Nel primo appuntamento del nuovo spazio di Letteratitudine dedicato alla “Saggistica Letteraria” diamo spazio al volume “DESIDERARE INVANO. Il Faust in Goethe e altrove” di Francesco Roat (Moretti & Vitali).
Di seguito: una nota sul libro (tratta dalla postfazione di Flavio Ermini), un intervento dell’autore (predisposto in esclusiva per Letteratitudine, in cui ci racconta qualcosa sul volume) e un estratto del libro.
Massimo Maugeri
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Dalla postfazione di Flavio Ermini
La leggenda del patto tra Faust e il demonio può essere letta come un mito: ovvero come una narrazione primordiale, grazie alla quale interrogarci sulla natura dell’essere umano e finanche sulla sua essenza.
È quanto fa Francesco Roat in Desiderare invano, seguendo passo per passo la vicenda narrata da Goethe, ma senza dimenticare – in frequenti, vertiginosi excursus – le tante altre opere letterarie, teatrali o musicali ispirate alla figura dello studioso che sottoscrive il più celebre dei patti stipulati tra l’essere umano e il diavolo. È lucidissima, a questo proposito, la riflessione che l’autore mette in campo intorno alle forme del desiderio e ai suoi aspetti irrisolti e paradossali.
Il desiderio di conoscere ogni cosa e di carpire tutti i misteri del mondo è un’ambizione che eccede l’umano e si traduce, come osserva Roat, “non già in un anelito sovrumano quanto disumano”! L’umanità sta da un’altra parte. Si rivela solo affrancandosi dalle illusioni.
Ritenere di poter sfuggire all’esperienza della morte e del dolore è perversione, è tradimento, è corteggiare un precipizio. Solo la coscienza della profonda unità del cosmo – alla quale siamo chiamati nascendo – può placare l’angoscia della caducità e può consentirci di abbracciare una visione della vita che sposti l’accento sul morire come legge dell’esistenza; può indurci a prendere consapevolezza dell’impossibilità di ogni assoluto, di ogni eterno piacere. Può consentirci di abbracciare i chiaroscuri di una persistente umbratilità.
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Francesco Roat ci “racconta” DESIDERARE INVANO
di Francesco Roat
Il mito di Faust nasce a cavallo tra la fine del medioevo e l’inizio dell’età moderna, ma la storia dell’uomo che ha venduto la propria anima al diavolo è riconducibile a un personaggio realmente vissuto, riferendosi al negromante e astrologo tedesco Johann Faust (1480-1540); anche se in essa non mancano rimandi a racconti e a mitologemi di derivazione ancora più remota.Nel mio saggio (“Desiderare invano. Il mito di Faust in Goethe e altrove”, edito da Moretti&Vitali) sostengo, sulla scia di André Neher, che quello faustiano sia “il mito dell’uomo moderno” per antonomasia, incarnando il suo protagonista il desiderio di affrancarsi dai retaggi dogmatici e l’urgenza di tendere in modo inesausto a superare ogni limite: atteggiamento spesso destinato a tradursi in velleitario desiderio d’onnipotenza, il quale trova la sua massima espressione storica non tanto nell’Übermensch nicciano, quanto nell’aberrazione che di tale figura ha prodotto il nazismo.
Faust è però anche l’anticonformista che vuole gustare ogni piacere, appagare ogni istinto o voglia. Al contempo egli esprime l’insoddisfazione dell’individuo perennemente inquieto e mai davvero pago di nulla. Il mito di Faust – è dunque la tesi del saggio − fornisce una chiave di lettura dell’uomo occidentale post/tardo-moderno agli inizi del terzo millennio: incline al disincanto e deluso da ogni “credo” ideologico, monade imbozzolata nella sua chiusura all’insegna d’un narcisismo tendente alla reificazione dell’altro da sé e tutto preso da una perenne tensione desiderante; quando non si lasci irretire dal tedium vitae o, peggio ancora, da un nichilismo mortifero.
Il mio libro intende perciò esplorare ciò che è sotteso all’inquietudine desiderante di Faust (lo Streben), ovvero una hybris antica quanto l’uomo o forse ancor di più. Non a caso il primo personaggio preso in esame dal testo è Lucifero, che – nell’ambito della cultura giudaico-cristiana – rappresenta la scaturigine del male in quanto espressione di somma tracotanza. Ѐ Lucifero infatti a indurre la coppia primordiale umana all’illusoria speranza di divenir pari a Dio. Seconda figura mitologica cruciale risulta – qui, accanto ad altre − quella di Prometeo, il cui titanismo/superomismo (espressione dell’eccesso e della dismisura) finisce per alienare l’uomo da ciò che gli è più proprio: il limite, la vulnerabilità e la caducità.
