Giorni fa, all’interno di una libreria romana, ho avuto modo di chiacchierare del più e del meno con un simpatico libraio. Nel corso della conversazione il mio sguardo si è posato sulla copertina nera del più recente libro di Philip Roth: Everyman, pubblicato in Italia da Einaudi.
Ho preso in mano il volume e, rivolgendomi al libraio, ho commentato: “Bello,eh?”
Il libraio ha fatto spallucce. “Sarà pure bello” mi ha detto. “Solo che non ce l’ho fatta proprio a finirlo. Sa, sto uscendo dalla morte di mia madre. Se ne è andata pochi giorni fa.”
Ho annuito. E ho compreso la scelta di interrompere la lettura del libro.
Ha ragione il libraio. Questo libro di Roth è uno di quelli che colpisce duro. Come un pugno allo stomaco. E mano a mano che si procede nella lettura il colpo subìto si avverte in misura crescente. Tuttavia credo che di colpi così ne abbiamo bisogno. Soprattutto oggi, in un’epoca in cui – pare – non riusciamo più a guardarci davvero in faccia e a confrontarci con il limite principale della nostra condizione umana: la morte.
Copertina nera, si diceva. Molto elegante. Ed è ovvio che la scelta della copertina non è da attribuire solo a ragioni estetiche. C’è il richiamo al colore che meglio identifica il trapasso, la dipartita. Quel neromorte che, prima o poi, è chiamato ad avvolgere tutto. E tutti.
Peraltro, come si legge sulla prima delle bandelle laterali «Everyman prende il titolo da un’anonima rappresentazione allegorica quattrocentesca, un classico della prima drammaturgia inglese, che ha per tema la chiamata di tutti i viventi alla morte».
Il protagonista del libro è un pubblicitario di successo presso un’agenzia di New York. La sua vita privata è piuttosto travagliata: sposato tre volte (con donne che non si somigliano per nulla); ha tre figli di cui due dalla prima moglie e una dalla seconda; ha un fratello che è un uomo ricco e di successo (ma molto amorevole) per il quale proverà una disdicevole invidia. Ma le peculiarità della vita di questo man, in fin dei conti, sono solo dettagli. Insignificanti, direi. Soprattutto se visti con l’ottica della nostra comune precarietà esistenziale. Non è un caso che il nome del protagonista non è mai citato nel libro. Potrebbe essere chiunque. Potrebbe essere ogni uomo, appunto, al di là dei piccoli elementi distintivi di una singola storia. E dunque il fatto che il nome di questo personaggio non venga reso noto al lettore sembra una scelta naturale e opportuna. Del resto Roth è bravissimo a misurare il racconto e a equilibrare i rapporti tra i personaggi in guisa tale che l’assenza del nome del protagonista non pesi.
La narrazione procede per salti temporali. Roth inizia con il raccontare (o meglio, con il mostrare) il funerale dell’uomo. E già dalle prime pagine, per alcuni versi toccanti, è possibile percepire un’asprezza realistica che esprime un disincanto quasi cinico: “In tutto lo stato, quel giorno, si erano celebrati cinquecento funerali come il suo, altrettanto di ordinaria amministrazione, e tolti i trenta recalcitranti secondi della scena dei figli (…), né più né meno interessante di tutti gli altri.”
La morte fa capolino molto presto nella vita del protagonista. Da ragazzino, per esempio; allorquando si trova in ospedale per via di un’ernia inguinale che richiede l’intervento chirurgico. Il suo compagno di stanza è un ragazzo in stato terminale. E all’attesa della dipartita del ragazzo si accompagnano ricordi funesti: “All’inizio non prese sonno perché aspettava che il ragazzo morisse, e poi non prese sonno perché non poteva smettere di pensare al corpo dell’annegato gettato sulla spiaggia l’estate prima.”
Il pensiero della morte incombe sull’uomo a fasi alterne. A volte pare sparire, per poi ripiombare d’improvviso anche quando il contesto esistenziale ne giustificherebbe il rigetto: “Perché doveva diffidare della propria vita proprio quando ne era più padrone di quanto lo fosse stato in anni e anni? Perché doveva immaginarsi sull’orlo dell’estinzione quando un semplice e calmo ragionare gli diceva che davanti c’era tant’altra vita stabile e piena? (…) Ho trentaquattro anni! Comincia a preoccuparti dell’oblio, diceva tra sé e sé, quando ne avrai settantacinque!”
