Il calcio come metafora della vita. Questa frase sintetizza una delle possibili letture del nuovo ottimo romanzo di Salvatore Scalia (nella foto): “Fuori gioco” (Marsilio, 2009, pag. 128, euro 12).
Così come nel precedente libro, “La punizione” (anche questo edito da Marsilio), le vicende narrate traggono spunto da una storia realmente accaduta. Se il primo romanzo vede come protagonisti quattro ragazzini vittime della mafia, in questa nuova opera Scalia fornisce dignità letteraria al mito indiscusso dei nostri tempi: il calciatore. Nell’immaginario collettivo il calciatore – oggi, ancor più di ieri – incarna il successo, la fama, il denaro, il fascino. Eppure il mondo del pallone non è tutto rose e fiori. Ne sanno qualcosa celebrità calcistiche di fama mondiale (tra cui Gigi Buffon, portiere d’acciaio della Nazionale) che hanno dovuto fare i conti con il continuo logorio dello stress da performance – e dell’estraniamento da successo – capace di sfociare nella depressione.
In questo romanzo Scalia offre una versione rovesciata del mito; perché, laddove l’agognato successo viene solo sfiorato, esso si trasforma in repentina sconfitta. O fallimento. E per ogni traguardo raggiunto da un individuo, in migliaia cadono durante il percorso.
Il protagonista della storia è Paolo Malerba, giovane calciatore della provincia di Catania che porta già nel cognome il segnale presago di un tragico destino. Paolo va a Milano, il provino con l’Inter sembra dare esiti positivi. Il sogno pare a un passo dal diventare realtà. Ma si sfalda di fronte a una radiografia. I medici della società calcistica attestano un piccolo problema ai polmoni. Nulla di grave, per una persona normale. Un insuperabile impedimento, per un calciatore professionista.
Paolo viene scartato. Il suo sogno si infrange e gli implode dentro con effetti devastanti, allargando squarci dell’anima già aperti da un’adolescenza difficile, dal problematico rapporto col padre, da paure mai domate. In tal senso Malerba è due volte perdente: perché prima patisce la sconfitta (per via di un disturbo fisico inatteso) e poi il fallimento (per via di equilibri interiori già fortemente precari). Non gli rimare che attorcigliarsi dentro se stesso, ancora di più; consumandosi tra amori irrisolti e una depressione serpeggiante che ne segnerà la fine.
Con un lirismo efficace e dolente Salvatore Scalia, tratteggiando i risvolti farseschi e paradossali della vita di provincia del profondo Sud, rovescia il mito moderno dell’uomo di successo miscelandolo con quello classico che narra la fine di Empedocle tra le fauci infuocate dell’Etna. Ne viene fuori un ritratto duro, impietoso, dolente. Credibile. E se è vero – come è vero – che per la popolazione etnea il vulcano è femmina (a’ muntagna), l’idea del lasciarsi precipitare nel cratere non riflette altro che il ferale desiderio (inconscio e insopprimibile) di tornare nel ventre materno: mettersi fuori gioco, scomparendo nelle origini della propria esistenza.
Mi chiedo, e vi chiedo…
I calciatori sono davvero i nuovi eroi dei tempi moderni?
Il gioco è metafora della vita o non è piuttosto la vita metafora del gioco?
Fare squadra ha ancora senso?
La felicità – in famiglia, nella società, nel lavoro – passa dal fare squadra?
E qual è il rapporto tra successo e felicità?
Di seguito, gli approfondimenti di Simona Lo Iacono e Salvo Zappulla (che mi daranno una mano a moderare la discussione)
Massimo Maugeri
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“Fuori gioco”. Un libro di Salvatore Scalia.
di Simona Lo Iacono (nella foto)
E’ notte. La ferita del cavòlo è uno spartiacque. Un’apertura che s’infigge tra la macchia. Che separa il regno dei vivi da quello dei morti.
Dalla sua bocca spalancata affiorano vecchie risate di magare, raspi di animali e fantasmi stanchi di girovagare. Destini che si accingono a compiersi – come quello di Paolo Malerba – tra le ombre.
E per questo non si stupirebbe, Paolo Malerba, di vedersi già lì, tra le foglie che profumano di tane nascoste, come un predestinato, o come un viandante di questo regno a metà tra luce e buio. Un Caronte, forse, che si trascina da una riva all’altra.
Non si stupirebbe neanche di riflettersi nelle rarefazioni serali, di cogliere nel globo della luna una vaga somiglianza con la propria vita, con la palla che lui spintona tra le erbe, sui campi di calcetto, dribblando tra compagni sudati, tesi a raggiungere la rete come in punto di morte.
Non si stupirebbe.
Perché fin da bambino ha allertato i sensi. Ha forse intravisto nella la sciara del vulcano, un segno. Un tizzo di carbone in mezzo a granitiche masse vulcaniche.
Ecco cos’è la sua vita.
Una fragilità spersa sotto un sole che impazza, che galoppa su giochi striscianti, furbeschi, messi su da picciotti di malaffare, politici gaudenti, donne affatate dal potere.
E lui che – stretto nella sua maglia della Libertas – vuole solo fare goal.
Ma che lo voglia davvero Paolo Malerba? Spintonare quel pallone che – se si perde – solo l’allampanato Gino dei palloni perduti riesce a trovare, e che – se si porta in rete – ti si rivolta contro, non regge paragoni coi sogni? Che la voglia davvero questa illusione, questo scampolo di felicità che si frantuma in nebbia, in giorni uguali, in vacilli di memoria al bar, o tra i pacchi costosi di una donna che non ti ama?
Forse dal cavòlo la risposta già mugghia come un vento. Forse – loro, le magare – già sanno. Di padri che non perdonano ai figli di non corrispondere ai propri desideri. Di madri che – invece – perdonano tutto. Di figli che si affannano ad esaudire, a offrire una stella baluginante e cadente, che rivola tracce scomposte del proprio sangue solo per sentirsi dire “bravo”.
E invece l’amore perduto non si raccatta come i palloni che Gino riesce sempre a scovare. Ma è anzi quella partita persa fin dal principio che Paolo Malerba, infondo, non vuole giocare, che t’imprime addosso quel segno che il cavòlo blatera in tutte le sue notti. Che ti mette fuori gioco anche prima di cominciare la gara.
“Fuori gioco” di Salvatore Scalia (Marsilio, pagg. 125, € 12,00), si addentra nell’unicità di un destino raccontando tutti i destini, e di una terra oltraggiata e svilita raccontando le terre di tutto il mondo.
Lo fa con lingua prepotente, sensuale, segreta, con l’arrembaggio di gusti e personaggi che popolano quest’isola abbandonata dagli dèi e in cui tutti i vizi degli stessi dèi sembrano incarnarsi.
Da sicula abituata agli sguardi, non mi stupisce il teatrame che assiepa Paolo Malerba, calciatore degli anni “70 e nel cui cognome colgo già un’assonanza dolorosa, un anticipo di destino.
Mi stupisce però la vita che trasuda pur nello scenario di morte, la sensualità incatenante di paesaggi e umori, l’intuizione di Salvatore Scalia che nel rogo dei sogni ha saputo raccontare l’origine dei sogni, proprio perché ogni illusione nasce da una mancanza.
-Turi, perché, come scrivi tu, i “sogni buttano sangue”?
Buttano sangue i sogni a lungo coltivati che nel momento della disillusione si rivoltano contro chi li ha carezzati e cullati, mutandoli in angeli dannati.
– Essere fuori gioco vuol dire essere fuori dalla vita, o non è piuttosto l’unico modo per viverla? La follia, infondo, non è che questo: non accettare le regole del gioco.
Vivere al di fuori, non accettare le regole del gioco, essere veramente anticonformisti, tutto ciò attrae romanticamente, richiama il mito del titano, ma è di difficile attuazione, perché significa lottare contro la corrente, subire l’emarginazione. E’ più facile vivere con distacco, non lasciarsi coinvolgere, ma nell’attimo in cui si aspira a qualcosa, si è esposti a tutte le tempeste dell’esistenza.
– Il gioco è una splendida metafora. Vincere. Perdere. Essere ammoniti. Ricominciare. E forse il calcio coi suoi clamori è lo sport che meglio si adatta alla Sicilia, a tanto lustro di baraccame in fiera, a tanto vociare su pianti di morte, non credi?
Il calcio per me è metafora della vita non solo siciliana. Il campo è il rifugio geometrico in cui ogni animo inquieto trova le linee del suo pensiero, e il cerchio del centrocampo è lo zero da cui si origina il tutto. In questa prospettiva metafisica l’arbitro diventa sì il giudice supremo ma anche la divinità che dà inizio al gioco e poi non si cura di niente. La Sicilia entra fortemente nella caratterizzazione dei personaggi, vulcanici, magmatici, dalla sensualità esplosiva ma fragili.
– E poi. La squadra. Ma fare squadra sembra quasi un’ironia quando l’individualismo più esasperato – in realtà – ti reclude in un ruolo e ti costringe a recitarlo. Pensi che un siciliano possa mai, veramente, “fare squadra”?
Ogni siciliano, come diceva Karl Kraus degli inglesi, è un’isola. Ognuno recita a soggetto. Il fascino e la maledizione dei siciliani sono dovuti alla loro inguaribile anarchia.
– Parlaci del cavòlo. Di questo dirupo in cui vivono strìe, animulare, fantasmi. Di questa fenditura che risuona di tutti i lamenti. Sembra un’anima. E’ l’anima di Paolo? E’ la tua anima?
Il cavòlo è il luogo degli spiriti sotterranei, del mistero e della magia. E’ il riflesso dell’anima oscura di Paolo e, in questo caso, anche della mia.
– L’ultimo atto. Il filosofo Empedocle che si lancia nelle fauci dell’Etna. La leggenda che si traduce in una fine umana. Il mito non è forse che questo. Una prefigurazione del nostro destino. Sei d’accordo?
Dici bene, il mito è una prefigurazione e trasfigurazione del nostro destino. La natura, offesa e violentata, alla fine vincerà su tutto. L’uomo può essere di passaggio sulla terra, ma l’energia dell’universo, di cui il fuoco dell’Etna è emanazione, resterà eterna.
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FUORI GIOCO di Salvatore Scalia
di Salvo Zappulla (nella foto)
Il primo aggettivo che mi viene in mente, finito di leggere questo nuovo romanzo di Turi Scalia, è: impietoso. Forse persino brutale. O semplicemente: umano. Perché la vita stessa sa essere impietosa e brutale con i più deboli. (Fuori gioco, di Salvatore Scalia, Marsilio Editori, pagg. 125, € 12,00). Ho rivissuto le stesse sensazioni che mi ha trasmesso quell’immenso capolavoro di Dino Buzzati, “Il deserto dei tartari”. L’attesa perenne dell’evento che dovrà servire a riscattare un’intera esistenza, a darne un senso. Lo sgocciolio lento dei minuti che si consumano, così come la fiammella della vita, fino a spegnersi senza aver rischiarato nulla. Sentiva il battito del tempo scandire avidamente la vita. L’attesa. L’infinita attesa che dovrà dare una svolta alla nostra vita, quell’evento che invano aneliamo e invece ci sfugge inesorabilmente come sabbia stretta dentro il pugno. Scalia ha la capacità di assemblare in maniera superba fiuto giornalistico e vena narrativa e i risultati sono sempre romanzi di profondo spessore introspettivo, che scavano dentro le miniere di un microcosmo provinciale estraendone pepite. Come nel primo romanzo pesca nel torbido della sua provincia: mafia, corruttela, personaggi melliflui. Gioca a intrecciare sentimenti di ricche signore annoiate e aspirazioni di ragazzi bramosi di prendere a morsi il futuro, anche con mezzi poco leciti. La parlata catanese, certi modi di dire persino gloriosi, vanto ed espressione linguistica di una sicilianità che si trincera a protezione del tempo che avanza, infarciscono il testo di ingredienti saporiti e stuzzicanti. U pacchiu, per un ragazzo delle zone popolari, non evoca sentimenti di tenero amore, ma è un trofeo da conquistare, di cui fare pettegolezzo sottovoce negli spogliatoi di un campo di calcio, tra una gomitata e uno sfottò. E se una volta tanto non è quello prezzolato della bagascia di turno ma appartiene alla moglie del presidente, diventa scalata sociale, pacchio d’autore in cui inebriarsi e perderci il senno. E Paolo, il protagonista del romanzo, persona realmente vissuta, il senno lo perde veramente, affranto dal gravoso peso dei suoi fallimenti. Il campo da gioco assurge a metafora della vita. L’arbitro fischia l’inizio e si dà il via alla competizione, si tenta di superare gli avversari, con una finta o uno scatto fulmineo. Paolo ci prova, ha talento da vendere ma il destino beffardo ha deciso di giocargli un brutto tiro. Arriva il momento delle disillusioni, le amarezze si accumulano e alla fine decide di rinunciare, va in fuori gioco, si estranea, si tira fuori dalla mischia. E il finale è drammatico. Sulla copertina la foto di Petruzzu Anastasi, indimenticabile gloria calcistica degli anni settanta, dolce chimera per gli assetati. Ma per un ragazzo che alza la testa, altri cento dovranno piegarla e magari elemosinare un posto di elettricista all’onorevole di turno, in cambio di servilismo e sottomissione. Scalia non esita a denunciare, a indignarsi, ad alzare forte la voce contro questa società malata i cui modelli da imitare sono diventati letterine e veline. E le isole dei famosi, i quiz e le ruote della fortuna. Tutto ciò che abbaglia e ammalia. Luci fosforescenti e nastrini colorati.
