POST DEL 22 MARZO 2009
Ho appena appreso la notizia. Giuseppe Bonaviri, uno dei più grandi scrittori del Novecento, è morto ieri sera (21 marzo 2009) all’età di 84 anni. L’avevo incontrato di recente – nel mese di maggio dell’anno scorso – presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania. Giorno 19 marzo l’aspettavamo al Palazzo della Cultura in Via Museo Biscari 5, a Catania, per un pubblico omaggio organizzato da Sarah Zappulla Muscarà e Enzo Zappulla in occasione della ri-edizione de «La ragazza di Casalmonferrato», (romanzo del 1954) – La Cantinella. Le condizioni di salute non gli hanno consentito di essere presente.
A lui il mio e il nostro pensiero…
Non aggiungo altro. Ripropongo il post pubblicato martedì, 4 novembre 2008: Omaggio a Bonaviri.
In coda potrete leggere una lunga intervista esclusiva che Giuseppe Bonaviri ha rilasciato a Massimiliano Perrotta (che ringrazio per avermela concessa).
Grazie, Giuseppe, per le grandi opere letterarie e i bellissimi scritti che ci hai lasciato.
Massimo Maugeri
P.s. In data 15 settembre 2011, questo post è stato tradotto in lingua estone e pubblicato qui.
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Post di martedì, 4 Novembre 2008
È con molto piacere che dedico uno spazio “speciale” a uno dei grandi autori del Novecento letterario italiano: il più volte candidato alla vittoria del Premio Nobel, Giuseppe Bonaviri.
Sarah Zappulla Muscarà, nella sua prefazione alla nuova edizione de “L’infinito Lunare” (Bompiani, 2008, € 9,20, p. 264), lo presenta così: “Giuseppe Bonaviri è nato l’11 luglio 1924, “al canto delle cicale”, a Mineo, paesino alto su un monte, in provincia di Catania, fondato da Ducezio, re dei Siculi. Lì erano nati nel Seicento il padre gesuita Ludovico Buglio che, nel corso della sua lunga vita missionaria in Cina, pubblicò ben ottanta volumi, fra cui la Summa teologica di San Tommaso d’Aquino, in elegante lingua cinese; sempre nel Seicento il poeta Paolo Maura, autore del poemetto autobiografico in dialetto siciliano La pigghiata (La cattura); e nell’Ottocento Luigi Capuana, uno dei maggiori esponenti del Verismo, i cui interessi spaziarono dal giornalismo alla narrativa, alla critica, alla poesia, alla favolistica, al teatro, allo spiritismo. Da queste radici geografiche e antropologiche – “A Miniu li pueti a ccientu a ccientu / pirchì è lu mastru di lu puitari”, come suona il detto popolare – scaturisce il canto, sorretto dalle più variegate letture, di Bonaviri. Il suo esordio risale al 1954, con “Il sarto della stradalunga”, apparso nella collana einaudiana “I gettoni”. Da quel lontano romanzo che, come ben intuirono Vittorini, Calvino e la Ginzburg, rivelava nel giovane sottotenente medico lo scrittore di razza, Bonaviri non finisce di stupirci. “Le sue cortesie sono come i frutti del giardino di Armida, che ‘E mentre spunta l’un l’altro matura’”: così da Mineo il 24 giugno 1884 il conterraneo Luigi Capuana a Federico De Roberto. Lo stesso potrebbe dirsi dei dolci frutti di Bonaviri. Di quelle “possibilità infinite di conoscenza” che gli riconosce Sebastiano Addamo. Gli è che dalla mitica pietra della poesia dell’altipiano di Camuti, contrada di Mineo, odorante “di fior di nepitella e di iris”, “Parnaso siculo”, “Elicona dei rustici poeti”, l’omphalos dei greci, di cui narra anche il medico palermitano studioso di tradizioni popolari Giuseppe Pitrè, lamento doloroso e nostalgico, specola dell’anima, patria incorrotta della memoria, dalla madre donna Papè Casaccio, “decameron vivente”, dal padre don Nanè, l’ingenuo poeta de “L’arcano”, per misteriose, labirintiche vie ctonie e cromosomiche, Giuseppe Bonaviri ha ereditato il “potere di fare miracoli” che possiede il vecchio “Gesù a Frosinone”. Il potere incantatorio del narratore in grado di dar vita a quella suspension of disbelief di cui parla Samuel Coleridge.”
Mi piacerebbe organizzare un grande dibattito sulla figura di Bonaviri. E per farlo mi avvarrò del supporto della già citata Sarah Zappulla Muscarà (ordinaria di Letteratura Italiana nell’Università di Catania), e della sua prefazione a “L’infinito Lunare”, di cui avete già letto uno stralcio qui sopra; del critico e scrittore Subhaga Gaetano Failla (il quale, tra l’altro, mi darà una mano a coordinare e a animare la discussione), che ci offre un’intervista al celebre autore di Mineo (l’intervista, realizzata insieme alla sorella Valeria Failla, è apparsa sulla rivista cartacea “Orizzonti” n. 26, aprile-luglio 2005); e di Rawdha Zaouchi-Razgallah (italianista e docente di letteratura italiana presso l’Università del «7 Novembre a Carthage» di Tunisi), che ci offre un duplice spunto (e punto di vista) sulla scrittura di Bonaviri.
Nei prossimi giorni aggiornerò il post introducendo alcune immagini e un video da me realizzati nel mese di maggio di quest’anno presso la facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Catania, in occasione di un pubblico incontro con Bonaviri.
