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La memoria della musica (o la musica della memoria): Felisberto Hernández
a cura di Claudio Morandini
Chi ama la musica e quella particolare musica che risuona nelle pagine di un libro farà bene a dedicarsi alla lettura di Felisberto Hernández (Montevideo, 1902-1964), di cui La Nuova Frontiera sta pubblicando i racconti e i romanzi nella bella traduzione di Francesca Lazzarato. Hernández era quasi dimenticato in Italia, prima di queste provvidenziali pubblicazioni: si erano perse da anni le tracce della precedente edizione di “Nessuno accendeva le lampade” (Einaudi, 1974, traduzione di U. Bonetti), mai più ristampata.
Hernández era pianista e scrittore; prima pianista, poi scrittore dalla sconcertante sensibilità. I racconti, sia quelli più corti sia quelli che ambiscono a uno statuto quasi di romanzo breve, sono qualcosa di diverso, di non catalogabile (se ne era ben accorto Italo Calvino, che nel presentare la prima edizione italiana di “Nessuno accendeva le lampade” scriveva che l’autore “non somiglia a nessuno… è un irregolare che sfugge a ogni classificazione e inquadramento ma si presenta ad apertura di pagina come inconfondibile”): procedono ambigui e spaesanti come sogni a cui certe ricorrenze concedono una parvenza di articolazione narrativa, sono assecondati più che scritti, osservati mentre crescono come piante più che articolati secondo una struttura. Hernández e i suoi personaggi si aggirano come sonnambuli (“sonnambulo di fiducia” è definito il narrante in “La casa allagata”, del 1960, in “Le ortensie”, La Nuova Frontiera, 2014), come fantasmi che non hanno dimenticato la cortesia, in un mondo in cui si affastellano oggetti, mobilia, figure femminili di tutte le dimensioni e età (e tutto ciò, oggetti e figure femminili, al centro di persistenti pulsioni e desideri). A volte i luoghi assumono significati nuovi: in uno dei racconti più sorprendenti, un palazzo viene allagato e diventa mare da navigare, disseminato di isole (“La casa allagata”, in “Le ortensie”).
L’io narrante vive situazioni ricorrenti: attraversa tunnel, oppure è ospitato in ville altrui dove indugia, si adagia, osserva, ascolta, compie con la più grande naturalezza atti misteriosi e incongrui (da questa incongruità nasce un lieve, spiazzante umorismo). Non elabora ragionamenti, ma è attraversato da pensieri evanescenti e insieme ossessivi provenienti da chissà dove; e legge ciò che lo circonda ricorrendo a una fitta rete di imprevedibili analogie. Il suo modo di osservare popola la realtà di arti e teste che fluttuano nello spazio come animati da vita propria, si stagliano contro i cieli e i muri: teste autonome come animali, come nuvole, attraversate da pensieri corposi e tangibili (così in “Nessuno accendeva le lampade”, 1947, La Nuova Frontiera 2013). I sensi vagano per gli spazi, li illuminano, li manipolano.
Hernández, che potrebbe indulgere in tecnicismi per rendere con precisione analitica il dipanarsi di un brano musicale, preferisce agire da poeta: racconta la musica attraverso densi rimandi analogici, inusitate sinestesie. Nei suoi racconti la musica si espande lenta, viva e carnosa nell’aria: “Quando suonai il primo accordo, il silenzio sembrava un pesante animale che avesse alzato una zampa. Dopo il primo accordo vennero dei suoni che presero a oscillare come la luce delle candele. Feci un nuovo accordo, come se avanzassi di un altro passo” (“Il balcone”, in “Nessuno accendeva le lampade”).
Le composizioni sono raccontate come imprevedibili organismi sentimentali che solo a momenti svelano qualcosa del loro carattere: nell’esecutore, all’entusiasmo iniziale subentrano ben presto la frustrazione, il senso di inadeguatezza, l’incapacità di preservarne il senso, di portarne alla luce definitivamente i segreti intravisti. Il primo approccio è quello sensuale, esaltato, dell’innamorato che vuole conquistare una ragazza: e la prima lettura è l’inizio di una cerimonia di seduzione, fitta di illusioni e di delusioni crescenti, in cui lo spirito vola alto ma il corpo, ahimè, si mostra inadeguato (le dita si affannano sulla tastiera come dieci “miserabili musicisti” sotto lo sguardo afflitto di un direttore d’orchestra).
Analogamente, quei momenti sempre un po’ salottieri che sono i concerti sono descritti come pantomime visionarie, in cui il pubblico rapito insegue passioni che crede di riconoscere nel flusso delle note, mentre l’esecutore (per esempio il narrante del racconto “Terre della memoria”, uscito postumo nel 1966, ma anche quello de “Il coccodrillo”, in “Le ortensie”), via via più demoralizzato, si sente ridurre a marionetta impacciata che si agita al centro di un colossale fraintendimento.
Anche i tre racconti lunghi compresi in “Terre della memoria” (La Nuova Frontiera, 2015) sono imbevuti di musica. I pianoforti abitano le stanze di questi racconti come personaggi vivi, e i ricordi infantili dei personaggi in carne ed ossa sono scanditi da lezioni di pianoforte spesso deprimenti, esercizi, scale, arpeggi, esecuzioni, rimproveri di maestri. Per fortuna, tra strumento e allievo si instaura talvolta una fraterna solidarietà: “Il pianoforte era una brava persona. Mi sedevo accanto a lui; poche delle mie dita erano sufficienti a stringerne molte delle sue, fossero bianche o nere; subito gli uscivano gocce di suoni; e combinando suoni e dita, diventavamo tristi entrambi” (“Il cavallo perduto”, 1943, in “Terre della memoria”).