Ma la storia di Everyman non è solo la storia di una vita destinata a spegnersi. È anche storia di malattie, cronaca dettagliata e cruda di un deperimento fisico progressivo e inesorabile che degenera ineluttabilmente fino all’oblio.
Il protagonista si ammalerà di appendicite degenerata in peritonite nel 1967, ripercorrendo il destino del padre (ammalatosi di appendicite e peritonite nel 1943) e dello zio (che ne era morto a 19 anni).
E poi dovrà fare i conti con seri problemi cardiologici, con un’ostruzione nell’arteria renale, con un’operazione nella carotide sinistra per ostruzione di una delle due arterie principali, con l’applicazione di un defribillatore all’interno della gabbia toracica. Ma nonostante questo andrà avanti, sebbene, “… non aveva ancora settant’anni quando la sua salute cominciò a declinarsi e il suo corpo a indietreggiare davanti alle continue minacce.”
Eppure, anche nella tragedia, pur nella trattazione del male umano supremo, quest’opera non manca di punte di autoironia e tragicomicità come si può evincere dal passo che segue: “La moglie del momento – la terza e ultima – non aveva la minima rassomiglianza con Phoebe e anzi, a dir poco, era un rischio in caso di emergenza. Sicuramente non ispirava fiducia la mattina dell’operazione, quando seguì la lettiga piangendo e torcendosi le mani e alla fine, non riuscendo a controllarsi, gridò: – E io?
Era giovane e inesperta e forse aveva inteso dire una cosa diversa, ma lui pensò che volesse dir questo: cosa sarebbe stato di lei se lui non fosse sopravvissuto?
– Una cosa per volta – le disse. – Prima lasciami morire. Poi verrò ad aiutarti a tener duro.”
Come tutti, pure il protagonista di Everyman cerca una sorta di compensazione. Qualcosa che possa dare senso a un’esistenza precaria e comunque destinata alla fine: “Se avesse mai scritto un’autobiografia, l’avrebbe intitolata « vita e morte di un corpo maschile ». Ma dopo essere andato in pensione provò a fare il pittore, non lo scrittore, e così diede questo titolo a una serie di quadri astratti.” E più avanti leggeremo: “Era come se la pittura fosse stata un esorcismo. (…) O si era messo a dipingere per cercare di liberarsi della consapevolezza che si nasce per vivere e invece si muore?”
A volte volge il pensiero al passato, come quando ricorda il padre. Quel padre che nel 1993 aveva aperto un negozio di gioielli e orologi chiamandolo “non col proprio nome ma piuttosto «Everyman’s Jewelry Store» («la gioielleria di tutti»)”. Ma anche l’inevitabile fine del padre diviene occasione per manifestare il proprio orrore di fronte alla morte. “(…) Tutt’a un tratto egli vide la bocca di suo padre come se la bara non ci fosse, come se la terra che gettavano nella fossa si depositasse su di lui, riempiendogli la bocca, accecandogli gli occhi, ostruendogli le narici e tappandogli le orecchie.”
E mentre la vita si è dipanata tra alti e bassi, tra momentanei stati di benessere e malattie invalidanti, ci si trova dinanzi alla vecchiaia e con essa – a tratti – alla consapevolezza di dover convivere con una condizione di tormentata rassegnazione. Del resto la moglie di un amico appena defunto avrà modo di dirgli: “La vecchiaia è una battaglia, caro, se non per un motivo, per un altro. È una battaglia inesorabile, e proprio quando sei più debole e meno capace di fare appello alla tua combattività.”
E più avanti lui penserà:
“La vecchiaia non è una battaglia: la vecchiaia è un massacro.”
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Fa impressione come questo libro sia dotato nel plot e nella scrittura di semplicità e limpidezza e, al tempo stesso, di una ricchezza espositiva che lo rende unico.
Quando la letteratura riesce a raccontare senza autoincensarsi diventa davvero grande. E la vera letteratura, in fondo, è quella capace di raccontare l’uomo. L’uomo, con i suoi difetti e i suoi limiti.
