Quando si fallisce nella vita? Può un’aspirazione giovanile non conseguita, condizionare il resto dell’esistenza? La predestinazione è un dato? Sono domande che nascono dalla lettura di Effetto albatro di Fabio Cerretani, un “vecchio” russo fra noi. Tre parti, due “intermezzi”, un epilogo che ci riportano al micragnoso mondo degli scrivani ottocenteschi. Ma il protagonista è un nostro contemporaneo, e gli anni “felici” della sua formazione, sono quelli caldi delle lotte civili e poi assurdi e criminosi dell’assassinio di Aldo Moro. Il protagonista però è avulso da tutto questo, impermeabile alle tensioni e poi alla svagatezza in cui negli anni Ottanta si stemperarono. Come un aratro versoio, la narrazione rivolta i giorni e il tempo nella ricerca della fertilità creativa, unico mezzo per il riscatto sociale di un “predestinato” alla Letteratura. E’ una lettura che stupisce e che scorre veloce alla ricerca di quel respiro, quella realizzazione, che sin dalle prime battute, sappiamo negata, parzialmente negata. Come molti, in quegli anni di scolarizzazione di massa, il protagonista di origini proletarie si ritrova in ambienti “non suoi”, il Classico e l’Università; dibattendosi fra doveri, difficoltà economiche, la meta di un successo o, almeno, di una realizzazione. Uomo di un moderno sottosuolo murato nella sua ostinazione, Genesio Tortolini si confessa cercando nei dati le cause dell’effetto mancato. Una scrittura abile, insolita che rende partecipi offrendoci in Taglia Unica la possibilità di un’autoanalisi, che ognuno può adattare o modificare da sé. Perché il tema del libro è il successo editoriale, come riconoscimento del proprio senso di vita. All’editore Pautassi (oh, potessi!) Tortolini, invia il suo lungo monologo; disincanto, commiserazione, pietà di sé, ironia, rabbia e desiderio impastati in una bella trama giocata sul doppio: Genesio, l’albatro che sta imparando a muoversi sulla terra e Clara Angrisani che come un passero fa mille voli. “La Letteratura però continuava a essere un’abitudine della quale non afferravo le motivazioni profonde, e leggevo nel modo in cui altri fumano: per vizio, per abitudine. Perché non riuscivo a smettere. Comprendevo che spettava alle lettere procurarmi la Gloria, ma capivo anche che era un ben remunerato impiego quello che invece poteva assicurarmi, se non la ricchezza, per lo meno un certo benessere nell’immediato”.
Miriam Ravasio
di Fabio Cerretani
Robin, 2007 pag. 336, euro 14
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UPLOAD del 29 agosto 2007
Fabio Cerretani, previa autorizzazione del suo editore, mi ha inviato un testo estratto dal suo “Effetto albatro”. Lo pubblico di seguito invitandovi a leggerlo e a commentarlo. (Massimo Maugeri)
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28.
Il dramma del passaggio dalle soglie del successo al rientro nei ranghi non si consumò tutto in una volta, e la patina grigia della sconfitta tornò a discendere su di me un po’ per volta.
Il primo disinganno fu quando, giunto nell’albergo milanese del cui costo era l’Organizzazione a farsi carico, incontrai l’efficiente manager della cultura che mi aveva telefonato la seconda volta:
“Salve, io sono Cinzia Rebaudengo”, mi disse. Era una over fourty bruttina e priva della benché minima attrattiva, alta che mi arrivava a malapena alla spalla, e sì che io tutto sono fuorché un colosso. La dottoressa Rebaudengo era vestita come una bibliotecaria d’altri tempi, che al solo immaginarla intimamente paludata nella lingerie che le avevo cucito addosso mi faceva l’effetto di una caricatura, perché, tanto per farLe capire il tipo mediterraneo, ci sarebbe voluto un reggiseno della seconda e uno slip della sesta.
Insomma, lo so che è antipatico giudicare le donne prima di tutto, se non solo, dal loro aspetto fisico, e infatti questa qui era senza dubbio intelligente, era persona competente e lavoratrice e aveva letto molti libri, era laureata e tutto quello che vuoLe, però cosa dire, certe pessime abitudini maschili, anzi maschiliste, è difficile perderle, e devo ammettere che ci rimasi male. Solo la voce era rimasta quella che al telefono mi aveva spinto a sognare, e questo doveva dipendere dal fatto che nell’immagine ideale che di lei mi ero composto nella mente, il timbro efficientista e leggermente sadomaso da donna dominante era l’unico dato acquisito in maniera
definitiva.
“Lei?”, feci, e dovetti rimanere con la bocca un po’ spalancata, in una espressione facciale in netto contrasto con quella che dovrebbe essere l’espressione acuta e profonda di qualcuno che ambisca fregiarsi del titolo di scrittore; dovevo piuttosto sembrare una recluta del Reggimento Granatieri, uno spilungone cresciuto troppo in fretta fino ai suoi quasi due metri, con un corpaccione in cui gli impulsi in partenza dal cervello giungevano con molta lentezza alle estreme regioni dell’Impero, come messaggeri su strade poco praticabili e irte di pericoli. L’impulso destinato al mio braccio sinistro con un dispaccio che gli intimava di sollevarsi per stringere la mano che la donna già da un po’ mi tendeva dovette perdersi per strada, o essere assalito e trucidato dai briganti, e allora fu la Rebaudengo stessa, da donna energica e decisionista, ad afferrarmi la mano che pendeva inerte lungo il fianco e a stringerla in una di quelle morse che nelle terre settentrionali nemmeno le femmine ti risparmiano, e che a noi amanti prossimi al disarmo evoca a volte con un brivido l’immagine di ben altre strette possibili.
“Com’è andato il viaggio, tutto bene?”, mi chiese.