Vengono quindi analizzati due aspetti basilari del carattere faustiano: il nichilismo e la Stimmung melanconica. Tratti significativi dell’irrisolutezza e debolezza del “sentire” faustiano; e del bisogno d’ancorarsi a un alter ego che nel mito in questione assume i panni del demonio Mefistofele − secondo Goethe: “lo spirito che sempre nega” − istigando Faust a firmare col proprio sangue il noto patto, in seguito al quale egli sarà disposto a cedere l’anima al diavolo se riuscirà a gustare un del tutto appagante “attimo bello”.
Fulcro centrale dell’opera è costituito da un’ampia riflessione intorno al desiderio e ai suoi aspetti irrisolti e paradossali. Soprattutto nei confronti del desiderio per antonomasia, quello amoroso, che qui annovera tra i suoi estimatori personaggi che vanno da Orfeo a Don Giovanni, dalla Diotima del Convivio platonico a Elena di Troia: archetipo ineguagliabile di bellezza muliebre.
Dopo aver trattato dell’invidia quale contraltare patologico del desiderio, un capitolo è dedicato ai due volti antitetici della “cura” (angoscia e sollecitudine) prendendo spunto dalla lezione di Heidegger e facendo riferimento a una delle scene più inquietanti del Faust di Goethe. Mentre l’ultima parte del saggio è rivolta alla disamina della conclusione del capolavoro goethiano in cui compaiono figure allusive e simboliche, forti d’una intensissima espressività poetico-metaforica, in grado di accennare – come non può il discorso saccente della razionalità − all’indicibile della metafisica.
Per terminare infine la lettura del mito faustiano suggerendo la possibilità d’una terza via tra la hybris − tesa a oltrepassare ogni limite, illudendoci di poter abolire la weiliana necessità ineludibile − e l’inerzia sterile dell’autocompiacimento o del disincanto, auspicando la nascita di una nuova parola che sappia andare oltre logos e mithos senza però la tracotanza d’impossibili svelamenti definitivi. Poiché non si tratta più per noi di far chiara luce; piuttosto d’abitare i chiaroscuri di un’umbratilità destinata a rimanere tale in quanto mai totalmente illuminabile dal faro abbacinante della ragione o dalla visionarietà estatica.
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UN ESTRATTO di DESIDERARE INVANO. Il Faust in Goethe e altrove” di Francesco Roat (Moretti & Vitali).
Riacquistare la giovinezza perduta
Nel capolavoro goethiano il primo intervento compiuto da Mefistofele
è una trasmutazione prodigiosa. Con una sorta di pseudomiracolo,
il demonio − nella “cantina di Auerbach a Lipsia” (Auerbachs
Keller in Leipzig) dove i due compari si sono recati − riesce
a far sgorgare del vino da un tavolo che egli ha perforato con un
“succhiello” (Bohrer). È una chiara allusione/profanazione rispetto
al primo miracolo compiuto da Cristo, quello delle “nozze di
Cana” (Gv. 2, 1-11), nel quale Gesù trasforma dell’acqua in vino.
Va tenuto conto che sin dall’Antico Testamento il vino – immaginificamente
– indicava il legame sponsale tra il popolo eletto e
YHWH, e nel Nuovo Testamento non si fa che ribadire come il
vino sia simbolo dell’amore di Dio e del Figlio verso gli uomini.
L’ultima cena, poi, segnerà l’apoteosi di questa antica metafora;
in quanto nell’eucarestia il Cristo, mediante la transustanziazione,
muterà il vino nel proprio sangue, offerto in dono ai credenti.
Mefistofele dunque appare qui come simia Christi, quale fraudolento
e goffo contraffattore evangelico. Il suo trucco illusionistico
però non soddisfa per nulla Faust, che non mostra stupore
o interesse per quella specie di “miracolo” (Wunder) da baraccone.
Anzi egli dice in modo sbrigativo al suo servitore di voler
allontanarsi dalla bettola: «Ora io avrei voglia di andar via». La
mera ebbrezza non riesce perciò ad appagare minimamente il magister
e il primo atto diabolico si conclude in un nulla di fatto. Da
qui la seconda carta giocata da Mefistofele, che è poi quella di far
ringiovanire Faust. Così i due si recheranno in una “cucina di strega”
(Hexenküche), dove l’attempato dottore berrà una magica “pozione”
(Trank) destinata a svecchiarlo in un baleno di vari decenni.