Salvatore Scalia, etneo di Mascalucia, vive di giornalismo e dirige le pagine culturali del quotidiano “La Sicilia” di Catania. Ha scritto per il teatro e i suoi lavori sono andati in scena alla rassegna internazionale Taormina arte e allo Stabile di Catania. Ha pubblicato Teatro, Trilogia del malessere e Appunti e per Marsilio nel 2006, La punizione, due edizioni.
Il calcio come metafora della vita.
Come ho scritto sul post, questa frase sintetizza una delle possibili letture del nuovo ottimo romanzo di Salvatore Scalia: “Fuori gioco” (Marsilio, 2009, pag. 128, euro 12).
Nell’immaginario collettivo il calciatore – oggi, ancor più di ieri – incarna il successo, la fama, il denaro, il fascino.
In questo romanzo Scalia offre una versione rovesciata del mito; perché, laddove l’agognato successo viene solo sfiorato, esso si trasforma in repentina sconfitta. O fallimento. E per ogni traguardo raggiunto da un individuo, in migliaia cadono durante il percorso.
Vi invito a leggere la mia introduzione e gli approfondimenti di Simona Lo Iacono e Salvo Zappulla.
E poi, potremo discutere insieme di questo libro e dei temi che affronta…
Turi Scalia, l’autore del romanzo, parteciperà alla discussione.
(Caro Turi, ti anticipo il benvenuto su Letteratitudine)
Vi ripropongo, di seguito, le domande di questo post…
I calciatori sono davvero i nuovi eroi dei tempi moderni?
Il gioco è metafora della vita o non è piuttosto la vita metafora del gioco?
Fare squadra ha ancora senso?
La felicità – in famiglia, nella società, nel lavoro – passa dal fare squadra?
E qual è il rapporto tra successo e felicità?
Simona Lo Iacono e Salvo Zappulla (ne approfitto per ringraziarli per gli approfondimenti) mi daranno una mano a moderare e animare il dibattito.
@ Salvatore Scalia
Caro Turi, una prima domanda te la pongo io. Una domanda “classica” che rivolgo spesso ai miei ospiti…
Come nasce questo romanzo (da quale idea, da quale stimolo, da quale esigenza)?
Per il momento chiudo qui e auguro a tutti una serena notte.
Un post da moderare insieme alla Lo Iacono, mi chiedo cos’altro mi potrà capitare di peggio nella vita. Il diavolo e l’acquasanta, sento già lo sfrigolio.
Salvuccio,
buongiorno, a me non poteva capitare di meglio!
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Massi, bellissimo post, grazie dell’opportunità di seguirlo da vicino!
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Per rispondere alla tua domanda (se il calcio sia o meno metafora della vita) , quando abbiamo presentato il libro di Turi qui a Siracusa, abbiamo fatto anche riferimento alle tesi sociologiche.
Per esempio quella di Alberoni che identifica il calcio come “la metafora della vita. O come una sintesi emblematica, esemplare”.
Alberoni sostiene che nella vita di tutti i giorni, qualsiasi sia lo scopo che ci prefissiamo dobbiamo sempre compiere un numero enorme di azioni combinate, ricominciando ogni volta fino a che il risultato diventa definitivo. Molte volte non basta segnare un goal, ma bisogna anche saperlo difendere specie quando si è in vantaggio, in quanto mai nessun avversario è da sottovalutare. C’è sempre pronto un avversario, un marcatore che non possiamo eliminare, un arbitro pronto con il cartellino rosso.
Tutti questi valori, queste regole morali, dice Alberoni, “noi le apprendiamo guardando una partita… le facciamo nostre , le poniamo nella nostra azione quotidiana. Sono un esempio, un modello ideale che ci sostiene e ci guida nel difficile mestiere di vivere”.
Alberoni sottolinea così l’esempio positivo e sano (morale) dell sport. E dello sport di squadra in pariticolare.
Turi (cioè Salvatore Scalia), parla anche di una (bellissima) metafora del campo da gioco.
Delle linee che racchiudono un spazio. E del giocatore che in seno a quello spazio, e solo a quello, avverte sicurezza, sente che la vita, almeno in quel momento e tra le linee bianche dello sterrato, è sicura, limitata, racchiusa.
Anche il riferimento al limite è di tante teorie psicologiche infantili.
Che insistono sulla necessità di esso nella crescita dei più piccoli, proprio perchè non sottrae libertà, ma – al contrario – rassicura.
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Turi, parlaci di questa metafora del campo da gioco….Ti va di riportarne i passi del libro?
Sono d’accordo. I calciatori sembrano gli dei moderni. Interessante questo post
Il gioco è metafora della vita o non è piuttosto la vita metafora del gioco?
– questa domanda è difficilissima. Voglio pensarci un po’ prima di rispondere
Fare squadra ha ancora senso?
– certo che si. Da soli non si va da nessuna parte
La felicità – in famiglia, nella società, nel lavoro – passa dal fare squadra?
– questa domanda mi fa pensare che se da un lato fare squadra è fondamentale, dall’altro è davvero difficile. anche perché viviamo in una società molto individualista. forse è pure per questo che siamo infelici?
E qual è il rapporto tra successo e felicità?
– un rapporto non facile. ma mi verrebbe da domandare, è più facile essere felici avendo successo o avendo insuccesso? la risposta è ovvia
I calciatori (famosi, solo quelli che giocano nelle categorie superiori) sono l’immagine simbolo di questa società che identifica nel successo e nella ricchezza la felicità. Alla pari dei personaggi del mondo dello spettacolo. Però a differenza di quest’ultimi, la loro è una categoria dove non si può barare, non si può fare carriera con le raccomandazioni. Il campo di calcio è un giudice spietato, solo avendo le capacità e sottoponendosi a duri allenamenti si può essere competitivi. Questa è una gran bella cosa. Il libro di Turi è molto illuminante in questo senso. I compagni di Paolo sanno benissimo che egli ha una marcia in più rispetto agli altri e il provino nella grande squadra se lo è conquistato sul campo. Lo invidiano ma allo stesso tempo lo rispettano. quindi fanno squadra attorno a lui.
Io credo che i calciatori siano veramente gli eroi dei nostri tempi, perché le loro immagini e le loro gesta sono evidenziate di più rispetto ad altri protagonisti sportivi e non. Però quando un atleta di uno sport diverso diventa importante e livello mondiale, allora viene forse amato di più di un calciatore, un po’ come Valentino Rossi. Riuscire a fare squadra, in famiglia, sul lavoro, con gli amici, è forse l’unica possibilità per riuscire a sopravvivere. In ogni sport l’atleta è supportato dal suo gruppo: l’allenatore, il fisioterapista, i compagni di allenamento e via dicendo. Un cantante ha bisogno di un gruppo per esprimersi al meglio. Quando montavo in corsa e salivo su un purosangue che sgabbia a sessanta all’ora, dovevo fidarmi ciecamente del mio allenatore e del mio cavallo. Si vince solo se il tuo team funziona. Nella vita e nello sport. E se gli altri vanno più veloci, pazienza, basta già fare bella figura, capire che tutto andava bene.
Mi sembra che il gioco sia metafora della vita quando si possono scoprire i lati oscuri del gioco: arbitri poco convincenti, allenatori approssimativi, medici sportivi capaci di usare scorciatoie.
Per capire il rapporto tra successo e felicità bisognerebbe dare una definizione adeguata di felicità. Quando vinco una corsa sono molto contenta, forse anche felice. Però il bello è continuare l’allenamento ogni mattina, vedere i piccoli progressi, lo sviluppo dei puledri. Il successo è una cosa vaga. La felicità è, a mio giudizio, molto più pratica. A volte un allenamento mattutino ben fatto riempie di soddisfazione molto di più che una vittoria fortunosa. Comunque il successo è una cosa bella. POtrebbe essere la base per costruire una fetta di felicità. Ma anche quella per montarsi la testa.
Non ho letto il libro, ma sembra interessante. Mi interessa il tentativo di analizzare la vita di chi ha tutte le possibilità per farcela ma che poi non ce la fa. In effetti è tremendo. Voglio dire che quando sai di non avere le capacità o le doti per raggiungere un obiettivo, un po’ te ne fai una ragione. Quando invece sei ad un passo dal raggiungerlo e poi l’obiettivo ti sfugge, allora ti arriva addosso una vera mazzata. Essere quasi arrivati per non arrivare è molto peggio di essere distanti dalla meta.
il problema non è solo arrivare in vetta, ma mantenerla. pensate a quanti sono arrivati, ma poi sono scomparsi dopo qualche tempo. nel gioco del calcio questo avviene spesso. sono d’accordo nel considerare il calcio come metafora della vita. si presta perfettamente. complimenti e auguri per il libro.
Pier Paolo Pasolini scriveva:
“Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro”.
E ancora…
Umberto Saba, nella poesia “Goal” (da “Cinque poesie sul gioco del calcio” – Mondadori –1996):
Il portiere caduto alla difesa ultima vana,
contro terra cela la faccia,
a non veder l’amara luce.
Il compagno in ginocchio che l’induce,
con parole e con mano, a rilevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.
complimenti per il libro: pare davvero interessante. e complimenti per le recensioni.
mi ha colpito l’intervista di buffon con il link a ‘la stampa’. non sapevo avesse attraversato un periodo di depressione.
davvero il successo non garantisce la felicità
@Simo. Suggestiva questa poesia di Saba, c’è tanta umanità, solidarietà, fraternità. Ma lo sai che a vent’anni ero un dio con il pallone tra i piedi? Mi chiamavano la libellula della Val d’Anapo per l’eleganza con cui mi muovevo in campo. Poi decisi di abbandonare il calcio per dedicarmi alla letteratura. Non l’avessi mai fatto!!! Posso dire che a me mi hanno rovinato i libri.
mi hanno colpito queste parole di buffon: ‘Non ero soddisfatto della mia vita e del calcio, cioè del mio lavoro. Mi tremavano le gambe all’improvviso’
ed anche questa: ‘Ricordo che mi dicevo: “Ma che cosa me ne frega di essere Buffon?” Perché poi alla gente, ai tifosi, giustamente, non importa un cavolo di come stai. Vieni visto come il calciatore, l’idolo, per cui nessuno ti dice: “Ehi, come stai?”
e quest’altra: ‘«Sai cosa pensi in quei momenti? “Ma porca puttana, perché sono Gigi Buffon, il calciatore conosciuto?” Perché finisce che, a volte, diventi schiavo della tua figura, di quello che sei. Se Buffon dice: “Vado due mesi via, a curarmi la depressione”, è finita. Dopo, ogni volta che sbagli, una parata per esempio, ci sarà sempre il richiamo di questa cosa. Allora non ti puoi permettere di andare via tre mesi per curarti».’