Il dibattito è incentrato sulla figura di Giuseppe Bonaviri e sulle sue opere (cercherò di coinvolgere gli amici della Fondazione Bonaviri); ma ne approfitto per proporre un argomento di discussione collaterale che, in parte, abbiamo già avuto modo di affrontare in altre occasioni. Nella prefazione della Zappulla Muscarà a “L’Infinito Lunare” leggiamo il seguente stralcio virgolettato: “Credo che per colui che scrive non per mestiere ogni libro rappresenti come un immergersi in un labirinto di se stesso per entrare dentro, per mezzo delle parole, in un disagio vitale che soltanto con la pagina scritta si può curare”.
Esiste davvero un potere salvifico della scrittura? E fino a che punto la scrittura è in grado di curare il disagio vitale?
Non credo che Bonaviri avrà modo di partecipare al dibattito, ma di certo ne sarà informato in maniera dettagliata.
Massimo Maugeri
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L’INFINITO LUNARE – Bompiani, 2008, € 9,20, p. 264
introduzione di Sarah Zappulla Muscarà
Accomunati da un sottile filo rosso, il clima di fiaba, d’onirica, surreale, inquietante evasione dalla grigia e triste realtà quotidiana, in assoluta libertà d’immaginazione, i dieci racconti della silloge L’infinito lunare di Giuseppe Bonaviri, apparsa per la prima volta nel 1998. Teso a colmare, per il tramite di un novellare che è, come in un quadro di Chagall, “perpetuo inseguimento del desiderio”, la sua (e nostra) solitudine di vecchi prometei incatenati, in perenne lotta nell’inane tentativo di svincolarci dai ceppi dello spazio e del tempo. Specularmene vi coesistono le molte sue anime di scrittore, medico, scienziato. Così come dialetticamente vi coesistono sicilianità e universalità. Nella consapevolezza che “tutto è vano travaglio”, “‘noi siamo simili alle foglie che nascono e poi muoiono’ negli incantati boschi di mandorli e querce e pioppi e carrubi della Sicilia, circondata, di là dal comune mare, dall’Oceano che sempre risuona”, e inutili sono “i sillogismi della mente” in cerca di Dio, “ruotante natura”, “aura perfetta”, “Uovo-centrale”: “l’anima muore e rinasce da un gioco di pensieri e d’angosce”. Né vale imprecare “contro quel povero cristo dell’autore”, “uomo musolungo nato per vivere in solitudine”, vocato all’affabulazione, finito per sempre impigliato nel suo stesso teatrino di stupori, che fa confondere “fra realtà e sogno anche noi poveri spettatori”. È la sartriana morbosità di creare, “necessità primaria e univoca”, “fine assoluto e dirompente, di fronte al quale ogni altro accadimento si pone in sottordine”.
Al pari della tela di Max Ernst, L’occhio del silenzio, dove emergono prepotentemente, suggerite dall’inconscio, emblematiche, allucinate immagini di un insoffribile quotidiano, in Martedina il narratore, che s’identifica con l’autore, per quel forte tasso di autobiografismo che ne sorregge l’intera opera, per quel continuo intrecciarsi di piano del vissuto, piano della creatività, piano del fantastico, mal conciliando lavoro e denaro con il guardarsi dentro, col magmatico fluire degli umori, per narcisistico amore di sé votato all’unicità dell’arte, intraprenderà un viaggio interplanetario verso Plutone: “Credo che per colui che scrive non per mestiere ogni libro rappresenti come un immergersi in un labirinto di se stesso per entrare dentro, per mezzo delle parole, in un disagio vitale che soltanto con la pagina scritta si può curare”. La scrittura è sofferenza, ma sofferenza liberatrice, esplorazione dell’io e dell’universo, ricerca di felicità, seducente infermità eppure fonte inesauribile di guarigione, benefica terapia, “per il resto, è caduco il vivere”.
Abbandonata Mineo per sposare Martedina, una ragazza di Casalmonferrato (“‘Di Casalmonferrato?’ mi chiese mio zio Giuseppe quando lo seppe. ‘Sei il primo parente che sceglie la propria donna fuori Sicilia; in Piemonte, per giunta. In qualche punto, la nostra famiglia comincia ad incrinarsi’”), il medico Zephir (sotto il cui nome l’autore anche altrove ama celarsi) si trasferisce a Valfrancesca con la moglie, paga della sua semplice vita, affollata di gozzaniane piccole cose inutili. Ma, gravato dall’indomita inadeguatezza a vivere con colleghi venali, primari, assistenti, nei quali non si riconosce, tenta altre imprese. Liberatosi del lavoro in ospedale, fatto di “ore contate”, di “notti insonni”, di “uomini che muoiono”, per il fallimentare commercio di uova, galline, conigli, il riscatto dalla misera condizione giunge dal cosmo, da un folle volo su una navicella lanciata ai confini del sistema solare. Con gli altri astronauti tuttavia Zephir vive nel ricordo di quanto di più puro ha lasciato sulla terra, ora nostalgico dei domestici lari, degli affetti parentali, dei luoghi dell’infanzia, dei riti, dei profumi, della natura. Per l’inquieto medico (“Figlio, la tentazione non è perdizione, ma inquietudine. Chissà, se non ci sarà inquietudine anche nella morte”) e gli ardimentosi compagni nessun approdo possibile, perduti come sono nell’infinito silenzio della dimensione stellare, lontani anni luce dalla terra, naviganti tra “globi di fuoco candido. E poi vuoto e scuro. E ancora globi luminosi e circolari”, annichiliti infine da “una cascata di mondi e di sonno”: “Il sonno mi venne incontro col rombo di un fiume. (…) E chiamai ’Alqama, Runa, Giamil, Ayala. Mi parve che mio padre, al-Aggiàg, e il vecchissimo nonno Shimon mi venissero incontro dalla sotterranea Alcamuch (…) e di camminare addormentato su un carretto di là, a Zebulonia, il mio paese, verso il piano di Camuti, venendo da Vallenuova, in una notte in cui c’è solo uno scintillio di stelle, e Martedina e mia madre Alulia e i miei figli sono morti e non si sente nessuno, né il vento che chiama i pastori né l’uggiolio dei cani che viene dalle chiuse degli ulivi”.
