Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine sulla “POESIA” lo dedichiamo ai testi in “prosa poetica” di Sergio Claudio Perroni contenuti nel suo nuovo libro, che esce proprio oggi (il 25 gennaio): “Entro a volte nel tuo sonno” (La nave di Teseo, 2018 – postfazione di Sandro Veronesi).
Di seguito, una “doppia lettura” a cura di Massimo Maugeri (dove si tenta di raccontare o di “spiegare” il libro) e di Daniela Sessa (dove si diffida dal tentare di raccontare o di “spiegare” il libro).
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La lettura di Massimo Maugeri
Sergio Claudio Perroni è scrittore raffinato ed eccellente traduttore. Nella biblioteca di ogni famiglia, giusto per dirne una, non dovrebbe mancare la sua magnifica traduzione del capolavoro assoluto di John Steinbeck: “Furore“. Chi volesse gustarsi la storia di un incontro tratteggiata con delicatezza e maestria invidiabili (e non l’avesse ancora fatto), per dirne un’altra, troverebbe soddisfazione nella lettura del suo recente romanzo: “Il principio della carezza” (La nave di Teseo, 2016 – qui è disponibile il suo Autoracconto d’autore). Prima, però, vecchi e nuovi lettori dei testi di Sergio Claudio Perroni e delle opere da lui tradotte, farebbero bene a procurarsi il nuovo bellissimo libro intitolato “Entro a volte nel tuo sonno” (La nave di Teseo), che si presenta con questo potente esergo: Ama impetuosamente / senti forsennatamente / non c’è altra vita.
C’è amore, dunque, nel nuovo libro di Perroni. E sentore. E vita. E molto, molto altro.
C’è una fitta e ampia geografia del pensiero e dei sentimenti, racchiusa nelle circa 170 pagine di “Entro a volte nel tuo sonno” (titolo, peraltro, dotato di grande intensità espressiva e su cui ci si potrebbe soffermare per vagliarne a fondo il significato. Chi volesse saperne di più è invitato a leggere “Madrigale – Madre io stesso”, a pag. 36).
Come leggiamo sulla bandella del libro, “Entro a volte nel tuo sonno” ci fa esplorare, come in un ideale atlante dell’anima, tutte le variazioni dell’esistenza – tra paure e passioni, volontà e istinti, mancanze e rinascite – per ricomporre i frammenti dei nostri discorsi interiori quotidiani, e donarci le parole esatte per saperli riconoscere e, finalmente, dire“.
Non stiamo parlando di un romanzo, non stiamo parlando di un saggio. Non si tratta nemmeno di una silloge di poesie in senso stretto. In questo libro, Sergio Claudio Perroni sperimenta una forma letteraria “altra” (e alta) che unisce al largo respiro della prosa la profondità della poesia, ponendosi di fronte al lettore come una sorta di specchio su cui riflettere pensieri/parole/emozioni che attraversano la nostra condizione di esseri umani. Ogni pagina di questo libro offre un titolo incisivo e uno sviluppo letterario che si trasforma, a sua volta, in occasione di viaggio fuori e dentro di noi.
Nella postfazione Sandro Veronesi ci rivela che la sua preferita è “Sapere la strada”. Ci dice che l’ha letta solo cinque o sei volte (“ma metti pure dieci, son sempre poche, perché andrebbe imparata a memoria, da tanto è bella, da tanto è vera“, scrive Veronesi). E già ripensa – continua Veronesi – a tutto quello che ha letto in vita sua, a tutto quello che ha scritto, e a quel che ha fatto di buono e di cattivo. E già ripensa – sono ancora parole di Veronesi – a tutto quello cui si possa ripensare, di fatto e di non fatto, da lui e da chiunque altro, come al frutto di quell’attimo.
Riporto, a mia volta, il testo di “Sapere la strada” (che qui diventa, dunque, citazione di citazione) per dare ulteriore risalto alle considerazioni appena esposte:
“Ti muovi nel buio e non ti trovi, cammini piano tra le
pareti di casa ma ciò che ti aspettavi non lo tocchi, ciò
che sfiori è inatteso, arriva troppo presto, troppo tardi,
ha spigoli nuovi, profili inauditi, allora cerchi a tentoni
l’interruttore più vicino, accendi un attimo la luce per
orientarti, solo un attimo per non svegliarti del tutto, e
quell’attimo ti basta per individuarti, per riconoscere il
tragitto un istante prima che scompaia, per incidere nella
tua mente la planimetria del buio, e riprendi ad avanzare
con la certezza di ogni passo, di ogni gesto, tra forme di
cui ti fidi, convinto di sapere la strada nell’invisibile, ma
a farti andare avanti è solo il ricordo di quell’attimo, a
guidarti è solo la memoria della luce”.