“Come può andare un viaggio in treno in seconda classe”, risposi con quel mio spirito poco salottiero, in un modo che voleva essere ironico e mondano e che invece inspiegabilmente suonò burbero e scontroso, tanto che lei lo prese per un rimprovero:
“Capisco. Ma purtroppo i fondi ricevuti dall’istituto bancario che patrocina la manifestazione non sono stati sufficienti per offrire l’aereo…”
“Per carità, per carità, non volevo dire questo. Anzi, è già tanto che… questo albergo – mi confusi, lasciando vagare lo sguardo in giro per l’alberghino sciccoso e dall’aria very expensive nel quale sarei stato ospitato gratuitamente per due notti – e anche a prescindere da questo, l’occasione è tale che…”
Vidi che Cinzia Rebaudengo annuiva pietosamente, guardandomi come i componenti della spedizione sul ghiacciaio avrebbero guardato l’Uomo di Similaun nel caso in cui questi, invece che farsi trovare ibernato congelato e perfettamente conservato, si fosse fatto loro incontro cercando di stabilire un dialogo per spiegare che cosa esattamente gli era accaduto migliaia di anni avanti.
“Bene – concluse quando i miei farfugliamenti le furono sembrati sufficienti per ristabilire un corretto funzionamento della dinamica incube/succube – per stasera la lasciamo libero.
Si riposi, che domani è il gran giorno. Ci vediamo qui nella hall alle dieci per l’intervista.”
Avvertii un brivido lungo la schiena, l’ennesimo di quel periodo, tanto che non ci facevo quasi più caso e tutto quello che riuscivo a fare era di attendere che si esaurisse disperdendosi nella regione lombo-sacrale come l’Okavango si perde negli acquitrini del proprio delta, mentre la goffaggine appena esibita mi sconsigliava di avventurarmi nella richiesta di una conferma, ufficiosa ma di fonte ufficiale, di quello che a quel punto mi sembrava ormai certo.
Libero, poi, non lo ero affatto, perché alle undici e mezza avevo appuntamento con Marcello Mascambruno. Il Piccolo Editore Onesto mi aveva cercato un paio di settimane avanti, e la sua telefonata era stato uno dei segnali che più mi avevano persuaso dell’imminenza del Successo, l’altra essendo la volta in cui, preso dall’ansia di non avere ancora nessuna certezza, mi ero provato a fare lo gnorri con quelli della reception dell’albergo: avevo chiamato con una scusa qualsiasi e mi ero qualificato, senza nome e cognome, come il partecipante al Premio Diogene Letterario, quello invitato alla premiazione, e allorché loro avevano fatto mente locale
senza nemmeno chiedermi “Quale, scusi, perché qui ne avremmo più d’uno…”, avevo acquisito la quasi certezza di essere il solo, quindi il vincitore. Ma la certezza, nei limiti ovviamente in cui uno come me può nutrire delle certezze che non siano suffragate da fatti conclamati, me l’aveva però fornita la telefonata del piccolo editore onesto. Il quale si era appunto presentato come tale, calcando il tono della voce sull’aggettivo onesto, come se una caratteristica che dovevano essere semmai gli altri a riconoscerti e che comunque almeno in teoria e salvo prova contraria tutti dovrebbero possedere fosse invece una sua peculiarità esclusiva, e mi aveva parlato in un settentrionale convulso e quasi incalzato dalla fretta di dirmi tutto quello che aveva da dirmi prima che la durata della telefonata interurbana si traducesse in un costo mal tollerabile dal bilancio di un editore delle sue dimensioni:
“Le dicevo che io sono una persona onesta, nel senso che non sono uno di quei… badilanti dell’editoria che si presentano come editori e che poi invece sono poco più che tipografi, disonesti anche come tipografi oltretutto, viste le cifre che riescono a estorcere a degli sprovveduti; quei cosiddetti editori, per capirci, che fanno stampare mille, duemila al limite anche tre o quattromila copie di qualsiasi romanzo venga loro sottoposto, e poi…”
“Ho capito quello che vuole dire, conosco il genere, e mi fa piacere che lei non appartenga a quella categoria, questo le risparmierà di sentirsi riappendere la cornetta del telefono in faccia. Piuttosto, mi faccia capire una cosa: lei come sa di me e del fatto che sono… ehm… che partecipo al Diogene Letterario?”
Mascambruno aveva fatto una risatina chioccia e furbesca, l’equivalente di quello che, se si fosse trattato di un dialogo a quattr’occhi, sarebbe stata una strizzatina d’occhio e magari anche un colpetto di gomito fra le costole:
“Lei è molto più di un partecipante, e lo sa benissimo. Ma sia chiaro, fa bene a mantenere il riserbo su una notizia del genere, che poi è quello che gli organizzatori del Premio si aspettano, a questo punto delle cose è meglio non rischiare, aspetti qualche altro giorno e potrà…”
“Ecco, appunto – lo avevo interrotto di nuovo, che ormai mi sembrava di essere io a tenere il coltello dalla parte del manico nei miei rapporti con gli editori – il riserbo: lei, allora, come ha fatto a…?”
“Ah, niente di poco pulito, sia chiaro; nessun intrallazzo. È che a Milano nell’ambiente tutti mi conoscono come una persona onesta, mi stimano anche se sono solo il proprietario di una piccola casa editrice di qualità, perché comunque sono pu-li-to, ed è una pulizia che io metto in tutte le cose che faccio e che…”
“Quindi?”
“Quindi…: un’indiscrezione – ammise, quasi a malincuore. – Ho delle conoscenze, all’interno del comitato e anche della rivista organizzatrice. Cosa vuole… viviamo in un mondo imperfetto”, concluse, lasciandomi il sospetto che, nonostante tutta la sua onestà, la nuovamente constatata imperfezione del mondo e dei suoi collaudati meccanismi offrisse a Marcello Mascambruno una comoda scappatoia per garantire alla sua piccola casa editrice di qualità la competitività sul mercato.
