A chiedersi per primo dove fossero finiti i critici con cui gli scrittori potessero confrontarsi era stato, sul finire degli anni Ottanta, Pier Vittorio Tondelli. Se ne lamentava in un bel libro-intervista curato da Generoso Picone e Fulvio Panzeri, all’epoca giovani critici come giovane era il compianto Tondelli, di lì a poco scomparso. Dov’erano finiti, si chiedeva Tondelli, i critici con cui dibattere e confrontarsi sul proprio percorso creativo?
A distanza di oltre vent’anni la questione sembra irrisolta.
E un convegno di studi tenutosi a Venezia presso l’Università Ca’ Foscari, coordinato da Anna Maria Carpi, scrittrice, con l’intervento imprevisto di uno scrittore della generazione di Tondelli, Enrico Palandri, e con il contributo (previsto) di Alfonso Berardinelli, Giorgio Ficara, Roberto Galaverni, Franz Haas e Emanuele Zinato, ha cercato di fare il punto.
Ci finisco un po’ per caso, in vacanza a Venezia per una lezione di scrittura presso il laboratorio tenuto da Annalisa Bruni e Lucia De Michieli, invitata da una delle organizzatrici, docente, poeta e amica, Anna Toscano.
E’ una magnifica giornata di sole, sembra luglio e sulle Fondamenta delle Zattere si mangiano gelati. Dall’afa esterna entro nella saletta universitaria a convegno già avviato. Il pubblico interno, studentesse volenterose, in piccola parte resisterà fino alla fine. Il grosso, lettrici di varia età, curiosi, forse altri docenti, pian piano svanirà, come l’orizzonte del discorso critico sviluppato dai critici.
Mi armo di succo di frutta e resisto, anche per il piacere di ascoltare e conoscere per la prima volta Franz Haas, che ha prestato le sue foto azzurrine scattate per l’Ortese in occasione della scrittura del Cardillo addolorato, a me e a Sandro Dionisio per scrivere un corto metraggio dedicato alla grande scrittrice (a un certo punto evocata: dice Haas che anche il Porto di Toledo uscì nel 1975 nel silenzio assoluto della critica italiana, vedendo qualche centinaio di copie e ora vive invece la grande riscoperta dell’Adelphi). Haas ha scritto un articolo, riportato anche su Nazione Indiana non so da chi, dove si accusa la critica italiana di omertà. Si dice che questa critica non veglia, non legge e non discrimina. Perché?
Dice anche, ma questo dal vivo, che a lui spesso tocca di fare il poliziotto e che un suo articolo assai deciso ha impedito che in Germania uscisse con clamore la Fallaci della Rabbia e l’orgoglio, o meglio, è uscito il libro ma con un battage ridotto e per un editore minore. Dunque, negli altri paesi se il critico parla, poiché si assume delle responsabilità, viene anche ascoltato e ha un effetto.
La discussione viene portata avanti da Berardinelli che segna alcuni punti intorno a cui si ruota: il primo è che, a suo avviso, i critici sono scrittori come gli altri. E cioè fanno un lavoro creativo come gli scrittori ma di un genere differente. Sono insomma autori di uno specifico genere letterario. E sono anche, sostiene sorridendo (ma convinto) scrittori più generosi degli altri perché si preoccupano di leggere gli altri autori.
Secondo punto: oggi i giornali sono invasi da recensori, cioè da persone prezzolate che obbediscono alla legge di mercato imposta dall’editoria e che lanciano scrittori come patatine, senza alcuna competenza critica ma limitandosi a fare rumore. Questi signori sono pagati dai giornali e tolgono spazio ai critici. L’editoria è senz’altro imputata principale perché tesa solo a fare numeri e per niente impegnata a stabilire meriti o valori. E infatti il convegno s’intitolava: “I critici: solo intrusi, o il sale della terra?”.
Berardinelli chiedeva, in conclusione, un vero spazio, cartaceo, dove i critici potessero confrontarsi e fare il punto di quel che vale e di quel che non vale (annualmente, bimestralmente, ecc..).
Palandri diceva invece: ma voi, signori critici, li leggete gli autori che accusate di non valer nulla? Come si fa a discriminare l’esistente senza conoscerlo? Leggete e cercate.
Giorgio Ficara commentava i “giovani scrittori”, non meglio identificati, sostenendo che sono colpevoli di non desiderare il confronto, di scrivere ignorando la tradizione cui appartengono e insomma di non valere granché.
Il dibattito con la sala è stato limitato: un signore chiedeva ragione della comprensione, di cosa significhi oggi comprendere; una lettrice incaricata di rappresentare tutti i lettori dichiarava di guardare smarrita in libreria l’enormità e la confusività dell’offerta e di non saper scegliere; la signora Zanzotto, comparsa in tarda mattinata, lamentava vari disservizi, fra cui l’inutilità e la pericolosità delle scuole di scrittura (!).
Ora, per descrivere i convegni universitari ci vogliono penne acuminate e rimando perciò alla lettura di David Lodge, ad esempio. In breve, ci si è scagliati contro i troppo famosi, da Umberto Eco a Niccolò Ammaniti, si è fatta un’operazione “non ti curar di loro ma guarda e passa” rispetto a nomi ancora più venduti, ma, di fatto, non si è stilata alcuna graduatoria o fornito alcun parere circa la produzione contemporanea, quale essa sia.
Peggio: si è detto che gli autori vogliono essere riconosciuti dai critici e chiedono le loro recensioni, ma disprezzano la categoria. Inoltre, si è anche detto che forse oggi nessuno scrive niente di degno (e in passato, proprio a una lezione di scrittura tenuta presso il mio laboratorio, Berardinelli aveva dichiarato che dopo la Morante aveva scelto di non leggere più nulla e che i nuovi autori gli sembravano un trucco).
Poiché autori in sala che potessero dibattere, difendersi, dire qualcosa oltre l’equanime Anna Maria Carpi e il già citato Enrico Palandri non ce n’erano, io e il mio succo di frutta ce ne siamo stati zitti, un po’ arrabbiati, in verità e ce ne siamo andati.
Perché il nostro parere contava (e ha sempre contato) poco, ma la fatica di scrivere e la consapevolezza, pesante, di appartenere a una tradizione invece esistono. Ed esiste anche la coscienza e la fatica di portare avanti, almeno per quanto mi riguarda, con onestà una scuola di scrittura.