Un titolo, dicevo. E insieme a ogni titolo, la premessa (e la promessa) di un viaggio. “Entro a volte nel tuo sonno” ci consente di percorrere all’incirca 160 di questi itinerari. Il lettore può intraprenderli in sequenza, o senza rispettare un ordine prestabilito. Sono viaggi intensi che ti lavorano dentro, trasportandoti in una dimensione introspettiva dall’altissima densità letteraria. Sono esperienze di lettura che vanno consumate più volte per poterne beneficiare appieno; perché ogni lettura e ogni rilettura può offrire una percezione diversa, una nuova prospettiva di visione.
Mi incanto di fronte a un titolo: “Il profilo delle parole“. Mi ci soffermo, perché – alla fine – è di parole che stiamo parlando. È un titolo che mi incuriosisce, che m’inchioda. Mi domando: anche le parole, dunque, hanno un profilo? Leggo il testo e inizio il mio viaggio che qui, adesso, voglio condividire:
“Certi giorni cadono senza fare rumore come oggetti su
un panno, come pensieri che rimbalzano sull’acqua, certi
giorni sono uno specchio strabico, ti ci vedi ma non riesci
a riconoscerti, ti ricordi qualcuno ma non pensi di esserlo,
non potresti mai esserlo, hai già smesso di esserlo, certi
giorni la tua forma è un riflesso lontano, un’increspatura
di nebbia che vorrebbe farsi pioggia, muovi la mano ma il
gesto non ti segue, scrivi ma sono solo bucce d’inchiostro
intorno al bianco, parli ma senti solo il profilo delle tue
parole, allora ti agiti, ti sbracci, ti avventi, e la realtà non
reagisce, si lascia attraversare come se non avessi corpo,
si richiude intorno a te come se non avessi volume, certi
giorni sono come persone, ti sfiorano senza vederti, certi
giorni sono come gli anni, passano senza lasciarti esistere”.
Leggo e rileggo. E mi sembra di rivivere l’esperienza descritta da Sandro Veronesi. Non ho dubbi: “Il profilo delle parole” sta parlando di me, sta parlando a me. È uno specchio. È, appunto, il percorso di un viaggio.
Sono grato al profilo delle parole di Sergio Claudio Perroni, agli itinerari che segnano, alle emozioni che suscitano.
E mi ritorna alle orecchie la voce dell’esergo:
Ama impetuosamente / senti forsennatamente / non c’è altra vita.
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La lettura di Daniela Sessa
Mettetelo in musica, recitatelo, danzatelo oppure, al limite, leggetelo solamente ma – per favore – non raccontate o tentate di spiegare “Entro a volte nel tuo sonno”, il nuovo libro di Sergio Claudio Perroni. E quando lo leggerete la seconda volta (la prima volta dovete farlo in silenzio o con un minimo movimento delle labbra o, se credete, degli occhi), fatelo a voce alta e sospirate nei corsivi; scandite con la voce il ritmo delle parole: vi aiuterà, nelle pause, la virgola, unico segno di punteggiatura a far compagnia al punto. Perroni ha composto un’opera per mente e corpo: uno spartito di biscrome, un canovaccio di appunti per rari e sconsigliati stati di veglia, una coreografia di piroette oniriche. Chiedetevi, alla fine, cos’è questo insieme di prose liriche. Troverete la risposta nel brivido della carne, nelle fughe della mente, nel battito estetico del cuore. Questo libro ha il movimento del mare “che di notte spoglia terra e veste terra”, e nell’istante onnipotente e rapido, in cui la terra aspetta il moto dell’onda, spoglia te, lettore, e ti scopre poco prensile, “fisiologia imperniata su una carenza”, vivo per cauzione, Icaro magrittiano tradito da una mira sbagliata, Ulisse invecchiato e inseguito dalle orme sulla sabbia, uomo incapace e bramoso d’infanzia, un io siamese e clandestino con le spalle voltate agli specchi. Spoglia e veste te, donna, come credi sia reale solo nei sogni più scabrosi e puri: tu che non resterai “imbaciata” di baci cruciali, madornali, miliari; tu che se ridi sei cielo e panorama se appari, tu pianeta affamato di orbite; tu spiata mentre sogni, tu respirata anche se lasci la stanza; tu che sei la metà fredda del letto nel “tempo di quando manchi”, tu che sei “fatta di sole da freddo, di acqua da sete, di cuscino da sonno e labbra soffiate”, tu che fai fischiare all’amore le orecchie, tu che hai “colori ineffabili in pittura”, tu che spalanchi un’enormità d’azzurro addosso a lui che spasima per te, e che se prende un libro ti romanza e se affitta un orizzonte ti paesaggia e se torna bambino si siede accanto nel banco di scuola; tu che