Pur ironizzando senza risentimento su scrittori “affermati”, da Sandro Veronesi Veronesi a Umberto Eco, Paolo Colagrande (Piacenza, 1960) realizza, ironia della sorte, con Fìdeg, suo romanzo d’esordio, un’opera “aperta”, dove il registro comico si fonde sapientemente con un’attitudine metaletteraria mai intellettualistica, ma sempre contigua alla vita “bassa”, alla vita osservata rasoterra, dal “punto di vista del cane”. Come in alcuni scrittori dell’area emiliano-padana (da Ugo Cornia a Daniele Benati a Paolo Nori) anche in Colagrande “l’ideologia” dominante è un quotidiano burbero e vero, spazientito e diretto, sgomento e tragicomico: un quotidiano senza sovrastrutture piccolo-borghesi o “televisive”.
Colagrande usa un’oralità “semicolta”, che discende dagli “zii” Celati-Cavazzoni, eppure, a questo punto, sappiamo due cose: che la lingua dei semicolti è un artificio retorico (a volte di maniera) di certa letteratura “del Po”, e che Parma, tanto per dare un centro geografico a questo “gruppo molteplice” di scrittori, è in realtà una piccola e raffinata capitale culturale, una piccola Parigi – il “proustiano” Attilio Bertolucci, con la sua cinica grazia, è un riferimento obbligato, come ovviamente sono un riferimento obbligato Luigi Malerba, Cesare Zavattini e Alberto Bevilacqua, sempre meno “bestsellerista” nella considerazione dei critici.
Questi “nuovi” scrittori di area emiliano-padana usano il “basso”, verrebbe da dire, per mirare sempre più in alto. Eppure sappiamo quante difficoltà questi scrittori hanno nello sperimentare strade nuove di ricerca letteraria. In Colagrande, per esempio, il dato dominante è un umorismo intellettuale senza visceralità e senza facili ammiccamenti; un umorismo mai gratuito e risentito, ma sempre lucido, fortemente saldato a una precisa visione “teorica” del mondo – valgano da esempio le bellissime pagine sul campanilismo; su Cristoforo Colombo conteso dai genovesi, dai piacentini e dagli spagnoli. In Guido Conti, invece, e lo abbiamo visto nel suo ultimo romanzo La palla contro il muro, l’attenzione si è spostata efficacemente dai “folli” alle angosce piccolo-borghesi. Anche in Beppe Sebaste una narrazione fortemente orale si è ormai “allargata”, finanche nella forma, alla riflessione filosofica, linguistica e politica – valga per tutti l’esempio di Tolbiac. Lo stesso vale per Paolo Nori, che è passato da una comicità “stralunata” ed esilarante a un maggiore impegno civile – si pensi a Noi la farem vendetta. Forse solo Cornia, con il suo bellissimo Le pratiche del disgusto, sembra issato nella sua felice forma conchiusa: nel suo malinconico e masochistico affondo nella quotidianità.
Paolo Colagrande allarga e rafforza un gruppo di scrittori che ebbe nella rivista Il semplice il suo centro propulsore. Nel suo bellissimo Fìdeg, vincitore del premio Campiello opera prima, troviamo certamente l’oralità, il “basso”, il comico, l’inciampo “chapliniano”, la provincia, la marginalità, ma il tutto è irrobustito da una intelligente e continua riflessione sulla forma romanzo e sul fare letteratura. E’ come se questi scrittori emiliano-padani, partiti come semicolti, adesso risalissero il fiume della letteratura “alta” – ma, in fondo, non sono forse Celati, Cavazzoni, Sebaste, giusto per fare qualche nome, anzitutto dei raffinati studiosi?
Questo gruppo di scrittori, ovviamente, non è omogeneo; anzi, a volte è addirittura conflittuale. Eppure da questo gruppo di scrittori emerge l’unica visione davvero forte (mai mimetica, o moralistica, come invece accade in area veneta) della nostra provincia profonda, delle alterità linguistiche, di una quotidianità mai piccolo-borghese o sociologica. Anziché piangere sulle orride trasformazioni della via Emilia, questi scrittori continuano a cercare, come animali solitari, angoli bui dove trovare parole e immagini nuove, semplici e marginali. Come faceva il grande fotografo Luigi Ghirri. Come fece, fino a un anno fa, Giorgio Messori, che trovò a Tashkent, in Uzbekistan, un’altra via Emilia in cui non essere braccato.
Andrea Di Consoli
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Fìdeg
Paolo Colagrande
Alet
205 pagine 12,00 euro
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Ringrazio la Alet che ha messo a disposizione un estratto del testo di Fìdeg. Potete leggerlo di seguito. (Massimo Maugeri)
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Tra le disgrazie dell’umanità – diceva Neride Bisi – c’è che quando uno sente il bisogno irrefrenabile di dire una cosa intelligente, novantanove su cento poi la dice.
Da questa debolezza dipende la crisi del mondo moderno, diceva sempre Neride Bisi che per questo motivo aveva deciso di parlare solo quando era al bar o dal barbiere, che sono delle specie di aree protette, oasi ecologiche dove il parlare è indifferentemente un fatto di istinto o di divertimento o di abitudine, come fumare o giocare a carte o bere dei bianchi; tutte cose che lui faceva sempre volentieri, specialmente l’ultima.
Da questa premessa mio nonno Neride Bisi aveva tratto un’importante regola sociologica rivoluzionaria di cifra anarchica, cioè: che il parlare e il ragionare viaggiano su due strade diverse che non si incontrano, non c’è il collegamento, lo svincolo, il crocevia logico funzionale; di conseguenza, mancando il crocevia logico funzionale, le cose intelligenti vengono fuori solo per caso o addirittura per sbaglio, cioè tipo una volta su un milione. La teoria sociologica aveva poi anche un imprevisto risvolto macroeconomico, perché mio nonno Neride, con un passaggio un po’ ardito che non mi ha mai spiegato bene, diceva che a tacere tutti si migliorava il livello di benessere della società e si diventava ricchi, nel senso di fare i soldi. Lui, ricco, non lo è mai diventato.
L’ho presa lunga con mio nonno Neride non solo perché mi andava di baccagliare un po’, ma soprattutto per dire che quella cosa intelligente dei richiami semantici in tema di tubatura era meglio che me la tenevo per me: risparmiavo le parole e non passavo da locco.
Locco è una parola nordemiliana-sudlombarda assolutamente intraducibile: perché dire allocco, cioè una specie di uccello rapace notturno sinonimo non so perché di stupido, oppure babbeo, aggettivo manzoniano usato nei dialoghi di Tex, non dà quell’idea dispregiativa trasversale che solo la parola locco riesce a rendere. Quindi terrei locco, nella speranza che il concetto sia ben trasmesso.
Dimenticavo di dire, prima della digressione sull’epiteto locco nordemiliano vagamente sinonimo di stupido, che quando dei famosi scrittori con cui ero a cena ieri l’altro mi han detto che il nome della rivista era La tubatura, ho sentito il bisogno irrefrenabile di dire una cosa intelligente, e allora mi sono
lasciato scappare che nella tubatura c’erano molti richiami semantici.
Di qui il ricordo commosso di mio nonno Neride, bracciante agricolo con vocazione sociologica, morto a novantatré anni.
D’altra parte tutte le volte che incontro degli scrittori, cosa che non capita spesso, è più forte di me pensare che dentro la loro testa ci sia sempre un gran lavoro di richiami e controrichiami semantici in continua agitazione. E siccome ero a tavola con dei famosi scrittori che mangiavano del coniglio in umido e bevevano del rosso con la schiuma mentre buttavano giù il nome della rivista e altre cose tecniche come il palinsesto detto più propriamente menabò, ho pensato che in quel momento, all’interno dei loro cervelli, doveva esserci una tale esplosione di richiami e circuiti semantici che, a tenerci dietro a tutti, c’era veramente da farsi venire la febbre. E considerato che era già un po’ tardi e anch’io stavo mangiando il coniglio in umido – buonissimo, tra parentesi – con tre o quattro bicchieri di rosso con la schiuma, che non sono abituato, ed ero lontano centocinquanta chilometri da casa con strada collinare, ho pensato che era inutile mettersi a tirar giù uno a uno i richiami semantici esplosi nel cervello degli scrittori, e che era più pratico, intanto, far vedere intelligentemente che sapevi che c’erano, e poi a casa tirarli fuori con calma; magari non tutti, i principali. Mi era sembrata la cosa più pratica, da dire.
Invece era più pratico se stavo zitto. Adesso non voglio farla più tragica di quel che è, ma se c’era lì mio nonno Neride (cosa impossibile essendo morto quando avevo quattordici anni) diventava rosso in faccia dalla vergogna.
Perché i famosi scrittori che hanno inventato questo bellissimo nome per la rivista sono stati più che altro ispirati, come han cercato caritatevolmente di spiegarmi, dalla musicalità. La tubatura, a ripensarci, lasciando stare gli altri concetti che son secondari, è una parola con una musicalità da far venire la pelle d’oca, con un ritmo musicale, con delle bellissime note musicali
ripetute, che non ce le aveva neanche 1ostakovic; e poi con un gran bel labiale, che un labiale così non ce l’ha nessuna parola sul vocabolario, a parte Lolita, che non è sul vocabolario perché è un nome proprio e che comunque c’ha dietro tutto un suo ragionamento. Insomma a riflettere attentamente sulla straordinaria musicalità e sul labiale della tubatura ti si apre un orizzonte immaginifico da non credere, e mi sono sentito come in un grande prato verde pieno di scrittori contemporanei che si scambiavano ritmi musicalità e labiali e io gli correvo incontro, a quegli scrittori, a braccia aperte per ringraziarli e abbracciarli commosso. E lì per lì – lì per lì è un’espressione che non uso mai, ma io ho una creatività un po’ tutta mia che, con buona pace di mio nonno Neride, bisogna che ogni tanto si sfoghi – e lì per lì, dicevo, ho capito una cosa importantissima, che se la capivo prima evitavo di fare delle brutte figure.
E cioè: dire a dei famosi scrittori che dentro una parola, o nel nome di una rivista, ci sono molti richiami semantici è come dire a un famoso elettricista che negli impianti elettrici c’è molta elettricità. O come dire a un famoso cuoco cinese che dentro la cucina cinese ci sono molti aromi orientali. Cioè, lasciando stare gli elettricisti e i cuochi cinesi che erano solo delle similitudini, per i famosi scrittori – ma anche forse per i normali scrittori – i richiami semantici sono tipo delle cuciture fini e invisibili e impercettibili come quelle delle camicie eleganti.
Ma se tu vedi una camicia elegante che ti piace, non dici che belle cuciture invisibili impercettibili che ha questa camicia elegante.
Le cuciture sono cose che ci sono e basta, e se tu lo sai che ci sono è inutile che lo dici. Così, per i famosi scrittori il richiamo semantico è una cosa talmente naturale e istintiva e anche evanescente che loro, gli scrittori, non ci pensano neanche che c’è o se lo dimenticano, e se tu glielo dici è capace che s’irritano e magari, per tornare al caso che ci riguarda, non ti fanno più la rivista. Così sono fatti i famosi scrittori.