Io e il mio succo di frutta rispettiamo moltissimo il lavoro critico e la saggezza di Alfonso Berardinelli e di Franz Haas, sia pure nella loro enorme diversità, e rispettiamo il fatto che non siano recensori ma critici, però ci chiediamo anche come mai una folla di autori di buona qualità quando vengono editi – e non sono soggetti al lancio hollywoodiano riservato a quei due o tre titoli all’anno che fanno il fatturato dei molossi editoriali italiani (cagnetti, in verità, rispetto all’editoria tedesca o inglese per non parlare di quella americana) – debbano chiedere la carità ai recensori per essere letti e spesso malamente riassunti sui quotidiani.
Perché debbano anche essere disprezzati dai critici che si mettono la maiuscola davanti, con ragione vista la loro storia, sfruttati da editori che danno anticipi ridicoli (Berardinelli sostiene che gli anticipi ai narratori siano epici: a me non è successo e a molti altri che conosco).
Perché debbano, in definitiva, scrivere per essere numeri di poco conto in case editrici i cui uffici stampa e editori e addetti ai premi li guardano come accattoni e, contemporaneamente, liquidati come ignoranti da critici che non li leggono.
Io e il mio succo di frutta ce ne siamo andati a prendere il sole sulle Fondamenta delle Zattere, portando sempre rispetto anche a chi il rispetto non ce lo porta e spesso viene ospite delle scuole di scrittura, ospite pagato e venerato, e poi si dimentica di considerare almeno l’umanità, se non l’impegno onesto, del nostro lavoro.
I critici ci servono: servono ai lettori e servono agli scrittori. Ma non critici che s’illudano di essere artisti. Critici che leggano e facciano il loro mestiere (da sempre, per secoli, considerato parassitario della letteratura, ma che definisce il gusto, la storia, il tempo e, ahimè, ciò che resterà e ciò che passerà).
Critici che non si lamentino di essere degli esclusi, che innalzino l’attesa che il pubblico ha e che gli editori appiattiscono. Critici che smettano di puntare il dito contro gli altri e lo puntino verso se stessi. Perché ogni errore che facciamo parte prima da noi e la responsabilità della nostra vita e del nostro lavoro è personale.
Ci piacerebbe tanto, e so che parlo per molti autori amici, che qualcuno ci dicesse cosa va e cosa non va nel nostro lavoro, senza paura di offenderci e senza essere mossi da interessi personali o millantati, non per scambio di cortesie personali ma per autentica volontà di capire.
Agli scrittori, e parlo di me per prima, capita di essere in questa repubblica troppo lasca delle lettere nostrane, recensori. A volte anche di libri di persone che conosciamo e che cerchiamo di aiutare o a volte stronchiamo anche se sono amici, a rischio di perdere quell’amicizia.
In un corso di scrittura chi ha aspirazioni viene da me e mi chiede un parere onesto. Ha pagato per questo e io lo do, a costo di essere crudele. Lo do proprio perché conosco la mia fatica di essere autrice e il mio essere legata a una tradizione, perché so i miei limiti e ho piacere se altri me li mostrano, perché desidero superarli o accettarli, se non posso.
Così, è vero ed è avvilente che ormai farci un’intervista è la scappatoia per non leggere un libro in redazione, che mettere grandi foto significa non dover dire che schifezza sia questo libro oppure: magari è buono, ma non l’ho letto.
E’ vero che se leggo una recensione fatta bene mi faccio un’idea precisa di quel libro e che da lettore ho bisogno della critica. E mi sa che oggi gli scrittori leggono i loro colleghi assai più dei critici, per tante diverse ragioni: per spiarli, come qualcuno mi disse una volta, per vedere se fanno meglio di loro, oppure per il semplice piacere di leggere, che è ancora, caso mai si fosse dimenticato, la base di questi mestieri, lo scrittore e il critico.
Antonella Cilento
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Antonella Cilento (Napoli, 1970), ha pubblicato Il cielo capovolto (Avagliano, 2000), Una lunga notte (Guanda, 2002), Non è il Paradiso (Sironi, 2003), Neronapoletano (Guanda, 2004), L’amore, quello vero (Guanda, 2005), Napoli sul mare luccica (Laterza, 2006).
“Una lunga notte” ha vinto il Premio Fiesole e il Premio Viadana, è stato finalista al Premio Greppi e al Premio Vigevano. “L’amore, quello vero” ha vinto il Premo Vitaliano Brancati. E’ tradotta in Germania dalla Bertelsmann. E’ stata finalista al Premio Calvino 1998 con il romanzo inedito “Ora d’aria”. Ha pubblicato numerosi racconti su riviste.
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Conduce laboratori di scrittura dal 1993 a Napoli e in Campania, dal 2002 in tutt’Italia.
Ha realizzato:
per Cento Lire, a cura di Lorenzo Pavolini, i racconti radiofonici intitolati "Voci dal silenzio" (RAI, Radio Tre, 15-19 gennaio 2001). Attualmente, collabora con "Il Mattino", "L’Indice dei libri del mese". Dal 1998 al 2000 ha collaborato con il "Corriere del Mezzogiorno" (supplemento del Corriere della Sera), nel 2003 con "Il sole 24 Ore Sud", nel 2005 con "Il Riformista".
Ringrazio Antonella per il bellissimo articolo che mi ha inviato.
Articolo bellissimo, ma anche intenso e coraggioso.
Credo che possa svilupparsi un dibattito interessante e di alto livello (con l’auspicio, però, che i toni non si alzino in maniera eccessiva).
Gli spunti sono davvero tanti:
– I critici sono “solo intrusi, o il sale della terra?”.
– ha ragione Berardinelli nel sostenere che “i critici sono scrittori come gli altri? (E cioè fanno un lavoro creativo come gli scrittori, ma di un genere differente?)
– è vero(come sostiene Haas) che la critica italiana (accusata di omertà) “non veglia, non legge e non discrimina?”
– e cosa pensate della considerazione che “oggi i giornali sono invasi da recensori, cioè da persone prezzolate che obbediscono alla legge di mercato imposta dall’editoria e che lanciano scrittori come patatine, senza alcuna competenza critica ma limitandosi a fare rumore?”
Ma c’è molto altro in quest’articolo.