Si assiste, in Martedina, ad una progressiva rarefazione del vivere. Gli intensi profumi ed i vivaci suoni del mercato, del fiume Liri, dei campi e delle strade di Valfrancesca, si scolorano nella bigia monocromia degli abissi spaziali, pervasi dal buio, dal silenzio, dalla fissità. Al calore della vita quotidiana, rinsanguata da semplici gioie e dolori, a minime e pur intense emozioni, si contrappone il gelo, progressivamente anche interiore, di un viaggio che vuole essere fuga ma che diviene itinerario di morte.
Il Viaggio astrale del “dormiente Zephir” che “dissolse nel sogno l’intricato reale” è ancora “un veleggiar verso la morte” (Arthur Schopenhauer), “inutile polvere stellare”, “annerita spirale” sulla quale si aggroviglia il pensiero speculativo dipanandosi da Eraclito a Platone, da Spinoza a Kant, dall’esistenzialismo al fenomenologismo, dalla teoria della razionalità scientifica all’anarchismo metodologico: “È una forza antigravitazionale che mi sospinge, figlio, / fuori dal dilettoso mondo, costretto io / ormai dall’espansiva ruota di galassie / e supergalassie, mari illimiti che rilucono / in distorsioni di tempospazio che ci intinge / e ci trasfigura, flusso di fotoni anch’io / in una equivalenza massa-energia / e in apparente simultaneità di ritmi stellari”.
L’insistito tema del viaggio, come la scrittura anch’esso sanità, è indomita ansia di conoscenza, inesausta esplorazione esistenziale husserliana, “antinoési”, “anti-pensiero”.
Altro viaggio nel cosmo Giovanni Verga sulla luna, “la commediola buffa” nella quale agiscono, con Verga e il suo immortale personaggio, mastro-don Gesualdo, moderni eroi dell’immaginario infantile, il cartone animato Sailor-moon, il bonario attore comico americano Ollio, un gruppo di cento bambini di cui capomanipoli sono Leopoldo e Niccolò, nipotini dello scrittore, gente comune di tutte le razze, esponenti di una società feroce, regnanti, magistrati, manager, artisti, uomini di malaffare. Un viaggio che ha luogo nell’anno 3223 e origina da quelle terre che “una volta si stendevano fra Vizzini, Licodia Eubea, Mineo, Francofonte, e giù andando verso Scordia e Palagonia” dove “non erano rimasti né boschi di ulivi, né solitari noci, né, altresì, siepi di polverosi fichidindia, o mandorli, o aranceti, né si vedevano volare, nel ventilare del mattino, falchi e sparvieri sui poggi rocciosi”.
In tensione fra essere e apparire, la Sicilia, terra di ancestrali contraddizioni e di stravaganti antinomie, non ha alimentato di sé un giuoco ironico volto a scardinare, o forse burlare, le leggi dello spazio inteso nella sua duplicità di spazio concettuale e spazio percettivo?
Un incessante trascorrere dalla sofferenza umana alla ricerca dell’essere, dall’individuo ai sassi, alle piante, agli uccelli, al firmamento, dal microcosmo al macrocosmo. Ma l’estraneazione dalla realtà, la vena fantastica, la dimensione magica, la metamorfosi, la trasmigrazione e trasmutazione nel tempo e nello spazio, sospinto da un mitico, epico e pur fragile ulissismo, una costante dell’opera in versi e in prosa di Bonaviri, non è disimpegno politico-sociale, giacché su Plutone o sulla Luna reiterati sono i riferimenti critici alla contemporaneità e persistono angosciosi interrogativi, aspirazioni, desideri, sofferenze, malinconie, solitudini. La mente corre al silente universo di Isaac Asimov. O alla “miseria aguzza come selci” dell’infanzia a Mineo, densa di tenaci memorie. E non solo. Caustica la denuncia delle iniquità dei Grandi della terra – “gli adepti alla Massima Associazione per l’incremento dell’Oro” che hanno organizzato “per il progresso della scienza” l’allunamento di violacee astronavi –, politici, le cui ambigue parole dai “toni lugubri” brillano di un “nero opale”, cardinali “che non amano Cristo”, industriali, ministri, mafiosi. Scopo della missione studiare le modalità per distruggere la Luna “di grosso ostacolo alle relazioni umane interplanetarie”; utilizzare i “picciriddi”, i “poveri children”, per i trapianti d’organi e per creare un circuito di clonazione degli “Eletti”; risolvere il problema “di milion di milion di milion di milioni” di disoccupati lanciandoli “nel sistema planetario e oltre”. Un potere col tempo sempre più spietato. Una satirica messa in stato d’accusa dell’umanità intera con swiftiano sguardo ilare e amaro come in La Beffària. Mentre “scrittori e scrittorelli, poeti e poetucoli, pittori e dipintori, scalpellini, scultori, attori, attrici e attricette pampanose”, cantautori “dalle chitarre ripiene di miliardi” sono preda di uno “sconfinato narcisismo” e Beethoven si rammarica di non aver mai pensato ad una “teoria musicale, con aggiunti pentagrammi, dei suoni fecali e stercoracei”, di certo “immortale per… la storia dell’uomo”.