Un editore che mi telefona, che mi cerca! Certo non era Lei, dottor Pautasso, e non avrebbe nemmeno potuto esserlo, perché immagino che Lei più che scrivere o telefonare ami materializzarsi, andare per Annunciazioni o apparizioni soprannaturali; però era ugualmente un buon inizio, e il segnale di un’inversione di tendenza epocale: per questo non me l’ero sentita di dirgli né sì né no, potevo trovare di meglio ma potevo anche non trovare nient’altro e allora per una volta mi ero comportato saggiamente, prendendo tempo e proponendo una soluzione interlocutoria: sarei stato a Milano dalla sera avanti a quella della premiazione,
e allora avremmo potuto incontrarci e parlare con tutto comodo. Meglio non in albergo, però, perché al riguardo il regolamento era chiaro: colui che avesse pubblicato l’opera premiata prima della proclamazione del vincitore, o ne avesse ceduto i diritti, o anche solo ne avesse parlato con un editore o con persona da questi discendente o a questi ascendente entro i limiti del quarto grado di parentela, sarebbe stato eliminato dalla competizione, a nulla valendo la considerazione che l’editore in questione fosse piccolo e onesto.
E così, mentre i due che sarebbero risultati vincitori ex-aequo andavano a cena da Biffi con i direttori editoriali rispettivamente della Magnusson EdiItalia e della Moltricco & Bignola e poi nelle altrettanto rispettive sedi di rappresentanza in via Montenapoleone e via Solferino per le firme dei contratti di edizione, io mi apprestavo a inoltrarmi nelle vie più malfamate e postribolari della vecchia Milano, perché non solo l’ora ma anche il luogo che Mascambruno aveva scelto per l’appuntamento era quasi da cospiratori: alle 23,30 – chissà perché poi non aveva fatto cifra tonda, scegliendo di incontrarmi a mezzanotte in punto… – in un vicolo oscuro che per essere sicuro di trovarlo mi ero dovuto fotocopiare la relativa pagina della Guida Città della Telecom con la via evidenziata in arancione, e dall’albergo prendere un taxi il cui autista, dopo che gli avevo detto dove volevo che mi portasse, mi aveva guardato con uno sguardo lascivo dicendomi che ne sapeva lui di posti migliori di quello: “Roba dell’Est – mi fece l’occhiolino – carne giovane… anche vergini…”, e devo ammettere che per un paio di istanti l’idea di una vergine dell’est europeo mi aveva anche stuzzicato l’appetito, e se non si fosse trattato del fatto che ancora troppo recente era la delusione che avevo patito con la Rebaudengo, mi sarei fidato di più delle parole del tassista e delle mie suggestioni erotiche senza approdo e avrei accettato l’invito, mandando a farsi fottere il piccolo editore, la sua piccola casa editrice di qualità, la sua onestà e le sue arie da cospiratore, e con tutto questo ben poco per me sarebbe cambiato.
Invece quella sera il sogno di Gloria doveva essere ancora ben vivo in me, perché declinai gentilmente l’invito dicendo che un’altra volta avrei approfittato senz’altro della sua esperienza ma che per quella sera, dissi misteriosamente, c’era prima un’altra faccenda che dovevo sistemare, che era già troppo tempo che andava avanti e dovevo proprio darci un taglio. Il tassista meneghino parve favorevolmente impressionato: annuì con la testa senza chiedere nient’altro, e per tutto il resto del viaggio continuò a guardarmi di tanto in tanto nello specchietto retrovisore, come per imprimersi bene nella mente la fisionomia dell’autore del delitto; quando
mi lasciò nel vicolo male illuminato non volle né la mancia né il supplemento per l’ora notturna.
Anche io sembravo entrato nel personaggio, perché non avvertii nemmeno poi tanto quella paura che in altre occasioni, a sapermi solo, indifeso e nelle vesti di vittima ideale di una rapina, un omicidio o financo dell’estremo oltraggio di uno stupro, mi avrebbe letteralmente paralizzato, tanto che perfino quando dal buio avvertii provenire quella voce, quella roca domanda:
“È solo?” sobbalzai appena, mi voltai con naturalezza e osservai senza punto indietreggiare l’enorme massa scura che si staccava dal buio per venirmi incontro:
“Si è assicurato di non essere pedinato?”, chiese.
Solo quando mi decisi a fare sì con la testa, l’editore Marcello Mascambruno mi tese la mano per il riconoscimento ufficiale: il piccolo editore era un uomo enorme, due metri almeno per un altro di larghezza, ma la sua stretta di mano, dopo la morsa inflittami da Cinzia Rebaudengo, risultò singolarmente molliccia e femminea, e prima che mi immergessi totalmente in un fitto dialogo a base di diritti d’autore e copie da distribuire, mi attraversò la mente il sospetto che magari la donna manager, a dispetto della sua bruttezza, poteva avere delle qualità nascoste.
“È questa la possibilità di parlare con tutto comodo? – chiesi guardandomi intorno, con l’intenzione di fare dell’ironia per mettere l’omone a suo agio. – Non c’è nemmeno un bar aperto…”
“Non ho parlato io di comodità, è stato lei. Possiamo parlare qui, tanto è per pochi minuti, trattenersi di più sarebbe imprudente. E poi lei dovrebbe saperlo: scrivere è fatica, tormento interiore, spesso disagio materiale…”
“Guardi, scrivere non è niente. Sono arrivato a credere che siano sufficienti un po’ di pazienza e niente di meglio da fare – esagerai, e subito dopo mi corressi – oltre a un po’ di inclinazione, ovviamente. Il problema vero, mi creda, è riuscire a pubblicare.”
“Coraggio, lei è quasi alla fine del suo Calvario. Ci sono qua io”, mi fece, poggiandomi una mano sulla spalla. Di persona l’eloquio di Mascambruno, non più incalzato dai costi esorbitanti delle interurbane, fluiva calmo e rilassato, planando fino a me da quelle colossali altitudini come un messaggio di speranza.
“Che cosa ha da offrirmi?”, gli chiesi, senza l’ostilità di quella volta con Bellentani, il quale a ben vedere non aveva mai parlato di onestà, quindi almeno in questo era stato onesto.