Dite la vostra!
Cara Antonella,
grazie della tua email e delle cose che scrivi a proposito della spaurito convegno di Venezia.
I convegni stanno diventando degli Hortus conclusus per pochi, pochissimi addetti.
Poco si sa che ci sono e ancor meno di cosa si parlerà. Autoreferenziali, ma necessari.Come sarebbe stato questo sui critici, intrusi o il sale della terra, se forse non fosse stato fatto nel lungo ponte di fine aprile e in una città non così distratta come Venezia.
Ma andiamo avanti.
Per un lungo periodo della mia vita ho pensato che i critici erano il sale della terra. Sono nata nella terra di Francesco De Sanctis, nella città di Carlo Muscetta, insomma, qualcosa deve pur significare. Ho sentito parlare di loro sempre con rispetto, con assoluta devozione.Questo sicuramente ma avuto molta influenza su di me.
Il critico che dovrebbe fare? Entrare nell’opera prima di tutto e valutarla nell’unità di forma e contenuto, e poi nel contesto del suo tempo. Dovrebbe intuire le potenzialità, le novità, quel tanto di ancora non detto che serve per andare avanti nella faticosa strada della letteratura e , se così fosse, valorizzare l’autore, autrice, spronandola a continuare per la propria strada.Diventare un punto di riferimento, insomma.
Questa estate ho letto un libro di Tomizza dove raccontava il suo rapporto ,eccezionale, con Niccolò Gallo, critico e poi direttore editoriale della Mondadori.
Niccolò aspettava i romanzi di Tomizza,( andò addirittura nel suo paese natale , in Istria, per capire da dove nasceva la sua scrittura) e Tomizza aveva solo lui per referente.
Ecco un critico avrebbe dovuto essere, nel mio pensiero, uno dalle idee chiare e dallo sguardo onesto, in grado di dare valore ad uno scrittore.
Questo in teoria. Per alcuni tratti di strada fatta insieme con te, e poi separatamente, ho conosciuto, tranne che Generoso Picone avellinese e quindi erede di Muscetta e De sanctis,(!) giovani o pseudo giovani critici, che mi hanno fatto rizzare i capelli in testa.
Critici che , come dicevi tu, hanno fatto perfino fatica a leggere le nostre cose, affidandosi al giudizio della moglie o della mamma, critici innamorati di se stessi che
cercano a loro volta di arramparsi, insomma altro che sale della terra, deserto puro e basta.
Poi mi chiedo, Dopo Garboli, dopo De benedetti esiste una scuola che forma i critici in Italia? Ed è facile uscirsene alla Belardinelli, ricordo la lezione che fece al tuo corso di scrittura e le cose che disse,a proposito della Morante e del diluvio dopo la sua morte.
Così non si è critico, si è custode di un museo di parole appartenute a persone care.
Potremmo continuare ancora.
Penso che in questa epoca, funziona molto di più il tam tam dei lettori(Maria Teresa di Lascia fu conosciuta così, e credo ahimè, tutti i Federico Moccia ed altri),
il giro dei blog, e ce ne sono, che a volte un articolo di critica letteraria. E’ chiaro che per chi scrive fa piacere leggere di se, soprattutto quando se ne dice bene.
Emilia
Credo sia una battaglia persa.
I critici sono parte ovvia dell’ingranaggio editoriale in cui la produzione di merci è – forse anche giustamente – ciò per cui esiste un’industria editoriale. Dà lavoro a tanta gente, quindi non facciamone un dramma inutile.
Resta il fatto che una minoranza legge per motivi diversi e che (forse) avrebbe il diritto di vedere riconosciuto esattamente questo diritto dalla maggioranza che osanna Moccia.
Come fare?
Non lo so.
Forse si dovrebbe finalmente instaurare una sorta di democrazia di base, in cui si rinunci definitivamente al circuito infernale “agente introdotto-editore importante-critico gregario-premio letterario sospetto-etc.” e si discuta pacatamente sull’unico mezzo che lo consente senza schemi: internet.
Ma, diciamoci la verità: quanti di noi sono davvero disponibili a non combattere per entrare nel circuito “agente introdotto-editore importante-critico gregario-premio letterario sospetto-etc.”?
La letteratura scritta solo perché scrivere è dannatamente bello ed emozionante non esiste più, ammettiamolo.
Renato Di Lorenzo
Ho cominciato a scrivere da ragazzino, giovane operaio, perchè non avevo soldi per comprare i libri e mi producevo un’autoletteratura; poi perchè nella mia triste Napoli mi piaceva sorridere e mi era difficile procurarmi libri di umorismo, raramente erano recensiti, considerati sottoletteratura (e ancor oggi): i critici preferivano recensire i tomi intensi.
Ho conosciuto Pierre Daninos su una bancarella, e così Bierce e gli altri.
I critici di solito sono quelli che “non ce l’hanno fatta”, non sanno dipingere, non sanno comporre brani musicali, non hanno la “magia” della parola, sono professionisti dell’esegesi e se restassero solo questo forse aiuterebbero tutte le categorie, ma sono ricattabili e ricattati.
I laboratori di scrittura sono autentiche botteghe d’arte, specialmente sotto il vesuvio. Fa bene Cilento ad arrabbiarsi!
Dai laboratori come il suo e quello di Pino Imperatore (P.Imperatore ha creato e dirige il “Laboratorio di scrittura umoristica Campanile”)ogni tanto vengono scovati e possono emergere autentici talenti come quel Maurizio de Giovanni, dirigente di banca che, fino a quasi 50 anni non aveva mai scritto niente e in 20 mesi è diventato un caso letterario con la creazione di un “Montalbano” napoletano nel suo giallo “Le Lacrime del Pagliaccio”.
Brava Antonella! Un articolo scritto con le unghie, con i denti e tanto sale in zucca. E competenza da vendere.
Mica da tutti.
Credo che uno dei passaggi fondamentali del testo della Cilento sia il seguente – che coincide poi con una specie di esortazione –
“I critici ci servono: servono ai lettori e servono agli scrittori. Ma non critici che s’illudano di essere artisti. Critici che leggano e facciano il loro mestiere (da sempre, per secoli, considerato parassitario della letteratura, ma che definisce il gusto, la storia, il tempo e, ahimè, ciò che resterà e ciò che passerà). Critici che non si lamentino di essere degli esclusi, che innalzino l’attesa che il pubblico ha e che gli editori appiattiscono. Critici che smettano di puntare il dito contro gli altri e lo puntino verso se stessi. Perché ogni errore che facciamo parte prima da noi e la responsabilità della nostra vita e del nostro lavoro è personale.”
