inglese all’italiano. Alcune sono opere di narrativa sperimentale, o best-seller di qualità, o candidati al premio Pulitzer, o perfino vincitori del premio Pulitzer, ma di nessuno vado fiera come dei quattri libri di David Foster Wallace su cui ho lavorato. Nessuno è stato altrettanto difficile e gratificante. Su nessuno mi sono impegnata con tanto amore.

    Ogni volta che ho tradotto qualcosa di suo, gli ho mandato delle domande. Lui rispondeva con riluttanza, era in difficoltà, continuava a dire che una certa storia era impossibile da tradurre in maniera dignitosa e fedele – il che a volte mi faceva venire da piangere; e poi scriveva pagine intere per spiegarmi una singola parola o una singola frase, e concludeva dichiarando la sua totale fiducia nelle mie capacità di traduttrice – il che, di nuovo, mi faceva venire le lacrime agli occhi. Per quello che mi è dato capire, il motivo per cui gli veniva così difficile lavorare con i traduttori non è che considerava le sue parole talmente curate e perfette che chiunque altro, lavorandoci sopra, le avrebbe rovinate; piuttosto, aveva soprattutto paura di essere frainteso, male interpretato, o semplicemente incapace di comnicare esattamente ciò che voleva: in altre parole, era votato all’estrema chiarezza, onestà, purezza, a tutti i costi. Ho sempre pensato che la sua scrittura fosse così complessa e ricca di sfumature perché attribuiva un valore profondamente morale all’atto in sé del comunicare un pensiero, un’immagine, un’idea al mondo esterno: non voleva che la gente lo capisse male, che capisse male una qualunque cosa di quelle che diceva o scriveva; e si faceva veramente in quattro per evitarlo. Poteva sembrare geloso delle sue parole, ma in questo atteggiamento io in realtà vedo un altissimo grado di generosità.

    Ho avuto anche la fortuna e l’onore di conoscerlo di persona. L’ultima volta che l’ho visto eravamo a Capri per un festival letterario. Gli ho fatto da interprete in alcune interviste e nell’incontro ufficiale con il pubblico. Era con la moglie (una gran bella persona), e sembrava talmente sereno e rilassato che non ho la forza di pensare che nel profondo non fosse affatto così. Continuava a dire che eravamo vecchi amici (anche se in realtà ci eravamo incontrati solo due o tre volte, e detti poco più che ciao). Mi dava pacche sulle spalle, mi abbracciava, mi scroccava sigarette con un sorriso imbarazzato (aveva smesso di masticare tabacco, ma ancora non poteva fare a meno della nicotina) e mi chiedeva di stargli vicino; una volta, quando mi sembrava di aver combinato un disastro nel fare da interprete a un altro autore, si mise subito a rassicurarmi del fatto che ero andata benissimo. Nonostante si facesse un gran parlare di quanto era a disagio in mezzo alla gente, in realtà aveva un calore e una dolcezza che sarebbero rari da trovare in chiunque – figuriamoci poi in un genio, o nel tuo scrittore preferito. Sul libretto del festival mi scrisse “Per Martina, con immensa gratitudine e affetto”. Nessun sentimento è mai stato così reciproco. Mi mancherà per sempre.

    Martina Testa

    (Traduzione di Martina Testa)