Mascambruno non rispose subito. Nonostante la stagione primaverile in corso, a Milano era ancora piuttosto fresco, e in quei bassifondi l’umidità sembrava addensarsi come se vi giungesse seguendo una corsia preferenziale; l’editore doveva saperlo in anticipo, di poter contare su un contesto nebbioso degno di un vecchio film con Christopher Lee, e mentre io rabbrividivo nel giacchino di finta renna, lui era ben coperto da un impermeabile cerato di tipo inglese con tanto
di mantello corto come quello di Sherlock Holmes. Proprio in quel punto, nell’intersezione tra impermeabile e mantella, frugò a lungo come se cercasse qualcosa in una tasca così segreta che sarebbe rimasta tale anche ai segugi del Premio Diogene Letterario che lo avessero eventualmente intercettato e perquisito: “Tenga”, mi disse alla fine di quel lungo lavorio. Presi le carte che mi tendeva e le esaminai spostandomi alla luce di un lampione: erano un assegno della Banca Popolare di Milano di cinquecento euro e un contratto per l’edizione de “La circolare” in duemila copie iniziali.
“Non è molto, mi rendo perfettamente conto – disse. – Ma tenga presente che io non sono Arnoldo Mondadori. La cifra potrebbe addirittura sembrare offensiva, ma spero serva per dimostrarle la mia onestà, e il fatto che io non voglio ingannarla. Insomma, è il gesto che conta…”
“Per compiere un gesto simbolico immagino che un milione delle vecchie lire sia sufficiente”, dissi.
Cominciai a leggere le varie clausole alla luce del lampione, solo che, colto di sorpresa, non riuscivo a concentrarmi sui pro e contro e le eventuali contromisure da inserire, e ciò non solo per colpa dell’oscurità; cercavo soprattutto il punto in cui si dichiarava quanto e in che modo io avrei dovuto pagare all’editore pirata, perché senza dubbio di questo si trattava, e al vedermi curvo in quel modo su un fascicolo un ubriaco di passaggio si fermò dietro di me, mi appoggiò il mento su una spalla e cominciò a leggere anche lui. “Fila via”, gli disse Mascambruno quasi con tenerezza, e l’ubriaco si dissolse nella nebbia.
Insomma, dottore, una serata di quelle che si ricordano, di quelle per le quali da ragazzo mi sarei esaltato: ero solo, di notte, immerso nella nebbia della grande città del nord, in procinto di firmare il mio primo contratto con un editore galantuomo anche se misconosciuto, e alla vigilia della più importante affermazione della mia vita di sconfitto.
Eppure avvertivo che l’atmosfera non era quella che avrebbe dovuto essere, e questo è perfettamente comprensibile viste le modalità, dirà Lei; ma c’era dell’altro, forse qualche reminiscenza letteraria che prendeva corpo nel vicolo buio per trasformarlo in una cava di pietra abbandonata, nella quale io ero giunto seguendo senza ribellarmi i miei due carnefici:
“Come un cane” mormorai allora, citando un po’ a sproposito le ultime parole di Joseph K. Forse quel contratto non mi sembrava una conclusione degna del Sogno, ma solo un boccone di scarto datomi in pasto per pietà, per levarmi di torno, e mi parve che se lo avessi firmato lì, in quel modo, magari appoggiandomi sulla schiena di Mascambruno – ma come?, che era alto due metri – o sul tettino umido di una vettura in sosta… come dire?… la vergogna, proprio come a Joseph K., mi sarebbe sopravvissuta.
Sfumature di poco conto, che il piccolo editore onesto non poteva cogliere: “Come dice?”, mi chiese.
“No, niente. Dicevo che non mi sembra questo né il luogo né il modo. Non è così che ho immaginato la firma di un contratto con un editore” gli dissi, restituendogli l’assegno e il contratto che l’aria umida e misty della notte avevano già accartocciato, e ricordo che pensai che era davvero strano che anche per quanto riguardava l’editoria, quindi in definitiva i libri, tutto dovesse dipendere da imprenditori che vivevano e operavano in una città il cui clima gonfiava, ispessiva, deformava e imbruttiva la carta.
“Siamo un po’ idealisti e romantici, eh?”, mi rispose, ma non nel tono di un rimprovero, cominciando a tastarsi addosso in cerca della tasca segreta dalla quale li aveva estratti poco prima.
“Un po’, sì. Domani, lo prometto – dissi, come una vergine timorosa ma calcolatrice, che resista solo nella speranza di cedere a un miglior offerente l’esclusiva della deflorazione – dopo la premiazione. Lei verrà alla cena?”
“Certo. Sono un editore, e anche se piccolo, la mia fama di onestà è tale…”
“D’accordo-d’accordo-d’accordo – tagliai corto – domani a cena, allora, o anche dopo, tanto quanto potrà durare? Avremo modo di parlarne e, se del caso, trovare un accordo. Okay?”
“O-kay! Mi sembra giusto. E si ricordi: anche se non dovesse vincere, io sono ugualmente interessato al suo romanzo”, mi disse allontanandosi.
Mi toccai in basso, ma senza precipitazione, per dare l’impressione che fosse un gesto della stessa casualità involontaria con cui a volte si controllano il portafoglio o l’orologio o le altre cose preziose che si portano sempre con sé. Il gesto, del resto, non ebbe nessuna efficacia scaramantica perché la mattina seguente, quando dopo una notte fitta di incubi alle dieci in punto feci il mio ingresso nella hall dell’albergo esalando gli ultimi ruttini di assestamento gastrico conseguenza di una colazione a buffet nella quale avevo assaggiato perfino il porridge, vidi che Cinzia Rebaudengo sedeva già in un circolo di poltrone e divani, attorniata da una decina scarsa di persone, che immaginai giornalisti convenuti per una prima informale intervista al vincitore. Ma mentre timidamente cominciavo a girare intorno al consesso con volute dal diametro sempre più ridotto, in attesa che lei notasse che il vincitore era lì e lo invitasse a prendere posto tra di loro, mi resi conto che non era affatto
lei il centro dell’animata riunione, perché l’eminenza grigia… o meglio, il maestro di cerimonie sembrava piuttosto un’anziana signora con i capelli cotonati e virati nei toni di un tenue violetto da fata turchina, che osservava i vari interlocutori come se fossero tutti figli suoi, mentre disputavano animatamente su qualche argomento che doveva prenderli molto. Fu proprio lei che, pur senza conoscermi, a un certo punto dovette accorgersi di quello strano individuo che continuava a girare in tondo osservandoli con la coda dell’occhio, e che non poteva che essere o un emissario di un Premio concorrente, venuto a spiare l’informale cerimoniale per poi riproporlo pari pari in chissà quale oscura manifestazione del centro-sud patrocinata e sponsorizzata da qualche cassa rurale e artigiana di infimo rango, oppure quello degli invitati che ancora mancava all’appello. Per cui, dopo una breve consultazione con la Cinzia Rebaudengo, che interpellata al riguardo ebbe la bontà di riconoscermi quasi subito, la fata turchina mi fece con la mano un cenno regale e nello stesso tempo sbarazzino perché mi appressassi a lei:
“Sono Marisa Botto Ramella di Sanvigognano…”, mi confidò, quasi per spiegare il perché di tanta magnificenza, e per un attimo temetti che volesse proseguire illustrandomi la sua esatta collocazione nell’ambito della genealogia di famiglia; ovviamente rimase seduta, fatto decisamente scusabile in una signora per di più di quella età, ma che mi costrinse a interpretare il resto della conversazione con la schiena dolorosamente curva nella sua direzione, nell’atteggiamento del più servile dei camerieri o dei portaborse, per di più mostrando chiaramente di non sapere se a quel punto, udito nome e patronimico e feudo di provenienza si trattasse di genuflettersi o cosa.