@Becheroni. Bella questa immagine che dai dello sport, ci ricorda che dietro ogni campione c’è uno staff che lavora per lui, persone che non beneficeranno della gloria, che lavorano nell’anonimato e tuttavia sono indispensabili per la causa.
Ma è vero che sei l’unica cavallerizza del siracusano?
Ed è vero che sei l’unica che quando partecipa a una corsa, indossa la cintura di sicurezza per timore delle cadute? Non negare perchè mi arriva da fonte certa.
I calciatori i nuovi eroi dei nostri tempi?
Se l’inter vince il campionato o il Bari va in seria A quest’anno permetterà di migliorare l’Italia del futuro?
Io credo che gli eroi migliorino il mondo, il calcio non migliora il mondo, semmai ci fa divertire di più o rilassare di più o sfogare di più.
Per miglioramento non intendo il divertimento o lo sfogo, ma un salto in avanti nello sviluppo umano.
Esempi di eroi? Gandhi o Cristoforo Colombo.
@Alberto e Giacomo. Concordo su quanto avete scritto. Io ho definito impietoso il libro di Scalia. Proprio perchè l’autore ha saputo analizzare e trasmettere al lettore le sensazioni che un essere umano prova quando la vita gli fa lo sgambetto, mentre è più indifeso, più vulnerabile, quando la felicità sembra a portata di mano.
Concordo con sul romanzo. Ma credo che questi giovani calciatori di successo siano eroi loro malgrado. penso che la domanda del post abbia una taglio critico. non è giusto che vengano considerati come eroi, ma lo sono. E sono al centro di pressioni enormi e di interessi economici spaventosi. Personalmente non li invidio più di tanto. E non so se sarei felice a pensare per mio figlio un futuro nel calcio di successo.
Salvuccio,
bellissimo quell’essere indifesi proprio quando la felicità ci sfiora.
D’altra parte niente come il calcio si presta a essere – anche – metafora del sogno (e del sogno che cade, che “butta sangue” come dice Turi).
A questo proposito riporto un passo di Mempo Giardinelli che nel suo “Il tifoso” (Cuentos de Futbol – Mondadori 2002) ci racconta in modo struggente e poetico gli ultimi istanti della vita di un tifoso proprio mentre vive alla radio quella mitica partita che consacra la vittoria del campionato Argentino, dopo anni di digiuno, alla sua squadra del cuore, il Velez Sarsfield:
“…Aveva sognato quella vittoria tutta la vita. A sessantacinque anni, appena spedito in pensione dalle poste e ancora scapolo, la sua esistenza era sufficientemente regolare e spoglia di emozioni da far si che solo quel gol lo eccitasse, visto che lo aveva atteso innumerevoli domeniche, lo aveva immaginato e palpitato in mille modi diversi…”
Visto che parlate di calcio e letteratura mi permetto di ricordare il mitico Osvaldo Soriano http://it.wikipedia.org/wiki/Osvaldo_Soriano
Bravissimo, Giorgio!
E c’è anche Leopardi (1821)
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A UN VINCITORE NEL PALLONE
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Di gloria il viso e la gioconda voce,
Garzon bennato, apprendi,
E quanto al femminile ozio sovrasti
La sudata virtude. Attendi attendi,
Magnanimo campion (s’alla veloce
Piena degli anni il tuo valor contrasti
La spoglia di tuo nome), attendi e il core
Movi ad alto desio. Te l’echeggiante
Arena e il circo, e te fremendo appella
Ai fatti illustri il popolar favore;
Te rigoglioso dell’età novella
Oggi la patria cara
Gli antichi esempi a rinnovar prepara…..
Il successo, la gloria, il denaro possono diventare un fardello troppo gravoso da portare se non si possiede il giusto equilibrio per reggerlo. I calciatori per lo più sono ragazzi che provengono da umili origini, spesso hanno dovuto interrompere gli studi per dedicarsi alla carriera ed ecco che si trovano impreparati a sopportare l’urto della popolarità. Penso a Maradona, Adriano e a tanti altri che umanamente hanno pagato tale scotto. Naturalmente il discorso riguarda tutte le persone che in un modo o nell’altro diventano celebri, credono di toccare le vette del paradiso per poi risvegliarsi malamente per terra. Quanti scrittori sono finiti nel dimenticatoio dopo aver vinto premi importanti. Quanti personaggi noti sono finiti in miseria, alcolizzati e abbandonati dalla loro corte, dopo aver conosciuto il lusso più sfrenato. Occorrerebbe sempre ricordare che siamo meteore nell’Universo, piume in balìa del vento, piccoli clandestini di questo pianeta, e allora forse riusciremmo a vivere più serenamente.
@Simo. Se non sbaglio anche De Gregori ha dedicato una canzone dedicata al mondo del calcio. Quale era? Roma capoccia?
No, forse quello era Venditti. Boh! io sono rimasto fermo a Orietta Berti.
Salvuccio…
sì, era De Gregori! …
Clicca qui (mi stai facendo morire dal ridere….)
http://www.youtube.com/watch?v=lETVilXSfNY
….Ma Nino non aver paura
di sbagliare un calcio di rigore
non è mica da questi particolari
che si giudica un giocatore
un giocatore lo vedi dal coraggio
dall’altruismo e dalla fantasia…
E chissà quanti ne hai visti e quanti
ne vedrai di giocatori tristi
che non hanno vinto mai
ed hanno appeso le scarpe a qualche
tipo di muro e adesso ridono dentro al bar
e sono innamorati da dieci anni con una donna
che non hanno amato mai
chissa’ quanti ne hai veduti
chissa’ quanti ne vedrai…
(La leva calcistica della classe “68 – Francesco De Gregori)
Mi interessa molto questo libro. Lo prenderò. A proposito di fatti reali su campioni di calcio vittima della depressione mi viene in mente il grande Gianluca Pessotto, per fortuna non andata a buon fine.
Mi ricordo come fosse ora, invece, il suicidio dell’ex calciatore di Roma e Milan: Agostino Di Bartolomei. Un grandissimo atleta……..
@Bravo Amedeo. Agostino Di Bartolomei, mitico capitano della Roma, che tirava punizioni da far piegare le mani ai portieri, ragazzo sensibilissimo e schivo.
Caro Massimo
grazie a te, a Simona, a Salvo e a tutti gli altri. Ecco le risposte alle prime due domande.
Per Massimo
Domanda: Come nasce questo romanzo (da quale idea, da quale stimolo, da quale esigenza)?
.
Risposta: Il romanzo nasce dall’esperienza di tutta una vita, dall’avere visto naufragare miseramente tante illusioni concepite in giovinezza. Persino chi si sente arrivato deve fare i conti con la finitezza della sua esistenza, in contrasto con i suoi desideri che sono infiniti. Questo è il grande dramma dell’uomo: poter concepire un’idea titanica di se stesso, sfidare gli dei dell’Olimpo e naufragare.
Il mio protagonista, il calciatore Paolo Malerba, è l’epigono contemporaneo di questo mito eterno.
Cara Simo,
ho concepito il rettangolo di gioco come un recinto sacro, in cui si è protetti sia dalla geometria delle linee che contrasta il caos del mondo esterno, sia come luogo di regole immutabili, persino metafisiche, a cui si aggrappa la finitezza degli esseri umani.
Segue il brano.
Da LA PUNIZIONE
……
Si volta verso il faro di Brucoli che chiude il Golfo di Catania. A sinistra il tremolìo delle onde si ripete all’infinito, nessuna imbarcazione né scoglio concedono appigli allo sguardo né soste all’immaginazione. Si abbandona alla deriva dei pensieri, oltre l’orizzonte dove si spalanca l’ignoto. Per riprendersi dal lieve smarrimento è costretto a voltarsi indietro, verso il campo e l’Etna sullo sfondo. Si concentra sulle linee bianche che delimitano e sezionano il rettangolo di gioco. Qui tutto è stabile, coerente, in questo spazio, sottratto al caos del mondo, riposano le sue certezze e poggia il suo piccolo piedistallo di gloria; qui s’invola leggero alla ricerca di un applauso, dimenticando la timidezza che lo fa arrossire e talvolta inceppa la voce.
Caro Turi,
è bellissima l’idea di una geometria del campo come recinto sacro.
Pasolini, invece, parlava di un “linguaggio del calcio”…e addirittura distingueva un linguaggio calcistico in PROSA e uno in POESIA!!
Clicca qui….
http://www.pasolini.net/contributi_gattorna.htm
Tu che ne pensi?
mi è piaciuta moltissimo la visione del campo di gioco tra il mare e l’etna, dal tremolio delle onde al vulcano sullo sfondo
Cara Simona ciao.
Il libro di Salvatore Scalia propone tematiche molto profonde, al solito come sa proporre Massimo, prima fra tutte quella del divismo.
I divi, si sa, sono destinati all’immortalità… sono come le stelle del firmamento che brillano tappezzando l’oscurità del cielo, riferimento per la rotta di naviganti esperti di astronomia, quelli che conoscono i carri, le orse minori,le orse maggiori, i pianeti, i gruppi e le famiglie del firmamento, innumerevoli appaiono sulla testa, impossibile contare le stelle e le stelline e, logicamente, alcune le segue ed altre le lascia saggiamente perdere, dipende dalla sua meta, poichè si potrebbe finire male, naufraghi o chissà dove, il timone non perde il suo tempo guardandole tutte o rincorrendo quelle cadute nell’oscurità di mari bui e profondi del passato.
Poi come fai ad accorgerti di una stella caduta, come fai a capire se era importante oppure no, nella storia e nei tempi ce ne sono talmente tante…impossibile conoscerle tutte, davvero impossibile, che peccato credersi una stella cometa ed accorgersi che sei finito chissà dove…
Ciao.
Cara Simona condivido il pensiero di Pasolini: il calcio giocato è prosa e poesia. I furoriclasse sono il momento lirico, della leggerezza, della perfetta sintonia tra sforzo fisico e fantasia. I cursori sono la prosa, gli umili fanti, i portatori d’acqua senza grazia ma indispensabili. Estro e pragmatismo si sottopongono a regole rigide, che li preservano dalle derive della mente, dal rischio di naufragare negli abissi dell’anima. Il recinto sacro è quindi uno spazio protettivo. Perciò il mio Paolo Malerba trova conforto nella perfetta geometria del campo.
Caro Turi
se permetti riporto i passi più belli del libro dedicati proprio a queste geometrie che dicono, a questi linguaggi che guizzano oltre, fino a confondersi con le linee del cielo…
“…Riacquistò la scioltezza di movimenti, la visione geometrica del campo e degli schieramenti, tutto aveva una misura e poteva essere dominato. In quei momenti pensiero e azioni coincidevano, ogni intuizione e ogni mossa si fondevano in una perfetta armonia. Quello era il culmine della sua felicità”…(pag 55)
E ancora è geometria (perfetta) il centrocampo…
“Paolo cammina all’interno di una mezzaluna del cerchio del centrocampo.”Questo sono io e l’altra metà è mia madre, eravamo due spicchi della stessa luna”….”(pag 34)
—
Turi, il cerchio è anche il simbolo della maternità?
Mi piace come si sta mettendo la discussione: il gioco del calcio che acquista valenza letteraria attraverso le pagine di un romanzo. Prosa e poesia percorrono parallelemente lo stesso destino, nella scrittura e in un campo di calcio. (A proposito: mi viene in mente anche “Una vita da mediano” di Ligabue, dedicata al grande Lele Oriali). Maradona sta ad Alda Merini, così come un terzino che mena randellate alla cieca, vale un poetastro che scrive versi da far accapponare la pelle.
Salvuccio…e se ti proponessi calcio, letteratura e musica tutto insieme?