  111. x Rossella
    “Concludo che non occuparsi dei valori dello spirito significa depotenzializzare l’artista di una grande forza, privarlo di quella forza logica ed illuminata che presiede all’autodistruzione ”
    Condivido il tuo pensiero e anche la simpatica strafottenza con cui l’hai proposto. La differenza fra l’arte e le “pugnette” (anche di ottima e strordinaria qualità) sta tutta lì: nella semplice concezione estetica della vita.
    Il “sacro” spirituale , immateriale…insomma lo Spirito, ci è sfuggito da un po’; per l’uomo contemporaneo non è sacro niente, mentre per gli antichi tutto era permeato di valore assoluto. Così noi confondiamo un ombelico per il centro del mondo, come allo stesso modo, consideriamo amici solo chi ci manifesta un assenso compiacente. Non ci poniamo domande se già non conosciamo le risposte, ci difendiamo con codarderia. Poi tutto implode o esplode al manifestarsi delle contraddizioni che pongono domande pressanti, ineludibili.
    C’è molta confusione sul concetto di sacralità, che i più tendono ad identificare con il credere in un dio o avere fede in una religione; oppure in una riduzione volgare e soggettiva per ognuno, è sacro ciò che ci è caro più caro, compresa la curva nord o sud delle partite. Lo smarrimento, che nasce dall’abbandono della spiritualità, ci fa cercare l’assurdo declinato in infinite possibilità rassicuranti. Io che non conosco l’umiltà della preghiera, penso che l’Arte possa aiutare l’Uomo Blemno, quello che nelle antiche miniature è rappresentato con la faccia nel dorso , o che in una versione moderna trova la sua rappresentazione nel manichino . L’arte aiuta lo spirito, animando le nostre domande. Potrei farti anche dei concretissimi esempi…
    Ciao, Miriam Ravasio

  112. Si Miriam hai lucidamente spiegato quanto ho cercato di accennare.
    L’argomento è molto vasto e temo che ci sia un ‘infinita confusione sull’interpretazione di Sacro, come del resto sulla “mistica naturalistica” e su quella cristiana.
    Prendiamo per buono quel che li accomuna, ovvero l’impulso verso il Sacro.
    Grazie
    Ross

  113. Scusate se sembro superficiale e privo di tatto. Dopo aver letto tutti i libri di David Foster Wallace sotto sotto mi sono sempre chiesto: ma adesso cosa gli rimane da scrivere? Una domanda che forse ne sottendeva un’altra: ma adesso cosa gli rimane da vivere? E il fatto che cercasse nuovi spazi espressivi nella matematica mi sembrava l’annuncio di un suo abbandono della letteratura. Che forse sottendeva un abbandono di quella tensione finalistica che sino a quel momento lo aveva tenuto in vita nonostante tutto? Scusate se sembro ancora superficiale e privo di tatto. Mi sembrava un essere e un’artista troppo compiuto e realizzato per continuare a permanere nella dimensione dello scrivere. Forse cercava nuove finalità che non ha trovato? Non passa un giorno che non penso a lui almeno una volta.

  114. Io sto leggendo 2666 del cileno Roberto Bolano, morto nel 2003 a cinquant’anni, per un tumore al fegato.
    Al di là della bellezza, leggibilità e ricchezza di questo immenso (1100 pagine) romanzo postumo, penso al Bolano uomo. Quand’era malato e in attesa del trapianto di fegato, pensò di scrivere qualcosa che potesse rappresentarlo pienamente. Ma anche garantire denaro a se e alla propria famiglia durante la lunga (sperava) convalescenza. Così, lavorò a questi cinque romanzi (La parte dei critici, La parte di Amalfitano, La parte di Fate, La parte dei delitti, La parte di Arcimboldi) che costituiscono il ciclo di 2666.
    Poi, purtroppo, le cose andarono diversamente: la morte arrivò prima del trapianto, il libro uscì postumo.
    Ed è un capolavoro. Ma chi ha già letto qualcosa di Roberto Bolano (ad esempio “I detective selvaggi”) lo può immaginare: grande scrittura, vivo senso della suspense e del mistero, ironia e malinconia, un continuo guardare nell’abisso che circonda le nostre vite, storie che germinano altre storie, libri che portano ad altri libri, erotismo, la violenza del potere, la fragilità del nostro essere, il caso che ci corre dietro, formidabile capacità di affabulazione, ritmo musicale fra tango jazz e rock, ambientazioni internazionali, la nostalgia dell’esule, l’amicizia tradita…
    Che perdita, la morte di Bolano.