“Ricorda? Ci siamo sentiti al telefono; fu nel febbraio scorso, credo”, e allora sì, allora compresi che era la signora che mi aveva chiamato la prima volta, per dirmi che ero rientrato tra i finalisti. “Ha fatto buon viaggio?”, si informò con sollecitudine e come se davvero gliene importasse qualcosa, e io, che avvertivo ancora vivo l’imbarazzo per la figuraccia del giorno avanti:
“Ottimo, – risposi – molto, molto meglio che in aereo”, intendendo in quel modo rassicurarla sul fatto che proprio non importava che l’Istituto Bancario più trendy della città nonché finanziatore della manifestazione avesse lesinato sulle trasferte degli invitati di seconda fascia.
“Molto bene. E la notte: trascorsa bene?”
“Meravigliosamente bene”, risposi, abbassando lo sguardo nel timore che le occhiaie da panda sconfessassero le mie asserzioni.
“E ha già preso la prima colazione?”
“Vengo ora dal buffet”, risposi, senza riuscire a trattenere la conferma fornita da un conclusivo singulto. Solo una volta esaurita l’intera rassegna di schermaglie di cortesia, la fata turchina si decise ad assestarmi la botta: “Aspetti, che le presento i vincitori.”
Io vacillai: “I vincitori?”, dissi, e lei interpretò male le ragioni del mio turbamento, sul quale per ora eviterei di soffermarmi perché tanto Lei è perfettamente in grado di immaginare quale e quanto possa essere stato:
“Certo, quest’anno c’è un ex-aequo, non lo sapeva? – trillò, come se quella trovata dei due vincitori che non scontentava nessuno tranne me fosse venuta in mente a lei personalmente.
– Allora, guardi: la signora – mi sussurrò, e con gli occhi mi indicò una giovane donna vagamente somigliante a Mariangela come appare nei film di Fantozzi – è un’assistente universitaria in odore di cattedra, per così dire, che ha partecipato e vinto con un’opera quasi sperimentale che innova fortemente il linguaggio. L’altro – e, anche stavolta senza parere, mi fece capire che si riferiva al trentacinquenne piuttosto distinto che ascoltava in silenzio la discussione in corso – è un giornalista free-lance di Milano, che ha scritto un romanzo dal forte impegno civile.”
Logico, sembrava sottintendere, che a lei che non ha scritto né opere di forte impegno politico e sociale né innovatrici sul piano del linguaggio, e che per di più come lavoro fa l’ispettore dell’Agenzia delle Reintroduzioni Contabili, sia toccata quella segnalazione della Giuria che, spero vorrà riconoscerlo, con un curriculum come il suo è anche troppo.
Io non glielo avevo detto che tipo di lavoro facessi, ma dovevano averlo scoperto ugualmente, dovevano avere spie e confidenti ovunque, e adesso si comportavano di conseguenza, tanto che la gentildonna non ritenne nemmeno opportuno interrompere la disputa in corso solo per procedere a delle regolari presentazioni: “Lasciamoli parlare – disse, con un gesto della mano come se scacciasse una mosca – tanto nel corso della giornata avrà più di una occasione per uno scambio di vedute. L’altro, infine – e mi indicò un quarantenne circa, piuttosto grasso e con un viso seminascosto da barba e baffi – è Mantellassi, un critico famoso che ha fatto parte della Giuria ed è qui stamani appunto in sua rappresentanza.”
Tra i membri della giuria, pensai, doveva essere il meno importante, se oltre che la cerimonia di premiazione e la cena che sarebbe seguita gli era toccato sciropparsi anche quell’incontro informale al mattino, nel quale stava sfogando contro il giornalista free-lance la rabbia che non poteva sfogare contro gli altri membri della giuria, contestando la mancanza di non so bene quale requisito di forma al romanzo che pure aveva vinto, e non mandando indenne neppure l’opera dell’assistente universitaria da una quasi complementare carenza sul piano del contenuto. Sembrava indiavolato contro i due ex-aequo, i quali da veri marpioni navigati nel giornalismo l’uno e nell’ambiente universitario l’altra, mi davano una lezione di vita nonostante fossero entrambi più giovani di me di dieci anni almeno, annuendo volonterosamente e incassando con il sorriso sulle labbra laddove io avrei morso, inveito e dilaniato. Quando infine la nobildonna di Sanvigognano lo interruppe per dirgli chi ero, Mantellassi mi tese la mano e la depose dentro la mia come se invece che stringerla si trattasse di baciarla, e non mi guardò nemmeno in viso.
“Ma venga, si accomodi qui”, mi fece la Botto Ramella, colpendo con un buffetto l’esiguo rettangolo di divano che residuava tra il ponderoso didietro della giornalista che prendeva appunti frenetici e le di lei scheletrite chiappe.
“Allora, è contento?”, mi chiese, quando mi fui sistemato.
“Di cosa, scusi?”