Clicca qui (gli Avion Travel e altri che musicano il grande Osvaldo Soriano, scrittore sognante del campo di calcio)…
http://www.masterworld.org/news/51930/Peppe-Servillo-canta-Soriano-canzoni-sul-calcio-e-sulla-vita.html
Il romanzo di Salvatore Scalia “Fuori gioco” racconta la storia di Paolo Malerba, un giovane di modeste condizioni socio- economiche abile nel gioco del pallone, che suo padre vuole a tutti i costi calciatore professionista. La madre, invece, vorrebbe che studiasse. Il romanzo si colloca nella grande tradizione letteraria siciliana che va da Verga a Brancati, da Tomasi di Lampedusa a Sciascia. Risente anche delle atmosfere decadenti novecentesche, specie nella descrizione lirico- simbolica del paesaggio, che rimanda sempre a qualcosa di misterioso e di non detto e nella figura del protagonista, che ricalca il carattere dell’antieroe, dell’uomo della non voluntas. Molti i miti, che testimoniano la cultura umanistica di Scalia. Per citarne alcuni Ulisse, Enea, Sisifo, la Pizia di Delfi. Nel romanzo abbiamo anche la presenza dei quattro elementi. La terra, elemento forte, che rende gli uomini prigionieri e poco padroni di sè. L’acqua del golfo di Catania vista come qualcosa di accogliente, quasi un ventre materno, un abbraccio affettuoso e il mare di Acitrezza e Acicastello rasserenante evasione, senso di libertà. Il fuoco del vulcano”fonte di vita e di dolore” che quasi ipnotizza con i suoi bagliori, con le sue lingue incandescenti, ma che terrorizza per la sua forza devastante. L’aria, che avvolge tutto, creando quasi un involucro protettivo su Mascalucia, quest’atomo di materia dove succede di tutto e dove tutto può succedere, in un’apparente lentezza. Mascalucia nel romanzo è solo una metafora del mondo. Un microcosmo in cui amori, odi, rancori, affetti si manifestano nelle forme più violente. Salvatore Scalia riesce ad armonizzare egregiamnete la parte realistica con quella lirico simbolica che si inserisce con leggerezza, anche nelle descrizioni più crude. Un’atmosfera magica aleggia nel romanzo. La descrizione del cavòlo che fa riaffiorare le paure ancestrali. Il cavòlo, porta degli Inferi, Inferi stesso in cui pochi eroi sono scesi. Questo luogo sotterraneo e misterioso regno delle mavare, popolato da mostri fantastici, ricco di erbe dai magici poteri. Solo i coraggiosi e i cacciatori osano avventurarvisi. I ragazzi, superata la prova di inziazione, non vi scendono più, lo guardano dall’alto, dal mondo della luce, ancora affascinati dal mistero. Solo Ginu da villa, figlio della Pippinetta, conosce i segreti del cavòlo, perché anche lui ha qualcosa di magico, di misterioso, di ferino, che lo rende immune da ogni pericolo in agguato. C’è un senso di morte che incombe su tutto il romanzo, che ho riscontrato così forte solo nel Gattopardo. E’ annunciato dal cra cra delle carcarazze, che nel romanzo hanno la funzione delle prefiche. Annunciano la morte dell’amore, degli affetti, della dignità degli uomini, mentre la politica fa festa devastando e fagocitando tutto ciò che incontra. Tutto verrà cementato in una realtà asfittica, anche il cavòlo. Questa sarà la fine del regno incantato degli abitanti di Mascalucia.
maria rita pennisi
@Simo. Che so’ gli Aviol travol? Non parlare difficile con me. Sai che ti vedrei bene ad arbitrare una partita di calcio?
Salvuccio, conosci Orietta Berti e non sai niente degli Avion Travel? Alla tua età?…
Come arbitro…sarei abituata, infondo. Lo sai che il giudice nel diritto romano era chiamato arbiter nostrum? Una partaccia, diciamolo.
Alle partite se la prendono sempre tutti con l’arbitro….
@Maria Rita Pennisi. Una recensione con gli strafiocchi. Mi hai fatto ricordare un particolare di cui si è parlato poco in questo dibattito: la figura del padre di Paolo, un personaggio chiave di questo romanzo. Un uomo descritto da Turi con tinte pittoresche, quasi folkloristiche. Un uomo il quale, a mio parere, influisce molto sul triste destino del ragazzo, ha un ruolo determinante sul suo tragico epilogo. Lo assilla, lo carica di responsabilità eccessive, scarica su di lui le sue frustrazioni di uomo mediocre che deve un posto di lavoro alle raccomandazioni del potente siciliano di turno.
@Salvuccio…a proposito di ARBITRI….
il grande scrittore argentino Osvaldo Soriano racconta in “Gallardo Perez, arbitro” (Pirati, Fantasmi e Dinosauri – Einaudi 1998):
“Quando io giocavo a pallone più di trentenni fa, in Patagonia, l’arbitro era il vero protagonista della partita. Se la squadra locale vinceva, gli regalavano una damigiana di vino di Riò Negro; se perdeva, lo incarceravano. E’ chiaro che la cosa più frequente era il regalo della damigiana, perché l’arbitro e i giocatori ospiti non avevano la vocazione al suicidio..”
@Maria Rita…bellissima lettura, molto intensa e vera, soprattutto dove dici:
“C’è un senso di morte che incombe su tutto il romanzo, che ho riscontrato così forte solo nel Gattopardo. E’ annunciato dal cra cra delle carcarazze, che nel romanzo hanno la funzione delle prefiche. Annunciano la morte dell’amore, degli affetti, della dignità degli uomini, mentre la politica fa festa devastando e fagocitando tutto ciò che incontra. Tutto verrà cementato in una realtà asfittica, anche il cavòlo. Questa sarà la fine del regno incantato degli abitanti di Mascalucia…”
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Turi ci parli del cavòlo?
@Simo. Con tutto il rispetto per gli Avion Travel, Orietta Berti è un mito. “Finchè la barca va, lasciala andare…” è metafora di come va presa la vita. E’ diventata il credo dei politici italiani. Berlusconi ne ha fatto il suo cavallo di battaglia.
Buona serata e grazie a tutti per i commenti pervenuti.
Ne approfitto per salutare: Vale, Barbara Becheroni, Alberto, Giacomo Presti, Girolamo Savullo, Sulromanzo, Margherita, Giorgio, Amedeo, Laura, Rosella.
Un ringraziamento speciale a Salvo e Simona per i contributi e per l’animazione del post.
E a Maria Rita Pennisi per la bella recensione inserita tra i commenti.
Grazie davvero!
Cara Simona
il cavòlo è il regno della fantasia e delle paure infantili, è il collegamento diretto con gli inferi. Ricordiamoci che l’Etna ha di per sé una fortissima valenza simbolica di tipo demoniaco perché, per le sue fiamme eterne, è stata considerata la bocca dell’inferno. Perciò il cavòlo, un’antica fenditura vulcanica, è popolato da demoni e spiriti del sottosuolo, come Ginu da villa e sua madre la Pippinetta, che per il suo essere una irregolare, un’emarginata in peccato mortale, ha più da spartire con il disordine dei diavoli che con la morale della società. In ogni caso vive la sua dannazione su questa terra, di povera abbandonata dal marito e con tanti figli da sfamare. La speculazione edilizia ha cancellato non solo il paesaggio di Mascalucia ma anche il cavòlo, e quindi i luoghi della favola e del suo linguaggio fantastico.
@ Salvatore Scalia
Caro Turi,
grazie per essere intervenuto e benvenuto a Letteratitudine!
@ Turi Scalia
Caro Turi, altre due domande da parte mia…
1 – Tu hai ripreso il mito di Empedocle che si lascia precipitare nelle fauci dell’Etna… e pare che il protagonista del libro abbia scelto lo stesso destino.
Nella mia recensione ho scritto: “per la popolazione etnea il vulcano è femmina (a’ muntagna), l’idea del lasciarsi precipitare nel cratere non riflette altro che il ferale desiderio (inconscio e insopprimibile) di tornare nel ventre materno (madre terra, aggiungo): mettersi “fuori gioco”, scomparendo nelle origini della propria esistenza”.
–
Questa potrebbe essere una possibile “lettura”. Cosa ne pensi? Sei d’accordo?
il mondo del calcio non merita alcuna attenzione
c’è ben altro fuori dagli stadi
@ Turi Scalia
2- Nella mia recensione ho scritto:
“Paolo viene scartato. Il suo sogno si infrange e gli implode dentro con effetti devastanti, allargando squarci dell’anima già aperti da un’adolescenza difficile, dal problematico rapporto col padre, da paure mai domate. In tal senso Malerba è due volte perdente: perché prima patisce la sconfitta (per via di un disturbo fisico inatteso) e poi il fallimento (per via di equilibri interiori già fortemente precari).”
Quanto, la disfatta di Paolo è dipesa dallo sgretolamento del sogno? E quanto, invece, dal problematico rapporto col padre?
Caro Massimo
hai interpretato bene: c’ è un ritorno simbolico nel ventre della Gran Madre Terra, un ricongiungimento con il fuoco primigenio che arde in eterno, dà la vita e ci divora fino alla morte.
Non distinguerei tra lo sgretolamento del sogno e le frustrazioni del padre riversate sul figlio: costituiscono insieme una combinazione micidiale e distruttiva.
@ Eventounico
Il mondo del calcio, in effetti, merita di essere criticato (e da molti punti di vista). E secondo me va stigmatizzata l’esaltazione eccessiva che rende i calciatori quasi come “nuovi eroi moderni”.
La violenza negli stadi (e fuori dagli stadi) è altra cosa, ovviamente.
Eppure la componente puramente sportiva mantiene un che di esaltante. Forse è per questo che ci sono così tanti riferimenti letterari e musicali (come hanno evidenziato sopra Simona e gli altri amici).
Grazie mille, caro Evento.
–
P.s. Non c’entra granché, tuttavia confesso di tifare per il Catania
Caro Turi, sono d’accordo con te quando dici “non distinguerei tra lo sgretolamento del sogno e le frustrazioni del padre riversate sul figlio: costituiscono insieme una combinazione micidiale e distruttiva.”
Eppure leggendo il libro mi sono posto questa domanda: chissà cosa sarebbe stato di Paolo Malerba se avesse avuto un altro padre…
Ma è anche vero che ci potremmo domandare: chissà cosa sarebbe stato di Paolo Malerba se non avesse avuto quel problema ai polmoni…
Mi sembra interessante il “percorso” calcio-musica tracciato da Salvo e Simona. Aggiungo un paio di contributi.
Per esempio: “È goal!” di Edoardo Bennato:
http://www.youtube.com/watch?v=hPIWMRkMrWI
Caro Massimo
se… se… e se…. potremmo fare ipotesi all’infinito, tutto è stato e tutto potrebbe non essere stato. La narrazione crea un discrimine tra un ventaglio di possibilità, tra quella scelta dall’autore e le altre inespresse, eppure vive e operanti nel sottosuolo del testo.
C’è “Notti magiche” di Edoardo Bennato e Gianna Nannini, dedicata ai mondiali di Italia ’90:
http://www.youtube.com/watch?v=l_1vlzeU4dU
Caro Turi,
Caro Massi,
Caro Salvuccio,
auguro a tutti una buona notte!
Grazie per questi spunti e per l’occasione di condivisione.
Chiudo, caro Massi, rispondendo alla tua prima domanda (Il calcio è metafora della vita o è la vita a essere metafora del gioco?) così:
” Il calcio è una metafora della vita, sentenzia Jean-Paul Sartre. La vita è una metafora del calcio, corregge il filosofo Sergio Givone” .
…E infine : GRAZIE ROMA…Venditti…(Ci voleva).
Un bacio
Simo, “Grazie Roma” la stavo per citare…
E poi c’è “Cuore azzurro” dei Pooh (mondiali 2006):
http://www.youtube.com/watch?v=dVQmuST5qjQ&feature=related
E grazie per le belle citazioni.
Mi ricordavo di aver visto, tempo fa, su YouTube, un interessante video con dichiarazioni di Pasolini sul calcio (Pasolini giocava a pallone). Purtroppo non riesco a trovarlo. Peccato!