  115. Bolano è un grandissimo scrittore. Rivitalizza di nuovo la letteratura latinoamericana, ricca di numerosi autori eccellenti oscurati forse da manovre editoriali che hanno lasciato apparire eccessivamente, negli ultimi decenni, solo alcuni nomi (Marquez soprattutto). Si è lasciata così in ombra la complessità di tale letteratura, ed alcuni grandi scrittori sono quasi del tutto sconosciuti in Italia. Chi conosce, per esempio, un autore come Felisberto Hernandez?

  116. Non so che c’entri qui, nel post dedicato a Foster Wallace, ma ovunque ci sia da elogiare Bolano io accorro e sottoscrivo. Ho letto ormai tutto del cileno che oggi sarebbe mio coetaneo se la morte non se lo fosse portato via, salvo “La letteratura nazista in America” che non sono ancora riuscito a trovare, e questo secondo tomo di 2666 che ho appena comprato e che mi cullo in attesa di dare il via alla sua lettura.
    E’ uno scrittore immenso, uno dei dei vertici assoluti della letteratura del periodo a cavallo tra i due secoli. L’ho conosciuto solo lo scorso anno, ma la voglia di leggerlo tutto è stata fulminante. O lo sia ama o lo si detesta, senza mezze misure. Io naturalmente…. (lo avrete capito), e d’un tratto sento un gran senso di fratellanza con Luciano/Idefix.

  117. Miriam,
    l’umilta’ della preghiera e’ completamente interna alla sacralita’ del tutto. Sono due fattori mancandone uno dei quali crolla tutto.

  118. Anche se siamo un po’ off topic dico che dovremmo organizzare un bel dibattito sulla figura di Roberto Bolano e sul suo 2666.
    Eh, sì… credo proprio che lo faremo.

  119. @ Carlo
    Immagino che Luciano intendesse dire che, nonostante la malattia mortale Bolagno – a differenza di altri – non si è suicidato.
    Il che, è vero. Ma è anche vero che, a volte, la depressione può essere una malattia più mortale di un tumore.
    In ogni caso grazie mille, caro Luciano… Bolano merita.

  120. Questo scrittore mi ha fatto innamorare del Termine EMPATIA…..Non riesco ancora ,nonostante sia passato del tempo,a farmene una ragione.
    Pensavo che la sua Enorme testa potesse durare in eterno…davvero!!!
    Invece ha lasciato tutti in questo Pozzo di Merda….senza più il suo grande occhio siamo perduti.
    Riposa in pace…Dovunque tu sia.
    Con affetto…
    Ste

  121. …posson bastare 1400 e più pagine a riempire il vuoto, a stordire la mente e ingannare il dolore?
    ….può la scrittura esser una via di fuga dal mal di vivere?

    esiste un destino prestabilito e può esser cambiato?

    il pensiero è cibo per la mente come l’amore per l’anima?

    e la sua bandana un feticcio o un modo per richiamare attenzione…
    la vita e l’opera di David apre un orizzonte di domande alle quali non c’è una risposta giusta, solo una personale percezione

  122. Il 12 settembre 2008 moriva lo scrittore statunitense David Foster Wallace (nato il 21 febbraio 1962), autore di opere importanti come “La scopa del sistema“, “La ragazza con i capelli strani“, “Infinite Jest” (giusto per citarne qualcuna).
    [Ne avevamo parlato in questo vecchio post che ho ri-proposto]

  123. DFW è un genio. E come tale fa discutere, nel senso che non piace a tutti.
    Bene così.
    Vien da pensare le solite banalità. Cioè, se fosse vivo (visto che se ne è andato in giovane età) chissà cos’altro avrebbe scritto.

  124. Va be’, comunque son banalità. Se ho tempo domani vorrei lasciare qui qualche citazione, qualche frase tratta dai suoi libri.