Il punto è che oggi la critica (o almeno parte di essa) tende a spettacolizzare e a spettacolizzarsi, il che è normale in una società dominata dal protagonismo individualista. Solo che tanto più la critica tenderà a spettacolizzarsi, quanto più verrà meno la sua ragion d’essere e il suo ruolo controverso di naturale filtro e trait d’union tra autore (o meglio tra testo) e autore. Lo “show critic” alla fine non fa, e non farà, che rappresentare se stesso.
ma pensate che ai lettori possano davvero interessare le querelle tra critici e scrittori?
la maggior parte dei lettori se ne fregano dei commenti dei critici. anzi, nemmeno li conoscono i critici. o no?
Brava come sempre la cara Antonella! Ha riassunto la condizione degli autori e dell’editoria italiana, un sistema che rischia sempre più di diventare autoreferenziale. Una cosa che noto spesso da un po’ di tempo a questa parte: le recensioni dei libri, che un tempo erano appannaggio del Critico, adesso sono, è vero, territorio di “voto di scambio” di recensori o cosiddetti tali sì, ma sono affidate ai lettori stessi. Pareri a caldo dopo la lettura, scarsamente motivati e non di rado per nulla basati su una conoscenza dello stato delle lettere in Italia e della sua tradizione letteraria. Sospetto fortemente che questi sedicenti pareri di lettori siano la maschera, il paravento di interessi che premono per la spinta di x piuttosto che di y. Mi sembra che il sistema letterario italiano abbia perso i fili che lo legavano a una lunga ininterrotta tradizione di autori critici lettori che si scambiavano pareri, stroncature idee stimoli. Oggi tutto mi sembra un immenso brodo primordiale indistinto che giustifica la confusione dei lettori in libreria, alle prese con un’offerta che mette insieme Borges, Moccia, storia, fantasy, letteratura e speculazione commerciale, gioielli e autentici pacchi.
Il Critico, se davvero deve essere considerato tale, deve ritrovare la capacità di fare da mediatore, filtro, facilitatore culturale, altrimenti sarà una delle tante penne prezzolate che recensiscono libri mai letti…
Il lavoro di critica può e deve essere creativo: ci sono testi di critica che io leggo sul divano come romanzi, tipo Petronio, De Sanctis et coetera, che facevano critica militante ma avevano anche quella qualità letteraria di brillantezza della scrittura, che unita alla competenza e alla chiarezza espositiva del saggio sono caratteristiche della vera critica letteraria che non sia supercilioso snobistico discettare di narratologia…
Posso spezzare una lancia a favore dei corsi di scrittura? Mi sembrano tra i pochi luoghi fisici e mentali in cui ancora si legga e si discuta di libri. Grazie ai corsi di scrittura, che diventano vere e proprie oasi letterarie, comunità in cui si trova e si ritrova il piacere di leggere e di scrivere, ho potuto scoprire i contemporanei che quasi sconoscevo, rileggere certi classici, conoscere fisicamente alcuni autori come la cara Antonella.
Vero è che molti autori hanno l’immortalità di un fiammifero, ma una Mazzucco non può e non deve essere snobbata, tanto per fare un esempio…
Personalmente credo che dietro il problema posto da Antonella Cilento ci sia una crisi più generale che attiene al modello mentale stesso con cui le persone interpretano la realtà. Nella “modernità solida” – per dirla con Bauman – esistevano la divisione del lavoro e quella dei ruoli: dunque avevamo il Critico, il Lettore, lo Scrittore, l’Editore, eccetera. E non solo esistevano i ruoli, ma gli specialismi: quindi i Critici, Scrittori e Lettori di Fisica distinti da quelli di Medicina o di Filosofia o di Letteratura. Il punto, a mio avviso, è che oggi ruoli e specialismi non hanno più senso: nella società liquida, impermanente, della contemporaneità, può essere che un saggio di critica letteraria venga scritto da un esperto di management con il commento di un poercorso fotografico… E’ quello che abbiamo cercato di fare io e Fabiana Cutrano con il nostro Nulla due volte, ricordato anche da Massimo Maugeri in questo stesso blog. Risultato: un Critico solido come Goffredo Fofi ha irriso al volume sulle pagine de IL Sole 24 Ore, salvo ammettere successivamente di non essersi neppure degnato di leggerlo, solo perchè il sottotitolo era Il Management attraverso le poesie di Wislawa Szymborska. Ed è chiaro: per chi ha in testa un modello cognitivo di tipo tayloristico, solido, è impensabile che tramite la poesia si possa leggere il management (o veceversa!!). Fra le persone che hanno invece accolto cone entusiasmo la proposta vi è una scrittrice pura come Francesca Mazzucato che di management credo non sappia assolutamente nulla…
Insomma chi non sa accettare la commistione, il mescolamento, anche il rischio della Babele, non può che trincerarsi dietro vecchie etichette e vecchi modi conseguenti di gestire il potere. E purtroppo di persone di questo genere e ancora pieno il mondo-diviso-in-mondi, fra cui quelli della Letteratura e della Critica Letteraria.
Parteciperò magari al dibattito in seguito, quando avrò più tempo ora mi limito a dire due o tre cose.
Innnanzitutto rinnovo i complimenti ad Antonella Cilento per l’ottimo articolo e per il coraggio.
Stimo molto Antonella da quando mi ha rilasciato un’intervista sui corsi di scrittura sul mio blog (http://caffestorico.blog.kataweb.it/caffe_storico_letterario/2007/04/corsi_di_scritt.html#comments ).
Vi segnalo inoltre sulla critica un libro che ho ordinato su internet ma che non ho ancora letto dal titolo “Alfonso Berardinelli,il critico come intruso )http://www.lelettere.it/site/e_Product.asp?IdCategoria=&TS02_ID=1259
che penso possa essere interessante.
saluti
Grazie per i contributi.
Mica facile commentare un articolo “tosto” come quello di Antonella (qualcuno di voi me lo ha anche scritto per mail).