E durante il viaggio di ritorno in macchina con Fangio che guidava fortissimo l’escort giù per il percorso collinare verso la stazione di Modena dove avevo, o almeno credevo di avere, il treno, pensavo che dovevo essere stato proprio un asino a rovinare una cosa così bella e musicale e ritmica come la tubatura, sparando fuori l’idea dei richiami semantici che sono una specie di essenza intestinale della formidabile musicalità di quel nome.
E se di una cosa bella tu tiri fuori solo l’essenza intestinale, corri il rischio di rovinarla per sempre.
Ma poi, considerato che, dopo che Fangio mi ha lasciato giù in stazione ed è ripartito e io ho scoperto tragicamente che poco alla volta venivano soppressi tutti i treni, per via dello sciopero del personale ferroviario, e considerato che in quello stesso momento mi sono anche accorto che il telefonino era scarico e che tutte le cabine di Modena, come mi ha spiegato il tunisino clandestino Jamal, vanno solo con la scheda telefonica, che io non avevo e lui neanche, e che alle due di notte non c’è nessuno che ti vende delle schede telefoniche e che l’indomani mattina alle nove dovevo essere alla Malpensa a prendere mio fratello che veniva da Londra e io la Malpensa a momenti non so neanche dov’è. Considerato che si è messo anche a piovere e la sala d’aspetto era chiusa e che l’unica cosa che potevo fare era stare sotto una pensilina in piedi perché le panche erano già occupate tutte da extracomunitari clandestini coricati, fra cui appunto il tunisino Jamal. Considerate tutte queste cose, compreso il fatto che alle tre ho bussato alla porta a vetri di un albergo dove per poco non chiamano i carabinieri, sono arrivato alla conclusione che, in quello stato di sfiga totale e di degradazione inarrestabile in cui inspiegabilmente mi trovavo, se anche facevo tra me e me qualche richiamo semantico, magari non rumoroso, la situazione non sarebbe comunque peggiorata. Tanto più che non c’erano scrittori in giro e in teoria potevo fare tutti i richiami semantici che volevo. E allora, mi sono fatto una specie di confessione.
Se c’è una cosa che mi ha sempre lasciato a bocca aperta dalla meraviglia sono le planimetrie e i disegni tecnici. Io penso che a volte ci sono delle planimetrie e dei disegni tecnici che a guardarli sono più belli di certi quadri famosi di celebri pittori.
Da quel punto di vista sono abbastanza fortunato perché ho un amico che è un famoso geometra e sul suo tavolo c’è sempre una montagna di planimetrie da guardare. Io non ho vergogna a dire che lo invidio molto perché sa fare dei disegni tecnici così belli e precisi e raffinati che io non sarei buono neanche se andassi a scuola di disegno tecnico per cinquant’anni a fila. E così, quando guardo una bella planimetria, specialmente quelle delle case, mi vengono due tipi di sentimenti che qualcuno potrebbe dire che sono in contrasto, ma invece non lo sono per niente: uno è quello di mettermi lì a estasiarmi davanti al foglio per delle mezze giornate e seguire col sorriso sulle labbra tutte quelle belle righe e quei bei spazi vergini con dei piccoli simboli tecnici che sembrano dei fiori in un giardino, l’altro è di prendere dei pastelli e farci in mezzo qualche disegno postmoderno a mano libera o riempire gli spazi bianchi con un bel colore o cose di quel genere.
Le planimetrie che mi piacciono di più sono le sezioni con gli schemi idraulici perché entrano in una specie di intimità maliziosa con la casa: in pratica è come vedere la casa segata verticalmente con un taglio preciso, dal tetto alla cantina, lungo il tracciato dei tubi d’ingresso e di scarico. Quelli d’ingresso c’hanno segnata una freccia verso l’alto, in quelli di scarico la freccia punta verso il basso: le frecce sono disegnate allo sbocco del tubo, cioè dove il tubo, andando verso l’alto, entra nella casa e a un certo punto finisce con un tappo. Se la sezione è di un condominio, ci sono tanti sbocchi di tubo quanti sono gli appartamenti. Ecco, io quando vedo questi disegni tecnici di sezioni idrauliche sulla scrivania del mio amico geometra, quando vado a trovarlo, ho l’irresistibile tentazione di prendere una matita, una di quelle bellissime matite a mina che tutti i geometri lasciano distrattamente in giro nei loro studi, e completare la bocca dei tubi disegnando, appena sopra la freccia, dei piccoli wc con su degli omini seduti. Il risultato è che al mio amico famoso geometra, dopo che sono uscito, gli tocca perdere poi dei quarti d’ora a tirare delle madonne a cancellare tutti i vaterini e gli omini che ho disegnato sulle sue meravigliose mappe. È più forte di me. Tra l’altro devo dire che ormai c’ho preso su una mano che sia i vaterini sia gli omini caganti mi vengono proprio bene: anche se sono stilizzati hanno una loro dignità composta e serafica, come dovrebbe avere normalmente una persona in quei momenti.
Questa mia mania di disegnare vaterini e omini serafici caganti sulle mappe del mio amico famoso geometra rappresenta solo la prima parte della confessione.
La seconda, quella più importante, è che quando questi amici scrittori mi hanno detto che il nome della rivista era La tubatura mi si è magicamente disegnata nella testa la sezione planimetrica di un condominio con schemi idraulici; già completo di vaterini e omini in cima ai tubi. Non solo, ma ho anche visto idealmente per un attimo tutto l’impianto in funzione con gli omini serafici che si danno da fare con movimenti impercettibili dell’addome e gli scarichi che scorrono nei tubi che si uniscono e si incrociano con dei gomiti, delle T, delle V, delle Y, e convogliano, come si dice in lingua idraulica, nella rete fognaria e via discorrendo.
È così che mi è scappato fuori il richiamo semantico.
E, modestamente, tra i possibili richiami semantici collegati alla tubatura – pensavo più tardi sotto la pensilina della stazione di Modena mentre aspettavo inutilmente dei treni soppressi – quello che ho trovato io mi sembra proprio azzeccato.
Perché, a pensarci, la rivista che mi si è idealmente raffigurata in testa è proprio una tubatura che convoglia i prodotti letterari di ciascuno di questi scrittori famosi o di scrittori minori o di scrittori esordienti o di scrittori sedicenti.
E ripensando alla cena dove più o meno tutti avevamo mangiato il coniglio in umido, tranne Girolamo che era a dieta e Gèc che ha preso il castrato, nella mia testa un po’ annebbiata dalla depressione del momento contingente ho rivisto tutti noi intorno a questa tavola seduti su tanti bei wc.
E la tavola è diventata la sezione idraulica di un piccolo condominio dove ciascuno di noi produceva letteratura seduto sul suo legittimo vaterino e il prodotto convogliava in una tubatura comune che era appunto la rivista.
Non escludo che in questa visione abbia giocato un elemento onirico – se mi si passa ancora una volta l’espressione – dovuto al fatto che sotto quella pensilina ci sono rimasto a deprimermi fino alle cinque cioè fino a quando ha aperto il bar della stazione, e allora siamo entrati io, quattro neri compreso Jamal il tunisino e tre prostitute altissime con la voce strana, io a comprare una tessera telefonica, le prostitute a bere il cappuccino e tutti quanti a scaldarci.
Ma a parte l’elemento onirico (su cui non mi soffermo, per la nota teoria macroeconomica di mio nonno Neride), credo che la mia idea del richiamo semantico-planimetrico-idraulico, idea che sto onestamente confessando da un paio di pagine e ormai ho quasi finito, sia un’idea azzeccata anche dal punto di vista dell’anonimato che è una caratteristica esclusiva della rivista La tubatura.
Perché il prodotto letterario di ciascuno di quegli omini serafici seduti sui vaterini va a finire appunto nella tubatura, seguendoun suo iniziale percorso intimo per entrare in una zona idraulica collettiva e paritaria dove nessuno può più rivendicare il prodotto come suo.
Chiaro che un esperto, posizionandosi nella parte finale della tubatura, quella che convoglia gli scarichi nella rete fognaria che semanticamente rappresenta il mercato editoriale, potrebbe riconoscere frammenti di prodotto letterario attribuibili all’uno o all’altro omino serafico. È un po’ difficile, ma infatti stiamo parlando di un esperto.
Ad esempio, Girolamo dopo le tagliatelle agli ovoli ha mangiato solo un’insalata mista e ha bevuto poco, per via della dieta, e allora i suoi frammenti narrativi di quella sera è facile che si disperdano un po’ nel filone letterario corrente; mentre Fangio ha mangiato, oltre al coniglio, i tortellini al pasticcio, le cipolline borettane in agrodolce e ha coricato due bottiglie. Gèc ha bevuto la vodka come aperitivo, prima delle tagliatelle, ma poi mi pare che ha mandato giù della gran acqua. Sono tutti dati importantissimi per l’eventuale esperto che, per amore di ricerca scientifica, volesse cimentarsi nel selezionare, dentro il prodotto letterario della rivista, il contributo soggettivo di ogni singolo omino serafico.
Alla fine della mia confessione, vorrei metterci ancora tante idee, perché ormai vado a ruota libera e, a dirla tutta, mi scappano ancora tante di quelle variabili semantiche che non basterebbero altre cento pagine: ad esempio, l’ipotesi che la tubatura un bel giorno si ingorghi perché qualcuno ha buttato nel wc letterario del materiale anomalo e improprio, o che qualche omino infingardo resti seduto facendo solo finta di produrre e via discorrendo. Ma il discorso diventerebbe troppo lungo e devo dire che, a un certo punto di quella interminabile notte, mi è anche passata la depressione; che, come gli scrittori sanno, è un momento di grande rigoglio creativo.
Infatti, alle nove di mattina, grazie alla scheda telefonica comprata al bar, ho chiamato mio fratello sul cellulare. Come ho già detto, mio fratello mi aveva chiesto il grosso favore di andarlo a prendere alla Malpensa alle nove di mattina, e io, con la mia solita straripante generosa disponibilità, gli avevo risposto che non solo non c’erano assolutamente problemi ma che lo facevo con piacere qualunque fosse l’orario, anche alle sei di mattina. Lui mi aveva detto di non esagerare, che l’ora di arrivo comunque era le nove, ma io ho insistito e alla fine sono riuscito a convincerlo che era meglio che io arrivassi lì almeno alle otto; così lui, dopo che si è convinto, mi ha ringraziato perché gli toglievo davvero un pensiero. E io ero contento di far qualcosa di utile per mio fratello che è sempre in giro per il mondo a lavorare come un matto. Quando, dal telefono pubblico, alle nove di mattina, gli ho detto che ero in stazione a Modena da sette ore, e che il primo treno era alle due di pomeriggio, mi ha dato dell’asino.
Poi ha noleggiato una macchina alla hertz e mi è venuto a prendere a Modena; così alla mezza ero a casa a fare la doccia.
Mi ha detto, a livello di consiglio fraterno, che la prossima volta che mi chiede un favore di rispondergli semplicemente di no, che si evitano tanti problemi.
