Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato al volume “Giovanni Verga. Saggi (1976-2018)” di Romano Luperini (Carocci).
Il volume, che presenta tutti i saggi verghiani che Romano Luperini ha scritto fra la fine degli anni Settanta e oggi, ricostruisce la figura di un grande scrittore il cui uso dell’impersonalità copre e nasconde una vicenda autobiografica nella quale è possibile riconoscere il destino non solo di Giovanni Verga, ma in generale dello scrittore moderno. Verga vive la condizione dell’artista ai margini, periferico, spossessato della propria funzione tradizionale. Un artista il cui punto di vista non coincide mai né con quello dei vincitori né con quello dei vinti ma è alla ricerca di un “terzo spazio” fra quello degli oppressori e dei vincitori e quello degli oppressi e dei vinti.
Di seguito pubblichiamo uno stralcio della prefazione di Luperini.
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L’idea, a lungo coltivata, che esista “una barriera del naturalismo” e che la modernità cominci solo al di là di essa, non regge alla prova dei fatti. Pirandello e Tozzi partono da Verga, recuperandone spunti espressionistici (lo stile scorciato, l’opzione per il grottesco, il montaggio “cinematografico”) e l’assenza di mediazione narrativa prodotta dalla caduta della prospettiva onnisciente (con Verga si entra nel campo, direbbe Pirandello, della scrittura “senza autore”). In realtà è molto maggiore la distanza che divide Verga da Manzoni da quella che lo separa da Pirandello. La svolta del 1848, sottolineata con forza daLukács, a cui bisogna aggiungere, in Italia, quella del 1860-61, si fa sentire.
Verga apre una frattura su cui si inserirà la ricerca più avanzata del primo Novecento. È, questa, una coscienza critica che comincia lentamente ad affermarsi, e chi scrive ne aveva illustrate le ragioni già all’inizio degli anni Novanta.
Si può parlare allora di un’area modernista che congiunga Verga, Pirandello, Tozzi e, addirittura, Svevo? È questa la proposta di Pierluigi Pellini. Secondo Pellini, un francesista e un italianista cui vanno riconosciuti grandi meriti anche nella critica verghiana, «il naturalismo […] è un movimento letterario decisamente modernista». Anzi, «sarebbe l’ora che si affermasse anche in Italia, come da tempo nei paesi anglosassoni, e recentemente anche in altre aree culturali, il concetto di modernismo». E aggiunge:
A me pare ovvio che, alle esigenze del periodizzamento storico-letterario, parlare di modernismo per il migliore verismo, per Svevo, Pirandello e le avanguardie, farebbe un ottimo servizio. Anche perché permetterebbe finalmente di mandare in pensione l’improbabile e immensamente fortunata etichetta di “decadentismo” – uno strano movimento in cui trovano posto Fogazzaro e d’Annunzio accanto a Svevo e Pirandello: e cioè scrittori che alla modernità appena, e contraddittoriamente, si affacciano, insieme a coloro che la interpretano ai massimi livelli; e da cui resta escluso Verga, che dei secondi è il più importante maestro.
In questa proposta si mescolano esigenze giuste e ragioni che invece andrebbero più attentamente vagliate. È giusto sottolineare la modernità di Verga e le ragioni che spingono Pirandello e Tozzi (piuttosto che Svevo) ad assumerlo a maestro e che dunque stabiliscono una certa continuità (da non enfatizzare eccessivamente, però) fra gli anni del naturalismo e quelli dell’espressionismo e della grande letteratura sperimentale e innovativa d’inizio secolo. È giusto anche (io lo sostengo quasi da un quarto di secolo, e precisamente dal Novecento, uscito nel 1981) discutere i confini del cosiddetto “decadentismo” e sottrarre al suo territorio autori come Svevo e Pirandello, da inserire piuttosto all’interno della grande stagionedel modernismo europeo (fra espressionismo, nel caso di Pirandello, e “romanzo aperto”, nel caso di Svevo). I loro capolavori non hanno in effetti nulla a che vedere con i romanzi di d’Annunzio o di Fogazzaro ma anche di Huysmans o di Wilde.