Introduco una nuova considerazione (che pensavo di riservare per un successivo post ma che ho deciso di scrivere qui): qual è il “vero” ruolo degli editori, oggi, rispetto al rapporto contrastato scrittore-libro-critico ?
Non è proprio l’editore che conduce il gioco?
Ci avete fatto caso che in molte pubblicazioni recenti anziché trovare in quarta di copertina la frase del critico di grido compaiono sempre più spesso i commenti dei lettori (per lo più di provenienza Ibs.it)?
Questo che vuol dire?
Che c’è in corso, da parte di una certa editoria, il tentativo di delegittimare i critici professionisti? O i critici professionisti sono già da considerarsi delegittimati.
La frase del lettore è forse più efficace dal punto di vista promozionale perché l’acquirente può identificarsi nel commento di un suo “collega di lettura”?
E’ solo una moda?
E’ solo un pretesto utilizzato per promuovere testi che non hanno beneficiato dei favori della critica ma che hanno incontrato un consenso significativo in termini di “pubblico” (vedi Falcones)?
Cosa ne dite?
Il fenomeno merita di essere osservato con attenzione. Anche per via di ulteriori considerazioni molto semplici.
Cosa vieta agli “amici” di descrivere, per es. su Ibs, il romanzo X come un capolavoro?
Cosa vieta ai detrattori di descriverlo come una porcheria?
E comunque… che affidabilità hanno i commenti rilasciati su – per esempio – Ibs (e poi riportati in quarta di copertina della nuova edizione del romanzo X) dal momento che nessuno potrebbe impedire a un editore (o anche a uno scrittore) furbetto di scriverseli da sé quei commenti (visto che è sufficiente dotarsi di un numero a scelta di “Email spazzatura” create ad oc)?
Mi rivolgo a tutti.
Chi mi risponde?
Intanto ringrazio la Cilento per l’articolo. Pur non essendo una addetta ai lavori mi sento di sottoscrivere il pensiero e le perplessità di Antonella.
L’ultimo commento di Massimo Maugeri, secondo me, la dice lunga sullo stato confusionale dell’editoria. Chissà se le frasi dei lettori riportate sul dorso dei libri sono efficaci oppure no. A me fanno sorridere. Però mi piacerebbe conoscere il parere degli altri.
ha ragione iena.
diciamo la verità, mi rivolgo a voi, maugeri e cilento, chi è che legge le recensioni? i lettori?
sappiamo e sapete benissimo che le recensioni le leggono solo gli addetti ai lavori. il lavoro dei critici è considerato solo dagli altri critici, dagli scrittori, dagli accademici, e da tutti gli altri appartenenti al “sistema libro”.
l’idea di scrivere le impressioni dei lettori a scopo promozionale è buona. perché le eventuali fregnacce dei lettori dovrebbero valere meno delle eventuali fregnacce dei critici?
i critici mica comprano i libri, i lettori sì. le recensioni mica fanno vendere i libri, il passaparola sì. è dura ammetterlo ma è così.
A suffragio di quello che stiamo dicendo e della assoluta differenza del nostro dibattito con quanto chiede ilmondo giornalistico e accademico maschile, vi giro un pezzo di un articolo che ho rispolverato nelle mie cartacce.
L’ha scritto Anna Maria cripino su Leggendaria di circa dieci anni fa! Rivista che non c’è più.E scriveva soprattutto di donne scrittrici.
Si intitola “E’ qui la critica? leggere un corpo a corpo con il testo.
“..Il meccanismo di intrusione esclusione resta fortissimo: le letterature occidentali si sono costruite su una soggettività maschile, di razza bianca e ceti superiori. Le donne sono fatte considerate eccezioni o minori. Ed è questo patrimonio che abbiamo ereditato: un canone introiettato che pesa nella nostra attitudine di lettura, nei nostri criteri di giudizio…C’è una forte resistenza che passa per le terze pagine dei quotidiani, nei settimanali e nei periodici piuttosto autorevoli.Non che i libri delle donne non vengano recensiti, ma lo fanno normalmente altre donne,senza entrare spesso nei vari dibattiti, nelle polemiche vere o fasulle che agitano la comunità dei critici…il problema è proprio questo:non basta che il mainstream si sia rassegnato a tollerare la presenza e spesso il successo, delle scrittrici e di un loro consistente pubblico: aggiungere, affiancare nomi femminili ad una genealogia già consolidata senza mutarne l’ordine e verificarne i criteri di giudizio è come tentare di inserire nel disegno i tasselli di un altro puzzle senza mutarne il disegno complessivo…”
Non aggiunge molto a quello che già sappiamo e vivimo, ma conforta che altre donne si siano poste il problema, dieci anni fa.
E’ un problema politico.Non di politica culturale solo.
Continuiamo nella nostra differenza. Ha ragione Massimo quando dice che è meglio dibattere questi argomenti su un blog.
@ Mark.
Hai ragione quando dici che il passaparola dei lettori vale più delle recensioni. Non sono d’accordo, però, quando sostieni che le recensioni non contano nulla: dipende dal “peso” di chile firma.
@ Emilia.
Tu apri un nuovo argomento che potrebbe essere oggetto di discussione in un nuovo post: “le letterature occidentali si sono costruite su una soggettività maschile, di razza bianca e ceti superiori. Le donne sono considerate eccezioni o minori”.
Reagisco volentieri all’ulteriore riflessione di Massimo Maugeri, con particolare riferimento al rapporto perverso fra scrittori-editori-critici e lettori, a sua volta legato alle domande poste nel suo primo commento sulla valenza dei congressi riservati a pochi intimi. Siccome sono abituato a parlare di quello che conosco, non posso fare a meno di continuare il discorso facendo riferimento al mio precedente contributo sul tema che ha avuto una immediata conferma proprio oggi. Sul Corriere della Sera viene riportata questa sintesi dell’intervento odierno di Calasso al famigerato convegno milanese promosso da Scurati e dai “nuovi padroni” (o meglio: da quelli che vorrebbero essere i nuovi padroni) della letteratura italiana che tanto per non sbagliare cercano alleanze con quelli più vecchi e consolidati:
“COME INCENTIVARE MUCCHE
E MANAGER
Uno dei ritrovati più peregrini della produzione di latte fu, anni or sono, quello di una singolare scoperta. Le mucche facevano molto più latte e di migliore qualità, con minore fatica e maggiore docilità alla mungitura, da quando in alcuni allevamenti si era provveduto a tingere le pareti delle stalle di tenui colori pastello e a trasmettere musiche tenere e lievi.