Certo, non è la prima volta che la grande letteratura si confronta con il tema della morte. Il primo libro che viene in mente è senz’altro La morte di Ivan Il’ič di Lev Tolstoj. Anche questo libro affronta la tragedia della malattia con terribile minuziosità. Tuttavia, nella fase finale dell’agonia, Ivan Il’ič avrà modo di confrontarsi con la paura del trapasso. E di vincerla con il conforto della speranza. Nelle ultime righe dell’opera di Toltoj leggiamo: “Cercò la sua solita paura della morte, ma non la trovò. Dov’era? Quale morte? Non aveva alcuna paura, perché non c’era alcuna morte. Al suo posto, la luce.”
Altra considerazione. Tolstoj ci mostra i colleghi di Ivan Il’ič e la loro reazione a seguito della notizia della scomparsa. Costoro pensano alle promozioni e ai trasferimenti che scatteranno a seguito della dipartita di Il’ič e compensano la noia delle condoglianze alla vedova e del rito funebre con la gioia meschina che la morte sia capitata a un altro. In tal senso il libro svolge anche una funzione di denuncia della menzogna e dell’ipocrisia della società borghese burocratica.
Il libro di Roth si differenzia da quello di Tolstoj sia perché nel protagonista (che è ateo) non c’è la speranza di un dopo, sia perché la morte lo coglierà dispensandogli il tormento di una lucida agonia.
L’unica consolazione che il protagonista di Everyman si concede è la vicinanza ai resti dei suoi genitori quando li va a trovare al cimitero: “Vide i due nomi incisi là sopra e fu sopraffatto dallo stesso tipo di singhiozzi che assalgono i bambini piccoli e li lasciano svuotati e senza energia. Evocò facilmente l’ultimo ricordo che aveva di ciascuno dei due – il ricordo dell’ospedale – ma quando cercò di evocare il primissimo ricordo, lo sforzo che fece per spingersi più indietro che poteva nel passato che avevano in comune sollevò un’altra ondata di emozione che lo travolse.
Erano ossa e basta, ossa dentro una bara, ma le loro ossa erano le sue ossa, e lui andò a mettersi più vicino a quelle ossa che poteva, come se la vicinanza potesse unirlo a loro e mitigare l’isolamento scaturito dalla perdita del futuro e ricollegarlo a tutto quello che se n’era andato.”
Inoltre qui è assente quel cinismo che Tolstoj attribuisce ai colleghi del morto. In Everyman la storia si dipana tutta dal punto di vista del protagonista. E non c’è alcuna denuncia, così come non c’è morale. Solo la dolorosa, tremenda narrazione – e dunque la constatazione – di un’esistenza che precipita ineluttabilmente verso l’oblio.
Altro libro che viene in mente è il recente romanzo del Nobel José Saramago: Le intermittenze della morte (cosa succederebbe se, a un certo punto, non morisse più nessuno? Ai sentimenti iniziali di ovvia e festosa felicità seguirebbe il caos. Un caos che coinvolgerebbe varie organizzazioni: dal governo alle compagnie di assicurazione, dalle agenzie di pompe funebri alle case di riposo, fino alla Chiesa, giacché senza morte non c’è più resurrezione, e senza resurrezione non c’è più Chiesa). Qui la differenza è ancora più netta, sia perché il libro è fortemente allegorico, sia perché Saramago dipinge la morte come qualcosa di necessario e – per certi versi – paradossalmente utile. Almeno per alcuni.
Infine viene in mente un terzo libro che, pur non essendo esplicitamente riferibile alla morte, si può accostare a Everyman anche per via della sua crudezza. Il libro è Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway.
È anche vero però che la battaglia di Santiago contro il pesce rappresenta, in fondo, la lotta vana dell’uomo contro la morte e la vecchiaia. Il capolavoro di Hemingway, tuttavia, e qui sta la differenza principale con il libro di Roth, è un libro metaforico; mentre Everyman è scevro di ogni metafora.
Grandi libri, quelli di cui abbiamo fatto cenno. Libri testamento, per certi versi.