In sovvertimento cronotopico, vi affiora il lucido farneticare della ragione e della fantasia della fiaba teatrale Giufà e Gesù, dove medesimi ingredienti – il narratore-cantore di cui si ode soltanto la voce, il cartone animato fatto con “carta, polistirolo, pongo, colori, creta, juta, sensori, fili e filetti intrecciati, resine, e terra d’ocra”, i bambini, con a capo Leopoldo e Niccolò, approdati sulla Luna stavolta per essere salvati, il musicista Beethoven, la commistione di prosa e versi – sono amalgamati con funambolica visionarietà e deflagrante accusa dei mali, delle storture, delle follie della società contemporanea.
Una sotterranea carica eversiva, umoristica, parodistica, percorre la scrittura bonaviriana. Come quando Ollio ricorda che i pescatori delle sue scogliere di San Francisco tiravano a riva reti piene, oltre che di gozzi, meduse, polipi, dentici, saraghi, saramaghi, pescispada, di “pesci-fo ridenti” e perfino di “pesci-d’alema con baffetti da cui nascevano i pensieri”; o racconta la fiaba di un mondo dove tutto succedeva alla rovescia, “se uno ammazzava dieci, venti, o quaranta persone facendo finta di pentirsi diventava collaboratore di giustizia e, a poco a poco, salendo nella scala gerarchica, giudice di prima istanza”; dove tutti volevano divenire miliardari e regnanti, una corsa all’oro che “si scovava anche fra la cacca degli uomini”; dove “i Regni si creavano e si ottenevano subito con le guerre”. Né mancano Elena di Troia, “oh, no, sbaglio, di Troina in provincia di Enna”, lady Diana Spencer, che “piange i suoi perduti amori nel buio della morte”, torte che parlano, “Skis, kisses, love, love, love! slaping, sfz sfrytstz”.
Ricorrente il vezzo, nel perpetuo travaso tra vissuto e immaginario, di ancorarsi a propagginazioni intrafamiliari e cromosomiche, di accennare insistentemente a sé, agli amici, di sottolineare date e particolari minuti della propria quotidianità, come a fissarne il ricordo, a difendere un intero patrimonio di affetti, emozioni, cultura, lentamente stratificatosi, dall’inesorabile trascorrere del tempo. Disperato ancoraggio ad un territorio interno che garantisca, con Salvator Dalì, La persistenza della memoria. Fotografie di sogni fatti a mano con l’intento di materializzare immagini irrazionali.
“Solo i saggi e gli stolti non sognano, mentre singolari sono i sogni di coloro che nutrono emozioni speciali, diverse, originali”, con Feng Menglong. Peculiarità del sogno l’analogia con l’esperienza passionale, con cui condivide l’illusoria libertà, che dilata e comprime tempo e spazio in modo irreale. Al fondo permane il mistero che il sogno solleva sulla nostra identità. “Il sogno ci rende libero l’animo” dichiara don Chisciotte nella “commediola in due atti senza epilogo” Il giovin medico e don Chisciotte dove al medico in un cronicario Michele Rizzo, impotente a curare, non rimane altro, “ragionier della morte”, che registrare “vecchi che muoiono e muchachos morti, mai nati”, vale a dire gestire oniricamente un camposanto.
Uno straniante orizzonte metaforico, un festoso guazzabuglio di citazioni e autocitazioni, una fantasmagoria linguistica che mescida insieme in un variopinto, stravolgente cocktail, stilemi e favelle diverse, trecentismi, arcaismi, aulicismi, dialettismi, neologismi, lessico scientifico, grecismi, inglesismi, spagnolismi, arabismi. E l’espediente della prorompente contaminatio, del divertito pastiche, l’accumulo scoppiettante di simboli, assonanze, onomatopee, è teso a cogliere segrete vibrazioni, intime risonanze, saporose sonorità. L’ironia (e l’autoironia) non può non investire pure l’inventività, l’originalità della scrittura, elusiva, allusiva, efflorescente, in virtù della quale le formiche guardano “in piagnimento” (giacché i suoi nipotini “non hanno mai visto delle formiche in pianto, ma in piagnimento sì”); i disoccupati “ – i jurnatari – aspettavano, zappa o zappulla in spalla, la mattina in piazza per essere ingaggiati”. E ancora, ma stavolta “dell’errore ebbero orrore e orripilarono i dottori in lettere”, la ranocchia “insegnante” nella “rabbiosa fretta sbagliando disse: Qual’è, qual’è, qual’è?” (Il popolo delle rane); e il corvo Cratete “si sarà a capofitto buttato, chiudendo volutamente le penne rematorie (non meglio ‘remiganti’?)” (Cratete ovvero Compilatio singularis di luoghi arpinati).
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INTERVISTA A GIUSEPPE BONAVIRI – dalla rivista “Orizzonti” n. 26, aprile-luglio 2005
di Subhaga Gaetano Failla e Valeria Failla
Devo l’incontro con le opere di Giuseppe Bonaviri ad un giorno fortunato d’estate di molti anni fa. Vagavo per le strade di Tropea con alcuni amici. In una libreria si vendevano libri a prezzi scontati. Guardai, mi impolverai le dita, ma nessun libro mi attraeva. Poi, un titolo mi catturò: La divina foresta di Giuseppe Bonaviri. Lessi il libro in una spiaggia assolata del Tirreno meridionale. In epigrafe aveva una frase di Empedocle: “Perché un tempo fui fanciullo e fanciulla, arbusto e uccello e muto pesce del mare”.
