La nuova puntata di “Di-versi irrequieti“, spazio collegato alla rubrica “POESIA” di Letteratitudine, è dedicata ad Amelia Rosselli
* * *
Amelia Rosselli, poeta libellula
Non ne vogliano i pasdaran della grammatica, se questa rubrica chiama Amelia Rosselli (e lo farà con tutte le altre scrittrici di versi che deciderà di raccontare) poeta e non poetessa. Nella fragile e burbera Amelia la poesia s’accampò come assoluto declinare dell’esistenza. Amelia Rosselli fu un’apolide del verso: lo incarnò nella musica (era una studiosa di musicologia) in un mutuo simbolismo dei metri, lo dispiegò tra i gangli della sua malattia (la diversità del suo stare al mondo tra depressione e schizofrenia fu di-versità), lo rese materico e incorporeo assieme quasi per eludere il destino. “La libellula” è il poema che la rese celebre e cui affidò la metafora biografica e intellettuale. Libertà ed equilibrio, evocati dal leggendario insetto, sono i due confini entro cui si mosse la vita di Amelia Rosselli. Nata a Parigi nel 1930 da Carlo Rosselli e dall’inglese Marion Cave, Amelia assume su di sé una tragedia familiare (l’assassinio del padre e dello zio Nello per ordine di Mussolini nel 1937) senza una precisa consapevolezza della tragedia politica, assente nelle sue poesie. Il piglio di Montale è anche qui, nel metabolizzare la storia dentro la condizione umana. Le sedute di psicoanalisi, l’identificazione con la madre, l’ingombro forse della figura volitiva della nonna (quell’Amelia Rosselli con cui l’adolescente Moravia tenne un carteggio interessante e da riscoprire), la ricerca del padre negli uomini che volle – Carlo Levi e Renato Guttuso -, l’amicizia imberbe con Rocco Scotellaro, la specularità con Sylvia Plath che ne detta forse anche il suicidio a soli 66 anni. Un movimento sperimentale intorno a se stessa che Amelia Rosselli riprende proprio nell’opera “La libellula”, cominciata nel 1958 e poi inserita in “Scritti ospedalieri” del 1966. Sperimentale se Amelia Rosselli, prima di abdicare al verso libero, senza poi contrapporvi un verso nuovo né tornare al metro classico, lo adottò nel poema come elemento fisico costruito sulle parole e non sulle sillabe (il cubo teorizzato in “Spazi metrici”) e sull’immagine del giro.
“La libellula (Panegirico della libertà)”
Fluisce tra me e te nel subacqueo un chiarore
che deforma, un chiarore che deforma ogni passata
esperienza e la distorce in un fraseggiare mobile,
distorto, inesperto, espertissimo linguaggio
dell’adolescenza! Difficilissima lingua del povero!
rovente muro del solitario! strappanti intenti
cannibaleschi, oh la serie delle divisioni fuori
del tempo. Dissipa tu se tu vuoi questa debole
vita che non si lagna. Che ci resta. Dissipa
tu il pudore della mia verginità; dissipa tu
la resa del corpo al nemico. Dissipa tu la mia effige,
dissipa il remo che batte sul ramo in disparte.
Dissipa tu se tu vuoi questa dissipata vita dissipa
tu le mie cangianti ragioni, dissipa il numero
troppo elevato di richieste che m’agonizzano:
dissipa l’orrore, sposta l’orrore al bene. Dissipa
tu se tu vuoi questa debole vita che si lagna,
ma io non ti trovo e non so dissiparmi. Dissipa
tu, se tu puoi, se tu sai, se ne hai il tempo
e la voglia, se è il caso, se è possibile, se
non debolmente ti lagni, questa mia vita che
non si lagna. Dissipa tu la montagna che m’impedisce
di vederti o di avanzare; nulla si può dissipare
che già non sia sfiaccato. Dissipa tu se tu
vuoi questa mia debole vita che s’incanta ad
ogni passaggio di debole bellezza; dissipa tu
se tu vuoi questo mio incantarsi, – dissipa tu
se tu vuoi la mia eterna ricerca del bello e
del buono e dei parassiti. Dissipa tu se tu puoi
la mia fanciullaggine; dissipa tu se tu vuoi,
o puoi, il mio incanto di te, che non è finito:
il mio sogno di te che tu devi per forza assecondare,
per diminuire. Dissipa se tu puoi la forza che
mi congiunge a te: dissipa l’orrore che mi ritorna
a te. Lascia che l’ardore si faccia misericordia,
lascia che il coraggio si smonti in minuscole
parti, lascia l’inverno stirarsi importante nelle
sue celle, lascia la primavera portare via il
seme dell’indolenza, lascia l’estate bruciare
violenta e incauta; lascia l’inverno tornare
disfatto e squillante, lascia tutto – ritorna
a me; lascia l’inverno riposare sul suo letto
di fiume secco; lascia tutto, e ritorna alla
notte delicata delle mie mani. Lascia il sapore
della gloria ad altri, lascia l’uragano sfogarsi.