Tornando a Philip Roth è doveroso sottolineare che il celebre autore americano, con i suoi ventisette romanzi all’attivo, ha vinto quasi tutto quello che c’era da vincere. Nel 1997 con Pastorale americana si è aggiudicato il Premio Pulitzer per la narrativa. Nel 1998 ha ricevuto la National Medal of Arts alla Casa Bianca, Nel 2002 la Gold Medal per la narrativa (il più alto riconoscimento dell’American Academy of Arts and Letters). Ha vinto due volte il National Book Award e il National Book Critics Circe Award. Nel 2005 Il complotto contro l’America ha ricevuto il premio della Society of American Historians per il miglior romanzo storico di tematica americana nel periodo 2003-2004.
Gli manca solo il Premio dei Premi (per l’attribuzione del quale è stato più volte candidato).
Che sia la volta buona?
A essere sincero è tutt’altro che casuale il riferimento a Il vecchio e il mare. Il più celebre libro di Hemingway fu pubblicato nel 1952. Nel 1954 il suo autore ricevette il Premio Nobel per la letteratura.
Dimenticavo di sottolineare una sottile analogia. Sia Il vecchio e il mare che Everyman sono romanzi brevi.
Per motivi scaramantici è meglio non aggiungere altro. Se non che – notizia freschissima – Everyman si è appena aggiudicato il Premio Pen/Faulkner 2007.
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Massimo Maugeri
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EVERYMAN di Philip Roth
Traduzione di Vincenzo Mantovani
Pag. 123, euro 13,50
Einaudi, 2007
Se non sbaglio avevo lasciato un commento giudicandolo un buon racconto anche al buio. Quando esiste della materia grigia in un libro la si sente anche a distanza e appunto anche al buio. Era una recensione che mi aveva messo alla prova in quanto ad empatia. Io lo faccio spesso, ho capito che invece di leggere due righe all’inizio del racconto, un altro paio al centro del testo e poi andare alla fine come fanno in molti, mi concentro sui dati in mio possesso e traggo delle conclusioni. Spesso ci indovino…e per questo avvertii un messaggio magnetico…e lo giudicai ottimo al buio. Sarai stato tu, Maugeri, un ottimo buio…ma è servito.Almeno a me.
Hei, ragazzi, io do solo due occhi….e spesso non bastano per fare ciò che vorremmo, allora chiamiamo in soccorso altri indici di gradimento e ci facciamo aiutare da questi. Necessità fa virtù…e i pigri come me lo sanno bene.
Gabry,
ti ringrazio. E’ la prima volta che qualcuno mi definisce “un ottimo buio”.
Condivido in pieno, parola per parola. Di Everyman avevo scritto benissimo anch’io, proprio sul tuo blog. Però le mie erano solo frettolose noticine e non una recensione ampia e competente come la tua.
Bravo, Massimo.
E bravo Roth.
Bella recensione, Massimo.
Grande Roth. Ci sta bene tra Tolstj, Saramago ed Hemingway.
Per quanto riguarda il complimento di Gabry: meglio essere “ottimo buio” che “pessima luce”.
Ma voi non vedete sanremo?
Grazie per le belle parole Luciano… ma anche la tua recensione era bella e invogliava alla lettura. Scrivo il link, così chi vuole può rileggerla: http://letteratitudine.blog.kataweb.it/letteratitudine/2007/02/il_ritorno_di_p.html
Spero tanto che il Nobel a Roth lo diano… ma questo si era capito.
In ogni caso, giusto per alimentare il dibattito, segnalo una recensione non particolarmente favorevole firmata dallo scrittore Giuseppe Genna e pubblicata su Carmilla (l’aveva proposta Loredana Lipperini sul suo blog). Ecco il link:
http://www.carmillaonline.com/archives/2007/02/002160.html
La leggerò Massimo, dopo aver letto il libro. Mi piacerà fare un confronto a posteriori. Tu non stupirti se vedi un commento a questo post due mesi dopo:)
Credo che venga a proposito la riflessione che facevo nella mia ultima lezione di scrittura/lettura, che quindi riproduco integralmente qui di seguito. Ciao a tutti.
Penso e Fingo Cause + Effetti
Renato Di Lorenzo (rdlea@libero.it) spiega come si legge la narrativa. E come si scrive.
Gratis direttamente nella vostra casella di posta elettronica.