La scrittura magmatica, sontuosa, m’incantò e mi trasportò in un tempo immobile, sospeso.
Nelle settimane, nei mesi che seguirono, rivelai la scoperta ad un paio d’ amici e a mia sorella, con la quale ho preparato questa intervista. La passione per la scrittura di Bonaviri ci accomuna ancora oggi, simili a cercatori che parlano a bassa voce d’una lontana miniera d’oro. Finalmente, poi, quasi due anni fa, sono andato a Frosinone a far visita allo scrittore.
Abbiamo passeggiato insieme vicino alla sua casa, in un pomeriggio di fine estate. In tempi così carichi di stili aggressivi, di arroganza politica, di idiozie televisive incontrare un uomo siffatto, con un’aura di bontà, di semplicità e saggezza è davvero inconsueto. Alla mia partenza, mi ha atteso sulla porta per donarmi un sorriso e un ultimo saluto.
Giuseppe Bonaviri ha pubblicato oltre trentacinque opere, di prosa e di poesia, tra le quali anche un volume di saggi (L’arenario, Rizzoli, 1984), è stato più volte candidato al Nobel, tradotto in molte lingue, perfino in cinese e arabo, di lui hanno scritto in Italia Vittorini, Calvino, Sciascia, Manganelli, Gramigna, Manacorda, Pampaloni (mi fermo qui, l’elenco è lunghissimo), eppure egli oggi non ha qui da noi, a mio parere, un riconoscimento adeguato alla sua grandezza.
Bonaviri è nato a Mineo (Catania) l’11 luglio 1924, primo di cinque figli del sarto don Nanè e di donna Giuseppina Casaccio. Si laurea in medicina a Catania nel 1949, frequenta poi il corso allievi ufficiali a Firenze, è ufficiale medico a Novara ed in seguito viene trasferito a Casale Monferrato. Ritorna a Mineo, dove svolge la professione di medico prima, poi di ufficiale sanitario. Nel 1957 lascia la Sicilia per sposarsi con Lina Osario e trasferirsi in Ciociaria. Da allora vive a Frosinone, dove ha svolto la professione di medico cardiologo fino alla pensione. Ha due figli: Giuseppina ed Emanuele.
Su uno dei suoi primi ricettari di medico termina di scrivere Il sarto della stradalunga. Il romanzo viene pubblicato nel 1954 nella collana “I Gettoni” della casa editrice Einaudi curata da Elio Vittorini, il quale a proposito dell’opera sottolinea il “senso delicatamente cosmico col quale l’autore rappresenta il piccolo mondo paesano su cui c’intrattiene, trovando anche nelle erbe e negli animali, nei sassi, nella polvere, nella luce della luna o del sole, un moto o un grido di partecipazione alle povere peripezie del sarto e dei suoi”. Molti anni dopo Italo Calvino in Notti sull’altura (Rizzoli 1971) sembra ritrovare quel “senso delicatamente cosmico” di cui parlava Vittorini. “I personaggi del romanzo” scrive Calvino nell’Introduzione “si sparpagliano a raggiera sulla mappa di questa Sicilia fatta di tutti i tempi e tutti i luoghi, e decifrano come in una fitta rete di corrispondenze misteriche i segni dei minerali e le metamorfosi delle piante…”
La scrittura di Bonaviri “sente il fascino del divino”, osserva Luca Orsenico in una recente intervista, ed è intimamente legata ad “una sacralità non confessionale”, come dice nella stessa intervista l’Autore. Le sue narrazioni tornano interminabilmente alla sua natia Mineo e attingono a quegli “aspetti metafisici” dice Bonaviri “che noi bambini un tempo, sia quando andavamo in vacanza con la nonna che aveva perso ben diciassette figli su ventiquattro, sia quando andavamo a scuola la mattina verso l’alba, percepivamo con chiarezza, tanto è vero che scuotevamo gli alberi per svegliare gli spiriti che secondo noi stavano ancora dormendo”. E di aspetti metafisici è ancora intessuto, in una narrazione commossa, memorabile, l’ultimo romanzo Il vicolo blu (Sellerio 2003), mentre nella nuova raccolta di poesie I cavalli lunari (Scheiwiller 2004) anche il corpo umano diventa materia poetica, espressa con l’intensità di straordinarie illuminazioni.
Nella scorsa estate, a Mineo, in occasione dell’ottantesimo compleanno dell’Autore, si è svolto un convegno che ha ospitato traduttori dell’opera bonaviriana provenienti da varie parti del mondo, ed è stata inaugurata una “Fondazione Bonaviri” che si occupa dello studio e della valorizzazione della sua opera.
Nell’intervista che segue, svolta telefonicamente, il lettore perderà – inevitabilmente – l’ascolto della voce di Bonaviri, profondamente immersa in modulazioni siciliane, dolcemente musicale, simile ad un canto d’antichi poeti proveniente da un mondo d’armonia.
– Le sue biografie dicono che lei ha cominciato a scrivere a otto anni. Mi può parlare del suo incontro con la poesia e la scrittura?