Per stasera devo chiudere qui.
Ringrazio Turi Scalia e voi tutti per la partecipazione. A domani!
Una serena notte…
Caro Massimo, Cara Simona e Caro Salvo
vi saluto con affetto. Ringrazio Simona e Salvo per le belle parole sulla mia brevissima recensione. Anche ciò che avete scritto voi sul libro di Turi Scalia è acuto e profondo. Dimostrate di essere dei sottili indagatori dell’animo umano. Massimo, mi complimento ancora una volta con te, perché le tue scelte sono ottime e nel tuo blog ci regali sempre grandi emozioni. Ancora un grazie e un abbraccio. Maria Rita Pennisi
Caro Turi, sono contenta di rincontrarti nel giro di pochi giorni. E’ un vero piacere leggere le tue risposte, che rivelano grande sensibilità e un occhio attento ai particolari. A presto. Maria Rita Pennisi
Buon giorno a tutti!
Caro Turi, ti ho riletto d’un fiato e la tua narrazione mi ha fatto pensare a un libro in versi molto intenso, di Fernando Acitelli “La solitudine dell’ala destra ” Einaudi.
Ti riporto (nel successivo commento) un passo di un’intervista a questo autore che credo si adatti a Paolo Malerba, alle stramature della storia, o alle piccole storie, quelle che potevano essere e non sono state. Per un caso, per un no, per un si.
E’ compito dello scrittore cogliere queste crepe, la soglia misteriosa tra il possibile e l’impossibile.
Questa soglia tu la rifletti sulla struttura del libro, perchè lo hai diviso in due parti.
– La prima in cui Paolo vive guardando al futuro (il provino con l’inter , le sospensioni dell’adolescenza, l’iniziazione sessuale).
– La seconda in cui Paolo è adulto e guarda il passato (le speranze già sfarinate, il bar e l’echeggiare delle sue voci, una donna amata solo per solitudine).
Nel mezzo c’è la vita di Paolo. Ma tu non la racconti. O meglio, la ricostruisci tra quel prima e quel dopo che ne delimita la parabola.
Quel prima e quel dopo così struggenti.
Lo spazio di un sogno.
—
Turi, puoi parlarci della struttura del libro? Del perchè di questa scelta narrativa?
DA UN?INTERVISTA A Fernando Acitelli (autore di ” La solitudine dell’ala destra”):
—
“Ogni popolo ha bisogno di un’ epica. Anche un’epica “minore”, come può essere quella calcistica, serve a sostenere i nostri giorni. E’ l’epica che accompagna e sostiene ogni esistenza ma molti individui oltre a stravedere per i campioni di cui sognano le gesta, si soffermano su coloro che campioni, eroi, non sono o non sono stati. Dunque si può rimanere estasiati anche dinanzi ad una epica del “margine”, ad un gusto per gli sconosciuti, per coloro di cui sappiamo appena un rigo. Nel libro La solitudine dell’ala destra io ho cantato anche questi eroi “minori” e in certi casi il mio affetto per loro è stato superiore rispetto a quello provato per i campioni. Quei loro tentativi di annunciarsi, di esibirsi in tocchi da campione me li hanno fatti amare. E anche il loro destino d’essere gregari e di retrocedere subito come categoria. E’, in fondo, il grande tema degli anonimi della Storia, di tutte quelle persone appena apparse sulla scena del mondo e subito scomparse….”
Caro Salvo Zappulla,
la tua recensione su questo libro mi è piaciuta molto sia per il significato sia per lo stile fluido e scorrevole che la rende piacevolissima alla lettura.
La tua citazione sul Deserto dei Tartari di Buzzati è azzeccatissima. La vita è un’attesa snervante di un domani che difficilmente ci sorride e che poi si conclude con la solita fine. La vita è un sabato del villaggio, in cui l’aspettativa supera di molto la realizzazione del futuro agognato, ma il bello sta proprio in questo sognare, progettare. Paolo Malerba è uno dei tanti di grande talento a cui la vita ha dato scacco, la sua debolezza interiore, il suo non saper reagire ne determinano il crollo.
Maria Rita Pennisi
Grazie Maria Rita. Mi aveva detto la Simo che sei una persona mooolto intelligente. le tue parole lo confermano.
se ho capito bene il libro è ispirato a una storia vera. vorrei chiedere all’autore che tipo di attività di ricerca ha svolto prima di scriverlo.
Complimenti a simona e salvo per le bellissime recensioni,all’autore per il libro il cui argomento mi pare molto interessante.Mi piace pensare che lo sport di squadra in genere sia una metafora della vita,o meglio dovrebbe ispirarne lo stimolo al fare insieme e seguendo le regole,ma non ho particolare simpatia per il calcio.Non ne ho per quello che è diventato oggi,troppa luce su un solo sport,troppi miti spropositati legati a figure mediocri che si vestono di successo fatuo e trasmettono a chi li osserva senza attenzione modelli di una vita senza valori.Mi interessa di più la prospettiva angolare di cui ci parla l’autore del libro,il personaggio in fuori gioco,il mancato obiettivo e il senso di fallimento che ne risulta.Sono convinta però che la felicità nulla abbia a che vedere con il successo,che questa società pone all’esterno di noi stessi,nell’immagine che crediamo di dare agli altri dandoci l’incapacità in tutti i modi di sentirci vivi se non siamo “visibili” fortemente.Il successo non sempre è nella meta o nel mancato raggiungimento di essa,il successo è nell’individuo,è parte di sè,non è una bandiera nè un trofeo,non è l’obiettivo,ma è il percorso stesso e chi lo persegue non arriva mai.Questo però è quella luce che rende una persona diversa dall’altra e certamente non si incarna se non s’intrecciano mani,sguardi,cammino con altri esseri umani.
un caro saluto a tutti
Fuori gioco
Salvatore Scalia non racconta la parabola del calciatore Paolo Malerba seguendo il filo cronologico della fabula, ma ne coglie i tratti essenziali, ritraendolo in due momenti cruciali della sua carriera: da ragazzo, nel campo di calcio del suo paese, alla vigilia del provino con l’Inter; da adulto, a venti classici anni di distanza, sui sentieri dell’Etna, dopo aver giocato la sua ultima partita. Un sapiente giustapporsi di flash-back permette al lettore di comporre, pezzo dopo pezzo, un quadro nitido e complesso della vicenda.
Nella prima parte si ricostruisce la formazione di Paolo, o meglio quella che si può definire la “mala educazione” piccoloborghese secondo i tipici principi della “spertezza” e dell’ipocrisia del farsi i fatti propri, di un ragazzo etneo tra gli anni ’60 e ’70.
Il padre di Paolo, Tino Malerba, detto “Fiat Lux”, assunto come operaio da una nota azienda elettrica, grazie alla raccomandazione di un grosso politico democristiano, si pone come l’esempio vivente dello “sperto”.
Per tutta la giovinezza Paolo, dotato di un gran talento calcistico, ma lunatico ed incline al sogno e alla malinconia, si sforza di adeguarsi inutilmente al destino che il padre, “cattivo maestro” ha disegnato per lui.
Venti anni dopo, come un moschettiere battuto, ormai estromesso dalla squadra, Paolo si trova a fare i conti con il fallimento della sua vita, accostandosi ad una verità che lo ammutolisce. Fuori dal gioco, come un nichilistico personaggio pirandelliano, egli attende che la Montagna “scassi” e inghiotta tutto in una grande apocalisse.
Il libro non si limita ad illustrare la vita bruciata di un calciatore di provincia. Il fallimento di Paolo è metafora di un fallimento ben più grande, anche perché la sua storia si congiunge fatalmente con la microstoria di un paese etneo: Mascalucia. Del quale Scalia, con coraggio e lucida analisi, ricostruisce, al di là del colorito macchiettismo paesano, una Spoon River affaristico-mafiosa. Sono delineati il sistema di potere, i rapporti di classe, l’ideologia dominante, la rete clientelare, la speculazione edilizia, gli intrecci tra mafia emergente e nuovo ceto politico. Non si pensi, però, che si tratti di fenomeni circoscritti e locali, perché quello che accade nel microcosmo di Mascalucia in quegli anni, si sviluppa in proporzioni ancora più ampie in tutta la Sicilia.
Il romanzo descrive, infatti, l’irresistibile ascesa di Corvaja (da presidente della squadra di calcio a deputato nazionale in odor di mafia) e di Lorenti (da compagno di squadra di Paolo a capomafia, padrone di Catania).
La carriera calcistica di Paolo si snoda all’ombra di questo inferno. La sua colpa è quella di essere a proprio agio solo nel rettangolo di gioco, “l’unico spazio, sottratto al caos del mondo” dove “riposano le sue certezze e poggia il suo piccolo piedistallo di gloria”. Per il resto non vede e non sente, incurante degli avvertimenti dello zio comunista, fastidioso come il Grillo Parlante della fiaba di Pinocchio. “Caro nipote, sei un servo.”
Fuori dal gioco gli spettano le briciole che, come cicisbeo, Lina, moglie settentrionale di Corvaja, donna di potere, civetta e sadica fa giungere fino a lui. La sua tardiva consapevolezza del suo ruolo nel gioco non prenderà la forma combattiva della lotta o della critica ma produrrà silenzio, aspettative apocalittiche ed autodistruzione.
Ma ad essere sconfitto non è solo Paolo, è un’intera generazione che in quegli anni si è avvicinata alla politica, sbagliando obiettivi. Scalia introduce nel romanzo dei personaggi di apparente contorno, degli studenti universitari di sinistra (Mario, Turi, Rosetta…). Essi rappresentano “la meglio gioventù” sessantottina che, impegnata ad occupare università e a parlare del Vietnam in astratto, non si avvede che nel frattempo nel territorio si stanno saldando nuovi equilibri politico-mafiosi sulla base degli interessi forti legati agli appalti pubblici e alla speculazione edilizia. Sono gli anni in cui nei paesi pedemontani si diffonde l’estorsione, il pizzo, le intimidazioni ed il territorio, la terra da “controllare” e su cui edificare in modo indiscriminato ritorna ad essere la fonte del potere e della ricchezza del neofeudalesimo mafioso.
“La meglio gioventù” sessantottina rimane “fuori gioco”, sconfitta prima ancora di giocare. Mario, Turi, Rosetta “riescono” individualmente attraverso lo studio, l’allontanamento, la cultura, ma sono battuti collettivamente; non si inseriscono nel tessuto sociale e politico del paese, il loro ruolo non diventa mai influente.
Stilisticamente Scalia fa un’operazione formidabile. Restituisce in modo preciso, quasi iperrealistico, il lessico, le frasi idiomatiche, le battute tipiche che abbiamo sentito tante volte giocando a calcio, entrando in un bar di paese etneo o in una sala giochi. Quel modo di esprimersi rivela un universo mentale, una visione precisa della vita e dei modelli di comportamento.
I ragazzi catanesi che parlano così sono i nipotini proletari di Brancati. Ma la “taliata” brancatiana ha perso tutto il suo fascino romantico legato alla fantasticheria e al sogno della donna e si è fatto sguardo di violenza nei confronti della donna, sguardo di degrado.
Quel mondo ha vinto.
Quelli che parlavano così, ora sono sindaci, assessori, imprenditori, liberi professionisti. Sono diventati la classe dirigente della Sicilia. Il libro racconta come questo è potuto succedere e com’è successo sotto lo sguardo impotente dell’opposizione comunista, impegnata a fare i conti con la propria storia, la propria identità, la propria difficile diversità, arrivata in ritardo all’appuntamento con il governo quando con tangentopoli il sistema democristiano va al collasso.