L’ultima riflessione l’ho fatta proprio mentre venivo scarrozzato sulla bellissima e profumatissima macchina noleggiata da mio fratello all’aeroporto della Malpensa: in fin dei conti, ho pensato, la teoria di mio nonno Neride con tutto il rispetto è molto opinabile. E mi sa che io sto già diventando come lui, che parlo sempre poco (a parte stavolta) e non c’ho mai una lira in tasca.
Ma se lui – mio nonno Neride – mi avesse visto quella notte di pioggia sotto la pensilina davanti alla stazione (chiusa) di Modena, in piedi, con tre prostitute e quattro clandestini, compreso Jamal il tunisino, ad aspettare per sei ore dei treni che venivano soppressi uno dopo l’altro, con il cellulare scarico e senza scheda telefonica, con ancora sullo stomaco un coniglio in umido mangiato molte ore prima insieme a famosi scrittori e a scrittori minori e a scrittori sedicenti; se, contemporaneamente, avesse visto mio fratello che, sbarbato e dopobarbato e in giacca e cravatta di ritorno da Londra, entrava alla hertz dell’aeroporto della Malpensa facendosi consegnare da una specie di miss mondo sorridente in divisa blu della hertz le chiavi di una bmw per venire a prendere me, fino alla stazione di Modena; se avesse visto tutto questo, compresa la faccia del custode
dell’albergo che, dalla paura che facevo, voleva chiamare i carabinieri, adesso probabilmente sarebbe abbastanza orgoglioso di suo nipote più vecchio (cioè io), anche se – pensando alla rivista denominata La tubatura e ricordando quel coniglio in umido – ogni tanto mi scappano ancora di quei richiami semantici così potenti che poi c’è da aprire delle finestre per delle mezz’ore.
Faccio i miei personali complimenti a Paolo Colagrande che ha vinto le sezioni opera prima delle edizioni 2007 del Premio Campiello e del Premio Viareggio.
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@ Paolo Colagrande.
Paolo, inizio io a farti una domanda. Non riguarda direttamente il tuo libro.
Ti volevo chiedere di raccontarci le tue impressioni relative alla tua partecipazione ai suddetti premi.
Hai qualche aneddoto particolare da raccontarci?
Ti aspettavi questo riscontro?
@ Paolo Colagrande.
Seconda domanda:
Andrea Di Consoli, nella recensione, definisce Fìdeg “un’opera “aperta”, dove il registro comico si fonde sapientemente con un’attitudine metaletteraria mai intellettualistica, ma sempre contigua alla vita “bassa”, alla vita osservata rasoterra”. Ti trovi d’accordo?
Naturalmente coloro che hanno già letto il libro sono invitati a intervenire (così come coloro che leggeranno, o hanno già letto, il testo pubblicato di seguito alla recensione).
ciao Massimo, grazie. Sulla prima domanda: Viareggio e Campiello sono state vacanze, anche se io non amo tanto le vacanze. Non avevo nè aspettative nè progetti di premi letterari, del resto non si scrive per quello. Quindi ero rilassato: è stato bello conoscere gli altri finalisti e girare lontano da casa, dove (a casa) comunque sto benissimo. Aneddoto: mohito e vodka lemon presi una sera con Simona Baldanzi e altri due amici; particolare: non reggo l’alcol.
Sulla seconda: mi piace molto quello che ha scritto Andrea De Consoli, mi piacerebbe anche se l’avesse scritto di un altro. E sono d’accordo con lui soprattutto circa il registro “basso” e la “vita osservata rasoterra”, che sono i temi di cui abbiamo parlato alla presentazione a Roma lo scorso giugno. Credo che la vita osservata dal basso, cioè senza visione d’insieme e senso cosmico, sia più ricca di cose, più a nostra misura: da lontano non riesci a veder bene, ad afferrare, ad annusare …
ho detto “da lontano” ma volevo dire dall’alto.
La mia è una domanda banalissima. Che significa Fìdeg, conl’accento sulla i?
Chiedo venia per l’eccessiva banalità. Porrò altre domande quando mi verranno in mente.
Smile
Una bella botta alla spocchia di tanti autori che si credono “arrivati” e a tutte le consorterie o camarille varie che come piccole fastidiose ‘ndrine si arrogano il diritto di scrivere, di decidere cosa o come si può scrivere e soprattutto chi può farlo…
Il linguaggio “basso ” spesso è la prospettiva più adatta per smontare i circuiti autoreferenziali di tante consorterie…
Beh, mi scuso di stare utilizzando un linguaggio da tubatura…
premetto che non ho letto il libro.
dalla recensione di di consoli leggo che lei ha ironizzato, immagino “preso in giro”, scrittori affermati come sandro veronesi e addirittura umberto eco.
non ha pensato che questa cosa potesse essere un po’ rischiosa? nel senso che i citati scrittori potessero “risentirsi”? ha avuto modo di sapere se si sono effettivamente risentiti? o, al contrario, ha fatto loro piacere essere citati, anche se ironicamente, all’interno di un romanzo?
Salve. solo per farle tanti auguri e complimenti. L’ho vista in televisione su rai Uno nella trasmissione premio Campiello. un bel palcoscenico.
Complimenti doverosi ma sinceri, la questione della vita rasoterra mi piace molto perchè mi sembra che ultimamente si cerchino spesso ‘grandi visioni’, ‘annotazioni che chiudono un cerchio’ ‘risposte da marchiare sulla pelle’ e mi sembra che, alla fine della fiera, siano tentativi inutili. Magari fosse così semplice per certi versi. Eppure rasoterra ci sono tanti mondi ignorati, inesplorati, che sfiorano e avrebbero molto da dire solo che c’è sempre fretta, e poca voglia di entrarci, in questi mondi, non necessariamente con il melodramma, magari con l’ironia e una vena di comicità come ho percepito leggendo il brano.
L’inteno di ‘raccontare’ non dovrebbe avere limiti, ecco.
Domanda personale: quanto c’è di Paolo Colagrande in questo romanzo, quando nasce dalle sue esperienze-formazioni e quanto invece è frutto di analisi, studio e attenzione per ‘il basso’ attorno?
Grazie.
Barbara
Fìdeg significa fegato, è una specie di intercalare scurrile elusivo in uso fra lombardia e emilia, è anche la prima parola del romanzo. Credo che gli inetrcalari rappresentino un modo di raccontare che sta all’opposto del “parlare come un libro stampato”. Alla fine del libro la parola diventa una voce di glossario, ma è un finto glossario.
Il registro basso ha l’effetto di abbassare di statura il mondo che si racconta, anche i miti, o i guru, che però nel “loro” mondo restano tali e nessuno pretende di detronizzarli. Non credo che qualcuno possa risentirsi: del resto nel libro non c’è propriamente ironia: L’ironia presuppone sempre un giudizio sulle cose o le persone che descrivi (e su cui ironizzi): Bisi, il protagonista di Fìdeg, non giudica mai, si limita a guardare, a volte le cose le vede perchè ci inciampa dentro: e nel suo guardare dal piano terra mette tutto al suo livello, anche Eco, o il dolce stil novo… E la cifra di partenza non è affatto comica, anzi è tragica: Bisi parte dalle sue tragedie quotidiane e non vuol fare ridere, poi alza la testa e vede che la gente ride, ma non capisce bene perchè e cosa ci sia da ridere.
Poi non so se Sandro Veronesi o Umberto Eco, per far due nomi, hanno letto il libro, ma è impossibile che se la prendano con Bisi (o con me): sarebbe uno scontro impari; come la Juventus contro la Pontolliese.
per il dott. colagrande.
le mie sono piccole curiosità.
quanto tempo ha impiegato per scrivere questo libro?
anche lei, come credo quasi tutti gli scrittori, inizialmente ha collezionato rifiuti da parte dei grossi editori?
Credo, Barbara, che l’autobiografia sia un passaggio obbligato, e naturale, quando scrivi di cose che conosci, usi la tua voce e le tue cadenze, le facce che sei abituato a vedere. Poi le storie puoi anche inventarle, ma se non c’è niente di tuo in quello che racconti la storia non cammina, e forse non è del tutto onesta. Alcuni amici, dopo aver letto il libro, mi hanno riconosciuto in certe situazioni che in realtà non mi sano mai capitate.
spero che il dott. sia per ridere, Luisa. Comunque ho impiegato circa cinque mesi. Il dattiloscritto è stato letto da alcuni amici, anche scrittori, poi è rimasto lì indolentemente senza che io mi dessi realmente da fare per farlo pubblicare. C’è stato l’interessamento di un editore ma i tempi di lettura sembravano lunghi. L’incontro con Alet è stato una sera durante una lettura fatta a Milano con Paolo Nori, Ugo Cornia, Giovanni Previdi, Paolo Morelli e Gianfranco Mammi. Leggevamo brani scritti da noi sul n. 0.0 de L’accalappiacani (rivista settemestrale edita da Deriveapprodi, presto uscirà il n. 1). qualche settimana dopo, mentre firmavo con Alet, mi ha risposto anche il primo editore dicendomi che il testo gli era piaciuto, e a distanza di qualche giorno si è fatto vivo anche un terzo editore che aveva ricevuto il dattiloscritto da un amico. Diciamo che per oltre un anno, forse due, non è successo niente, che non è una bella situazione ; poi è successo troppo.
la ringrazio molto per le risposte. veramente il dott. non era per ridere. mi fa piacere vedere che lei è un tipo alla mano.
per quanto riguarda la “storia editoriale” del suo dattiloscritto non le è andata affatto male. leggo storie allucinanti, in merito. leggende metropolitane. tipo quella secondo cui fitzgerald collezionò qualcosa come 127, o giù di lì, rifiuti prima di essere pubblicato. moravia che si pubblica gli indifferenti a proprie spese. il gattopardo che non se lo fila nessuno, da vittorini in giù. primo levi che non riesce a pubblicare se questo è un uomo. morselli che si ammazza senza che uno straccio di editore lo prenda in considerazione.
comunque è evidente che il suo è un buon libro. lo leggerò di certo 🙂
per quanto riguarda il primo editore: peggio per lui per la sua lentezza. e complimenti ad alet, invece, per la prontezza.
piccola aggiunta, sempre per Barbara. Si, anche secondo me l’intento di raccontare non deve aver limiti. E comunque raccontare non vuol dire a tutti i costi mettere in scena: è più bello scendere dal palcoscenico, o non salirci neanche, in modo che non ci sia un attore e un pubblico, anche quando scrivi, per dire, una sceneggiatura.
Un saluto a Paolo Colagrande e tanti auguri per la sua futura carriera di scrittore.
Domanda: Celati e Cavazzoni hanno effettivamente influenzato, o ispirato, la sua opera Fìdeg?
la lentezza (risposta a Luisa) spesso non è una colpa dell’editore. Bisogna mettersi anche nei panni delle case editrici. Perchè il mio romanzo dovrebbe essere letto prima degli altri? mi sono sempre chiesto. Altra domanda: perchè dovrebbe essere pubblicato? Bisogna partire dal basso anche qui, purtroppo. Altra, più drammatica domanda: e se tutto finisse subito?
cosa intende con: se tutto finisse subito?