Tenga presente che io sono nato a Mineo in provincia di Catania, un paese che si trova ad altitudine di 500 metri, e che Giuseppe Pitrè, il grande folklorista, definiva il Parnaso Siculo, in quanto tra contadini e artigiani e anche analfabeti c’era almeno il 20% di persone che poetavano. Per cui il mio impatto, il mio contatto, il mio primo incontro con la poesia è stato facile perché ce l’avevo attorno: tutti poetavano, mi sembrava una cosa usuale. E cominciai a scrivere qualche poesiola attorno agli otto anni. Poi, un certo criterio secondo me più qualificante, mi portò a incominciare a scrivere a quattordici anni tre romanzi, in uno dei quali, dal titolo “Un omicidio tra i selvaggi”, c’è la storia di un giovane che per una ragione amorosa ammazza il padre e la madre. Mi pare che anticipava ampiamente tutti questi massacri sia librari che reali che ci sono oggi. Le poesie a cui cominciai a credere iniziai a scriverle a quindici anni, a parte quelle scritte prima.
– Perché, nonostante l’iniziazione precoce alla scrittura, ha poi scelto di laurearsi in medicina?
Beh, a me pareva di poter imparare un mestiere di cui ero in quel momento affascinato. Forse perché ero in piena guerra quando mi sono iscritto, nel ’43. Si avvicinava questa era tecnologica, nuova, ansiosa e ansiogena che ci è arrivata dopo il Cinquanta, dopo la fine della guerra. È stata forse una intuizione o meno, cioè fui affascinato dall’idea di fare una sperimentazione, delle sperimentazioni, sul nostro corpo: il mio sogno primo era di fare in modo che gli uomini – Dio ne liberi – non dormissero più, così si guadagnavano molte ore di attività, di psichismo, e così via.
– Il lavoro di medico ha sicuramente assorbito buona parte del suo tempo e poi c’era anche la famiglia da tirare su. Come è riuscito a soddisfare la passione per la scrittura?
È stato indubbiamente lavorare il doppio, ho faticato molto perché ho fatto sempre il medico. Tra l’altro non ho nemmeno diritto alla pensione, dopo tanti anni come specialista cardiologo nella Unità Sanitaria tra Frosinone e Ceccano. Eravamo considerati dei lavoratori autonomi esterni. Adesso questa legge è caduta. E quindi praticamente è stato un doppio lavoro. Non c’è rapporto tra la scrittura e il lavoro di medico. Il solo rapporto consiste nel fatto che come medico sono sceso – ho detto più di una volta – nei labirinti del dolore umano. Ho un’esperienza che tanti altri che sono scrittori qualificati, o tali si credono, non hanno assolutamente. Una vasta esperienza anche della gioia, della guarigione.
– Lei da quasi cinquant’anni risiede a Frosinone. Come vive questa distanza dalla Sicilia?
A lungo andare ci si crea un lavoro, una famiglia, dei nipoti che vengono a integrare gli affetti perduti. Ho perduto due sorelle, per ictus, mio padre, mia madre, mio fratello. Siamo rimasti in due: io sono il più vecchio. È come trasferire un albero da una zona ad un’altra zona. L’albero a poco a poco si adatta ai venti, all’humus.
– Nelle sue opere la trama narrativa è impregnata di elementi del mondo arabo. In che modo si è avvicinato a questa cultura?
Sono memorie infantili che mi arrivavano attraverso le fiabe di mia madre e così c’è anche il recupero, scorporato, di quello che è stato. È sottinteso che ormai non c’è quasi niente, tranne i residui archeologici. Il siculo di per sé non amava gli arabi, perché li considerava anti-cattolici.
– La morte nella cultura occidentale subisce un costante processo di rimozione, nelle sue opere invece è un tema ricorrente. Mi può dire qualcosa al riguardo?
È un tema ricorrente un po’ perché per natura sono pessimista e temo, temo, che per tutti al di là della morte non resti niente. Se noi potessimo raccogliere tutte le ossa di miliardi e miliardi di persone morte e lanciarle con dei razzi – oggi facili da avere – nel sistema planetario, tutte queste ossa (per darne un valore cosmico divino) diventerebbero miliardi, miliardi e miliardi di piccoli satelliti di Mercurio, di Marte, ecc. E io spero solo che la morte valga nel senso, non della memoria che lasciamo agli altri, ma d’un qualcosa che realmente ci fa sopravvivere come unità pensante, anche se per poco tempo. Non riesco ad aderire completamente alla visione soteriologica del cristianesimo.
– Il suo paese natale, Mineo, patria anche di Luigi Capuana, ha rappresentato, come mi diceva, una sorta di Arcadia Siciliana. Cosa è rimasto per lei di quella esperienza?
Sono vissuto in Sicilia fino a venticinque anni. Non sono mai uscito dalla Sicilia prima di quell’età. Allora era difficile anche avere il denaro per andare, fuori. Sono andato via per fare il corso di allievo ufficiale medico a Firenze e poi ufficiale medico in Piemonte. E stata una grande esperienza, in quanto ho conosciuto qualcosa di assolutamente nuovo e diverso dalla Sicilia. Ma l’infanzia è stata per me il Giardino delle Esperidi: tante deità che immaginavamo presenti negli alberi, nella pioggia, gli spiriti, i racconti, le fiabe di mia madre, la miseria, il senso filosofico dei poveri, i proverbi. Insomma, un mondo sconfinato.
– Nel suo più recente libro di poesie “I cavalli lunari” viene cantato il corpo umano nel suo aspetto biologico. Da cosa scaturisce questa scelta poetica?