Non so perché me ne ricordo subito nel leggere sempre più spesso degli accorgimenti a cui si pensa per migliorare ed elevare il livello e la resa del lavoro di manager e alti dirigenti e, in genere, dei capi in un’efficiente organizzazione della produzione o dei servizi. Tra questi accorgimenti si sottolinea in specie la lettura di testi di filosofia e di letteratura, donde anche conferenze, seminari e addirittura corsi di studio in tali materie. Meno tecnicismo, insomma, e più umanesimo, per questa corrente di opinione, per cui si lavora meglio, più produttivamente e con maggiore partecipazione, se si è preparati e accompagnati nel lavoro dalla lettura di libri di filosofia, di narrativa o di teatro. Pirandello e Kafka, Schopenhauer e Kierkegaard (autori, come si sa, rasserenanti, ottimisti e privi di ansie e di problemi) gioverebbero più di noiosi trattati sull’organizzazione scientifica del lavoro o sul management.
Mi aspetto che presto qualcuno suggerisca anche la visita a musei o mostre, l’audizione di speciali programmi musicali sul lavoro o al di fuori del lavoro, e quant’altro in questo campo si può immaginare. Perché poi questo mi faccia ricordare il caso delle mucche, non saprei dire. Associazione freudiana? Eppure, posso assicurare che la differenza tra mucche e manager mi è assolutamente chiara.”
Ecco l’ennesima conferma di quanto scrivevo qui non più tardi di due giorni fa: posti di fronte al tentativo (fallace, fallacissmo, per carità, ma almeno degno di un minimo di rispetto) di innovare, mischiando carte, confini e culture, di aprire a nuovi modi di guardare il mondo per cercare almeno in parte di comprenderlo, vecchi e nuovi “padroni” fanno fronte comune utilizzando non l’arma della discussione concreta, ponendo questioni critiche (come sarebbe credo lecito aspettarsi da un Critico) o sollevando argomentate perplessità ma limitandosi ad irridere (in maniera peraltro poco divertente) a mucche e a manager e a chi adirittura gestisce cattedre universitarie in cui si cerca di analizzare le nuove forme di contaminazione fra umanesimo e managerialità (ed essendo il titolare dell’unica cattedra di humanistic management esistente in Italia è difficile non sentirmi tirato per i capelli).
Tutto questo nello stesso giorno in cui Calasso era atteso a Roma alla lettura poetica effettuata da Wislawa Szymborska dove ha quindi brillato per la propria assenza ma a cui fortunatamente oltre al sottoscritto hanno partecipato centinaia di lettori comuni adoranti la divina poetessa polacca e ai quali degli elevati dibattiti della “Officina” (sic) milanese non può fregargliene di meno.
Che c’entri poi qualcosa, con le scelte del capo della Adelphi, il fatto che il mio libro su Poesia di Szymborska e management sia stato pubblicato da Libri Scheiwiller, editore storico della poetessa premio Nobel con cui Adelphi sta cercando di competere… ma solo dal 1996, da quando cioè la Szymborska ha vinto il Nobel ed è diventata di moda? Il dubbio sorge, onestamente. Insomma, caro Massimo, qui il problema non è quello di quarte di copertina più o meno taroccate, è che viviamo in un contesto culturale dove conta di più il Convegno in è importante esserci per fare parte della nuova alleanza fra chi comincia a vedere traballare la propria presunta autorevolezza con chi aspira ad essere “padrone” del mondo lettarario, piuttosto che avere l’umiltà di incontrare i lettori e gli autori veri; in cui difronte a modelli concettuali innovativi che mettono in crisi gli assetti consolidati si reagisce con l’irrisione e la ghettizzazione, perchè fanno paura e ancor prima probabilmente perchè non si è in grado di comprenderli; in cui il nuovo che avanza ed il vecchio che è avanzato si trovano d’amore e d’accordo nella difesa ad oltranza delle forme di potere consolidate, nella più totale indifferenza nei confronti dei lettori e degli scrittori, in particolare di quelli che dedicano il limitato tempo che a noi umani è dato in sorte a leggere e a scrivere piuttosto che autocelebrarsi e parlarsi addosso. Ma la ubris prima poi si paga: e questo almeno Calasso (se non Scurati e i suoi compagni di autopromozione del vuoto letterrario ed esistenziale a perdere….) dovrebbe saperlo. Se si degnasse di frequentare blog come questo, forse gli tornerebbe in mente e, chissà, troverebbe scampo alla nemesi che lo attende inesorabile.
@ Marco Minghetti
Caro Marco, quello che sto per scrivere non c’entra granché con lo “humanistic management”, non quantomeno in maniera diretta. Mi è venuto in mente (magari ci sarà anche qui un’associazione di tipo freudiana) che
le connessioni tra letteratura/libro/impresa/management ci sono e sono innegabili.
Potrebbero farsi tanti piccoli esempi (più o meno calzanti):
a) l’editore è un imprenditore
b) il libro, in un certo senso, è una merce (come scrive Stefano Salis sul Domenicale del Sole24Ore del 29 aprile 2007, pag. 30: “Mi spiace ricordarlo per l’ennesima volta, ma i libri – per quanto diversi e affascinanti e particolari (…) da un certo punto di vista sono delle merci, proprio come il tonno e il bagnoschiuma. Infatti sono in vendita: perché hanno un costo di produzione”
c) Il citato “Domenicale” è considerato uno degli allegati letterario-culturali tra i più importanti in Europa (e in molti “sbavano” per poter essere tra i firmatari degli articoli o per vedere la propria opera lì recensita). Guarda caso il Domenicale (in verità si chiama “Domenica”) è un inserto de “Il Sole24Ore”: il più importante giornale italiano (e uno dei più importanti in Europa) che si occupa di economia, finanza, impresa e management;
d) tu hai citato Scurati, il quale nei giorni scorsi si è reso protagonista di un’ottima azione di marketing (ne parlerò meglio nel post che pubblicherò stasera). È stata montata una polemica (nel post la chiamerò similpolemica) tra Scurati e Piperno sul tema della presunta inutilità della letteratura. Piperno sostiene (in breve) che la letteratura (non) serve a niente. Scurati non è d’accordo. I due si sono amichevolmente beccati sulle pagine dei giornali. Piperno ha scritto su “L’Espresso”, Scurati ha risposto su “La Stampa”. Passaggio a Fahrenhait (Radio Rai Tre) e poi insieme a “Officina Italia” (Scurati è uno degli organizzatori/promotori) sotto gli stessi riflettori, seduti sullo stesso tavolo. Operazione di marketing, dicevo. Ma non ci trovo nulla di male.