Grazie, Rosa. Celati e Cavazzoni sono autori che ti mettono davanti a alle cose che raccontano, come Nori Cornia e Benati, ciascuno con la propria scrittura, la propria cadenza. Di loro ho letto quasi tutto (tutto, degli ultimi tre). Credo che nella lettura di questi scrittori ci sia una terza dimensione che manca a molti autori cosiddetti contemporanei. molte storie che leggo, di altri, sono bellissime e “ben scritte” ma mi sembrano bidimensionali. E’ un’impressione personalissima e non vorrei avventurarmi su questo tema che non saprei spiegare bene, ma secondo me ci sono autori che dànno qualcosa di più del semplice svago della lettura, che ti tirano fuori i magoni senza scomodare i tramonti di lisbona. In questo qualcosa di più c’è anche il salto alla lettura alla scrittura, se ti piace scrivere. Quello che leggi, se lo vedi nelle tre dimensioni, ti entra dentro e fa parte di te, quindi in un certo modo ti ispira e forse ti influenza. Ma poi devi trovare la voce tua, che è solo tua, cercandola da qualche parte dentro di te. I libri che leggi ti possono aiutare in questa ricerca, e ancora di più il confronto diretto con gli scrittori. Un altro autore che mi ha aiutato in questo senso è Piergiorgio Bellocchio, che tutti considerano soprattuo saggista e critico e intellettuale eccetera eccetera, ma secondo me è un grande narratore.
“se tutto finisse subito” può voler dire che è stato tutto un errore, o solo una fortunata combinazione, e i tuoi libri non li vuole più nessuno.
Una curiosità tecnica, Paolo. Com’è stato il tuo rapporto con gli editor di Alet? Sono intervenuti molto o poco sul tuo testo?
te lo chiedo perché anch’io ho pubblicato e ho vissuto un rapporto piuttosto traumatico con l’editor che mi ha seguito.
Perdona l’anonimato.
Sono io che ringrazio 🙂
Il testo è stato mantenuto praticamente intatto, solo due o tre piccolissimi ritocchi ma nessun tentativo di aggressione o di addomesticamento del testo. E’ stato tolto, di comune accordo, un brano centrale di tre o quattro pagine inserito come spot nell’intervallo del film (“intermezzo postumo”), che spezzava troppo il racconto, già abbastanza divagante.
Domanda d’obbligo: sta lavorando a un nuovo libro, anche per sfatare quel “se tutto finisse subito”?
Ciao Paolo,
complimenti per Campiello e per Viareggio (letto il pezzo di Simona Baldanzi su Nazione indiana e immagino ne scriverai visto che la realtà a volte è di per sé parodistica). Ti ho visto in tv con quell’untuoso di Vespa che non t’ha chiesto manco il titolo del tuo romanzo, ma t’ha fatto una sola domanda e pure scema (pensando di essere a porta a porta). Tu te lo sei tolto dai piedi (facendolo uscire dalla finestra) con gentile stralunata eleganza. Sai già quanto ho apprezzato Fìdeg e anch’io son curioso su quello che stai preparando. Se già puoi anticipare qualcosa.
A proposito di scrivere guardando il mondo dal basso, esemplare è il pezzo che introduce il numero zero de “l’Accalappiacani”, letto su Nazione Indiana. Lo dico per chi non l’ha… acchiappato. Auguri ancora.
Ecco il link del pezzo che cito sopra:
http://www.nazioneindiana.com/2006/11/24/e-arrivato-laccalappiacani/#comments
Grazie Giancarlo (complimenti per il tuo libro, come ti ho già detto ma poi bisogna che ne parliamo per bene magari con le gambe sotto un tavolo) ed Erika. Ci sono molte cose in preparazione e alcune già abbastanza organizzate. Ho anche degli impegni già presi, con tempi stretti. Il “se tutto finisse subito” prescinde dal continuare a scrivere, che è una cosa che non finisce. Cioè, finchè si è vivi. Una cosa che posso dire è che il prossimo romanzo sarà un po’ più narrativo di Fìdeg. Non sono molto pratico e neanche appassionato di palcoscenici, per cui quella che tu definisci “gentile stralunata eleganza” era solo imbranataggine; per fortuna lo spazio era poco e i protagonisti erano altri, se no chissà che figure da bigolo ci facevo.
altra piccola aggiunta. Non avevo letto il pezzo di Simona Baldanzi su Nazione Indiana e grazie a Giancarlo che lo segnala sono andato a leggerlo. Credo che dobbiamo leggere tutti il libro di Simona: c’è la stessa forza che ho sentito parlandole e ascoltando il suo intervento in conferenza stmpa. E non sapevo che un quotidiano avesse scritto che si è messa a piangere: c’è veramente da ridere (o da piangere sul serio, dalle risate). Io c’ero, proprio vicino a lei: le sue ragioni sono uscite granitiche e trasparenti, nelle parole e nella voce, e con un velo di onesta incazzatura rimbalzato in tutti gli angoli della sala e anche fuori. Forse erano gli altri, a piangere, dopo. Fine della aggiunta.
Per la’utore del libro. Cos’è che l’accomuna a Bisi, il protagonista del suo romanzo?
Un saluto e un ringraziamento a Massimo Maugeri per avermi invitato alla discussione..
pescando il mio indirizzo da IBS dove, per la prima volta in vita mia, ho postato un commento su un libro: Fideg, appunto.
E un caloroso saluto a Paolo Colagrande.
Che dire? Il suo libro mi ha veramente colpito.(Lo sto consigliando a tutti).E forse più per la dimensione autobiografica, di ambiente, emotiva, che per le – godibilissime – punzecchiature all’absurdo narcisismo dei nostri intellettuali. Forse perché siamo quasi coetanei (sono del ’62) e vivo anch’io in una provincia benestante e intorpidita. E devo dire, che, per la prima volta, mi è venuta la voglia di conoscere di persona l’autore di un libro che ho letto (se si eccettuano i vani tentativi di sedute spiritiche con Dostoevskij e Tolstoj..).
Però (cristallizzata la mia stima e la mia assoluta simpatia, anche per averti visto sudato ed emozionatissimo sul palco della Fenice), giusto per dare un pizzico di pepe a questo “incontro”, mi permetto di buttarti lì qualche piccola provocazione.
Tu parli di questa visione dal basso…ed ho letto in una tua intervista su un giornale, la tua critica alla distanza che frappongono gli intellettuali (vedi Calasso ..) con il loro linguaggio.
Beh, perdonami, ma io penso che, paradossalmente, la ragione del successo di Fideg,(almeno per quanto riguarda l’orbita premi) sia da ricercarsi prima di tutto per il suo oggetto “alto”, e nella stessa scrittura, che, per quanto magistralmente diluita con le cadenze e gli intercalari di sonorità dialettale, parlata, ritengo che si tratti di scrittura “alta”, apparentemente semplice, ma secondo me frutto di molto lavoro e ricercatezza stilistica, e che rivela, a prescindere dalle citazioni, un livello “alto” di cultura da parte del suo autore.
Insomma, non è solo questo, certo ( a me, come ho detto, ha colpito più quella rarefatta, celata dimensione emozionale che pervade tutto il libro), ma penso che la visibilità ed i premi sono il frutto attaccato allo stesso albero di cui tu sembri manifestare un certo fastidio. Fa un pò parte del masochismo italico, talvolta, quello di includere e indulgere (e premiare) all’arrivo di un fustigatore dei costumi (questa volta letterari), purché abbia i crismi e i cromosomi tali da essere riconoscibile come un pari dalle stesse vittime, tranquillizzate dalla sua sostanziale non alterità.
Comunque, ancora sinceri ed ammirati complimenti.
Aspetto il prossimo libro.
in tutta onestà pensa che sia cambiato qualcosa per lei dopo la vittoria del campiello opera prima? al di là della soddisfazione personale, intendo.
quali sono le sue personali aspirazioni per il futuro?
il prossimo libro lo pubblicherà con alet?
e secondo lei a che serve la letteratura?
Credo il senso della panoramica al contrario, il trovarmi spesso a disagio, il pessimismo incarognito. Poi, come dicevo prima, alcuni amici mi hanno riconociuto nelle situazioni descritte, anche se alcune sono inventate (la cena dai contadini a Boscorè, località inesistente). altre situazioni sono vere (la notte passata a Modena).
rispondo a Carlo (prima rispondevo a Mauro). Grazie Carlo per aver letto Fideg e averlo consigliato. Partendo dalla lingua, ho parlato di lingua bassa per semplicità, perchè nnon saprei trovare un’altra etichetta. il mio modo di scrivere viene sicuramente da una ricerca ma non è una ricerca stilistica, o forse non è solo quello: c’è un paziente scavarsi dentro per far venir fuori la voce che ti sembra più vicina a quello che senti e che vuoi raccontare (quello che vuoi raccontare “è” quello che senti). Non è una ricerca facile, ti aiuta la lettura, il confronto, l’osservazione delle cose, credo, e soprattutto la lettura ad alta voce: La lettura ad alta voce è il test, la prova certa per verificare la credibilità e l’onestà di quello che hai scritto. La voce che hai trovato e che senti tua va d’accordo con tutto quello che racconti, anche con i richiami ai tuoi autori preferiti, ai libri che leggi o che hai letto e che magari sono entrati nel tuo modo di pensare. Senza ricerca di letterarietà o senza che questo ti renda dotto o erudito. Non so se son riuscito a spiegare bene, del resto non è facile la tua domanda.
Quanto alla premiazione, più che emozionato ero un po’ a disagio, pechè in certe situazioni non son capace di muovermi, non so che cazzo dire, mi prende l’afasia e mi sento un animale strano.
E’ vero, è curioso che un libro così, giudicato “irriverente” (ma è un aggettivo non adatto, per via del diverso livello dei ruoli che dicevo prima quando ipotizzavo la partita Juve-Pontolliese) vinca poi dei premi: ma esiste il paradosso, grandissima risorsa : è bello cavalcare sul paradosso e giocarci, quando ti capita. Basta non prendersi poi sul serio, che se ti prendi sul serio secondo me non ti diverti più e svanisce il sogno.
Allora Marina. In tutta onestà, come dici tu, credo che l’unica cosa che cambia dopo un premio è la visibilità del libro (e forse del suo autore). Dentro non lo so. Io sono molto in ansia per il dopo e infatti non ci voglio pensare più di tanto. Penso a scrivere, e l’unica vera aspirazione è non smettere. Vorrei che succedesse qualcosa che mi aiuta ad andare avanti con più tranquillità.
Bello,cazzo!
Scusatemi tutti ma non sapevo trovare definizione altra – ed ho letto solo lo stralcio di Maugeri – , la letteratura è quello che ti attacca gli occhi alla pagina sperando che non finisca.
Complimenti invidiosi e affettuosi Paolo, dopo aver letto lo stralcio di Fìdeg ho mollato quello che stavo scrivendo e ho aperto una busta di patatine “rustiche” -quelle tagliate rigate- la finirò con Falanghina bianca e un b-movie in tv; no stasera non mi va più di scrivere, domani troverò il tempo di passare da Fnac e spararmi il testo direttamente in metro.