Beh, un bel momento io mi son detto che la poesia sempre punta su temi apparentemente un po’ superiori a quelli che sono i momenti contingenti della nostra esistenza. In fondo ancora seguiamo, secondo me, un filone petrarchesco che pone sempre temi delicati, angelicati, superiori. Mentre ci sfugge che, per esempio, dentro di noi, dal cavo orale all’estremità anale, abbiamo circa un milione di miliardi di batteri. Essi sono con noi. E perché non guardare, non porre questo su un piano o su un tentativo di farne poesia, quando sono elementi unicellulari che vivono con noi? E perché non dare importanza al sudore del nostro corpo, al cattivo odore, ai buoni odori, cioè al corpo come corporalità, come un insieme di organi ben armonizzati tra di loro? (finché c’è la salute…).
– Gennaro Savarese afferma che il suo stile non può che provenire da “quel Mezzogiorno d’Italia dove (…) i confini tra scienza e fantasia, pensiero e immaginazione sono stati sempre assai più incerti che in altre aree culturali italiane”. Condivide questa analisi?
In passato indubbiamente era così. Ma adesso credo che sia tutto uniformato, ormai, tranne per quel che riguarda tradizioni locali oppure differenze di ordine socio-economico (di lavoro o meno) che esistono tra Nord e Sud, una certa educazione che al Nord è più “austriaca”, nel senso migliore della parola, e al Sud invece è più disordinata. Ma in passato presumo che – settanta o ottanta anni fa – questa linea sfumata, incerta c’era..
– Nella mia infanzia (sono di origine calabrese) c’era una sorta di divieto di uscire nella cosiddetta controra, nel dopopranzo assolato dell’estate. “Non andate in giro all’ora delle streghe” diceva mia madre a noi bambini…
Beh, anche per noi c’era questo divieto. Non dormire in campagna sotto i noci anche, perché altrimenti i noci ti portavano appresso. Voci strane, presenze improvvise di spiriti… E lo stesso vale per la controra. Era quasi come un uscir fuori dalla luce usuale che ci spetta, che è la luce del mattino. La controra inizia ad avvicinarsi al crepuscolo e alla sera, in cui tutto si rovescia, per cui anche il nostro modo di rapportarsi col mondo visibile o invisibile, ammesso che l’invisibile ci sia. C’è una grande linea discordante: la linea discordante tra spiritelli, voci, fantasmi, morti, essenza di morte.
– Definirebbe, come Pirandello, l’assegnazione del Nobel, a cui lei più volte è stato candidato, “una pagliacciata”?
Beh, una pagliacciata no, perché altrimenti tutte le cose della vita sono, gira e rigira, una pagliacciata. Anche presentarsi con una tesi di laurea e prendersi una laurea… è un premio a cui a poco a poco tutti hanno dato importanza, si è creata questa fama. Sono in 15-16 membri scelti e cooptati, dopo la morte di qualcuno sostituiti, ed hanno anche le loro amicizie, le loro simpatie, le conoscenze. Se tiene presente che non esiste un italianista, la lingua italiana non è conosciuta. Ecco perché spesso sono più favoriti quelli che scrivono in inglese. Poi, c’è una visione ancora un po’ tardo-antimarxista, una specie di borghesia illuminata che pensa sempre al testamento di Nobel, il premio si deve dare a coloro i quali dicono qualcosa di nuovo per la società, per far migliorare la società. Se si parla del cosmo, di spiriti, di un mondo pieno per l’appunto di presenze, di deità – vero o non vero – loro istintivamente si allontanano. Ed inoltre alcuni componenti cercheranno di imporre i loro giudizi in seno al collegio. È una cosa umana come tutte le cose umane. Il motivo per cui abbia assunto una tale importanza dipenderà dal fatto che l’uomo ha bisogno sempre che ci sia un qualcosa che diventi il vertice, il re, il genio. Noi uomini abbiamo sempre bisogno del padre, di puntare su qualcosa che sia il vertice della forma mentale, il vertice della cultura, il vertice della capacità guerresca, il grande guerriero, e così via.
– Nelle righe conclusive del suo ultimo romanzo “Il vicolo blu”, da me amatissimo, si legge: “E in un bel suono, Linuccia disse – Ritornerà la luce. Non la sentì nessuno, solo io e mio fratello, che ora non c’è più.” Avrebbe voglia di dirmi cos’è questa luce?
La luce… Mi devo un po’ rifare a quanto diceva il sarto: “…scrivendo, comprendere che il mondo dovrà migliorare” (dalle prime pagine del romanzo di Bonaviri, “Il sarto della stradalunga”, Nota degli Autori), cioè che ci possa essere un miglioramento nella visione culturale, religiosa, etica del mondo. Però, il solo fatto che mio fratello che era morto l’ha sentita e solo io poi sono rimasto a sentirla lascia una grossa banda di incertezza. Questa luce che arriverà o che dovrebbe arrivare… Spero questo non sia sfuggito: uno solo rimane a sentirla questa voce, e l’altro che l’ha sentita è morto, quindi già significa che c’è una zona di buio, di incertezza.
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LA SCRITTURA DI GIUSEPPE BONAVIRI
di Rawdha ZAOUCHI-RAZGALLAH
Bonaviri è un autore che fa riflettere sulla vita, sulla politica, sull’Italia, sulla metafisica, sulle relazioni umane, sulla natura, sulla scienza, sulla scrittura.
Nelle sue opere cerca di cogliere non la storia di un individuo o di un momento della civiltà, ma l’unico fare del mondo, di tentare la trascrizione di quello che solo la scienza ha appena toccato, di dare alla materia una credibilità poetica e di inventare infine, un supporto narrativo nel quale le luci ed i suoni, il cielo e la terra, gli animali e gli uomini si ci riparano.