  125. Ciao. Condivido una curisosità. David Foster Wallace, di cognome in realtà fa solo Wallace. Foster è il cognome della madre.

  126. Non finisce qui.
    Ne “Il re pallido”, David, scrive che ha deciso di anteporre il cognome della madre a quello del padre nel firmare i propri testi a seguito di un episodio avvenuto nella sua esperienza lavorativa presso l’Internal Revenue Service americano, nel quale la sua confusione con un omonimo aveva determinato una serie di spiacevoli conseguenze.

  127. Ovviamente non è vero.
    In realtà gli eventi che lo scrittore descrive nel romanzo sono fittizi e atti a costruire una parvenza di realismo dell’intera vicenda narrata, David Foster Wallace di fatto non ha mai lavorato per l’Internal Revenue Service.
    Però DFW è meglio di DW.

  128. mah! secondo me molti di coloro che sostengono di aver letto “infinite jest” equivalgono a coloro affermano di aver letto “Ulisse” di Joyce o “l’uomo senza qualità” di Musil.

  129. Buon giorno. Io considero DFW uno dei massimi autori affacciatisi nel panorma internazionale letterario del nuovo millennio.
    Non so se può essere interessante saperlo, comunque Foster Wallace è considerato uno dei rappresentanti della corrente letteraria Avantpop: movimento artistico statunitense scaturito dal postmodernismo negli anni novanta del XX secolo.

    Non so se vi può interessare, ma dato che in un certo senso me ne occupo per ragioni di studio lascio qualche informazione sull’Avantpop.

  130. In linea generale la corrente letteraria Avantpop è caratterizzato dall’uso di materiali provenienti dai mass media (cinema, musica pop, televisione, fumetti, internet, videogiochi), montati soprattutto in testi letterari nei quali si adottano tecniche narrative e testuali prese dalle avanguardie. Un manifesto del movimento (“Avant-Pop Manifesto: Thread Baring Itself In Ten Quick Posts”), scritto dall’autore americano Mark Amerika, è reperibile su internet: http://www.altx.com/manifestos/avant.pop.manifesto.html

  131. Il nome del movimento deriva soprattutto da un album del jazzista statunitense Lester Bowie, dal titolo “Avant Pop – Brass Fantasy”, del 1986, nel quale brani pop vengono riarrangiati per un ensemble di ottoni.

    Oltre a David Foster Wallace altri rappresentanti del movimento sono, tra gli altri, gli scrittori Kathy Acker, Jonathan Lethem, Steve Erickson, Matt Ruff, Patricia Anthony, Lewis Shiner, Joe R. Lansdale, William T. Vollmann, Douglas Cooper. Antesignani del movimento sono alcuni scrittori di genere come Harlan Ellison e Philip K. Dick (soprattutto nella sua Trilogia di Valis), o scrittori postmoderni quali Kurt Vonnegut e Thomas Pynchon (specialmente i suoi due romanzi Vineland, del 1990, e Mason & Dixon, del 1997).

  132. Nel cinema sono caratterizzati da sensibilità avantpop i registi Quentin Tarantino, Robert Rodriguez, i fratelli Coen, il serbo Emir Kusturica.

    In Italia il movimento Avantpop ha trovato espressione nella collana omonima dell’editore Fanucci di Roma, curata tra il 1999 e il 2004 da Luca Briasco e Mattia Carratello, che ha pubblicato diversi degli autori sopra citati, e soprattutto l’antologia avant-pop Schegge d’America. Nuove avanguardie letterarie (1998) curata dal critico americano Larry McCaffery.

  133. Interessanti i post di Cigliano.
    Comunque io nutro una personale orticaria per le correnti letterarie.
    Secondo me un grande scrittore è tale per il suo talento personale. Tentare di incasellarlo in una corrente finisce con lo sminuirne il valore.

  134. Dico solo che “La scopa del sistema” mi sembra un titolo geniale, che già da solo la dice lunga sulla qualità dell’autore.