Tornando a noi, io trovo il tuo progetto sullo “Humanistic management” molto interessante (ma, ahimé, il mio parere conta poco) e ti esorto a portarlo avanti senza dare troppo peso alle polemiche (così come a eventuali stroncature su opere già pubblicate). Le polemiche, in fondo, ci sono sempre state e sono immancabili in un ambiente ad “alto tasso di egocentrismo” come quello letterario. In alcuni casi, anzi, le polemiche hanno un ruolo importante: sono utili, costruttive; laddove, almeno, si basano sul confronto. In altri casi sono sterili e autoreferenziali.
Io in genere preferisco i dibattiti – anche accesi – alle polemiche. E, in effetti, quando ho creato questo blog l’ho fatto con intenti (appunto) “costruttivi”, sperando di poter contribuire – nel mio piccolo – a creare ponti e ad abbattere barriere (senza, però, aver paura – ripeto – dei dibattiti… anche accesi), e cercando di puntare sui contenuti.
Chiudo proponendo uno stralcio dell’articolo di Riccardo Chiaberge pubblicato sul “Domenicale” del Sole di oggi 6 maggio 2007 (rubrica “Contrappunto”):
“Libri e giornali sono sempre vissuti in simbiosi, e ora rischiano di condividere lo stesso declino. Se la stampa ignora i libri, chi scoprirà i nuovi talenti? Il successo di un autore rimarrà affidato a spot, tv e blog?
(…)
In Italia (…) lo spazio sui giornali ci sarebbe, ma non viene utilizzato nel modo giusto, perché ormai tutto si fa tranne che recensire libri. Si sbattono in copertina presunti nuovi Proust. Si bruciano titoli scandalosi per fare il botto, salvo poi magari ritirarli dal mercato. Quanto ai recensori, il più delle volte non leggono i romanzi o i saggi di cui devono scrivere, preferiscono divagare o autocelebrarsi. (…) E gli scrittori? Si arrabattano a caccia di visibilità. Pompano finte polemiche, fanno cabaret, inventano cordate, poli nord e poli sud, nidiate di Siciliano e amici di Ammaniti, cannibali e assaggiatori di Strega. Oppure, nel loro incontenibile narcisismo, vorrebbero tutto, i guadagni e gli allori, i consensi popolari e il plauso dell’Arcadia.”
Perchè dobbiamo confrontarci con i critici? La critica letteraria è diventata arte della velina e i critici indipendenti vengono confinati e messi al bando. I critici italiani non servono a niente, a parte poche eccezioni, sono peggio degli scrittori.
Gordiano Lupi
Rilancio questo post contenente un pezzo battagliero della nostra Antonella Cilento a seguito di un articolo firmato da Filippo Maria Battaglia per “Panorama” (lo pubblico nel commento successivo).
Da PANORAMA.it
http://blog.panorama.it/culturaesocieta/2008/04/13/la-carica-dei-blog-contro-i-critici-letterari/
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La carica dei blog contro i critici letterari
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di Filippo Maria Battaglia
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Più che una vivace contestazione, sembra essere un plotone di esecuzione. Sui blog nostrani, l’accoglienza riservata a recensori e critici letterari non è di certo tra le più accomodanti. E negli ultimi mesi (anche grazie all’uscita di certi libri che hanno fatto discutere) il dibattito sul loro ruolo e sui loro vizi ha scatenato lettori e scrittori di ogni sorta.
A suonare la carica, qualche tempo fa, è stato Letteratitudine, il blog di Massimo Maugeri, che pubblicava un post di Antonella Cilento. La scrittrice napoletana, commentando un convegno sul ruolo della critica letteraria nostrana, si domandava polemicamente: “Ci chiediamo anche come mai una folla di autori di buona qualità quando vengono editi – e non sono soggetti al lancio hollywoodiano riservato a quei due o tre titoli all’anno che fanno il fatturato dei molossi editoriali italiani (cagnetti, in verità, rispetto all’editoria tedesca o inglese per non parlare di quella americana) – debbano chiedere la carità ai recensori per essere letti e spesso malamente riassunti sui quotidiani”.
E continuava, rincarando la dose: “Perché debbano anche essere disprezzati dai critici che si mettono la maiuscola davanti, con ragione vista la loro storia, sfruttati da editori che danno anticipi ridicoli?”. “Perché debbano, in definitiva, scrivere per essere numeri di poco conto in case editrici i cui uffici stampa e editori e addetti ai premi li guardano come accattoni e, contemporaneamente, liquidati come ignoranti da critici che non li leggono?”.
Ma l’exploit della Cilento non è stato affatto isolato. Da mesi, la querelle sulla “lobby dei critici” dà vita a commenti di ogni tipo su tantissimi altri blog. Quello di Rossana Campo, pubblicato da Feltrinelli, ha ospitato ad esempio un post piuttosto fuori dalle righe: “Ah parliamo un po’ dei critici letterari. Ho letto un pezzo sull’Unità di Maria Serena Palieri che dice: “Se il critico è d’animo un po’ disonestuccio, cosa fa? Legge un po’ all’inizio, un po’ alla fine, se è furbo procede al carotaggio (campioni di testo prelevati qua e là) e poi giù a scrivere… Provate questo giochino: ritagliate le recensioni di un libro, andate in libreria e verificate quali usano in blocco la descrizione del libro che dà la quarta di copertina…’. Be’, coi miei libri lo vedo spesso, diciamo che a occhio e croce mi sembra il sistema di otto recensioni su dieci, quando va di culo…”.