rendi una sorpresa lo scindersi del corpo che ti abbraccia, tu che non puoi ancora perdere tempo a leggere parole di forsennato amore e non tornare dall’ovunque che sei. E sia l’ovunque un sonno, maldestro carceriere dei sogni: brutta gente che bussa alla memoria, i sogni si travestono da passato e rendono incubo il risveglio. “Entro a volte nel tuo sonno” è quel brutto ceffo, fatto della stessa sostanza dei sogni. Se ancora vi ostinerete a non cedere all’impalpabile e a non abbandonarvi alle pagine, potete svegliarvi e dare la caccia allo scrittore. Lo scrittore è quello con una matita con cui sottolinea persone e sguardi e delusioni e illusioni e paure, con fogli con “fior d’orecchie” e note e “snodi di trama” e “certa classe nel trattare i personaggi femminili”, con una gomma che non cancella le “bucce d’inchiostro”. Forse lo scoverete in piazza, come un turista, a guardare il mare con un cannocchiale o lo sorprenderete a scrivere ancora vite e amori e dolori e malinconie, che dei dolori sono la carezza. Magari vi accorgerete di un dettaglio. “Sono un dettaglio feroce”: non vi sembra di sentire quel tipaccio di R. T.Fex? Continuate a leggere: “Sono un’idea scartata”, “Sono lo stupore prima dello schianto”, “Sono un fatto tiranno”. L’artificio della scrittura, l’ombra di sé che Perroni, nel suo primo romanzo “Non muore nessuno”, gettò a qualche metro di distanza per sfidare il suo futuro di inventore di storie. R. T.Fex mette da parte il suo empatico cinismo e torna a più di dieci anni di distanza con uno strumento dolcissimo tra le mani: compone madrigali per l’amore lontano e nelle pause dialoga, tra meraviglia e spavento, con le cose del mondo. Ecco dove troverete lo scrittore: inchiodato a quell’ossessione lirica del doppio che inaugurò con quel primo formidabile personaggio. Non c’è pagina dei romanzi di Perroni, non c’è espressione che non celi la propria alterità, la propria ambiguità, il proprio bipolarismo. Solo che il doppio di Perroni elude la tradizione letteraria di specchi deformanti, di abitanti della notte o del crimine o anche di un redivivo rinnegato. Perroni è più cerebrale e, ancora di più, è architetto della lingua. Lui, il doppio, lo realizza nell’ordito elicoidale del linguaggio e del sé interiore. Un ordito che in “Entro a volte nel tuo sonno” crea un altro doppio, la diafana coppia sonno e sogno. Diafana, appunto. Quindi, non occorre altro che farsi attraversare dal libro ”facendo sogni d’altura, con una nuvola per bussola e la chimera per timone”. Con questo libro occorre fare così: “alzo gli occhi, busso al cielo e apri tu”.
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La scheda del libro
A ogni vita appartengono scorci sulla bellezza assoluta che ciascuno di noi porta dentro di sé, quasi senza accorgersene. Finestre che possono spalancarsi sull’intensità dolente dei sentimenti, sulla leggerezza dei gesti piccoli e delle emozioni più universali, “confessioni del sentire”, come le chiamava Pessoa, che nelle pagine di Sergio Claudio Perroni conoscono la forma potente e delicata di una poesia che scivola nella compattezza di una prosa breve, per tornare sempre all’origine di un ritmo dettato dal vivere, ancor prima che dallo scrivere. Entro a volte nel tuo sonno ci fa esplorare, come in un ideale atlante dell’anima, tutte le variazioni dell’esistenza – tra paure e passioni, volontà e istinti, mancanze e rinascite – per ricomporre i frammenti dei nostri discorsi interiori quotidiani, e donarci le parole esatte per saperli riconoscere e, finalmente, dire.
“ Reinventa quello che tutti abbiamo provato, lo riformula da capo, punto per punto, lemma per lemma – l’amore, la colpa, la tristezza, l’estasi, il vuoto, la tenerezza, la solitudine, la curiosità, l’ispirazione, il rimorso, la malinconia -, come se si trattasse, sì, di salvarlo, questo mondo, di imbarcarlo su un’arca e di salvare dal diluvio questo mondo interiore di tutti noi.” – Dalla postfazione di Sandro Veronesi.
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Sergio Claudio Perroni traduce, scrive, cura libri. Ha pubblicato Non muore nessuno (2007), Raccapriccio. Mostri e scelleratezze della stampa italiana (2007), Leonilde. Storia eccezionale di una donna normale (2010), Nel ventre (2013), Renuntio vobis (2015), Il principio della carezza (2016).
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