  135. A cinque anni dalla morte, David Foster Wallace rimane una figura centrale della cultura contemporanea per la capacità di raccontarne i nodi irrisolti e le ambizioni, i sogni e gli incubi. Raccontarli, certo, ma anche incarnarli in una vita intensa, percorsa e scossa dall’esaltazione creativa quanto dai fantasmi della depressione e della solitudine. Attingendo ai materiali conservati presso l’università di Austin e a testimonianze dirette di amici, parenti e colleghi scrittori, D. T. Max ricostruisce il percorso intellettuale e umano di DFW, i rapporti con i padri letterari, la vicenda clinica e la dimensione pubblica. Guidato dalla volontà di capire e analizzare le radici, le ragioni, i meccanismi di una mente geniale e complessa, fragile e dolce.

  136. D. T. Max è nato e cresciuto a New York. Dopo essersi laureato a Harvard, ha cominciato a scrivere per il «New York Observer», il «New Yorker» e il «New York Times Magazine». Il suo libro precedente era un saggio dal titolo “The Family that Couldn’t Sleep. A Medical Mistery” (2007). Nel 2013 ha pubblicato per Einaudi Stile libero “Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi”. Attualmente vive in New Jersey.

  137. Verso Wallace non si prova la mera curiosità morbosa che tipicamente investe la vita delle star (e Wallace una star lo era, volente o nolente, comunque dolente). Agisce invece un meccanismo di relazione letteraria fra autore e lettore innescato dallo stesso (e pur schivo) Wallace. La sua morte ha infine evidenziato i punti di contatto fra le vicende di dipendenza e di paralisi relazionali di cui scriveva e quelle che viveva. Difficile attenersi alle prime, come se le seconde non vi fossero impigliate intrinsecamente. […] Informatissimo, asciutto eppure struggente, il libro di D. T. Max mostra come Wallace sia stato autore anche di se stesso. In effetti un personaggio di nome David Wallace compare nel cruciale racconto «Caro vecchio neon», addirittura due nel romanzo incompiuto «Il re pallido». Ma Wallace è stato un personaggio inventato da David Foster Wallace anche in molti altri sensi: con le proiezioni, bugie, debolezze, nascondimenti, appropriazioni che ritroviamo nell’”altra” sua opera, composta di lettere, conversazioni, apparizioni pubbliche, lezioni universitarie.

    (Stefano Bartezzaghi, «la Repubblica»)

  138. La convinzione che «ogni storia d’amore è una storia di fantasmi» accompagnò David Foster Wallace fin dagli esordi della sua carriera letteraria. La frase compare già in una lettera che risale ai tempi della specializzazione all’Università dell’Arizona, e vent’anni dopo Wallace la fece scivolare nel Re pallido.

    Ma rincorrere un fantasma, e farlo per amore, è anche la descrizione perfetta di ciò che ha significato per D. T. Max – saggista e collaboratore del «New Yorker», del «New York Times Magazine» e del «New York Observer» – ricostruire la vita di Wallace.

    «Io e David Foster Wallace non ci siamo mai conosciuti di persona, – scrive Max nella nota che accompagna la biografia. – Ci siamo andati vicino alla festa per “Infinite Jest” del 1996, lo stesso party promozionale per la pubblicazione del romanzo di cui David scrisse a DeLillo, l’unico a cui avesse mai partecipato e “se Dio esiste, allora sarà anche l’ultimo”. Al tempo avevo ricevuto l’incarico di scrivere di “Infinite Jest” per la rivista per cui lavoravo in qualità di editor per i servizi di approfondimento, dunque mi trovavo nel grande locale insieme ad altre centinaia di persone e sono rimasto colpito nel vedere quel giovane massiccio e dalla chioma ispida, con indosso una bandana, una camicia malmessa, occhialetti e l’espressione di un cervo che vorrebbe essere in qualunque altra parte del mondo piuttosto che sulla strada dove si è ritrovato. Era di fronte a me, di là dell’immensa pista da ballo illuminata dai riflettori. O almeno è così che lo ricordo».