Lezione n. 6
Quando si affronta la lettura di un nuovo libro le speranze sono molte: ci si aspetta sostanzialmente di imparare.
Imparare le regole di un gruppo sociale, di un’esistenza, di un essere giudicante e che vive intensamente le sue emozioni… e noi siamo lì in attesa di con-dividere con lei/lui le medesime emozioni.
Succede che queste attese, man mano che giriamo le pagine, vengano dapprima raffreddate, quindi assolutamente deluse.
Mi è successo, ad esempio, con Il Cacciatore di Aquiloni e mi sono domandato perché.
Stavo leggendo anche, contemporaneamente, Everyman, l’ultimo romanzo di Philip Roth, e non mi è successo. E mi sono domandato perché.
Non riuscivo a trovare una ragione chiara e plausibile finché non mi sono posto una domanda: questo libro l’avrei potuto scrivere anch’io?
La risposta per il primo è stata sì e per il secondo è stata no.
Forse la discriminante è questa.
Badate: non mi sono chiesto se sarei stato “capace”, di scriverlo (la mia autostima è come noto abnorme), bensì se sarebbe stato “plausibile” che accadesse.
In altri termini: la vicenda narrata, è già nel mio inconscio, da dove – caso volendo – avrebbe potuto emergere?
Mettiamola ancora in altri termini: ad ogni pagina che giro, sto imparando qualcosa di diverso da ciò che ho letto decine di volte e visto centinaia di volte al cinema o in TV? Quanto lo scrittore è riuscito a cogliermi di sorpresa?
Non c’è sorpresa emozionante nello scoprire che il mio amico di infanzia – a suo tempo sodomizzato senza che io abbia mosso un dito – era in realtà mio fratello. I sentimenti sono quelli de I Ragazzi della via Pal, o di tanta roba di Dickens, o di tanti romanzi d’appendice… buoni sentimenti senza sorprese.
Roth… be’ Roth è differente.
Compito a casa: cosa cercare nella lettura:
Fate un elenco dei cinque libri che avete letto ultimamente e ponetevi la domanda: sarebbe stato plausibile che questo libro l’avessi scritto io? Come avete compreso non è rilevante se voi siate o non siate uno scrittore.
Mandate questa e-mail ai vostri amici: potranno richiedere le lezioni passate.
Il dialogo è (molto) gradito, pur nell’impossibilità di rispondere in dettaglio; sarebbe auspicabile che si costituisse una community di appassionati.
Racconti da scaricare:
http://guide.dada.net/letteratura_gastronomica/renato_di_lorenzo/
Che bello gironzolare nel libro(non solo nelle librerie), scoprendo a poco a poco, con curiosità e partecipazione, i pensieri più intimi; riuscire a farli propri, confrontandoli con le proprie emozioni. Una bellissima recensione, che mi spinge a leggere subito il libro. Io mi ero fermata a “L’animale morente”, mi sembrava che fosse già una sintesi completa, di questo nostro essere uomini privi di senso. Timorosi di una morte che si annuncia nel corpo, giorno dopo giorno: la vecchiaia è un massacro.
Oltre ai grandi autori che tu hai citato, vorrei ricordare un libro di Massimo Carlotto: L’oscura immensità della morte. Testo tremendo, buio…nero, CONTEMPORANEO e antiestetico.Dopo averlo acquistato lo lasciai sullo scaffale per più di un anno: avevo bisogno di coraggio.
Grazie per questa tua bella recensione, un saluto, Miriam
Questo libro mi ha fatto tremare e piangere. Ma l’ho amato come pochi altri!
Che grande libro!
Una vera potenza.
Recensione interessante.
Leggerò il libro senz’altro. Grazie.
Claudio F.
Una sola osservazione.
Genna lo trovo irritante: a volte ha una potenza massimalista insolita nella lettaratura italiana (le prime sessanta pagine di DEUS IRAE), ma poi si avvita in intellettualismi più indigesti di una peperonata fritta nello strutto di cighiale. Comunque il suo articolo su Roth dice cose ineteressanti (anche se non le condivido). E vorrei ricordare a Genna che Philip Roth non ha cominciato a scrivere con PORTNOY.
L’oscuro senso del nulla e dello scacco inevitabile emergono spesso
nella produzione di PHILIP ROTH.