Viva il blog e abbasso i critici, dunque? La risposta non pare poi così scontata, ed infatti basta pochissimo per far decollare polemiche infinite. Una delle ultime occasioni di contesa è stata un’intervista rilasciata da Jonathan Franzen al Corriere della Sera, ripresa polemicamente dal blog eremoletterario. Lo scrittore stanuitense se la prendeva con un “maledetto blogger che mi ha rovinato la serata del Book Award, sbattendomi in faccia un microfono e mitragliandomi di domande volgari”. A finire sul banco degli imputati era quindi “la mancanza di critici letterari tradizionali, che agivano da filtro, per farci scoprire libri di vero valore”. “Molto meglio avere 50 inflessibili recensori di quel tipo – concludeva l’autore delle Correzioni – piuttosto che 500 mila strilloni incompetenti”.
Punto e a capo, e ci ritroviamo così di nuovo all’interrogativo di partenza: quanto sono onesti e affidabili critici e recensori? Il dibattito resta aperto, in attesa di ricevere l’ennesima dichiarazione di qualche “blogger-scrittore” che si sente “sin troppo sottovalutato”.
Mediamo. O tentiamo di farlo. Era meglio quando Mario Praz o Benedetto Croce dettavano legge su cosa leggere e cosa no? Su cosa fosse degno di essere chiamato poesia e letteratura e cosa non?
Oggi purtroppo chiunque si sente critico letterario per aver letto un bignami e leggiucchiato tre Harmony.
Ma esistono blog seri, come Letteratitudine, in cui un libro viene sviscerato da insegnanti, critici, giornalisti o semplicemente appassionati ma con letture alle spalle che permettono loro un intervento non dico accademico, paludato, autorevole, ma neanche etichettabile come disprezzabile.
Il principio di autorità è crollato in ogni campo: oggi tutte le autorità vere e/o presunte sono messe in discussione. Chiesa, politica, scuola. Critica letteraria. Perché?
Scolarizzazione di massa, cultura di massa, globalizzazione, Internet…
Parliamone.
Antonella Cilento è una bravissima scrittrice e una cara amica…
Un bacio a te e a Paolo… torna a Siracusa!
Avevo gia’ letto il pezzo di Battaglia su Panorama on line. Personalmente, visto che non posso schierarmi solo su un fronte essendo sia critico che autore, ritengo che si debba generalmente tornare a fare bene, seriamente, il proprio lavoro: Antonella Cilento in soldoni dice questo – e fa bene, vista la situazione. Pero’ eviterei di far sterili polemiche che come sempre si spengono lasciando solo cenere: cerchiamo di non leggere i critici buffoni e diamo il valore che meritano a quelli onesti. Semplice. La selezione la facciamo noi lettori.
P.S.
Le battaglie fra letterati non mi piacciono; meglio chiamarle ”sane discussioni costruttive” e, appunto, lasciare lance e spade fuori della sala del consiglio come facevano i Greci.
P.P.S.
Spero che adesso il sig. Filippo Maria Battaglia veda anche questo mio intervento e ne parli… magari non un anno dopo la pubblicazione del pezzo su ”Letteratitudine”, come e’ stato per Antonella Cilento. Svegliati, carta stampata.
Carissimi,
ho letto d’un fiato tutti i vostri interventi e mi sembra che ci sia un filo rosso che li unisce, ovvero la diagnosi spietata di una critica letteraria italiana che non fa il suo mestiere che, se lo fa, lo fa davvero male. Mi stupisce che di solito le invettive partano da scrittori (vi ricordate Baricco vs Ferroni? Anche Baricco, come la Cilento, lavora presso una scuola di scrittura), cioè da chi fa della scrittura, si presume nella migliore delle ipotesi, una ragione di vita. Ritengo perciò che il critico debba accogliere questi segnali con valore di sintomo e riflettere bene sulle considerazioni che voi tutti avete esposto.
Vorrei sottolineare però due o tre cose. La prima: il critico è per definizione un mediatore, si colloca cioè tra il testo e il pubblico; ovvero non deve rispondere all’autore delle sue considerazioni sul testo. Ogni autore, una volta che ha scritto ed è diventato qualcosa di diverso dal suo testo, deve aprirsi a ogni possibile interpretazione, senza difendere pretestuosamente la sua presunta idea originaria, e senza pretendere null’altro. Ho l’impressione che oggi gli scrittori si preoccupino più di essere letti dal critico di turno o dal recensione propagandista che dell’effettiva qualità della propria opera (ribadisco qui la mia idea che il 90% della narrativa italiana contemporanea sia da dimenticare, e presto).
In secondo luogo: l’articolo della Cilento e scritti simili non li condivido, per una ragione molto semplice. Mi sembrano rischiosamente simili a quei saggi di Bloom e Steiner in cui si osteggia la cultura del commento e si consiglia di far cantare il testo, di fermarsi alla letteratura prima. Questa idea porta dritto alla autoreferenzialità e alla casta, all’ammirazione sfrenata del genio che è, a mio parere, il contenuto manifesto di un desiderio occulto, quello cioè della voglia di celebrità di qualsiasi scrittore, in una realtà che incoraggia sempre di più il narcisismo. In questo senso voglio ribadire l’utilità della critica che sa essere vera critica: soprattutto oggi, in un tempo in cui si è smesso di pensare sia storicamente che criticamente.
Infine, è chiaro che oggi esistono due tipi di critici. Il primo, il più diffuso, è il critico-artista: è quella sorta di scribacchino a cui piace parlare dei testi solo per sfoggiare le sue capacità creative e le sue piroette stilistiche; gli fa da contraltare il critico microfilologo e specialista, che, da buon sostenitore delle specializzazioni, si chiude nell’erudizione esasperata. C’è una via di mezzo? E’ la seconda, cioè il critico che, consapevole del crollo epocale di qualsiasi autorità e della fine dell’umanesimo, scommette su se stesso, parla sinceramente e sa che ogni atto critico è una critica sulla critica stessa e contribuisce a costituire una comunità di destinatari. Certo, è difficile oggi trovare critici non asserviti alle logiche di mercato che avete più volte evocato. Osteggiamo i critici narcisi, ma non osteggiamo la vera critica, di cui oggi abbiamo tanto bisogno.
A presto,
Marco Gatto
ps: non mi esprimo sulle scuole di scrittura. Dico semplicemente che un Balzac o un DeLillo non nasceranno mai da esse. E’ un mio parere.
Scusate, ma l’ora mi ha impedito di essere lucido nell’inserire il mio nome! Rimedio subito…
a presto
Marco