“Ma… di essere qui!”, mi fece, meravigliandosi di genuina meraviglia, e lì per lì, già alle prese con i miei meccanismi interiori di elaborazione della sconfitta, non compresi nemmeno se si riferisse all’essere comunque rientrato nell’elite di quella edizione del Diogene Letterario oppure semplicemente – ma meno verosimilmente – all’essere seduto tra l’alfa e l’omega in fatto di culi femminili, e forse fu per questo che la bassezza delle mie origini si fece sentire in maniera greve e inopportuna:
“Se devo essere sincero, io pensavo di aver vinto…”, le sparai a bruciapelo, e vidi subito che quella doveva essere la prima esperienza che la signora aveva di fenomeni paranormali come la spontaneità e la franchezza.
“Vinto? Noooo… oh mio Dio, noooo – mi fece, battendosi entrambe le mani sulle guance, inorridita e insieme divertita da quella mia assurda pretesa. – Ma è una fissazione la sua! Ma davvero non capisce l’importanza di una segnalazione al Premio Diogene Letterario? Gente come la Tandurro e la Chiavancini ottennero un piazzamento pari al suo e non se ne lamentarono mica! E poi, guardi che sui giornali comparirà anche il suo nome!”
“…Sai che novità, comparire sui giornali!” risposi, scrollando le spalle in un modo che persuase la fata turchina del fatto che con me non c’era niente da fare, che piuttosto che sprecare una prestigiosa segnalazione per un buzzurro irriconoscente come me molto meglio sarebbe stato segnalare quel torinese così compitino e dai modi di una squisitezza quasi sabauda, che era arrivato quarto di poco, in fondo non lo stava dicendo anche Mantellassi che le Lettere sono anche Forma? Magari era vero che ignorava i congiuntivi e che scriveva accelerare con due elle, però anche a basarsi unicamente sulle opere ecco che cosa succedeva, che un cafone
quasi meridionale si piazzava praticamente terzo in una manifestazione importante come il Diogene Letterario, rischiando di venire proiettato nella scena letteraria nazionale e di inquinarla in maniera forse irrimediabile.
Ringrazio Miriam alla quale avevo chiesto di recensire, per Letteratitudine, questo nuovo libro di Fabio Cerretani.
Se qualcuno, tra voi, dovesse essere incuriosito da quanto letto sul post… non esiti a porre domande. Sia l’autore del libro che l’autrice della recensione saranno a disposizione.
Quando si fallisce nella vita? Mah…direi quando ci si sente tali. Falliti, intendo. Come certamente Miriam avrà letto nel mio libro, comunemente il Successo si misura in auto di lusso, collezioni di orologi, donne di prestigio e rustici ristrutturati, tanto per nominarne qualcuna, e non è certo a quello che alludo io. Ben diverso è fallire nei propri sogni di Gloria e Immortalità come ce le insegnano a scuola, specie quando si scopre che in fondo anche la Letteratura – almeno quella attuale – è una patacca come tante altre, e che per tanti, troppi anni si è corso dietro a una chimera. Tempo fa ho letto nel blog un brillante, disincantato ed informato intervento di Sergio Sozi, che non saprei ritrovare (credo si tratti del forum su “75 ragioni per cui il vostro libro non sarà mai pubblicato”) ma al quale comunque rimando per i dettagli pratici sullo “stato dell’arte”. Personalmente sono tra i – non molti, immagino – “fortunati” che sono riusciti a pubblicare (tre romanzi, nel mio caso) senza nessun tipo di contributo alle spese, ad essere recensito su Tuttolibri e ad ottenere poche altre gratificazioni che, messe insieme, non valgono certo l’impegno e la costanza che mi ci sono voluti: i miei libri pochi li hanno letti, e molto probabilmente mi rimarrà precluso – per quel che vale, se non per i riscontri economici, ma allora si rientrerebbe nel giro del Successo misurabile come in apertura – l’ingresso nel ristretto circolo delle case editrici “importanti”, quelle che piazzano i propri “prodotti” a pile orizzontali nelle librerie (in TUTTE le librerie) e vincono i premi letterari. Se poi sia un (mezzo?) fallimento mio o del Sistema, questo non saprei dirlo: le Lettere non offrono una controprova matematica della validità di un testo; giudici attendibili e imparziali non ce ne sono, e personalmente ritengo che, data la uniforme piattezza della produzione nostrana, un Calvino, un Buzzati o un Palazzeschi oggi non sarebbero nemmeno pubblicati: impegnerebbero troppo un lettore che ha “troppe cose da fare”.
Ciao Fabio, come sai non ho ancora letto il tuo libro. Però mi fido molto del giudizio di Miriam.
Dal tuo commento colgo una certa disillusione e un velo di pessimismo. Io dico che, sì, devi ritenerti fortunato. Sei riuscito a trovare un editore piccolo, ma valido, disposto a credere (e a rischiare) in te e nella tua scrittura. Ti pare poco? Te lo dice uno che non ha mica pubblicato con la Mondadori, ma che si ritiene assolutamente fortunato.
Poi scrivi che,”un Calvino, un Buzzati o un Palazzeschi oggi non sarebbero nemmeno pubblicati”. Su questo non sono molto d’accordo.
Ma si potrebbe aprire un dibattito. 😉
Ciao Fabio,
ho ‘sentito’ molta amarezza nelle tue parole e ti dico ‘non sai quanto ti capisco’. Lavorare sodo, fare rinunce, crederci poi. Poi.
Però ha ragione Massimo, in questo campo secondo me i fallimenti in senso stretto sono altri. Il fatto di essere pubblicati come te è già un grande risultato. In molti non ci riescono. Poi andare a capire se per demeriti effettivi o cecità di chi doveva leggerli e non l’ha fatto (o non ha intravisto del buono nel testo) è difficile stabilirlo.
Secondo me molti autori che oggi studiamo sui banchi riceverebbero porte in faccia. C’è piattezza, come dici tu, ma non solo penso, ci sono i venti del marketing che spostano gli equilibri, ci sono gli elementi garanzia che cambiano col tempo. Se uno davvero vuole sfondare(intendo per essere in tutte le librerie) sa cosa deve fare in realtà(poi che ci riesca dipende da altri variabili più incontrollabili) però sa. Rimanere coerente con se stesso, con le proprie inclinazioni narrative, non accettare compromessi, non scrivere per trend di mercato, metterci l’anima e scavare… ecco per me queste sono vittorie. Il libro è un oggetto ma lo scrittore non necessariamente deve essere in vendita.
