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Caro Massimo,
l’ultima volta che mi hai telefonato, dopo l’usale e cortese sms in cui mi domandi se sono in un buon momento, se ci possiamo sentire, ero in treno, nel mio consueto puntare verso la frontiera salvo discesa precoce nella stazione destinata a futuro (molto lontano, pare per ora) smantellamento, Imperia Porto Maurizio. Ti ho detto che andava bene, che si poteva approfittare di quei dieci minuti in cui l’intercity plus ferma a Genova. Nessuna galleria e la conversazione possibile. Vedi, finisce che parlo sempre di stazioni, siamo fatti cosi, siamo ossessionati, siamo pieni di manie e da queste manie pretendiamo di partire per creare un mondo, aprire la porta per una narrazione (meglio dire cerchiamo? vaghiamo a tentoni? ci cimentiamo? ci infiammiamo?). Io continuo a girare intorno alle stazioni, in senso letterale e non solo. Conosco queste cose: nella sosta a Genova un amico (tu) mi può telefonare senza il pericolo e il fastidio che cada la linea e che la conversazione venga troncata. So che la stazione di Imperia Porto Maurizio che mi sta diventando così cara e amica, cosi calda e dal sapore di casa, un giorno non esisterà più perché unificheranno le due stazioncine della cittadina del Ponente. E finalmente ci sarà il doppio binario, ma io patirò nel corpo e nei ricordi il lutto dell’assenza. L’assenza di certe pensiline, l’assenza di quel marciapiede dove il mio compagno viene ad aspettarmi quando, dopo il tempo standard trascorso a Bologna (e a Milano, o Modena, o posti similari più facilmente raggiungibili dall’Emilia) ritorno e lui mi corre incontro. Mi correrà incontro altrove, lo so, e il viaggiare sarà più agevole.
Ma sto divagando, A Genova ci siamo parlati e mentre ci parlavamo mi veniva in mente che ho scordato il tuo romanzo a Bologna e che avevo molta voglia di leggerlo ma lo farò al ritorno. Adesso mi accontento – e non è roba da poco- di leggere il blog e mi piace riconoscere concordanze, (certi titoli di libri che amiamo entrambi, come l’ultimo Roth) elementi di discussione, motivi per riflettere. Mi hai parlato delle tue figlie l’ultima volta, nella prima puntata di questa nostra corrispondenza pubblica e privata, e mi sono chiesta una cosa. Le racconti le fiabe, alle tue figlie? Ho idea di sì ma magari non c’è sempre il tempo, sono così difficili questi frammenti di tempo da comporre. Lo sono per noi, redattori di varianti sintattiche, maniacali stilatori di note e dettagli che riteniamo utili a comporre narrativa e percorsi collettivi e individuali di pensiero e storie. E se le racconti, le inventi o le leggi? Scegli dei libri, li sceglie tua moglie, li fai scegliere a loro? A questo pensavo, e anche se nei tuoi libri le tue bimbe hanno mai trovato delle stazioni, hanno mai desiderato di partire, ti hanno mai chiesto di pensare per loro e solo per loro un’avventura di viaggio.
Con questa domanda mi fermo, caro Massimo. Com’è il tuo stato d’animo in questi giorni di clima mite ma di rare mitezze attorno? Io sento nelle ossa nebbie fittissime ma c’è sempre qualche storia, da scrivere o da leggere, che mi concede sollievo.
Vorrei sapere anche se hai visto Sanremo. Io, la sera della finale, qui a Imperia ero a una serata di musica lirica, una cosa molto diversa talmente vicino a quel tempio del passato rivisitato da un presentatore assai dignitoso ma in fase, a mio parere, di delirio di onnipotenza, per quel poco che ho letto e ascoltato. Questo, per non far mancare al nostro epistolario un accenno di gossip che solo gossip non è. Se solo penso alle cifre di cui si è parlato e alla quantità di gente che vive sotto o nei pressi della soglia di povertà mi indigno.
Ma questa indignazione che nulla porta, in molti la definirebbero demagogia, o retorica di basso livello, Non esiste forse un mercato? Non esiste forse un sistema che regola compensi e flussi di danaro? Oh, esiste nella sua vorace e pervasiva iniquità.
Ti mando un saluto affettuoso.
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