Tutto questo discorso è ben sintetizzato in modo narrativo in un momento cruciale del romanzo, l’implicito spannung, nella partita tra Libertas Mascalucia e Misterbianco, che ha luogo il giorno prima del provino di Paolo con l’Inter. A scontrarsi sono democristiani e comunisti. Non ci può sfuggire il valore simbolico della partita. Ad avere la meglio naturalmente sarà il Mascalucia, grazie ad un rigore “procurato” dal giovane e già “sperto” Lorenti. Paolo non si rifiuterà di segnare quel rigore, firmando di malavoglia il suo destino fallimentare, la sua incapacità ad affrancarsi dall’astuzia e dall’inganno di quel mondo di malaffare. Di contro il sindaco comunista di Misterbianco, una bella figura quasi ieratica, non protesta contro il rigore fasullo, in nome della sportività e del rispetto delle regole.
Concludo citando due versi tratti dalla quarta parte “Dei sepolcri” di Foscolo. “…a’ generosi / giusta di glorie dispensiera è morte” e “E tu onore di pianti, Ettore, avrai… e finché il Sole / risplenderà su le sciagure umane.”
Salvatore Scalia, come un moderno Omero, ha puntato la propria attenzione sul perdente Paolo Malerba, troppo lunatico per vincere, restituendogli onore e gloria.
Secondo uno stantio luogo comune la storia viene scritta dai vincitori, allora è necessario che la poesia, l’arte, si occupi dei perdenti.
Orazio Caruso
Condivido in pieno l’opinione espressa da Francesca Giulia: ‘Il successo non sempre è nella meta o nel mancato raggiungimento di essa,il successo è nell’individuo,è parte di sè,non è una bandiera nè un trofeo,non è l’obiettivo,ma è il percorso stesso e chi lo persegue non arriva mai.Questo però è quella luce che rende una persona diversa dall’altra e certamente non si incarna se non s’intrecciano mani,sguardi,cammino con altri esseri umani.’
Brava Francesca e complimenti all’autore del libro e a tutti voi.
mi interessa molto l’ottica con cui il calciatore viene presentato in questo romanzo: il rivoltamento di un mito. grazie per la segnalazione del post e complimenti per il blog
@ Francesca G+ Livia. Perfettamente d’accordo con entrambe. Una meta, un obiettivo da perseguire sono importanti nella vita; servono da stimolo, servono a dare un senso alla nostra stessa esistenza. Altrimenti subentrerebbe l’apatia, il lasciarsi vivere trasportati dalle onde. Ma guai a farne una sorta di arrivismo a tutti i costi; lasciarsi prendere la mano dall’ambizione sfrenata, che sfocia fatalmente nei sentimenti peggiori: l’invidia, l’arroganza, la soverchieria. Il segreto sta, a mio modesto parere, nel riuscire a trovare un minimo di equilibrio interiore dentro noi stessi, senza esaltarsi troppo nei momenti positivi, ed accettare con serenità i colpi che la vita fatalmente ci infligge. Rendersi conto che nulla ci appartiene, e nulla è definitivo ma tutto procede incurante della nostra piccola quotidianità, seguendo un disegno infinitamente al di sopra di noi.
@Orazio Caruso. dopo quello che hai scritto, qualsiasi commento sarebbe superfluo.
sono contenta di aver trovato un libro per il prossimo compleanno di mia madre.
mia madre, che entra in edicola e chiede “l´unitá, il tirreno e la gazzetta dello sport”.
mia madre che mi porta alle partite della Lucchese (anni di C2, poi C1 poi serie B poi di nuovo C1 poi il baratro del fallimento e quest´anno di nuovo in C2 e che parla di calcio mercato col vecchino davanti.
mia madre che riconosce il fuorigioco e si infiamma per un fallo non fischiato.
mia madre che ricorda tutti i piú bei goal di roberto paci, mario donatelli e tony carruezzo.
mia madre che tifa fiorentina e vota a sinistra, “mai una gioia” ama ripetere.
mia madre che guarda anche reggina chievo se le gira.
il calcio é una passione con la quale si nasce e che sopravvive allo schifo delle curve piene di saluti romani e di tifosi vergognosi, alle veline che sposano calciatori e alle interviste “dopo partita”.
il calcio sono le ginocchia sbucciate di mio fratello, d´estate, quando col pallone in mano andava a chiamare il suo amico marco e gli diceva:
“si fa a scartino? vince chi arriva prima a cento”.
@Lucia. Complimenti per la sana ironia. E complimenti per la storia dei mutandoni ascellari. Ho riso di gusto, sono descritti così bene che uno potrebbe immaginare di trovarci dentro anche la cassaforte segreta di Vittorio Cecchi Gori.
Una gran bella tipa tua madre, spero non sia la stessa signora che un paio d’anni fa, durante l’incontro Fiorentina Catania mi rifilò un paio di ombrellate sulla capoccia. Hai fatto bene a ricordare che nel calcio ci sono anche i vari Roberto Paci, Mario Donatelli e Tony Carruezzo. Molta passione, tanto sudore, pochi soldi, zero gloria.
Nel 1969 Gianni Rivera vinse il pallone d’oro, fu il primo calciatore italiano a conquistare questo prestigioso riconoscimento. Nella motivazione si leggeva tra l’altro “…a un atleta che punta tutto sulla classe e sull’allenamento. valori essenziali specialmente di questi tempi in cui lo spettro del doping aleggia sul mondo del calcio…”. Preso atto, 41 anni dopo non mi pare che sia stato fatto granché.
Carissimi amici, il romanzo di Turi Scalia mi ha accompagnato tutta un’intera notte durante uno dei miei abituali viaggi in pullman da Roma alla Sicilia. L’avevo finito di leggere qualche giorno prima di partire, ma ho sentito il bisogno di ritornarci, di riprenderlo tra le mani come si fa con un corpo amico, dopo averne lasciato decantare le pagine. La loro musica solfeggiava ancora dentro l’immaginazione. Ne sentivo il respiro, ne vedevo i colori – il nero della notte vulcanica… il rosso mitologico del fuoco e del sangue… -, ne sentivo il fremito profondo. E il viaggio è stato sottolineato da un altro meraviglioso e sofferto percorso: una discesa agli inferi di un’esistenza che nel romanzo diviene Opera d’Arte. Turi Scalia possiede la capacità evocativa più propria degli scrittori veri: quella di dare vita, carattere, credibilità alle storie che racconta. Paolo Malerba torna a respirare, a sognare, a soffrire, ma con lui tornano le essenze contraddittorie e poeticissime del suo difficile mondo siciliano. E’ un lasciarsi andare, un accettare l’affondo, che nel finale del romanzo si tramuta in strazio, in toccante consapevolezza. E la realtà, trasfigurata e rimaneggiata opportunamente, diviene assai più di un semplice fondale nel quale calare i personaggi e le vicende. Partecipa alla storia, restituendoci un grado di verità che impressiona, che scuote, che lascia il segno. Davvero i migliori auguri a un grandissimo scrittore come Turi Scalia, che costruisce i suoi romanzi con un’abilità, una precisione, uno scrupolo oggi davvero rari. A lui la mia ammirazione, oltre che l’affetto. Da tutto questo trasuda “impegno”, che è ciò che seduce chi ha ancora una certa idea del “fatto” letterario. Un caro saluto a tutti, e grazie anche a Massimo e Simona di questo bellissimo post…
Per Massimo, Turi Scalia, Simona Lo Iacono, Salvo Zappulla.
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Leggerò questo “Fuori gioco”. Lo leggerò pensando anche alla domanda : Il gioco è metafora della vita o non è piuttosto la vita metafora del gioco?, quasi sicuro – come sono – che la vita sia una sorta di metafora del gioco.
Perché, analizzando il gioco, scopriremo che qualsiasi attività sportiva fin dai tempi di Omero si preannunciava alla stregua di un’attività strumentale, ovvero trovava la sua collocazione tra le strutture funzionali alla società.
Si pensi agli esercizi di bravura e alle gare agonistiche, necessari a tenere allenati i soldati durante le pause delle guerre o delle battaglie.
Si pensi, insomma, come lo sport sia il frutto di una “valutazione concordata”, perché serve – sì serve – allo Stato (e alla società), inserito in una strategia dei bisogni da soddisfare, siano essi effimeri o inventati, oppure superflui. O anche, toh, “primari”.
E si pensi come oggi lo sport, specie il calcio, abbia assunto una funzione distorta rispetto alla dimensione puramente (meramente) ludica che gli dovrebbe appartenere.
Ma oggi, come d’altronde ieri, quand’è che lo Stato o la società non ci mettono il loro dito nelle attività di qualsiasi individuo? Ce lo mettono persino negli affari sentimentali, amorosi. Strumentalizzandoli.
Ditemi che sbaglio, ma temo che no, non sbaglio.
Un caro saluto, A. Bertoli
Lo sport è metafora della vita, sì, ma a patto che rimanga sport. Lo sport attuale è tristemente specchio della vita attuale: una vita mercificata, abbrutita dalla legge del denaro.
Cari amici
ho finito di leggere i vostri interventi e un po’ mi si sono inumiditi gli occhi… anche perché ciò che scrivete mi fa credere in me stesso e mi assolve davanti allo spietato tribunale della mia coscienza letteraria.
Rispondo a Simona sulla struttura del libro.
Innanzitutto una struttura lineare la ritengo usurata dall’eccesso di narrativa industriale, per cui è necessario creare lo scarto. Da qui l’invenzione di due tempi, la distanza di venti anni tra la prima e la seconda parte e l’invenzione di un diario che mi consente, poiché la vicenda è narrata da un’altra persona, di rivelare un altro aspetto del mio io di scrittore, di abbandonarmi al lirismo e di dare spazio anche alla vena poetica. Chi scrive in questo caso non sono io ma il fratello di Paolo. In questo modo creo anche una struttura a specchio in cui le vicende vengono vissute e narrate da un altro punto di vista.
La distanza temporale è infine letterariamente necessaria, perché è quella che intercorre tra il concepimento del sogno e la disillusione, tra il vivere sulle nuvole e la coscienza della caduta.
Per quanto riguarda le mezzelune del centrocampo, il cerchio che compongono è il simbolo della maternità e contemporaneamente della lacerazione, del cordone ombelicale spezzato.
Caro Santo Marletta
la memoria letteraria non ha bisogno di documentarsi, vive soprattutto di sentimenti e sensazioni, più è vaga più è poetica.
…Rientro ora dall’ufficio e trovo…
Un meraviglioso Orazio, una bellissima Francesca Giulia, un sognante Luigi La Rosa e tanti tanti altri condivisibii commenti! (trovo anche Salvuccio…ma sempre uguale, cioè bravissimo…!)
Mi tocca il cuore la commozione di Turi e gliene sono grata, perchè trovo che sia importante per chi scrive sapere che il personaggio donato, offerto, rivissuto e narrato sia entrato nelle vite dei lettori, abbia corso e dormito con loro, li abbia seguiti nelle faccende domestiche o su scale di uffici…sia cioè stato quel compagno silenzioso e notturno che cova nel cuore di chi asseconda la fantasia.
E poi mi piace moltissimo l’idea – che condivido – di Francesca Giulia sulle diverse strade che percorrono felicità e successo…e anzi sull’idea stessa di felicità, sul suo alone di donna in fuga, sulla sua seducente coda di sirena ammaliatrice.
La felicità è forse la cosa più difficile da definire perchè è come l’uomo, cade e si rialza, arretra e avanza, sembra impigliarci e prometterci l’eternità, per poi rotolare tra giorni uguali…
Eppure…
esiste felicità anche nel dolore e nell’insuccesso, esiste un appagamento segreto e ostinato, esiste una lumèra che arde anche quando è buio.
E’ l’uomo che sa dirsi la verità su se stesso, e che dicendosela accoglie gioia e sofferenza, errore e rivincita, allori e fango.
Credo che l’uomo sincero sia sempre felice.
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Ed è forse per questo che Paolo Malerba cade in un’apparente follia.
Scoperta la verità sul mondo, e su gli altri, e su di sè, comprende che l’unica dimensione percorribile è rasentare le vite degli altri, fingersi congelato in parole ripetitive (“Eh…caro mio…”), rendersi irraggiungibile in quella acquisita lucidità di sguardo, in quel dolore smascherato da ogni apparenza.
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Turi, ci parli della follia di Paolo Malerba?
@Lucia: vorrei conoscere tua madre!!!