Buona fortuna Fabio e tienici aggiornati!
Barbara
Dimenticavo una cosa.
‘ la Letteratura – almeno quella attuale – è una patacca come tante altre’ ecco, anche come provocazione un pò mi dispiace.
Leggo ogni volta che posso. Libri che si trovano in tutte le librerie d’Italia (anche se io ordino quasi sempre on line!) ma anche e, di recente sopratutto, libri di case editrici meno note e di autori che ai più non dicono niente.
E.
Alcuni di loro mi hanno lasciato addosso qualcosa. Per me questo è il valore aggiunto. Il vero motivo per cui leggo. Per cui cerco storie, ci entro e mi lascio andare. Se davvero fossero tutte patacche a un certo punto si smette davvero di cercare, no?
Alcune volte sono rimasta delusa, altre ho avuto difficoltà. Nella norma.
Ma quando mi arriva un’emozione, mi colpisce un personaggio o una trama. Allora il libro ‘ha fatto il suo dovere’ per me.
B
Pur percependo lo sconforto di Fabio Cerretani mi trovo molto d’accordo con gli interventi di Barbara Gozzi, soprattutto l’ultimo.
Vorrei aggiungere che molti dei miei amici che leggono hanno uno o più manoscritti nel cassetto (il mio l’ho ormai cestinato) e spesso si lasciano andare al canto del ‘genio incompreso’. Credo che chi riesca a pubblicare senza contributo, oggi, possa reputarsi fortunato (dando per scontato che deve avere un certo talento letterario).
Una domanda per Fabio Cerretani. Lei si lamenta di avere pochi lettori. Ma se la letteratura, a suo avviso, è una patacca perché mai, sempre a suo avviso, dovrei leggere il suo libro?
Il fallimento è il valore di una X; e la X è il limite che poniamo al nostro contesto o per essere spiritualmente precisi: il limite è il valore che diamo allo spirito. I sogni che s’infrangono, le aspirazioni che non si raggiungono sono solo formulazioni contingenti all’età, alla formazione acquisita e raggiunta in quel determinato momento, alle condizioni con cui dobbiamo confrontarci, all’insieme tutto dei limiti “fisici”; famiglia, sesso, economia, società. Falliscono matrimoni, imprese, progetti di vita; fallisce una carriera, ma sono sempre fallimenti precisi, riconoscibili, circostanziati. Il fallimento di cui narra Cerretani è altro, è quello esistenziale, dell’incompiutezza di una vita che poteva essere altra. Una vita appagante, con un super-io riconosciuto dai sistemi sociali e di conseguenza una vita felice, giusto e meritato riscatto per le capacità e le umiliazioni subite. E’ un modo di vedere semplice, elementare, arcaico che contrasta con la formazione dell’autore e con la sua capacità espressiva. Uno scrittore, che sa scrivere Cerretani, tuttalpiù può considerarsi uno “sfigato”, vittima della sorte, ma mai vittima della vita. La vita è altro; è evoluzione, mutamento, passione, catarsi. La vita è l’uomo, che è padre, figlio, marito, fratello. E’ partecipazione, compassione, responsabilità (il vero grande dono).
Un sistema editoriale non è tutto questo! Spinoza, nelle sue lettere, era solito ripetere che “ogni uomo dotto che non sappia anche un mestiere, finisce per diventare un furfante”.
Nel corso della mia vita, grazie al Cielo e alle Contrarietà, ho imparato un sacco di mestieri!
Un abbraccio.
da ciò che ho letto qui e su ibs mi sembra un libro a suo modo trasgressivo e ironico. il tema mi piace. credo che ne farò la mia lettura estiva investendo i pochi euro che mi rimangono in tasca.
parola di sfigatissimo.
Forza Fabio sei tutti noi, dove per noi intendo noi scrittori mai pubblicati; lo sconforto c’è sempre, è ovvio, ma non si deve drammatizzare a mio avviso, né tantomeno cestinare ciò che si è prodotto personalemente o giudicare a 360°, e negativamente, tutta la letteratura prodotta. Ce n’é anche di buona, di quella forte che ti lascia addosso qualcosa per giorni. Una soluzione personale a questo fenomeno editoriale non la conosco, mi piacerebbe tanto, sarebbe già sufficientemente appagante pubblicare anche con delle case editrici minori e poi farsi propaganda anche da soli, perché no. Se c’è riuscito Moccia:) Sursum corda!
Vorrei prima di tutto ringraziare Miriam per le puntualizzazione sulla mia idea di fallimento, che sembra aver compreso ancora meglio di me stesso (e non sto scherzando), anche se, più che uno sfigato mi definirei uno scontento. Le vicende narrate nel libro, però, possono essermi riferite solo in minima parte: la mia laurea, ottenuta a Siena e non a Roma, è in Giurisprudenza e non in Lettere, e certo non ho mai dormito sotto i ponti. Mio padre voleva farmi entrare in banca, non nelle Ferrovie, e sono figlio di genitori colti o almeno istruiti. L’insoddisfazione lavorativa invece è vera.
Mi preme anche tranquillizzare Barbara Gozzi: ovviamente la Letteratura NON E’ una patacca, o almeno non solo, e questo neanche ai giorni nostri, nonostante stiano facendo di tutto per farcela diventare. Non ci farei una gran figura ad accorgermene solo adesso, alla mia età, dopo averla avuta come compagna fedele durante anni migliori. Non sono patacche tutti i libri e gli autori che mi sono stati vicini, a volte letteralmente esaltandomi, e dai quali non vorrei sentirmi piantato in asso proprio adesso che comincia la…come vogliamo definirla?…fase discendente, durante la quale, oltre che leggere e ri-leggere, poche cose di meglio avrò da fare.