Complimenti figliolo -sono del ’54- complimenti!
Molto bene. Noto con piacere che la conversazione con Paolo Colagrande si è svolta nel migliore dei modi.
Vi ringrazio per i vostri commenti. Un ringraziamento particolare a Carlo e a Giancarlo Tramutoli che hanno accolto il mio invito a partecipare al dibattito (benvenuti a Letteratitudine).
Devo dire che Carlo mi ha rubato la domanda che pensavo di porre. Poco male.
Cambio la domanda e ne formulo un’altra di carattere più generale, non riferendomi dunque a Fìdeg in maniera specifica.
Piccola premessa.
In questi giorni si sta svolgendo a Mantova il festival della letteratura. Tra i vari argomenti si sta discutendo anche del rapporto tra letteratura e lingua. Secondo Francesco Sabatini – Presidente dell’Accademia della Crusca – (cfr. Domenicale del Sole24Ore del 2 settembre 07, pag. 34) la letteratura, oggi, non riveste più il ruolo di bussola della lingua; i nuovi modi di parlare vengono imposti dal cinema e dal fumetto. Inoltre sostiene che non ci sia più un autore che rappresenti un modello stabile.
Sabatini cita autori del calibro di Manzoni, Pirandello, Pavese, Calvino, Levi: “scrittori”, dice “che hanno operato in sintonia con l’esigenza di stabilità linguistica avvertita sempre più dalla società italiana. Oggi, non pare vi sia alcun solido scrittore che svolga questa funzione”.
Tu, Paolo, cosa ne pensi?
E voi altri?
Una domanda per Colagrande. Lei cita molti autori nostrani, ma com’è il suo rapporto con la letteratura straniera? C’è qualche autore straniero che è stato od è ancora un modello di riferimento per lei?
E i richiami e controrichiami semantici in continua agitazione, secondo lei, “affliggono” solo gli scrittori italiani o pure quelli stranieri?
Grazie a Francesco, che a quest’ora sarà già sceso dalla metro.
Non so se i nuovi modi di parlare vengano dal fumetto o dal cinema. Mi sembra a volte che vengano più dalla televisione. O forse sono giudizi contati e poco riflessivi. A viareggio ho passato molto tempo con alcuni ragazzi meno che trentenni e non ho avuto l’impressione di asservimento ai clichè della comunicazione globalizzata, anzi ho avuto l’impressione che sapessero tenerli molto bene al loro posto; cioè fossero molto più forti della suggestione che esercitano certi modelli come la televisione, internet, il telefonino etc. Poi viene facile dire: oggi parlano tutti come gli spot pubblicitari, oggi i ragazzi si imbalordiscono su internet. Facile ragionare così, non si sbaglia mai. negli anni settanta si diceva: oggi i giovani parlano a forza di slogan. Negli anni ottanta l’accusa era di parlar da paninari. Come parlavano certi ‘giovani’, quelli che applaudivano sotto un balcone in un certo ventennio?
Sul fatto che il cinema e i fumetti abbiano estromesso la letteratura (o che la lignua del cinema l’abbia castrata) ho molte perplessità: mi auguro che chi l’ha detto l’abbia anche ben verificato, perchè mi sembra un modo di pensare molto ‘facile’.
Io credo che esista sempre una lingua letteraria, ma penso anche che la letteratura non possa non riflettere una realtà che è diversa da quella di venti, cinquanta, cento anni fa. La “stabilità della lingua” non deve mettere il mondo da una parte e la lingua da un’altra. La forza della lingua secondo me è in grado di non lasciarsi sopraffare dai gerghi o dai modelli contingenti, e attraverso la parola scritta si continuerà a fare della letteratura. Certo, la moda leggera o ruffiana è entrata anche in libreria, ma forse c’è sempre stata e non bisogna darle troppo peso. Quanto al “solido scrittore”, lasciamo il giudizio ai pronipoti. o pro-pronipoti. Quando eravamo a scuola i nostri insegnanti parlavano dei loro ex-allievi di dieci anni prima come dei geni e noi eravamo tutti asini. La stessa cosa dicevano dieci anni dopo: noi asini eravamo stati promossi a geni. Qualche ex genio, o “solido studente” è diventato uno stronzo, ma questo è un altro discorso.
mi sono accorto solo ora di aver dimenticato un pezzo della domanda di Marina, scusa Marina. Il pezzo più difficile, a cui non so rispondere: a che serve la letteratura? Forse a niente, di sicuro non a salvare il mondo. Ma se si parte da qui non si va molto avanti. Credo che la letteratura debba riflettere noi stessi che ci camminiamo in cima, al mondo: poi puoi parlare di quello che credi. il parlare con la propria voce, ad esempio, e non imitando qualcosa o ualcuno, è già un bel punto di partenza. A cosa serve non lo so, ma forse semplicemente a raccontarci qualcosa, qualcosa che in qualche modo ci riguarda, o comunque ci piace. Ma è meglio non andare avanti col discorso. (“interrompimi prima che io sembri un deficiente”, W. Allen)
Non penso che esista uno scrittore che oggi svolga questa funzione.
La letteratura non ha più la centralità che poteva vantare in passato nella comunicazione.
E meno male.
Spostandosi il centro nevralgico dell’attenzione nel mondo del cinema e della tv (Tolstoj e Balzac oggi farebbero gli sceneggiatori), alla letteratura oggi resta uno spazio meno visibile ma forse per questo potenzialmente più libero, dove da luogo di risposta alle esigenze di stabilità della lingua, si può sostituire quella di luogo d’incontro ed espressione della molteplicità: delle voci perdute, smarrite, inascoltate, o ascoltate da pochi: perché appena nate, o perché troppo vecchie, o perché troppo lontane e complicate, o non ancora formate.
Ad esempio, non è un caso che proprio man mano che i dialetti si sono estinti con l’avanzare della lingua nazionale televisiva, stiano riemergendo, con diluizioni e intensità diverse, nello spazio libro (Camilleri, Niffoi, lo stesso “Fideg”…)
Il cinema, la tv, per ragioni di “numeri” di mercato, non possono permettersi questa libertà. Basta entrare in un cinema od accendere la tv per accorgersene. In libreria io posso attingere immediatamente alle elucubrazioni di un Calasso (che usa volutamente la lingua per selezionare i suoi interlocutori) o spostarmi di scaffale e lasciarmi blandire da una lingua che chiede solo di essere invisibile e prona al servizio di una storia in un best-seller all’americana di un Faletti, o lanciarmi nell’abisso di un Moresco.
Insomma, se ne ho voglia, ho ancora una possibiltà di incontro con la diversità, la molteplicità, che altrove è ormai divenuto difficilissimo.
Questa, almeno per me, è l’unica ragione per cui continuo a leggere. Che è poi la stessa che mi ha fatto apprezzare Fideg. In quanto voce con una venatura nuova, diversa, appunto.
A Giorgia. Thomas Bernhard, ad esempio. E prima, ma il discorso è un po’ diverso, Dostoevskij, tra gli altri.
I richiami e i controrichiami semantici credo che affliggano i critici e i professori, più che gli scrittori. Ci vogliono anche loro, guai se non ci fossero i critici e i professori. Bisi si sente emarginato dal tavolo degli scrittori perchè è convinto che dentro i loro cervelli ci sia tutto un circuito di richiami e controrichiami semantici in continua agitazione. Bisi (pur leggendo tantissimi libri) deve aver sentito dire da qualche parte che la letteratura non è roba per gente comune, e così quando trova il suo richiamo semantico nella tubatura collegata ai vaterini su cui ciascun scrittore è virtualmente seduto, è contento, anche se non c’è più il treno per tornare a casa e neanche un posto per ripararsi dalla pioggia.
Credo, Carlo, che siano tutti piani paralleli. E’ vero che la lett(erat)ura non ha più quella centralità di un tempo: per forza (per fortuna, dici tu). ma non credo che ci sia interferenza fra i vari piani, che restano appunto paralleli. Se oggi, come dici tu, Tolstoj e Balzac farebbero gli sceneggiatori (per necessità), io credo che continuerebbero a fare ‘anche’ gli scrittori. Per il resto son d’accordo, la libreria è sempre un bel posto dove andare e dove spendere i soldi. Breve considerazione: tutti i ragazzi tr i 20 e i 30-35 anni che conosco leggono molti libri (senza rinunciare a niente). La maggior parte dei miei coetanei (tra i 40 e i 50) non ne leggono, e guardano sky. come la mettiamo?
non è da tutti scrivere un libro, soprattutto d’esordio, che metta d’accordo critici e lettori. quindi complimenti e auguri per il futuro. di cosa parlerà il prossomo libro? si può avere qualche anticipazione sul tema?
volevo scrivere “sul *prossimo* libro”
Dicevo per fortuna, Paolo, volendo enfatizzare il positivo di quella perdità di centralità. Quando la letteratura era una cosa così “importante”, quasi luogo sacro, e l’editoria di conseguenza centralizzata, solo chi rispondeva ai canoni riconosciuti poteva avere ascolto. Gli esempi di Moravia e Tomasi di Lampedusa, ignorati perché propositori di una “lingua” in quel momento non riconosciuta, li conosciamo. Oggi, con buona pace dei lamenti dei tanti aspiranti scrittori, mi sembra sia molto più semplice pubblicare.Certo, molto meno essere letti. E veniamo al tuo “come la mettiamo”? Mi vengono in mente più motivi: chi ha 20-30 anni ha ancora la curiosità per il mondo e la freschezza mentale che una persona di 40-50 anni spesso ha perduto: vuoi perché il peso e il volume delle sue personali esperienze ed impegni(lavoro, famiglia etc.) ha ormai di gran lunga saturato lo spazio libero nel proprio hard-disc mentale, una volta disponibile all’immaginazione; vuoi perché man mano che nella clessidra della vita il futuro ha meno granelli del passato, si è più attaccati ai propri convincimenti e meno disponibili ad ascoltare le esperienze altrui, considerandole già note.
E poi, quando sei giovane, spesso nei libri cerchi anche una guida, un racconto di quello che non conosci e che ti aspetta, mentre ( come dicevi anche tu più sopra) quando sei a 50 anni, è più facile pensare alla lettura come uno svago ozioso, come qualcosa che (lo dicevi anche tu sopra) non serve a niente. A quel punto, a paritò di svago, Sky è meno impegnativo per l’hard disc nel capoccione appesantito da una giornata di ordinaria quotidianità.. .
(Io Sky non ce l’ho…)
Ti stanno – ti stiamo?- vivisezionando: bene!
Ora farai la fine di Massimo (Troisi) dopo “Ricomincio da tre”: cosa farà dopo il canarino Titti?
Io non volevo cadere nell’Accademia quando affermavo che “…la letteratura è quello che ti attacca gli occhi alla pagina sperando che non finisca…”, ma è così! se si scopre di/ se si riesce a /parlare senza esser proni ai critici e ai lettori, ma per rilegger le proprie “cose” in tram o in bagno divertendosi, allora si deve essere quasi sicuri che quella “roba” piacerà, poi se non la pubblicano pazienza.
Scrivere (in modo professionale s’intende, di diari ne abbiam piene le scatole) è un esercizio di libertà.