Quando entra in campo (tanto per restare in tema) la Simo porta sempre una ventata d’aria fresca. Profumo di viole, ciclamini e spruzzate di dolcezza. Donna Simo quando arriva illumina. A Siracusa pare si stiano verificando i primi casi di guarigione. La Chiesa giustamente mantiene cautela.
@Turi. Bellissima questa commozione, ti immaginavo un po’ orso, restìo a esternare i tuoi sentimenti in pubblico.
@Ausilio Bertoli. Dici che lo sport abbia assunto una funzione distorta. Io aggiungo: distorta soprattutto perchè per raggiungere certi traguardi si fa uso di doping, si corrompono gli arbitri, si cercano compromessi. Lo sport non è più sana competizione ma business. D’altra parte in una società capitalistica, l’attività calcistica sulla quale si investono miliardi e fa ruotare attorno a sè molteplici interessi e posti di lavoro (giornali, televisioni, processi del lunedi, del martedi ecc ecc) non può più rimanere una competizione a livello dilettantistico. I personaggi principali, cioè i calciatori, trovandosi in una situazione di libero mercato, trattano liberamente i loro contratti. Contratti principeschi, sicuramente eccessivi, sicuramente scandalosi se si raffrontano con lo stipendio di un operaio. Ma io mi scandalizzo di più per il baget di certi presentatori televisivi pagati con i soldi dello Stato. Mi fermo qui per non andare fuori argomento.
@ Salvuccio…ti benedico…
@Ausilio Bertoli…
E’ purtroppo vero che il calcio ha perduto non solo alcune componenti del passato ma anche il suo profondo senso ludico.
Marcuse a tal proposito sosteneva che “non viviamo in in mondo che va dominato e controllato, quanto piuttosto in un mondo che va liberato”.
Sarebbe quindi bello riportare l’attenzione sul semplice atto del gioco, su quel suo brivido che non è non solo del vincere, quanto piuttosto del liberare vitalità e fantasia, inciampare e sporcarsi, azzuffarsi, soccorrersi, abbracciarsi e spintonarsi…
La sociologia dello sport mette in evidenza la funzione benefica del calcio come mezzo di sfogo dell’aggressività e metodo di rielaborazione sana e giocosa delle avversità.
A Luigi La Rosa
Caro Luigi,
ciò che dici è poetico e toccante. “Ne sentivo il respiro ne vedevo i colori” con questa frase sei stato capace di far sentire il respiro e far vedere i colori a tutti noi. Tu, da scrittore acuto e puntuale quale sei, hai l’abilità di cogliere anche i minimi particolari della scrittura e capisci subito se si tratta di scrittura di pregio. Condivido anche il fatto che Turi Scalia possieda una capacità evocativa eccezionale. Il cra cra delle carcarazze, che aleggiano in tutto il romanzo ne sono un esempio. Il loro verso sa di campane a morto e, come in una tragedia greca, incombe su eventi e personaggi. Il personaggio di Lina ha la funzione delle sirene di Ulisse, ammalia e distrugge, ma il giovane Paolo non ha niente della furbizia di Ulisse e non può difendersi. Un affettuoso saluto.
Maria Rita Pennisi
@ Salvo: io mi scandalizzo di più per gli operai che vanno a vedere scimmiottare sul campo questi super pagati.
Rita cara, grazie. Sei troppo gentile. Per me l’arte è questo: evocazione, emozione, corrente elettrica che passa e che fa accapponare la pelle. Quando non si compie questo, assistiamo a un mero esercizio di stile, oppure a un interessante spunto sociologico. Ma è l’emozione quella che fa l’arte, e la sua differenza. E’ l’emozione che ci strappa dalla brutalità del vivere acchiappandoci per i capelli. E senza di essa non ci sarebbero né l’arte, né gli artisti. Il romanzo di Turi Scalia tutto questo lo realizza, e in un modo che è stile, che lascia il segno. Grazie per le cose belle che avete scritto pure tu e Orazio. A presto. Ti mando un bacio grande grande…
Pardon, sono io l’anonimo. Ho dimenticato di inserire il nome…
@Renzo. Non lo so. Ognuno spende i propri soldi come meglio crede. Io fumo un pacchetto di sigarette al giorno, fra tutte mi sembra la più idiota. Certo che tifare per una squadra di calcio, identificarsi con i colori di una maglietta, oggi risulta più difficile. Gli stessi calciatori non hanno spirito di appartenenza, passano da una squadra all’altra nel corso dello stesso campionato. Meglio la domenica andar per funghi.
@Renzo, tu ad esempio, mi sembra di ricordare hai quel vizietto…meglio non parlarne qui.
A Simona
La follia di Paolo l’ho concepita come una cecità della mente, il non voler vedere ciò che è troppo evidente. E’ il silenzio di chi ha troppo visto e troppo compreso, raggelando l’esperienza amara nella ripetizione di Eh caro mio, che è espressione di rassegnazione ma anche di rifiuto del mondo.
@Salvo: Quel vizietto? Intendi quello che ci accomuna?
Rieccomi qui. Vi ringrazio tutti per i numerosi commenti pervenuti.
Bellissima la recensione di Orazio Caruso… così come il commento di Francesca Giulia e gli interventi di Luigi.
Tantissimi ringraziamenti a Simona e Salvo per il validissimo aiuto nella moderazione e animazione del post.
E poi… un saluto affettuoso a: Maria Rita Pennisi, Livia, Santo Marletta, Lucia, Enza, Barbara X, Enrico Gregori, Ausilio Bertoli, Renzo Montagnoli
(grazie a tutti per i vostri bellissimi commenti)
@ Salvo e Renzo
Il vostro vizietto si chiama Letteratitudine. Ammettetelo!:-)
@ Turi Scalia
Carissimo Turi, ti ringrazio ancora una volta per la tua costante presenza e per le ottime risposte che ci hai fornito.
Mi permetto di consigliare a tutti questo libro: un romanzo appassionante e carico di dolente umanità.
Tra un po’ riporterò su un vecchio post (capirete perché), ma auspico che la discussione qui possa continuare.
Ancora grazie a tutti.
Grazie a te, Massi.
Ti ho aspettato per dirtelo e per augurarti buona notte.
Sono felice di aver partecipato a braccetto con Salvo e sono grata al tuo costante sforzo nel portare avanti il blog, perchè consente a noi tutti di vivere la bellezza.
Buona notte e grazie!
Se il calcio fosse davvero metafora della vita, Berlusconi avrebbe fatto “respingimento” degli extracomunitari Pato, Kakà e Ronaldinho.
Il calcio, ormai, in Italia, ha purtroppo preso lezione dalla vita, si è uniformato al resto dell’Italia. I furbetti si procurano i rigori, chi trucca i bilanci o ha i bilanci in rouge può spendere di più, i poveracci della serie B diventano sempre più poveracci, il pesce grande mangia il pesce piccolo, i calciatori non sono più delle bandiere ma si danno al miglior offerente, nelle inchieste, alla fine, risultano tutti “innocenti”, e via così.
Quello che è triste è che anche i ragazzini di 11 anni lo capiscono: non sognano più. Non sognano più che la loro squadra (se non è una delle “tre sorelle”, ma Checov non c’entra) possa vincere lo scudetto.
L’ultimo sogno, a Napolandia, lo vivemmo 20 anni fa, contro tutto e contro tutti. Un sogno trascritto persino nell’anagrafe. Sono diverse migliaia, qui, i ragazzi di 20-25 anni che si chiamano Diego Armando.
Grazie a te, Simo.
Un saluto a Maurizio.
E una serena notte a voi tutti.
IL SUCCESSO: VIERI, OGGI E DOMANI.
In principio fu lui, il centravanti di lotta e di governo, che incarnò il mito del successo, lui che fu il simbolo vivente del successo: Bobo. Nome da barboncino, viso oblungo, espressione non sveglissima, culturista più che acculturato, dialettica monosillabica. Eppure, conquistò la Regina delle Veline, Elisabetta III (laddove per III si intendeva la misura del reggiseno).
Fu la svolta. Fu il successo. Fu l’esempio per tutti. Anche perchè Elisabetta III era non solo una bella ragazza, ma anche una donna di successo.
L’esempio, per i ragazzini, non fu granché pedagogico.
per salvo zappulla: no, di sicuro non era lei, molto raro che vada al franchi.
ma al porta elisa l’ho vista alzarsi, andare da un carabiniere e far togliere la croce celtica che aveva visto nella curva di fronte.
per simona: per conoscere la mia mamma basta che tu vada o allo stadio una domenica che gioca in casa la lucchese o il primo mercoledì del mese alla riunione di zona del “povero pd” come dice lei, della sezione “Oltreserchio”.
😀
Bene ragazzacci. Io domani parto al Salone di Torino insieme a Massimo. Gli faccio da scorta. La famiglia Maugeri mi ha assunto per proteggere il ragazzo dall’assalto delle fan. Mi sacrifico io per lui. Se qualcuno degli amici si trova nei paraggi e avesse voglia si prendere un caffè con noi
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cari amici un abbraccio a tutti,complimenti a simona e salvo per la conduzione del post e tanti tanti baci e buon viaggio a massimo,mi sarebbe piaciuto venire sono sicura che salvo mi avrebbe fatto ridere al punto da allenare gli addominali!!
magari se fate un giretto pure a napoli per galassia gutenberg il caffè ve lo offro io. 🙂
@Salvo e Massimo: buon viaggio! Salvo non sacrificarti troppo…
@Salvo: vai al Salone di Torino? com’è il barbiere?
Forse perché pessimista sul futuro della gioventù, che vede condannata a una sorte immutabile, destinata a perire come vittima di un universo sempre più destituito di senso, Salvatore Scalia nel suo nuovo romanzo “Fuori gioco” ( Marsilio, 2009), partendo ancora una volta dagli aspetti della vita poco edificanti che producono riflessione e indignazione e lasciano nella memoria immagini di miseria umana e materiale, reinventa e drammatizza la realtà per raccontarci, con scrittura di volta in volta ironica, satirica, grottesca, la storia del giovane Paolo Malerba, calciatore dai piedi buoni ma sfortunato, “filtrata attraverso la memoria del protagonista colto in due momenti essenziali della sua esistenza: da ragazzo alla vigilia della partenza per Milano per un provino con l’Inter; e da adulto che passeggia sui sentieri dell’Etna dopo l’ultima partita”.
In famiglia il padre tormenta il giovane perché lo vuole calciatore affermato (“Per mio padre invece sono ciò che egli desidera”). La madre, invece, crede di cogliere nel figlio le caratteristiche del futuro scienziato. Uno zio, infine, vorrebbe che il nipote diventasse perito chimico. Paolo delude tutti. A scuola non va volentieri, falsifica la firma nella pagella e alla fine si fa bocciare. Mentre giovani e adulti sono impegnati chi a scuola chi al lavoro, Paolo bivacca al bar, oppure, quando è a Catania, si accompagna con sconosciuti nei cinema per racimolare quattrini necessari a comprarsi una pizza, un arancino o per pagarsi una “buttana”. Tutti comportamenti che tradiscono la fragilità psicologica del giovane, il suo bisogno di evadere, di essere altrove per vivere una vita diversa. Ma anche l’incapacità a uscire dall’infanzia e a disubbidire a chi lo fuorvia votandolo all’abisso. E infatti nel contesto del microcosmo etneo, ancora pervaso da una cultura profondamente autoritaria, misogina e sessista e che spesso offre come unico modello di comportamento quello mafioso, fatto di obbedienza cieca confusa con il sentimento della lealtà, “di moralità a rovescio che premia i furbi”, Paolo, privo di punti di riferimento forti sul piano affettivo e culturale, vive “con gli occhi chiusi” e finirà per innamorarsi di una donna ricca e capricciosa che lo tratta come se appartenesse a una razza inferiore. Sarà l’amore autentico che Paolo sente per la moglie del suo protettore, l’ambiguo e corrotto Corvaja, che alla fine porterà il protagonista di “Fuori gioco” a cadere nell’insoddisfazione e poi nella solitudine e nell’isolamento, nella depressione e nell’angoscia. Impossibilitato a riemergere dal suo fallimento esistenziale, Paolo prima si rifugia in un penoso mutismo (indizio del grido di dolore soffocato di chi, trasformatosi interiormente, ora disprezza se stesso), nella chiaroveggenza del nichilista, per sottrarsi all’inferno sulla terra che gli uomini corrotti e che male amministrano quotidianamente costruiscono e perfezionano a danno dei loro simili, per renderli schiavi. Infine, dopo che ha sottolineato poche righe da un ritaglio di giornale (“Poiché aveva atteso per anni che la lava ricoprisse ogni umana nefandezza, fu egli stesso che andò a ricongiungersi con la fonte della vita e del dolore”), si lancia nelle fauci dell’Etna. Nel libro di Scalia metafora del desiderio di Paolo di levarsi in alto sopra le proprie miserie e quelle degli uomini. Luogo-simbolo, insieme al microcosmo etneo, della natura violentata, del mondo ridotto a caos, che offende la vista e l’anima: “Paolo […] Si accorse così che il paese aveva mutato fisionomia. Già si era esteso a corso San Vito, sui terreni del barone che avevano fruttato oro, ora si stava espandendo in tutte le direzioni in un labirinto di vie, viuzze e trazzere, tracciate a caso seguendo i confini capricciosi delle proprietà. Paolo spesso si disorientava perché non trovava più punti di riferimento, dove prima esisteva una vigna sorgeva un palazzo, al posto di un oliveto c’erano villette, persino le aride rocce intorno al santuario della Madonna della Sciara […] erano disseminate di case”.