Il desiderio di tornare (o rimanere) giovani è forse antico quanto
l’umanità. A livello mitologico, presso diverse antiche culture
– tanto in Europa che in Asia, quanto in America −, è possibile
rinvenire numerose varianti relative alla ricerca della favolosa fonte
(o sorgente) della giovinezza, che consentirebbe a chi beve (o si
asperge) di quell’acqua l’ottenimento dell’eterna gioventù, della
salute e persino dell’immortalità. Tali leggende sono strettamente
legate al mito di Faust, il quale, grazie alla magia, ottiene
di ringiovanire: sogno oggi quanto mai vagheggiato da chi cerca
soluzioni altrettanto miracolistiche attraverso la chirurgia estetica
e la cosmesi o spera in utopistici prodigi biotecnologici. Ma la
realizzazione d’una più o meno perpetua giovinezza e/o il (per ora
solo fantascientifico) prolungamento ad libitum dell’esistenza potrebbe
comportare cosa? Se lo è chiesto anche Naief Yehya, in un
recente saggio intorno ai futuribili e inquietanti scenari del corpo
postumano, e questa è la sua risposta: «È indubbio che la prospettiva
di cambiare corpo come si cambia auto o appartamento è affascinante,
ma che ne sarà dello spirito umano in un mondo senza
vecchiaia dove si potrà comprare la vita eterna?». E abbozza una
risposta concludendo che la specie Homo sapiens: «Si definisce
attraverso la preminenza e l’irreversibilità dei cicli vitali. La mortalità
e la certezza del fatto che ogni istante è unico, e che la vita
è irripetibile e preziosa. In un mondo dal quale sia stata sradicata
la tragedia umana, morire senza lasciare traccia sarà forse l’unico
atto rivoluzionario».
Ma se non ci è dato sapere cosa accadrà all’Homo cyborg, siamo
però a conoscenza di quel che è successo a Faust, il quale, pur
riacquistando la giovinezza, non l’ha certo ritenuta appagamento
bastevole al suo Streben. Di conseguenza Mefistofele è costretto
a giocare una terza carta: quella con cui cercherà di saziare l’appetito
sessuale del suo protetto e altresì la brama di conquistare e
far propria una ragazza “così modesta e così virtuosa” (so sitt- und
tugendreich), quale l’inesperta Margherita. Ciononostante − come
potrà immaginare anche chi non conosca la trama del Faust − neppure
aver sedotto la giovane farà dire all’uomo: «Attimo: resta, sei
così bello!».
E la prima parte dell’opera di Goethe termina piuttosto con la
reiterata/scontata frustrazione/insoddisfazione del protagonista. A
ben poco è valso proporre al nostro dottore la troppo facile ebbrezza
della droga alcolica, farlo apparentemente/esteriormente
ringiovanire (è però possibile, a onta della magia mefistofelica, che
l’anziano accademico − tornato giovane solo nel fisico, ma rimasto
a livello mentale il vecchio magister di prima – sia davvero ringiovanito?)
e infine fargli sedurre una pur splendida adolescente. Unico
scopo raggiunto da Mefistofele è alimentare e far perdurare la spirale
perversa costituita dal reiterarsi di brama-appagamento-nuova
brama. Il misero Faust lo comprende perfettamente, ma l’averne
coscienza non basta a fare in modo che il circolo vizioso s’interrompa.
E: «Così trascorro dal desiderio al godimento, / e nel godimento,
anelo al desiderio», confessa il protagonista, incapace di
sottrarsi alla folle giostra del desiderare invano.
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Francesco Roat – narratore, saggista e critico letterario trentino –, già insegnante di lettere nella Scuola Secondaria e consulente editoriale, si occupa di cultura su quotidiani, settimanali e riviste. (Suoi interventi sono apparsi su: L’Adige, L’Alto Adige, Avvenimenti, Carta, Caffè Europa, Cafè letterario di Alice, Che libri, Diario, Il Manifesto, Il Mucchio selvaggio, Il Nuovo, Il Sussidiario, Il Trentino, Inchiostro, Leggere, Liberazione, Liberal, L’Immaginazione, L’Indice, Linea d’ombra, L’Unità, Nautilus, Pickwick, Pulp, Stilos, Web Magazine, Wuz). Ha pubblicato il libro di racconti Tra-guardo (Argo) – i romanzi: Una donna sbagliata (Avagliano),Amor ch’a nullo amato (Manni), Tre storie belle (Travenbooks), I giocattoli di Auschwitz (Lindau), Hitler mon amour (Avagliano) – i saggi: L’ape di luglio che scotta – Anna Maria Farabbi poeta(Lietocolle), Le Elegie di Rilke tra angeli e finitudine (Alpha-Beta), La pienezza del vuoto – Tracce mistiche negli scritti di Robert Walser (Vox Populi). A gennaio del 2015 verrà pubblicato il nuovo saggio: Desiderare invano. Il mito di Faust in Goethe e altrove (Moretti&Vitali). Un suo romanzo (Tre storie belle), recentemente tradotto in tedesco, è stato presente all’ultima Fiera del Libro di Francoforte. L’autore sta inoltre curando per l’Ed. Lietocolle una nuova traduzione delle “Poesie della torre”, di Hoelderlin. (Francesco Roat dedica inoltre gratuitamente parte del suo tempo al volontariato in ambito sanitario-assistenziale: presso l’Ospedale S. Chiara, l’Hospice, nonché il Centro diurno Alzheimer di Trento). La sua opera più recente è il romanzo “HITLER MON AMOUR” (Avagliano)
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