Prossimo libro. Ho qualche problema a parlarne. Abbastanza presto uscirà qualcosa di mio in un’antologia insieme ad altri tre scrittori. Il prossimo romanzo sarà un po’ più narrativo di Fìdeg.
Sono d’accordo con te Carlo sul fatto della sacralità perduta (fortunatamente perduta) della letteratura e sulla maggiore pubblicabilità dei libri, nel senso che l’editoria piccola o mediopiccola è sempre molto attenta a seguire e sperimentare nuove voci.
Neanch’io ho sky e non mi interessa averlo. Ma credo che il non leggere libri da parte degli odierni 40-50enni non sia questione di età (e di maggiore o minore freschezza mentale); i 40-50enni di cui parlo non leggevano neanche a 20-30 anni e sono quasi tutti laureati etc. Credo allora che sia un fatto generazionale. C’è un buco, secondo me, proprio in questa generazione, passata indenne dalla contestazione (perchè si era troppo giovani) e affossata in quella specie di ombra controriformistica scivolata fino agli anni 80 e poco oltre. Buona parte dei politici di oggi appartiene a questa generazione. che caso.
Ti credo sulla parola, Francesco: scrivere è un atto di libertà, anche se la frase è molto ‘spessa’. Ci rifletto un po’, ma credo che tu abbia ragione.
piccola avvertenza. Se divento predicatore catechista dogmatico eccetera, mandatemi subito a cagare. Lo dico perchè secondo me, rileggendo sopra un po’ di mie frasi, ho paura di aver messo su un tono da cazzone. Se sì ditemelo, se no, niente.
La stessa cosa vale se il tono diventa paternalistico-pedagogico oppure ruffiano-accondiscendente.
lei sa essere proprio divertente dott. Colagrande 🙂
basta col dott. altrimenti la chiamerò dott.ssa Luisa
Molto bene, Paolo. Noto che ci hai preso gusto al dibattito on line. Ti ringrazio per esserti simpaticamente “prestato”.
A Francesco Di Domenico domando: l’hai poi acquistato Fìdeg alla Fnac? Dopo averlo letto non sarebbe male se tornassi a qui a raccontarci le “impressioni a caldo”. Quelle che hai messo in comune si riferiscono solo allo stralcio che abbiamo pubblicato qui.
Riprendo, invece, la domanda che Marina De Cristoforo aveva posto a Paolo circa l’utilità della letteratura.
Tempo fa abbiamo dedicato un “post” specifico sul tema “utilità/inutilità della letteratura”. Lo trovi qui, Paolo:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/05/06/a-che-a-chi-serve-la-letteratura/
Da’ un’occhiata se puoi e comunicaci la tua “posizione” in merito.
Il dibattito su “Fìdeg” continua!
Boh, la mia finta analisi sociologica si basava essenzialmente sulle persone che ho conosciuto..quasi tutti quelli che sedevano nei collettivi fumosi e incazzati degli anni 70 [io ero quello portato a forza dal fratello maggiore in vena di proselitismo} ora sono professionisti affermati e, come mio fratello, che scriveva su un giornalino con propositi rivoluzionari, ora non legge nulla, ma proprio nulla che non possa utilizzare praticamente per accrescere il proprio reddito e posizione professionale {lui Sky e tutti i gadget elettronici ce li ha…}
In sintesi { poi la chiudiamo qui questa parentesi..} spesso, nella mia esperienza..
giovane sta per sperimentazione e curiosita
adulto sta per concretizzazione e conservazione del potere acquisito
la differenza forse sta che negli anni 70 i giovani cercavano uno spazio di affermazione nuovo…si era piu ingenui…si credeva tutti che esistesse un altro modo possibile di vivere…meno competitivo…con maggior condivisione…
forse oggi, il giovane e piu sollecitato a cercare in fretta gli strumenti per adeguarsi alla realta cosi come la trova…per conquistarsi in fretta una posizione privilegiata e individuale nel mondo del lavoro…non illudendosi che esistano altre possibilita…
I politici a cui ti riferisci….Rutelli che a Venezia dice …e motivo di orgoglio….motivo di orgoglio…..beh..come linguaggio non sembra molto diverso da quello di un politico con la panza e gli occhialoni spessi anni 70 con la fascia tricolore alla inaugurazione di un monumento…
io ho i miei dubbi che, nell-anima, questo paese sia cosi diverso da quello dei nostri padri..
ok..basta..stiamo uscendo dal seminato..
Fideg!
l anonimo sono io..
ho qualche problema col pc..
Fideg!
No infatti, carlo (ex anonimo), non è molto diverso. E anche a me i “motivi d’orgoglio” di Rutelli mi mettono pessimismo e un lieve senso di agonia, come le inaugurazioni dei monumenti con fascia tricolore. Stiamo uscendo dal seminato, forse, ma non troppo. Magari ha ragione Rutelli ad essere orgoglioso. Temo che ne parleremo tra cinquant’anni. O ne parleranno (fideg!).
Ciao Paolo!
Pensavo il forum fosse defunto..
Tornando più da vicino al tuo libro e alla scrittura..volevo farti qualche domanda circa il tuo “metodo di lavoro”..
Più sopra dicevi che per la ricerca della “voce” nella scrittura, è molto importante leggere ad alta voce…
Mi chiedevo…posto che tra la parola parlata e quella scritta c’è comunque un salto, se non altro in termini di sintesi e di ritmo, nonché in una vocazione dello scritto per comunicare con più facilità concetti di maggiore complessità ed astrattezza, rispetto al “parlato”…puoi, se è possibile, spiegare il processo di asciugatura, se c’è stato, del passaggio tra parlato e scritto? Hai riscritto molte volte Fideg…?
Se posso permettermi, visto che ti hanno accostato a Nori (di cui peraltro lessi all’uscita solo Bassotuba non c’è), dove il legame con il “parlato”, nei ritmi, nelle ripetizioni, è davvero forte (anche troppo per i miei gusti..) nella tua scrittura trovo ci sia una maggiore raffinatezza e musicalità…insomma, la trovo più “letteraria”…un poco più “pensata e scritta” che “parlata”..
il che per me è un complimento…anche se, a quanto pare, tu tenga molto al “basso ” e a non essere considerato “colto” …
La scrittura tridimensionale di Nori di cui tu accenni, sempre avendo letto solo Bassotuba, che comunque mi sembra sia un suo hit, sinceramente io non l’ho colta…
Mi ricordo bene l’incipit “Io sono quello che non ce la fa..” e le sue frasi da una riga, spezzate con una virgola in mezzo. Gran ritmo certo. Divertente per cento pagine..poi..sinceramente….ok…la voce, il timbro è importante…ma lì o t’innamori di quella, o non c’è altro…(nel Giovane Holden Salinger ti dà tutta una storia, un evoluzione del personaggio, e anche di più, dopo averti catturato con la voce, quasi fisicamente udibile, del ragazzo che racconta…)
Sempre a mio parere, trovo che in Fideg tu abbia dimostrato di avere un motore con molti più cavalli…oltre la voce, fondamentale certo, c’è una capacità di evocare le atmosfere emozionali di ambienti e relazioni, immagini, molto più articolata rispetto a Nori…
La sua voce mi ricorda un sassofono solitario suonato in un angolo di un metrò notturno in una capitale del Nord Europa….(bella, ma claustrofobica, implosa, che tira verso il basso)..la tua è già un quartetto d’archi in una sala da concerto….
Il tuo progetto,più narrativo,come accennavi, sarò di certo uno spazio più largo dove liberare i “cavalli”..
Ho appena finito L’Avana per un infante defunto (Cabrera Infante) e sto leggendo Avere e non avere di Hemingway, colpevolmente dimenticato negli anni della mia adolescenza. Non tornerò molto presto alla narrativa italiana contemporanea. No davvero. Avete mai provato a mangiare caviale per una settimana e poi passare di colpo alle uova di lompo?
Gordiano Lupi
http://www.infol.it/lupi
scusi signor lupi, anche i libri di narrativa italiana pubblicata dalle edizioni il foglio sono uova di lompo? con simpatia 🙂
Ciao Gordiano. Io credo che di libri buoni se ne possano trovare ancora oggi, sia nella narrativa straniera che in quella italiana. Be’, certo, di fronte ad Hemingway (non conosco Infante)! Voglio dire… uau, tanto di cappello 😉
Chiedo scusa al “gran capo” se sono andata OF.
OF=off topic=fuori argomento.
Smile.
Desideravo ringraziare ulteriormente Paolo Colagrande per la disponibilità dimostrata nel rispondere alle nostre domande.
Lo so che il forum sarebbe finito ma bisogna che risponda alla domanda di Carlo. La lettura ad alta voce non serve ad evitare il salto, che comunque ci deve essere, tra parlato e scritto. E’ un modo per verificare l’onestà di quello scrivi rispetto a quello che veramente senti di raccontare. O rispetto a quello che senti e basta. La lettura ad alta voce smaschera le imposture, secondo me, scioglie il trucco e scopre le rughe, anche quando le imposture sono ben mascherate e il trucco è ben fatto. Anche la lettura deve essere onesta, fatta con la propria voce, quella fisica, di tutti i giorni, con i difetti e gli inestetismi della pronuncia, della cadenza eccetera. Ma la frase scritta non sarà mai (fortunatamente) quella parlata, può essere vicina al parlato nel senso di dare sensazioni vicine al racconto orale, ma il mezzo è troppo diverso: ci sono solo dei segni, sulla pagina.
Fideg non è mai stato riscritto. Solo un po’ scalpellato durante le letture e le riletture. E’ venuto fuori abbastanza di getto, nel crescere progressivo di un’idea o di una serie di idee che si sono organizzate quasi subito (solo l’idea della ‘tubatura’ è precedente). La lettura e la rilettura ad alta voce hanno raddrizzato alcune cose che mi sembravano storte durante la lettura muta: la stortura era data soprattutto da quel po’ di ‘falsità’ che quando scrivi tende sempre a scappar fuori. Quando, alla fine, l’ho riletto non a voce alta, quelle falsità non c’erano più. O comuqnue non le ho più sentite.
Credo che Paolo Nori incarni invece proprio quella tridimensionalità che dicevo prima, quella che ti consente di vedere e ascoltare la storia ‘come’ se la vedessi, come se ti venisse raccontata a voce, da uno che sa raccontare bene, e come se tu ne fossi in qualche modo parte. E’ una sensazione che io ho avvertito ancora prima di conoscerlo personalmente e di sentirlo leggere. Il mio giudizio è personalissimo, naturalmente: non sei l’unico che considera il suo modo di scrivere ‘troppo’ parlato (le ripetizioni etc), ma prima di lui nessuno è mai riuscito a scrivere così. Io credo che in Grandi Ustionati uno dei ‘più’ tridimensionali. Ed è quello che preferisco.
Ti ringrazio per tutto quello che hai detto su Fideg. Mi ha fatto molto piacere e speriamo davvero che si liberino i cavalli.
Ciao Paolo, guarda che il forum o dibattito su Fìdeg non è affatto finito.
Finirà solo nel momento in cui cesseranno le domande o tu cesserai di rispondere 😉
Leggerò Grandi Ustionati.