Lorenzo Catania
@ Lorenzo: bravissimo! Hai scritto una magnifica recensione!
@ Francesca Giulia, grazie! E…un caffè a Siracusa?
@ Massi : Salvo come scorta funziona. Oggi mi ha prelevata allo svincolo dell’autostrada Siracusa- Cassibile perchè mi ero persa. L’ho avvistato da lontano con sollievo (dopo che mi ha lasciata mi sono persa di nuovo).
@ Salvuccio : ancora una volta, ti benedico.
@ Lucia: andrò allo stadio!
@Maurizio De Angelis: che bello un sogno trascritto nell’anagrafe!
Baci a tutti e buon viaggio a Massimo e Salvo!
Simo
@simona sarebbe per me un doppio piacere un caffè a siracusa:l’occasione per fare un giretto nella bellissima sicilia e la conoscenza della brava e stimatissima simona!!non è detto che non ci faccia un pensierino di fare un viaggetto con mio marito!!
bacioni
@ Francesca Giulia: vieni! Te l’ho già detto: pranzetto, sole, mare…caffè!Sono graditi anche i bimbi (io ne ho uno monello che – per restare in tema – mi fa correre come su un campo di calcio!)…
:-)))))))))))))))))))))))))))
prometto che ci penserò seriamente!
un abbraccio e grazie
Vi ringrazio tutti per i nuovi commenti.
In special modo Lorenzo Catania per la bella recensione.
@ Salvo Zappulla
Salvatore di nome e di fatto, dunque…
E hai lasciato pure il cellulare!!!
Se dovessi sorprenderti a molestare una delle mie fan ti metterò “fuori gioco”.
Puoi scommetterci!:-)
Ho avuto modo di partecipare alla presentazione siracusana del libro di Scalia, che mi ha dato l’impressione di un signore d’altri tempi, garbato e perfino stupito delle lodi al suo romanzo
Il romanzo è intensissimo, denso delle memorie giovanili dell’autore – una Mascalucia che riemerge intatta come da sotto una colata lavica raffreddata dal tempo – e auguro a Scalia tanti gol letterari, arbitri giusti e tifo scatenato…
Mi è piaciuto molto il leit motiv dell’Etna, simbolo della natura umiliata e offesa da inquinamento e abusivismo ma che alla fine si riprende quello che è suo…
Un caro saluto ai viaggiatori Massi e Salvo, a Maria Rita Pennisi – mitica! – e ad Orazio… ed anche al caro Luigi…
Un saluto a tutti e spero davvero di incontrare qualcuno in Fiera. L’ultima volta con Gaetano ho rimediato un pranzo gratis.
Tenete d’occhio la Simo nel frattempo perchè quando guida è un pericolo pubblico. Doveva andare all’ippodrimo per un’intervista e ha fatto sette volte il giro dell’ippodrimo, poi per errore è entrata dal cancello sbagliato e si è ritrovata nella pista dei cavalli. I poveri animali, scambiandola per la macchina dell’apripista hanno cominciato a correrle dietro. E’ successo un casino tale, che l’ hanno diffidata a girare nei dintorni di Floridia per i prossimi dieci anni. Simonuccia, ti porto un navigatore satellitare da Torino, così vai tranquilla.
🙂
Ciao Salvo… beh, la nostra Simo non sarà Schumacher quando guida, ma quando scrive sì… mi raccomando a Torino! Massi è nelle tue mani, riportacelo sano e… Salvo!
@Salvuccio…mio eroe!
@Mari: diglielo a Salvuccio che in genere sei tu il mio navigatore (Ricordi per andare a Catania? …”Simoooooo:terza, quarta, quintaaaaaa”….)
l’incontro tra letteratura e sport ha spesso regalato perle, piccoli grandi capolavori. penso vi sia una relazione profonda tra le dinamiche sportive e la narrativa. questo bel libro ne è l’ennesimo esempio.
Cari amici di Letteratitudine,
ho letto anche io il nuovo romanzo di Turi e ci tengo a sottolineare una sensazione che mi sorprende sempre quando leggo le pagine dei suoi scritti. La straordinaria sensazione di respirarne l’intensità. Come è possibile respirare gli odori dei luoghi, degli ambienti, delle persone, così si respirano le emozioni dei suoi personaggi. Emozioni sulle quali, in Fuori Gioco, domina l’opprimente delusione che porta il protagonista ad un’apparente follia. Per quanto la delusione che scatena il vulcano dentro Paolo Malerba non sia tanto la sua, piuttosto quella di un padre che costringe il proprio figlio ad inseguire un sogno, senza chiedersi se quel sogno, il figlio, lo nutra davvero. Alimentando una solitudine inesorabile e fragile che, crollata ogni speranza di riuscita, diventa per Paolo l’unico luogo nel quale rifugiarsi. Fuori dal gioco. Fuori dal mondo.
Se è il gioco metafora della vita o la vita metafora del gioco, non lo so. Un pò e un pò, forse. Tu che dici, Turi?
“Pensare con i piedi” è un libro del giornalista e scrittore argentino Osvaldo Soriano, a cui inevitabilmente il bellissimo romanzo “Fuori gioco” di Salvatore Scalia fa pensare (anche se l’Autore ha dichiarato di non averlo letto) e, come in quel libro, anche qui, io credo che questo “pensare coi piedi” sia simbolo di diversità, dell’ “imperfezione” di personaggi universali che riflettono quanti di noi si accaniscono a giocare partite senza fine contro l’avversario più temibile, se stessi. E, tra loro, innanzitutto gli intellettuali di una generazione (la mia e quella di Scalia) orfana di padri e che ha visto naufragare senza scampo ideologie a cui aveva fortemente creduto, dalle cui ceneri (evviva) sono nate idee (di nuovo evviva!) e talora (come nel caso di Scalia) ottima letteratura.
Un grazie di cuore ad Ang, Ornella Sgroi e Marinella Fiume per i loro preziosi commenti.
Come una medusa trasportata dalle correnti, sono qua anch’io.
Un po’ in ritardo, forse, ma poco importa.
Spolpati voracemente i vostri post, appetitosi come lasagne al forno, la mia recesione su FUORI GIOCO è bell’e pronta.
Sarà in tutte le edicole sicule nel nuovo numero de LA ZONA FRANCA, mensile di inchiesta, approfondimento e cutura.
Nulla’altro da aggiungere, se non i miei sinceri saluti e ringraziamenti.
Alessandro Russo 3472963713 aerre2@inwind.it
PS Quasi dimenticavo: anch’io ho pubblicato un libro che sfiora il mondo del pallone, “ANGELO MASSIMINO, UNA VITA PER (IL) CATANIA”. E’ dedicato all’ultimo eroe romantico di un calcio che non c’è più, un uomo, mio nonno, capace di tutto fuorchè arrendersi.
A.
Difficile non rimanerne rapiti, affascinati. Difficile giungere fino all’ultimo capoverso con un interesse scemato man mano che le pagine da leggere diventano sempre meno.
Difficile perché, come spesso accade nei romanzi, la retorica a un certo punto fa la propria apparizione possente, trova uno spazio tutto per sé e tiene compagnia a facili moralismi e scontate traiettorie linguistiche.
E per questo che, in un tempo in cui, in buona parte dei casi, apparire è pubblicare e pubblicare è apparire, leggere “Fuori gioco” (Marsilio, pp. 125, euro 12) di Salvatore Scalia, è una salvifica boccata d’aria in una mare di insignificante, facendo i dovuti distinguo, presunzione letteraria.
Protagonista un giovane di Mascalucia, paese alle falde dell’Etna, violato da una cementificazione selvaggia che negli anni Settanta – Ottanta ha impoverito buona parte della zona etnea, ma potrebbe benissimo essere un giovane di un qualunque paese di provincia, potrebbe benissimo essere uno dei tanti alla ricerca di se stesso fra palloni da calciare e prostitute da pagare per soddisfare biologici desideri sessuali.
E se la dimensione tempo – spazio è ben precisa, non facciamo comunque fatica a trasporre il tutto nel presente in desideri e fallimenti che non conoscono unità definite e non rimangono ai margini di apparenze letterarie.
La veridicità dell’eloquenza ci conduce nel dire tratteggiato da cadenze dialettali di un “parlato” locale a volte intinto di espressioni colorate che regalano una nota in più al racconto che sfocia in una parabola esistenziale senza goal finale.
La “porta” di un campo di calcio diventa, quindi, metafora di sogni senza i quali risulterebbe difficile andare avanti, proseguire nel comune cammino di tutti i giorni.
I sogni affidati alla memoria, a quel percorso lento ma incisivo, costante, pieno che solo il ricordo sa trasmetterci per premiarci o punirci.
Ed è la memoria quella a cui Scalia fa riferimento rivedendo e rivivendo un lontano novembre 1969 fino a approdare al mese di ottobre del 2001.
La memoria fatta di parametri messi a confronto si esterna nella parola che non si piega a effimeri bagliori ma che si trasforma in valore esistenziale.
Memoria a cui non si ci può sottrarre e che induce l’autore a volere ripercorrere la vicenda di un uomo, la vita di tanti.
E lo fa regalando al lettore ora la misura di giusti sentimenti, ora di inverni dell’anima con una soluzione finale degna di nota, quasi poetica, toccante, a tratti commovente, nella favola realisticamente triste che, per sfortuna se non in toto, almeno in parte, diversi giovani hanno vissuto.
E quell’immaginario pallone, significante di dimensioni sociologiche, che non oltrepassa la rete per restarne fuori a un centimetro dalla vittoria stringe il cuore forse più della stessa malformazione congenita che impedirà al protagonista la sua ascesa alla gloria calcistica.
Il resto è nelle parole dell’autore, giornalista per vocazione che, come già nel suo romanzo d’esordio “La punizione”, sempre edito da Marsilio, apre il nostro cuore a vissuti sconosciuti o già dimenticati.
“…Nella sala d’aspetto del giornale si presentò un ometto esile, pallido, timoroso anche dell’ombra sua. Avevo deciso di incontrarlo per scrupolo di coscienza. Finalmente mi sentivo liberato da una storia che mi aveva tormentato l’immaginazione per anni. Sapevo perfettamente che non avrei cambiato una virgola, avendo scelto deliberatamente di scrivere basandomi sui ricordi ed emozioni…”.
Le stesse emozioni lasciano spazio alla riflessione e si collocano non ai margini del dire ma nell’essenza stessa del dire in una testimonianza priva di effimeri bagliori e profetizzanti orpelli.
Rita Caramma