Ha cominciato invece a diventare patacca – e questo è un fenomeno tipicamente nostrano – da quando c’è più gente che scrive che gente che legge, e allora per farsi largo si ricorre ai classici sistemi italiani con i quali ci si fa beffe della meritocrazia; da quando gli editori, invece di cogliere le tendenze – come facevano Valentino Bompiani e Arnoldo Mondatori e Leo Longanesi – pretendono di imporle (vedi Minimum Fax e gli altri editori con gli occhi spiritati e la chiacchiera sciolta); da quando il noir e il poliziesco, fino a ieri l’altro considerati una sottospecie di narrativa, sono diventati letteratura a tutti gli effetti, e allora ogni volta che si legge un libro ci si attende il Mistero, l’Intrigo, il Finale a Sorpresa, l’Assassino e il Commissario: libri buoni per coinvolgere l’istinto peggiore del lettore – che è quello di sapere “come va a finire” – anche a costo di trascurare descrizioni di persone, atmosfere e paesaggi: ci credete o no che oggi “Il deserto dei tartari”, un libro dove in senso stretto non-succede-niente, e dove solo verso la fine si comincia a intravedere qualcosa ma allora il protagonista muore e la storia finisce, semplicemente NON VERREBBE PUBBLICATO?
Intendiamoci: all’estero c’è ancora molto di buono: Frantzen, O’ Connor, tanto per fare due nomi. Quello che disturba, semmai, è che riescono a farci leggere a tutti le stesse cose, no? Yehoshua, Mc Grath, Roddy Doyle, Amos Oz… Per essere libero almeno in questo, allora, da tempo ho preso l’abitudine di andare alla riscoperta di libri dimenticati: gli autori ungheresi e mitteleuropei che ebbero successo tra le due guerre (Lajos Zilahy, Tibor Dery, Arthur Koestler, Ferenc Kormendi) o perfino francesi (Pierre Drieu La Rochelle). O le vecchie pubblicazioni della Medusa e della B.U.R. degli anni quaranta e cinquanta: tutta gente che ho ri-scoperto nelle piccole librerie di libri usati fiorentine e pratesi, molto prima che lo facesse Adelphi.
E in fondo anche in quello che si pubblica in Italia c’è del buono: ho trovato molto avvincente “Il Fasciocomunista” di Antonio Pennacchi, o il primo Cesare De Marchi (i due romanzi pubblicati da Sellerio), e Nico Orengo, il primo della Agnello Hornby (gli altri non li ho letti), che mi ha riportato alle ambientazioni siciliane delle mie prime letture. Mi è piaciuto anche il piccolo “Cordiali saluti” di Andrea Bajani, quel suo modo di descrivere persone e situazioni e che è come se lo facesse con sommarie pennellate.
Altri autori sono – per me – da rivedere: Edoardo Nesi (mi ha un po’ sorpreso – ma appena un po’ – averlo conosciuto, ai tempi di “Fughe da fermo”, come “lo” scrittore di destra, e averlo ritrovato alle ultime elezioni a fare campagna elettorale con Bertinotti: sono sempre scettico sulle folgorazioni), Alessandro Piperno, Sergio Pent, Rocco Carbone, Claudio Piersanti.
Per altri ancora, infine, non riesco proprio a entusiasmarmi: Baricco, Ammanniti, Veronesi, De Luca…
La cosa più deludente, però, al di là dei gusti personali, è l’UNIFORMITA’: il modo in cui si scrive, gli argomenti, le storie, i tic dei personaggi.
E qui mi collego a quello che mi chiede Elektra: io mi lamento di avere pochi lettori. Ma se la letteratura, a mio avviso – ma solo nel senso che spero di avere chiarito – è una patacca, perché mai, lei dovrebbe leggere il mio libro?
Be’, qui non è difficile rispondere: potresti leggerlo perché è scritto bene, questo mi sento di garantirlo. Perché non è patinato, ma ruvido e irsuto; perché l’io narrante non è illuminato e tollerante, ma logorroico, polemico e sarcastico. Perché, nel bene e nel male, è senza dubbio una cosa “diversa”. Forse peggiore di quelle che piacciono adesso. Ma diversa, comunque, sì.
Potresti leggerlo – anche se l’oggetto non è bello come quelli di Guanda, Adelphi o Mondadori, e anche se probabilmente non lo troverai nella prima libreria ma dovrai ordinarlo – perché quello che racconta potrebbe convincerti che in fondo la Letteratura, anche se non proprio una patacca come le altre, un po’ cialtrona e inaffidabile lo è davvero.
E con questo vi saluto. Vado a fare l’unica cosa che mi piace più di leggere (e scrivere): viaggiare.
Mi piacerebbe che al mio ritorno qualcun altro avesse letto il mio libro.
Non tanto per vendere un paio di copie, che tanto non è in quel modo che mi cambia la vita. Ma per sapere di cosa stiamo parlando.
Saluti a tutti.
Fabio
Carissimo Fabio,
la recensione di Miriam Ravasio è una buona recensione, però pone tutto il racconto nell’ambito di un’esperienza individuale.
Non è così, ed è per questa ragione che il libro nella sua unicità rappresenta quasi l’epopea di un’epoca,che si proietta in una dimensione collettiva che segna il destino di una certa gioventù..
Fabio , alla classe politica italiana, non è mai andato giù che il figlio di un ferroviere ed il figlio di un operaio diventassero classe dirigente, specialmente in certi settori nevralgici per il funzionamento della macchina statale.
Lasciamo perdere la scuola, ma per gli altri c’è stata da parte della burocrazia statale una vigilanza attenta, affinché questo non accadesse ed elementi che vedevano le cose in maniera diversa, dovuto sopratutto alla loro provenienza, trovassero un ambiente ferocemente ostile e terra bruciata intorno.
Adesso si è tutto normalizzato, l’università costa un’ira di Dio e dalle mie parti non studia più nessuno, pericolo scampato.
Come vedi,per quelli che arrivano adesso l’accoglienza è diversa, sono accolti con rispetto e non ci sono più le cose tristi che il tuo personaggio deve subire e che fanno parte anche del mio triste “background”.
Proprio perché il libro ha il coraggio di raccontare, quello che gli altri si tengono per sé, costituisce una testimonianza essenziale della nostra esperienza e restituisce dignità alla nostra vita.