Per il resto penso sia questione di gusti.
Se penso a Bernhard del “Soccombente” (un autore da te citato come ispirazione) m’inchino. Lì, secondo me, c’è un equilibrio raffinatissimo tra “parlato” e “scritto” dove in realtà la parola non è più né l’uno ne l’altro se non “voce” pura che rimbalza in una scatola cranica. (e da quello che so, sembra che Bernhard, scrivesse e riscrivesse i testi allo spasimo).
Quanto all’onestà, forse è questione di intendersi su che significato si dà a questa parola.
Personalmente apprezzo anche una certa dose di “artificio” in letteratura, di parola che non necessariamente rivela sé stessa o l’intento dello scrittore a tutti i costi. Mi viene in mente Nabokov (secondo me uno straordinario seduttore/mentitore).
Ma forse sono un lettore masochista, cui piace essere preso un pò in giro.
Grazie ancora Paolo per la tua disponibilità: le tue parole sono state preziose.
Un chiarimento: quando parli di lettura ad alta voce, intendi una lettura pubblica, o comunque a favore di altre persone? O in solitaria?
Paolo Nori è di sicuro uova di lompo. I libri delle Edizioni Il Foglio sono scritti da autori fuori dal grande mercato, sono libri di giovani, certo che non possono stare al confronto di Infante (leggetelo, ne vale la pena!) e di Hemingway… La mia polemica è nota, credo. Sono contro la narrativa del niente e in Italia impera. Sono contro il libro sfinito, dissanguato, senza sangue. Bianciardi non è uova di lompo e neppure sono uova di lompo gli autori che si ispirano alla sua poetica. La narrativa italiana ombelicale è uova di lompo. Inutilità allo stato puro. Il discorso sarebbe lungo. Ci ho scritto due libri sopra (e ho sbagliato a farlo come sto sbagliando adesso a scrivere le cose che penso)…
Gordiano Lupi
Non conosco Andrea Di Consolo. Non ho mai letto i suoi libri e non so se lo farò, quindi mi astengo dal giudicare. Non si può leggere tutto. Ho letto, però, tutto Paolo Nori sino a Pancetta (un libro incredibilmente ridicolo edito da Feltrinelli). Mi era presa così, mi piaceva Paolo Nori, mi faceva star bene. Un bel giorno mi sono chiesto: ma cosa mi è rimasto dai libri di Paolo Nori? Un bel niente. Sterile esercizio di stile.
Rispondo ancora sugli autori del Foglio che pubblico. No, non sono uova di lompo. Sono scrittori giovani che mettono il sangue della loro vita nei racconti che scrivono. Leggete Vincenzo Trama e Gianfranco Franchi e poi ne riparliamo. Mi direte che Paolo Nori è pubblicato da Feltrinelli e da Einaudi. E cosa vuol dire? Non è certo garanzia di qualità! Tutt’altro… Ma lo sapete che Feltrinelli pubblica esordienti incapaci di scrivere dopo aver riscritto il libro di sana pianta? Ma lo sapete che comprano le idee e dopo ci pensa un editor pagato per farle funzionare? Firma lo scrittore sconosciuto, poi… Chiara Palazzolo è un esempio di qualità letteraria? Apriamo gli occhi, per favore, e cerchiamo di non essere servili verso la grande editoria perchè attendiamo i loro favori… non ce ne faranno!
Gordiano Lupi
http://www.infol.it/lupi
Scusate, sopra volevo dire Paolo Colagrande. Non Andrea Di Consolo. Scusate ancora.
Lupi
http://scritture.blog.kataweb.it/francescamazzucato/2007/09/04/2122/
Per conoscere CABRERA INFANTE.
Lupi
Non hai mica sbagliato, invece, a scrivere le cose che hai in mente. Ma non riesco a classificare, o distinguere prodotti da sottoprodotti. Distinguo solo quello che mi piace da quello che non mi piace, o che mi piace meno. Dopo aver letto. L’importante è scrivere, se ti piace scrivere e se ritieni di aver qualcosa da dire, senza andar dietro ad un modo o a una moda o senza imitare qualcun altro. Poi se quello che scrivi, o quello che leggi, è o diventa letteratura, chi lo sa. Del resto ogni lettore è masochista, come dice Carlo. Anche ogni scrittore.
Domanda per Andrea Di Consolo – eventualmente, per Colagrande, se ritiene di poter condividere il passo in questione.
Nell’articolo, scrive: “Questo gruppo di scrittori, ovviamente, non è omogeneo; anzi, a volte è addirittura conflittuale. Eppure da questo gruppo di scrittori emerge l’unica visione davvero forte (mai mimetica, o moralistica, come invece accade in area veneta) (…)”
> Posso domandarle cosa intende per “area veneta”? In altre parole, posso domandarle di nominare gli autori che ritiene vadano ascritti a questa area?
Quando dicevo lettura ad alta voce mi riferivo alla lettura senza pubblico, ma comunque ad alta voce. Ognuno del resto è affezionato ai propri metodi, bisogna aver pazienza.
Credo che scovare la letteratura sia quasi sempre prerogativa, e merito, della piccola editoria. E credo di non aver detto niente di nuovo con questa frase ma mi sentivo di dirla.
Colagrande, sono Franchi. Ho avuto l’opportunità di scrivere del tuo libro, qualche mese fa. Leggendo questi tuoi commenti mi rammarico per non averti domandato un’intervista. Aspetto la tua prossima opera, confidando di riconoscere evoluzioni e progressi – scrittura nuova.
Salut
gf
mi dispiace. non volevo causare polemiche.
Caro Gordiano,
non conosco l’opera omnia di Paolo Nori, così come non ho letto i libri di Chiara Palazzolo. Dunque eviterò di parlarne. Soprattutto in questa sede, dato che il post non era dedicato né a Paolo Nori, né a Chiara Palazzolo (non conosco né l’uno, né l’altra), né alle uova di lompa, né al caviale, né alla Feltrinelli (in effetti, ora che ci penso, non ho mai parlato di un libro Feltrinelli… cercherò di rimediare quanto prima).
Del libro di Gianfranco Franchi (non l’ho ancora letto, ma mi fido del giudizio tuo e di quello di Francesca Mazzucato) ne parleremo nel prossimo post, come ti avevo largamente anticipato.
Ne approfitto per rendere pubblica l’idea che mi sono fatto delle stroncature (idea peraltro non condivisa dalla maggior parte degli amici con cui mi sono confrontato… ma ognuno la pensa a modo suo). Idea che tu conosci molte bene, Gordiano, giacché ebbi modo di illustrartela agli inizi del nostro rapporto epistolare (via email, s’intende). Credo che se un libro non piace ci siano due alternative alla stroncatura:
1. Non parlarne proprio;
2. Far capire in maniera elegante che il libro non è stato di proprio gradimento.
Inoltre ti dissi pure (ne sono ancora convinto) di aver avuto l’impressione che la maggior parte delle stroncature sono:
a) finalizzate ad attirare l’attenzione (ehi, gente; guardate come sono coraggioso io);
b) frutto di mera invidia (perché lui sì e io no, visto che lui è più scarso di me?);
c) occasioni di vendetta personale (ora ti faccio vedere io).
Ripeto, questa è la mia idea (non condivisa dai più).
Tu la pensi diversamente, caro Gordiano. Da questo punto di vista siamo agli antipodi; ma questo non influenzerà mai né l’amicizia né la stima che provo nei confronti del Gordiano scrittore e direttore editoriale di casa editrice (ne approfitto per sottolineare che per mandare avanti una piccola casa editrice bisogna essere davvero eroici, oggi).
Una domanda: quando scrivi “cerchiamo di non essere servili verso la grande editoria perchè attendiamo i loro favori”, ti riferisci a qualche commentatore in particolare o è un’esortazione di carattere generale?
=
Andrea Di Consolo in realtà si chiama Andrea Di Consoli. Capita di storpiare un cognome. È successo a Gabriele Montemagno che ha scritto Giordano anziché Gordiano. Gli è stato fatto notare e si è prontamente scusato.
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@ Luisa:
Non ti devi dispiacere, ma ti confermo che i libri delle edizioni “Il Foglio” sono ottimi libri. Lo dico perché li conosco.
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A chi commenta firmandosi con nomi diversi faccio presente che il sistema mi consente di individuare gli indirizzi IP
=
Mi scuso con tutti per essere andato fuori argomento. È una cosa che odio, perché penso che potrebbe essere una delle cause principali della morte dei blog; insieme alle polemiche sterili.
Nessuna intenzione di fare polemica. Mi scuso e non parlo più. Sono toscano e impulsivo. Non condivido che non si debba stroncare e quando stronco un libro non lo faccio per invidia nè per far vedere che sono coraggioso. Forse sono masochista, invece. Stronco i libri che mi fanno incazzare. E siccome sono toscano e anche un po’ incazzereccio mi riesce difficile non parlare di un libro che mi ha fatto incazzare. Tutto qui. In ogni caso mi scuso e prometto di non polemizzare più.
Gordiano
P.S.: ho parlato di Nori perchè qualcuno prima di me ne aveva parlato bene. Tutto qui
P.S 2: L’esortazione era generale, pure per me..
Beh..fantastico.
vedo, con piacere che il forum si è infiammato di colpo, proprio quando stava per spegnersi del tutto. E’ evidente che, come sempre, la polemica è il motore che muove più facilmente pensieri e parole. Di questo, senza ironia, mi sento di ringraziare Gordiano Lupi, che non conosco, ma nelle cui righe non mi sembra di cogliere acrimonia o invidia o intento distruttivo. Sù, in fondo uno scrittore, se pubblica (e di solito non vede l’ora di essere pubblicato), si espone, e mi sembra sacrosanto che oltre alle lodi e agli incensi, possa beccarsi sinceri ( o anche non sinceri) rifiuti.
E poi, viva la diversità! Le pagine, vivaddio, non sono ingombranti e care come metri cubi di cemento, e libri e librerie non sono ancora condomini. Occupano pochissimo spazio. C’è posto per tutti!
Caro Paolo, io, Paolo Nori, non gliela faccio. Letto Grandi Ustionati, ieri sera nel letto, che io non fumo, la sigaretta, quasi mi addormento nel sonno. Che mi accendo le lenzuola, io, come Paolo Nori. Fiiii…. Senza offesa, io gli consiglierei, lo conoscessi Paolo Nori, che dev’essere un parmigiano simpatico, che Parma, via Farini, della Repubblica, Piazza Garibaldi ci si passeggia che è uno spasso, conosco io, di darsi definitivamente anima e parole al teatro. Ci starebbe benissimo, Paolo Nori, quelle parole in cerca di bocca che mastica e risputa, buio silenzio in sala luce lassù sui legni, di fianco al maestro Bernhard, o il grande Samuel, il Beckett, nullificatore eccelso.
Caro Paolo, a me il tuo Fideg, mi acchiappa troppo di più.
A me il libro di Colagrande pare interessante, appena le mie finanze si rimpianguano vedo di acchiapparlo, che fa sempre piacere scovare fra le grandi produzioni qualcosa che possa vantare una minima di originalità.