In EVERYMAN, ogni tentativo del protagonista di colmare il vuoto
dell’esistere si infrange di fronte alla degenerazione progressiva del
corpo, alla morte, tema sentito profondamente: i limiti, la sconfitta alla
quale l’uomo è inevitabilmente destinato.
Qui, l’idea della morte non si trasforma in quella serena accettazione
che è certezza di luce come in TOLSTOI, bensì è lo scacco implicito della
condizione umana. Da questo atteggiamento nascono le pagine più felici
dell’autore, personalissime dal punto di vista stilistico, dominate come
sono da una cruda volontà, non scevra di spunti umoristici, di esprimere ciò che effettivamente prova e non ciò che altri si aspetterebbero secondo le convenzioni.
Bella e personle lettura. Mi sono preso la libertà di segnalarla su paroledisicilia.it
Mauro, hai fatto non bene… benissimo!
Ti saluto.
Everyman!
E’ un libro sconvolgente, bellissimo; forse solo Simone de Beauvor mi aveva toccato così le stesse corde leggendo “Una donna spezzata”. Ho ritrovato una mail inviata a mia figlia allora, che aveva notato come avessi sottolineato delle parti del libro, e che aveva intuito tutta la mia paura di invechiare: le avevo scritto: “Simone è bravissima a scrivere cose comunissime e anche banali in modo che diventino letteratura; é questo che poi sconvolge, pensare che i propri dolori, le proprie paure, i propri fallimenti, i propri tormentati affetti e amori, la constatazione della propria decadenza fisica, siano poi dei “luoghi” di tanta umanità dove riconoscersi pari pari…” La stessa cosa avviene per questo racconto o romanzo breve di Philip Roth, lo sto regalando a tutti (purtroppo o per fortuna ho tantissimi amici che potrebbero essere Everyman) e lo regalerò sicuramente anche a Claudio Abbado (la grande passione della mia vita) perché in ogni caso non fa venire ancora più paura della vecchiaia e della morte, anzi, al contrario, scoprire che tutto quello che ci agita e ci tormenta e che a noi sembra banale o meschino o non degno di attenzione, può diventare il soggetto di un testo letterario e può diventare arte, alla fine é molto consolatorio!
Un caro saluto da una everywoman.
Attilia Giuliani – Milano
P.S. Una volta di più mi domando come si fa a non dare il premio Nobel a questo scrittore!!!! Proprio non so cosa dire!
Vi invito a leggere cosa ha scritto su questo libro la brava Francesca Mazzucato:
http://scritture.blog.kataweb.it/francescamazzucato/2007/02/philip_roth_eve.html
Sul tema della morte, ieri ho letto questa poesia.
PAROLA DI CANE
Hai solo cinque anni, ma penso
di continuo alla tua morte.
Incapace di godere del momento,
lo brucio nell’angustia
di tua futura, definitiva sorte.
Tu, con la tua anima di cane,
proprio non mi capisci. Mi guardi
ebbro d’amore, inclini la tua testa
e ti smarrisci.”Padrone mio che dici?
Con tutto quello che possiamo fare:
rincorrerci,annusarci,baciarci
con la lingua, giocare con i gatti,
cacciare le lucertole,mangiare.
Dai retta a me, padrone mio,
pensa meno a te
e asseconda il vento.
Svuotato l’io, sarai pieno di vita:
importa poco se per un anno, dieci o cento”.
da ANIMALI IN VERSI, Franco Marcoaldi
Un saluto a tutti, miriam
Miriam: hai ragione, quello di Marcoaldi è un libro splendido.
Lo sto leggendo anche io e avendo perso mio padre due anni fa si sta rivelando una lettura difficile ma anche terapeutica. Stamattina per esempio mi ha preso l’angoscia della morte, della non esistenza, del buio della fine, la paura della malattia. Ma lo consiglierei a tutti quelli che hanno perso qualcuno. Di caro, di amato.
è il primo libro di Roth che leggo…sono rimasta piacevolmente impressionata dalla sua prosa densa e leggera al tempo stesso. molto belli i tuoi collegamenti in particolare con Tolstoj, autore che amo molto.
a presto
Grazie Dreca,
ti saluto e ti auguro buona Pasqua.