Non mi pare invece possibile fare del modernismo un contenitore analogo al disprezzato “decadentismo”, che d’altronde è una etichetta come un’altra e, una volta affermatasi storicamente (e il termine ha, nella critica, una storia ormai secolare, oltre a essere un’autodefinizione di un gruppo di scrittori francesi, i décadents, appunto), tanto vale accettarla e ridefinirla piuttosto che abolirla. Huysmans, d’Annunzio e Wilde si confrontano certamente con la modernità; le danno, non è difficile ammetterlo, risposte regressive, ma tutta la loro opera si situa su quello sfondo. Per reazione al moderno esaltano l’estetismo, un atteggiamento aristocratico, un simbolismo panico e irrazionalistico: tutti aspetti che li differenziano da Zola e da Verga, ma anche da Svevo, Pirandello, Joyce, Proust. D’altronde il modernismo ha a che fare con tecniche e ideologie decisamente antinaturaliste e con una letteratura sperimentale e fortemente innovativa. Nella letteratura inglese si parla di Modernism per definire una tendenza affermatasi fra gli anni Dieci e Trenta grazie soprattutto a Pound per la poesia e a Joyce per la narrativa: nessuno ci includerebbe, per esempio, Anthony Trollope o George A. Moore o Charles Reade o altri naturalisti.
Verga e Pirandello sono certamente distanti dal simbolismo “decadente” di d’Annunzio, e duramente polemici nei suoi confronti. Ma fra i due, e ancor più fra Verga e Svevo, ci sono differenze importanti che è impossibile dimenticare. Anzitutto culturali: si passa da una concezione oggettivistica a una soggettivistica, dal materialismo d’origine positivistica e spenceriana del primo al relativismo degli altri due: nel mezzo ci sono stati Nietzsche, Bergson, Freud, e si sente. Fra l’impersonalità verghiana o zoliana, che presuppone criteri scientifici e cerca di concretizzare l’ipotesi teorica dello scrittore come sperimentatore in laboratorio, e l’umorismo di Svevo e Pirandello, che sconta il definitivo tramonto anche di questo ruolo, gli elementi di discontinuità sono fortissimi. E poi c’è una differenza generazionale che non può essere dimenticata: Verga si è formato in età preunitaria, ancora romantico-risorgimentale, e ha vissuto il crollo delleideologie della sua giovinezza; Pirandello e Svevo si sono formati invece in età postunitaria, quando la crisi delle visioni del mondo ottocentesche era già avvenuta o comunque era avviata da tempo. Insomma, naturalismo e modernismo non sono sovrapponibili, ma designano due periodi diversi. Che poi il primo possa preludere, in certi autori, ad alcuni aspetti del secondo (è questo appunto il caso di Verga) è indubbiamente vero, ma ciò non basta ad autorizzare rischiose confusioni.
In conclusione. Il naturalismo non costituisce più la barriera oltre la quale avrebbe inizio la modernità letteraria, come amavano credere i teorici della neoavanguardia. Il moderno nella letteratura italiana comincia con Verga, che da un lato pone in discussione in modo radicale e, in Italia, definitivo la figura del narratore onnisciente e, dall’altro, sotto l’idea di una vita ridotta a lotta crudele di tutti contro tutti, fa scorrere una banalità di eventi che celano un vuoto sostanziale e il non senso dell’esistere. Ma dopo Verga, nel quindicennio che va da Il piacere di d’Annunzio a Il Santo di Fogazzaro, si può benissimo parlare di “decadentismo” per designare il periodo in cui hanno prevalso estetismo, irrazionalismo e simbolismo (tutte tendenze, peraltro, che nel romanzo non hanno neppure posto in discussione la tradizionale forma chiusa), distinguendolo però dall’età, assai più profondamente sperimentale, dell’espressionismo, del modernismo e delle avanguardie (quella tra Il fu Mattia Pascal e La coscienza di Zeno). Ogni movimento letterario, dal romanticismo a oggi, ha in realtà la durata di una generazione (vent’anni, o poco meno). Meglio coglierne la specificità che annullarlo in contenitori troppo vasti.
(…)
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