  139. Per mettere a fuoco un fantasma, il biografo deve farlo parlare. Nel caso di Wallace, D. T. Max ha passato anni alla ricerca di tracce della sua voce. Le ha trovate nelle sue opere, che ripercorre con metodo e passione, ricostruendo, dai primi racconti fino a Il re pallido, il percorso di crescita letteraria (e editoriale ) di Wallace, e le ha trovate nella montagna di documenti autografi conservati dall’università di Austin: bozze, lettere, pagine di diario, annotazioni.

    Ma un altro modo di far parlare un fantasma è ascoltare la voce di chi lo ha conosciuto: gli amici, la famiglia, i colleghi. Ci sono i racconti della moglie Karen Green e quelli di Bonnie Nadell, l’agente letteraria che l’ha seguito per tutta la carriera. E le testimonianze dei suoi amici scrittori Mark Costello, Heather Aronson, e naturalmente Jonathan Franzen, «miglior compare e rivale letterario» di Wallace, secondo la sua definizione, e la poetessa e scrittrice Mary Karr, che ebbe un ruolo decisivo nella prima parte della sua vita. E poi ci sono le lettere, scritte e ricevute, ad esempio quelle di Don DeLillo, Dave Eggers, Jeffrey Eugenides, Richard Powers, George Saunders, David Sedaris, solo per citarne alcuni.

  140. E ancora gli editor, gli studiosi, persino gli stessi lettori di Wallace, che hanno messo a disposizione le loro ricerche e le loro osservazioni.

    «Ho finalmente capito perché la sezione dei ringraziamenti delle biografie è sempre così corposa – scrive Max. – La biografia è uno sforzo congiunto, un esercizio di memoria collettiva. E se per scrivere una biografia serve la popolazione di un paesino, per scrivere la prima biografia di un personaggio complesso quanto David serve una città».

    Dall’infanzia agli studi in filosofia ad Amherst, dalla fascinazione irresistibile per la matematica ai primi tentativi letterari, dal rapporto con i genitori a quello con i maestri, dal turbinio degli anni a Boston e a Syracuse fino al successo editoriale e alla lotta estenuante contro la depressione e le dipendenze, D. T. Max cuce insieme i fatti della vita e quelli della letteratura, rintracciando echi e risonanze («Mi sono spesso meravigliato della maniera formidabile in cui riusciva a trasformare in fiction le cose che vedeva attorno a sé», scrive), ma evitando con grande sensibilità ed equilibrio le tentazioni opposte dell’agiografia e della dissacrazione.

  141. E man mano che il fantasma prende corpo, nel biografo aumenta l’amore: «Più cose ho imparato sulla vita di David maggiore è il rispetto che nutro nei suoi confronti come scrittore – ha dichiarato Max in una bella intervista. – Dico sempre che una biografia riesce a dirti tutto quello che vuoi sapere tranne l’unica cosa che davvero vuoi sapere: in cosa consista il genio. Di fronte a questo, come forse Freud potrebbe aver detto, il biografo deve arrendersi». All’ innamorato, invece, restano le opere. Da tornare a leggere, ora, sotto una luce nuova.

    http://archivio-dfw.tumblr.com/post/50664853934/qualche-domanda-a-d-t-max

  142. «Memoir, tasse, nichilismo, formule matematiche, fantasmi. Temo di avervi confuso le idee. Che cos’è dunque “Il re pallido”? È un’opera straordinaria, ecco cos’è. Un’opera libera e inclassificabile, che del libro ha soltanto la forma anatomica e di cui intuiamo appena un briciolo della portata». Così, nel 2011, scriveva Paolo Giordano sulle pagine del Corriere della Sera.

    http://www.einaudi.it/speciali/L-impiegato-delle-tasse-ci-racconta-la-vita

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