In Hernández tutti gli oggetti, non solo i pianoforti, sono carichi di segreti, e vivono nelle stanze come esseri viventi; anche gli alberi, i cavalli, i carri, le automobili, le mura delle abitazioni, sono come personaggi immobili, e rimandano ad altri oggetti, secondo gradi di parentela che più che al simbolismo si ricollegano a certo surrealismo sudamericano, meno concettuale di quello europeo e tutto vita e cose, tutto sensazioni fitte e pesanti come cose. Nei racconti di Hernández tutto trascolora da una natura all’altra, gli oggetti inanimati di dotano di vitalità, la vegetazione esuberante sembra parlare e aspettare una risposta, le figure umane (femminili soprattutto) assumono fattezze minerali o vegetali. Nel racconto lungo “Le ortensie”, il gioco tra animato e inanimato si fa estremo: Horacio si circonda di bambole a grandezza naturale, con una di esse sostituisce la moglie morta, lascia che il gioco equivoco arrivi a un punto di non ritorno, alla perfetta illusione della vita. Per tornare alla musica, quando il gioco delle analogie coinvolge i convitati di un banchetto i rumori si fanno orchestrazione, i commensali sembrano eseguire una partitura, a capotavola il padrone di casa si muove come un direttore d’orchestra: “Sedendosi, il direttore salutava, tutti volgevano la testa ai piatti e provavano gli strumenti. Poi ciascun silenzioso orchestrale suonava per conto proprio. In principio si sentivano tintinnare le posate, ma dopo qualche istante il rumore svaniva e veniva dimenticato (…). Dopo poche serate a quella mensa gratuita, mi ero già abituato alle stoviglie e potevo suonare gli strumenti per conto mio” (“La maschera”, sempre in “Nessuno accendeva le lampade”).
I musicisti appaiono come dandy eccentrici, irregolari spinti da scelte misteriose a violare le convenzioni sociali. Ve n’è uno, in particolare, nel racconto “Ai tempi di Clemente Colling” del 1942, appunto Clemente Colling, che unisce un’innegabile sapienza musicale a una trasandatezza da barbone. Cieco o quasi, vive dove capita, grazie alla benevolenza degli ammiratori, si porta dietro pochi mobili scassati, non si lava mai, è pieno di pulci che non si degna di allontanare. In generale, i musicisti vengono visti dalla società come dei disadattati, per quanto d’ingegno, anche quando sono ricercati per occasioni salottiere (anche il narrante, dietro al quale si nasconde l’autore, quand’era giovanissimo veniva visto dai coetanei come un “tonto” proprio perché suonava il pianoforte). Sono poveri mestieranti, in “Terre della memoria”, componenti di orchestrine oberati da debiti e costretti a viaggi logoranti in treno, che vengono chiamati con il nome del loro strumento (Il Violino, La Fisarmonica…). Condannato al nomadismo, oltre che a irrefrenabili crisi di pianto, sembra anche il narrante de “Il coccodrillo” (in “Le ortensie”), concertista di pianoforte che è anche rappresentante di una ditta di calze femminili e cerca di conciliare le tournée artistiche con i viaggi commerciali. Più di una volta i sensibilissimi protagonisti dei racconti di Hernández sono afflitti da problemi organizzativi legati alle serate musicali, alle tournée, ai finanziamenti dei concerti (così anche in “La casa nuova”, da “Le ortensie”). Anche il povero Walter, il pianista che all’inizio di “Le ortensie” si esibisce in un concerto reso bizzarro dalle capricciose indicazioni del padrone di casa, appartiene alla stessa categoria. Qui la separazione tra autobiografia e invenzione letteraria si fa sottile: non a caso Julio Cortázar ha descritto il nostro autore come “un uomo triste e povero che vive grazie a concerti di pianoforte in circoli di provincia”, e si potrebbe scrivere lo stesso di molti dei suoi personaggi narranti.
I legami con la musica si avvertono anche là dove non si parla espressamente di musica – anzi, si direbbe che proprio nelle pagine non dedicate alla descrizione della musica si fanno più forti, più profondi. In “Terre della memoria” (il racconto postumo) due sorelle francesi, maestre, vengono definite come la Maggiore e la Minore: e molto, nella descrizione del comportamento, della figura e del temperamento di entrambe, fa pensare che Hernández stia proprio dando corpo, attraverso quelle figure, ai due modi, il maggiore e il minore, e ai caratteri di cui questi due modi si sono caricati nel corso della storia della musica.
Hernández lascia che “l’immaginazione, come un insetto notturno, esca dal salotto per ricordare i sapori dell’estate e voli a distanze che nemmeno la vertigine o la notte conoscono”; così pesca nel serbatoio dei ricordi, nella fluttuante “terra della memoria”, in cui i ricordi permangono come sogni, e ogni ricordo è frutto di uno sforzo doloroso, tra pensieri che si affastellano e confondono, oblio, travisamenti. Molte pagine dei tre racconti compresi in “Terre della memoria” suonano come rimuginii attorno alla difficoltà di preservare l’essenza di ciò che è stato, la vividezza dello sguardo di allora (di quando si era bambini, al massimo adolescenti). Sembrano, queste tirate vertiginose sul ricordare, quelle parti che in un tempo di sinfonia o di concerto congiungono un tema a un altro, e lasciano il discorso in sospeso nella speranza di non diminuire la tensione. E i temi, cioè i singoli ricordi, Hernández sembra pescarli dal passato come un compositore cerca di trattenere il tema bellissimo che ha udito in sogno, magari eseguito da un diavolo (ricordate Tartini?), prima che svanisca del tutto dalla memoria e rimanga solo più un’impressione o l’impressione di un’impressione.
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