Gordiano da sempre si macchia di sta assurda presunzione di onestà; dice quello che gli pare e fa bene, ed il fatto che lo faccia apertamente è sicuramente un pregio. Mica come certa gentaglia che non ti fa le prefazione dei libri solo perchè hai osato parlare male del suo operato, manco gli stessi insultando la mamma…
Non voglio andare OT e dunque sarò conciso: io Nori lo seguo da Fernandel e credo che la sua parabola discendente sia evidente. Già da Diavoli si incomincia a notare una paurosa povertà di idee, che si è ingigantita a dismisura con il suo passaggio in Feltrinelli.; il suo ultimo libro, edito per Bompiani, rasenta l’illeggibilità.
Saluti,
V.Trama.
In tema di stroncature. Io credo che la migliore stroncatura sia proprio quella istintiva e anche biliosa. Quella che ti arriva come un pugno in faccia: molto meglio di quella finto-ragionata o ragionata per davvero, accademica professorale e sogghignante, diretta all’autore e non al libro per convincerlo che è un deficiente (cosa che spesso lo scrittore in difetto di autostima sà già). Cioè: tutte le stroncature fanno incazzare l’autore, è inevitabile, insomma è umano: io di solito mi incazzo come una bestia quando mi capita di leggere qualcosa di negativo su quello che scrivo: è un meccanismo irrazionale, probabilmente sbagliato, che prescinde dalla giustezza o meno degli argomenti o anche dai toni o dagli strumenti usati. Ma la stroncatura-cazzotto, alla lunga, dopo che l’incazzatura è passata, ha un suo valore pedagogico perchè, anche se non lo vuoi ammettere, poi ne tieni conto: le stroncature iperdialettiche ipercolte e ipertestuali, dove il veleno è nascosto e aromatizzato, fanno riaffiorare l’incazzatura ogni volta che ci ripensi e il meccanismo diventa distruttivo: quando scrivi magari pensi a come fare il culo a quello là che ti ha recensito . E questo non fa bene allo scrivere, perchè va a finire che quello che scrivi fa schifo davvero.
E’ chiaro che le recensioni positive sono molto meglio, per quanto, anche lì, si può ragionare: un ragazzo incontrato durante una presentazione mi ha detto: ho letto il tuo libro e mi è piaciuto, però non so perchè; l’ho riletto per capire il perchè ma non l’ho capito. Secondo me è una bella recensione.
Ma sì, Viva la passione di Gordiano!
Il “politically correct” sta ammazzando questo paese!
mi scuso in anticipo con massimo se contribuisco ad andare fuori argomento, ma ormai mi pare difficile rimettersi in carreggiata.
per paolo colagrande. visto che si è parlato ripetutamente di paolo nori e visto che il suo libro è stato paragonato a quelli di nori, lei di paolo nori cosa ne pensa?
e se conosce nori, perché non lo invita a intervenire qui?
secondo me sarebbe un confronto interessante.
Ho contribuito a riaccendere il dibattito,via!
Aggiungo che quando si stronca motivando vuol dire che si è letto il libro. Nel mio caso che si è speso i soldi per l’acquisto, ché Feltrinelli mica me li manda omaggio… quindi scriverne è dovuto.
A mio parere è il libro che lascia indifferenti che proprio non va bene e su quello non scrivo mai, passa come acqua fresca.
Letto Cabrera Infante o Pedro Juan Gutierrez, per me, è impossibile non parlarne. In negatrivo vale la stessa cosa. Letto La più grande balena morta della Lombardia di Aldo Nove come non parlarne. Letto Pancetta come non parlarne? Impossibile, per uno come me. E deleterio…
Uno di questi autori da me criticati ha rifiutato di parlare di un libro edito dal Foglio (Io & Tondelli) solo perchè è edito da me. Questo è fare servizio pubblico? E’ fare giornalismo? L’autore in questione si chiama Matteo B. Bianchi. Diciamogli bravo. Arroganza del potere.
Gordiano Lupi
per gordiano lupi. sono solo un lettore e per fortuna (vostra) non ho mai provato a scrivere nulla. però, gordiano, onestamente, se scrivessi un libro e qualcuno poi me lo stronca a torto o a ragione io mi incazzerei a morte. e se questo qualcuno mi chiedesse di parlare di un suo libro, o di un libro che pubblica, penso che anch’io mi rifiuterei. non sarà servizio pubblico o giornalismo, ma è umano. chi pensa il contrario secondo me è ipocrita.
Mi rammarico di non aver avuto tempo a sufficienza (e capacità) di mantenere questo post nei limiti dell’argomento trattato.
Pazienza!
Mi rassegno e dico la mia.
–
Ritorno sul discorso stroncature per alcune precisazioni.
Leggete bene. Non ho scritto che sono contro le stroncature. Ho scritto che, quando un libro non piace, esistono alternative alla stroncatura. Ho anche detto, e lo ribadisco, che ho avuto l’impressione che molte stroncature sono frutto di invidia, esibizionismo, o vendetta. Il discorso era generale e non era diretto a Gordiano Lupi che ben conosco come persona sincera e spontanea (che si assume sempre la responsabilità di ciò che dice o scrive).
Per quanto riguarda la mia personale posizione su “recensioni” e “stroncature” vi riporto quanto scrissi (credo con molta umiltà) il 4 novembre 2006 in occasione dell’apertura della rubrica “Segnalazioni e recensioni”: http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2006/11/04/segnalazioni-e-recensioni/
“Apro la rubrica “Segnalazioni e recensioni” partendo da una doverosa precisazione: non mi considero (perché non lo sono) un critico letterario. Quelle che leggerete su questa rubrica, dunque, saranno solo le impressioni (chiamatele, se volete recensioni) di un lettore. Peraltro, faccio mie le parole di Oriana Fallaci (cfr. La Stampa del 16/9/06, pag. 2): “Non insulto mai i libri degli altri. Se sono brutti, non dico mai che sono brutti. Non dico nemmeno: non mi piace. Non lo dico perché conosco la fatica tremenda che ogni libro, bello o brutto che sia, costa. E mi riconosco in quella fatica, rispetto quella fatica.”
Di conseguenza mi permetterò di commentare soltanto le opere che mi hanno colpito favorevolmente, tralasciando le altre.
Ai veri critici letterari il compito di “bacchettare” – fino al limite della stroncatura – i cattivi libri”.
Ribadisco questa posizione sottolineando che quando mi imbattei in quelle frasi della Fallaci (a proposito, tra un paio di giorni ricorrerà il primo anniversario dalla sua morte) mi ci riconobbi. Del resto non credo che la Fallaci sia stata una di quelle che le cose le mandava a dire.
Ciò non toglie che nel futuro possa cambiare idea e che mi metta a stroncare anch’io.
Peraltro ci sarebbe parecchio da dire sui “recensori marchettari” o sugli pseudocritici che recensiscono libri senza averli nemmeno letti (basandosi sui testi in bandella e sulle note in quarta di copertina). Vi prometto che questo non lo farò MAI. Se mi capiterà di segnalare un libro (così come è avvenuto nel caso del post dedicato a “Pagano” di Gianfranco Franchi) dirò con molta onestà che il libro in questione non l’ho ancora letto.
–
@ Gordiano:
non c’era affatto bisogno di scusarsi. Quel “non parlo più”, poi, non era per nulla credibile (e nemmeno necessario). E infatti…
Certo se evitavi di punzecchiare Aldo Nove, che qui non c’entrava nulla, sarebbe stato meglio (confesso che a Bianchi non avevo pensato… bontà tua). A tuo favore, però, si può dire che i libri di Nove li compri e li leggi (considerazione non trascurabile: mica vende come Dan Brown, Aldo Nove). Nel tuo caso il detto “chi disprezza compra” calza proprio a pennello. Eh, vecchia birba!
–
@ Carlo:
io sono a favore delle polemiche e delle provocazioni “utili” al confronto e al sano dibattito. Ciò, dal mio punto di vista, implica due condizioni:
1. che si evitino insulti e litigi inutili.
La rete è piena di posti del genere. Ma io vorrei fare di tutto perché Letteratitudine rimanga un luogo d’incontro (e di confronto) virtuale tra ecc., ecc. (vedi lo slogan che accompagna il titolo) e non un luogo di scontro.
2. che si faccia il possibile per restare in argomento (evitando che si vada, come diciamo in gergo internauta, off topic).
–
@ Paolo Colagrande:
Secondo me chi stronca si assume una responsabilità importante nei confronti del libro, del suo autore, e dei lettori (ammesso che i lettori – almeno quelli non addetti ai lavori – leggano recensioni e stroncature… ne dubito fortemente), di conseguenza non solo la recensione deve essere “pensata”, ma assolutamente motivata. Altrimenti, istintiva o non istintiva, diventa mero insulto. Però sono d’accordo con te sul fatto che quelle mezze stroncature, sottili e calcolate, finalizzate a colpire l’autore e non il libro sono deprecabili.
Poi, se un lettore ti dice: “ho letto il tuo libro e mi è piaciuto, però non so perchè; l’ho riletto per capire il perchè ma non l’ho capito”, secondo me è un bel complimento, non una bella recensione.
–
@ Carlo (again):
Il “politically correct” (nel bene o nel male) in Internet non esiste. Molti forum e blog sono caratterizzati da litigi e noiosi insulti. Alcuni “blogger letterari” che conosco, per questo motivo, hanno deciso di non intervenire nei dibattiti o di inibire la possibilità di lasciare commenti. Preferirei che questo non accadesse a questo blog.
Sono lieto che ammiri la passione di Gordiano, ma sei vuoi contribuire a farla vivere ti consiglio di acquistare gli ottimi libri delle edizioni “Il Foglio” 😉
Non ho insultato Aldo Nove che rispetto, come rispetto Matteo B. Bianchi e Paolo Nori. Ho letto molti loro libri. Sono un loro lettore. Avrò diritto di dire che certi non mi sono piaciuti? Non condivido quello che dice Iozzia. Paolo Albiero (ottimo critico di cinema) ha stroncato alla grande un mio libro su Lucio Fulci. Lo ha massacrato. Vero che lì per lì ci sono rimasto male, ma poi siamo andati a cena insieme e siamo stati insieme 3 giorni al Fulci day di Massa Carrara per parlare di un regista a noi caro.
Non tutti siamo uguali, caro Iozzia. E chi scrive deve essere preparato ad accettare la critica. Se no non scriva…
Gordiano Lupi
caro lupi, ti confermo quello che ho scritto. spero apprezzerai la mia sincerità. stai certo che mi guarderò bene dallo scrivere. anche perché non lo so fare. però l’aneddoto che hai raccontato ti fa onore.
scusate sono rimasto indietro con le risposte. Ma adesso mi metto a pari datemi un’oretta che mi ricollego e rispondo. grazie
Bentornato Paolo!
Aspettiamo il tuo prossimo intervento, allora.
Caro Massimo, quando hai tempo, puoi cortesemente dare un’occhiata alle recensioni ed ai racconti che ho scritto e darmi qualche consiglio?
Il sito è florenceholiday.blogspot.com
Grazie molte.
Florence