La nuova puntata de “Il sottosuolo”di Ferdinando Camon è dedicata al volume La commedia di Charleroi di Pierre Drieu La Rochelle (Fazi editore).
“Sono partito, non sono più ritornato, questa volta”. Così chiude l’ultimo racconto di questa raccolta, scritta nel 1934, che ci svela il senso della guerra per Drieu La Rochelle: l’impossibilità di fare ritorno alle commedie della vita civile dopo aver provato il disgusto e l’ebbrezza del grande conflitto del ’14-’18, che la tecnica ha reso ancor più disumano. Eroismo e viltà, esaltazione e disincanto, ideologia e cinismo si confondono nei personaggi della “Commedia, che narrano la loro esperienza sapendo di non poter essere creduti da chi nella pace è ansioso di ritrovare soprattutto le proprie illusioni. Come la signora Pragen, la borghese arricchita del primo racconto, che cerca le tracce del figlio sul campo di Charleroi, ma fugge la realtà di una guerra che, nei massacri di massa, ha perso anche le sue retoriche e le sue finzioni romantiche. E gli uomini che hanno vissuto il furore delle trincee sono già quelli che, incapaci di abbracciare una condizione diversa dallo stato d’eccezione, andranno a popolare le grandi mobilitazioni totalitarie del Novecento. In questo senso “La commedia di Charleroi”, con la sua lingua intensa, oscillante tra lucidità e follia, è emblematica di uno scrittore che, al di là di ogni etichetta politica, ha fatto della propria opera e della propria sofferenza la testimonianza tragica del disagio di un’intera generazione. Introduzione di Attilio Scarpellini.
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DRIEU LA ROCHELLE, grande scrittore, grande canaglia
Ora che l’ho letto, il libro è zeppo di note a matita, a bordo pagina, che dicono: “Acuto”, “Sincero”, ma anche: “Canaglia”, con riferimento all’autore. Chi mi legge vorrà sapere subito quand’è che dico “canaglia”. Beh, spesso. Questo è un libro sulla guerra, la prima guerra mondiale, testimonianze, rievocazioni, ragionamenti. Le testimonianze sono grandiose e inobliabili: l’autore è un testimone personale, ha visto tutto, a Charleroi, in Belgio, quando noi italiani non eravamo ancora entrati in guerra, e a Verdun, che sta alla prima guerra mondiale come Stalingrado sta alla seconda. Ha visto le carneficine preannunciate dai colpi di obice, poi meticolosamente realizzate quando i reparti andavano all’assalto scoperti e venivano centrati dalle due armi-regine: i cannoni e le mitragliatrici. Ha camminato sulle trincee coperte di pezzi di soldati, braccia, gambe, teste. Dunque, “sa” cos’è la guerra. Non la guerra teorizzata dagli Alti Comandi sulle carte topografiche, o quella sterile e asettica dei bollettini: no, lui sa, per averla vista e toccata, cos’è la guerra di prima linea, lo sbranamento dei reparti, il vegliare-dormire-morire con l’incubo di non sapere mai in quale dei tre stadi ti trovi. E allora dà ribrezzo sentirlo dire che lui “ama la guerra”, che “l’uomo è fatto per la guerra”, che “l’uomo ha bisogno della guerra come di una donna”, “l’uomo non può fare a meno della guerra, più di quanto possa fare a meno dell’amore”, “una persona civile mostra il suo amore per la civiltà aderendo a tutto il contenuto di questa espressione, aderendo allo stato di guerra permanente, se si accetta la patria si accetta la guerra, chi ama la patria ama la guerra”. È vero, c’è guerra e guerra. L’autore ama la guerra, ma non quella che sta combattendo, e quella che sarebbe venuta dopo. Non ama le guerre “meccaniche”, dove la vittoria non dipende dai soldati e dalla loro volontà di andare fino in fondo, ma dalle industrie e dalla loro capacità si sfornare cannoni e mitragliatrici. Ama la guerra degli eroi, non la guerra delle economie. Ma c’è qualcosa di fascista, in questo amore. Qualcosa di nazista. Molto più tardi, come tutti sapete, finita la seconda guerra mondiale, l’autore morirà suicida, mentre si preparavano a processarlo per adesione al nazismo. Ma il suicidio era una subliminale tentazione perenne in lui. È suo Fuoco fatuo, racconto di un suicidio come gesto che dà un senso retroattivo alla vita, libro-capolavoro da cui Luis Malle trasse il film-capolavoro omonimo.
Questa Commedia di Charleroi ci ricorda molte cose che non sapevamo. Credevamo di saper tutto, della prima guerra mondiale, ma abbiano perduto la cosa più importante: il clima, l’atmosfera, le ideologie, le motivazioni culturali, morali, spirituali, filosofiche che la sostenevano. Anche quel clima la rendeva inevitabile. La Rochelle ci fa capire non “perché quella guerra è scoppiata” (questo ce lo dicono gli storici), ma “perché non poteva non scoppiare, e, una volta scoppiata, non poteva non durare a lungo”. La vecchia Europa era un corpaccio pieno di sangue marcio, doveva dissanguarsi fino all’ultima goccia, perché nelle sue vene s’immettesse sangue nuovo. La struttura a cui La Rochelle appende i suoi ragionamenti è elementare. Il libro è tutto in prima persona. Comincia con l’io narrante che accompagna come segretario sui campi di battaglia di Charleroi una madre, la signora Pragen, che vi ha perduto il figlio, Claude, e vuol ritrovare il suo corpo. Prosegue rievocando altri incontri e dialoghi, tra cui memorabile quello con un disertore, esatto opposto di La Rochelle, in quanto sostiene che bisogna scappare dai luoghi dove si muore, non c’è niente per cui valga la pena di morire. Quando il narratore rievoca le battaglie e le stragi, quella di Charleroi e quella di Verdun, non si capisce mai se in quelle battaglie ci sono colpe o errori. Forse, e questo a tratti è anche il pensiero di La Rochelle, colpa o errore è la battaglia in sé. Noi italiani, quando pensiamo ad attacchi assurdi dal punto di vista militare e criminosi dal punto di vista giuridico, pensiamo agli attacchi “da sotto in su” ordinati da Cadorna, petti nudi contro le mitragliatrici: condanne a morte di interi reparti. Drieu La Rochelle ha qualcosa di analogo da testimoniare, ed è “la testuggine”. Ascoltatelo: “I nostri favolosi generali avevano escogitato una stupefacente buffonata: la testuggine. Quell’invenzione costituiva il singolare tentativo di difendersi dai flagelli moderni con i metodi dell’antica Roma. Ci si stringeva gli uni agli altri, in quaranta o cinquanta (mia nota: un plotone), inarcando le schiene. E tutti i nostri zaini, fianco a fianco, creavano una sorta di pavimentazione a prova di scheggia. Ma non di granata. Con questo sistema, i tedeschi potevano fare quaranta o cinquanta vittime con un colpo solo”. No, non c’è niente da salvare, in questa guerra. Bravo, acuto, sincero Drieu La Rochelle. Ma, con la sua snobistica esaltazione del “male”, che canaglia!
(“La Stampa-Tuttolibri” – 24 maggio 2014)
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