Lascia l’innocenza e ritorna al buio, lascia
l’incontro e ritorna alla luce. Lascia le maniglie
che coprono il sacramento, lascia il ritardo
che rovina il pomeriggio. Lascia, ritorna, paga,
disfa la luce, disfa la notte e l’incontro, lascia
nidi di speranze, e ritorna al buio, lascia credere
che la luce sia un eterno paragone.
Nella poesia lo spostamento della posizione anaforica crea il giro come vortice sonoro ed esistenziale al tempo stesso, esaltato da una punteggiatura immeditata come un singhiozzo dell’anima. Una poesia d’amore dove ancora una volta si sente l’eco del secondo e terzo Montale, quello dell’anguilla e del visiting angel.
E se il mare che
fu quella lontana bestia nascosta mi dicesse
cos’è che fa quel gran ansare, gli risponderei
ma lasciami tranquilla, non ne posso più della
tua lungaggine. Ma lui sa meglio di me quali
sono le virtù dell’uomo. Io gli dico che è più
felice la tarantola nel suo privato giardino,
lui risponde ma tu non sai prendere. Le redini
si staccano se non mi attengo al potere della
razionalità lo so tu lo sai lo sanno alcuni ma
ugualmente la cara tenda degli scontenti a volte
perfora anche i miei sogni. E tu lo sai. E io
lo so ma l’avanguardia è ancora cavalcioni su
de le mie spalle e ride e sputa come una vecchia
fattucchiera, e nemmeno io so dove è che debbo
prendere il tram per arricchire i tuoi sogni,
e le mie stelle. Ma tu vedi allora che ho perso
anche io le leggiadre risplendenti capacità di
chi sa fregarsene. Debbo mangiare. Tu devi correre.
Io debbo alzar. Tu devi correre con la coda penzoloni.
Qui le immagini “della tarantola nel suo privato giardino” e dell’insoffribile “lungaggine” del mare sono variazioni musicali camuffate e nello stesso tempo confliggenti stati emotivi: “io non so se io rimo per incanto o per travagliata/pena” scriverà più avanti Amelia Rosselli. Ed è questa una dichiarazione di poetica che tanto dovette piacere a Pier Paolo Pasolini poeta. Pasolini che definì il linguaggio di Rosselli “così potentemente amorfo, così oggettivamente superbo”, Pasolini che ispirò con “Le ceneri di Gramsci” la forma poema di “La libellula”, Pasolini che c’è in questi versi:
E tu sedevi sicuro sul tuo ponte da falegname,
sicuro di ritrovarti nell’infinito. Io ne ho
perso le vie. Tu ancora ti dibatti: io non posso
più ricordare d’esistere. La miscela è troppo
fine: il ricordo è troppo tagliente: l’incastro
è troppo vivido. La luna (ed ora oso vederla)
è troppo triste. La luna pende. Io muoio. Gli
uccelli si dibattono. La malattia non ha diritto
d’esistere. L’uccellaccio ti rincorre. Io vomito.
Io, tu – no. Ed enormi pinete attendono, in riva,
ed enormi flutti di mare; ed enormi stesure di
sabbie, stancate e scoperte, calanti al di fuori
della città che le ricorda. Topo d’inferno, topo
tropicale, topo d’incontentabile seduzione; topo
orizzontale topo sbiancato nella memoria, impadronitosi
delle mie forze. Topo arcigno e spietato. Sapiente
topo; mercato di topi. Lunga notte di topi. Mercato
di topi e di ferramenta. Io sono grande e piccola
insieme: le vostre furie mi toccano e non mi
toccano. La mia malattia è diversa dalla vostra,
il mio santuario non è quello di Cristo, e lo
è anche, forse, se troppo insidia la spada alle
mie spalle.
Come ci sono gli “spasmodici trucchi di radianza” di Sylvia Plath tradotti da Amelia Rosselli (la poesia è Black Rook in Rainy Weather).
La vita poetica di Amelia Rosselli può essere letta in mille modi, come esige un classico della letteratura (per quanto valga – ahimè – ancora la categoria di classico) passando, oltre ai legami con Montale e Dino Campana, dalla produzione in lingua francese e inglese che riflette anche la babele linguistica della sua famiglia, alle frequentazioni con il Gruppo ’63 fino a Dario Bellezza, poeta erotico e turbante, cui Rosselli fu legata, nella vita e nella morte e nel destino di poeti trascurati in vita e celebrati dopo la morte.
E sulle loro labbra come per ragazzi ride
la beffa, la noia e l’angoscia. La noia, la beffa!
L’orrendo macinare grano tra spighe smorte
* * *
© Letteratitudine – www.letteratitudine.it
LetteratitudineBlog / LetteratitudineNews / LetteratitudineRadio / LetteratitudineVideo