Nei suoi scritti, introduce numerosi argomenti scientifici. Questo elemento potrebbe restituire all’uomo d’oggi, dopo la perdita delle certezze religiose, una conoscenza scientifica secondo la quale, nell’universo ciò che esiste, è destinato ad esistere anche se è opposto a continue ed imprevedibili metamorfosi.
Quanto all’itinerario linguistico di Bonaviri, è orientato verso la scoperta di un’unità primaria seppellita dalla superposizione di strati ed in questa discesa verso le zone profonde della vita e della psiche, lo scrittore deve recuperare una lingua immortale e quindi sente la necessità di inventarla per dare una forma poetica ai suoi fantasmi.
La valorizzazione di nuovi fonemi, il recupero di un lessico ai limiti del barocco, i prestiti chiesti alla filosofia, guidato da una vena ispiratrice quasi costante, riescono a dare vitalità ai racconti.
A ribadire la sua originalità di scrittore impegnato nella ricerca personale a carattere universale, possiamo dichiarare che G. Bonaviri non può essere schierato con nessun movimento letterario. L’autonomia di uno scrittore è quindi una costante nel discorso di Bonaviri. Lo scrittore, oggi, più di ieri, è chiamato ad esprimere la sua propria visione del mondo per non cedere a sollecitazioni non ubbidienti a ragioni profonde e che non possono trovare una giustificazione, morale e storica nell’ambito di una vocazione reale dell’atto di narrare.
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LA LETTERATURA FANTASTICA DI GIUSEPPE BONAVIRI
di Rawdha ZAOUCHI-RAZGALLAH
La definizione del fantastico nel dizionario Garzanti è prima di tutto: “che concerne la fantasia”, la seconda definizione è: “che è frutto della fantasia; per estensione irreale, strano o è una cosa che ha troppo del fantastico, per essere credibile”; dal senso antico, bizzarro, stravagante, dal latino tardo: phantasticus, dal greco phantastikós, deriva di phantάzein “far vedere, mostrare”.
La letteratura fantastica è un tipo narrativo che si basa sull’angoscia oppure sullo spavento causato dai fenomeni inspiegabili. Il fantastico nasce da una tensione tra realtà che serve da cornice al racconto e fenomeni che la scienza non può spiegare.
Il fantastico è l’hésitation provata da un essere che conosce soltanto le leggi naturali di fronte ad un avvenimento soprannaturale ad esempio, «I cavalli lunari che volano»: l’aspetto fisico dei cavalli lunari; «la femmina era fornita da una criniera azzurra; il maschio, da criniera rossa».
(…)
Dagli anni Sessanta, abbiamo visto un’evoluzione nell’interpretazione della letteratura fantastica. La critica, meno sotto l’influenza delle ideologie politiche, si è orientata verso un vero apprezzamento di una poetica specifica. Numerosi autori sono stati riscoperti o riletti sotto una dimensione nuova ponendo come base d’analisi il riconoscimento delle potenzialità creative del linguaggio.
La letteratura fantastica italiana e contemporanea ha visto la sfilata dei suoi massimi autori come Pirandello, Bontempelli, Landolfi, Calvino, Vigolò e Buzzati che sono stati incompresi dai lettori italiani. Questa letteratura faceva vivere, di nuovo, polemiche d’interpretazione e di critica. Non si arrivava a delimitare il “genere”. Da Todorov a Vax, a Caillois, a Bessière, a Ceserani e Lugnani, i critici ed i teorici del fantastico, nel sottolineare la sua problematica, insistono sul bisogno vitale di realismo di cui il fantastico ha bisogno per nascere e per sussistere. Ma, anche per dimostrare quanto il reale ha i suoi limiti.
A questo proposito, Leonardo Lattarulo, facendo uno storico dell’evoluzione del fantastico italiano, scrive:
L’autorità di uno scrittore celebre come Scott poteva dunque suffragare una persuasione che per altro era già largamente presente nella cultura italiana: quella del carattere essenzialmente nordico e germanico del fantastico e della sua difficile adattabilità alle condizioni culturali e morali italiane.
Nel cuore della crisi degli anni Sessanta, alla ricerca di un’identità nuova, il fantastico permette a numerosi scrittori di manifestare la loro preoccupazione e la loro insoddisfazione davanti alla realtà umana e quotidiana. Una nuova concezione del mondo si esprime in un idealismo magico in cui la vita subisce un dualismo permanente del mondo interno con quello esterno. Il bene ed il male s’intrecciano. Il malessere quotidiano induce l’autore a scrivere storie e novelle che trasportano il protagonista ed il lettore in un mondo diverso e bello con possibilità di interferenze tra il verosimile e l’inverosimile. E’ un’evasione liberatrice.
Fra questi autori, Giuseppe Bonaviri si singolarizza per la polivalenza dei suoi scritti. La loro varietà e la loro molteplicità ci fanno sentire l’estrema erudizione e vena narrativa dell’autore.
(…)
Molto spesso, Giuseppe Bonaviri inizia i suoi racconti con un’introduzione o con una nota come paratesto che utilizza per spiegare lo scopo della sua scrittura. Attraverso queste didascalie siamo illuminati dalle tappe della sua vita, dall’importanza che hanno i luoghi della sua infanzia (la Sicilia) ed i personaggi che l’hanno accompagnato durante la sua carriera. Vedremo come queste note caratterizzano la personalità dell’autore dove il ritorno alle origini è una costante nella sua biografia. “La nostalgia delle origini” è ricercata da numerosi scrittori ma in Bonaviri, è cosmica.
Vittorini, scoprendolo nel 1954 e presentandolo ai lettori, insiste su questa realizzazione dell’universo cosmico nell’opera di Bonaviri. La maturità narrativa gli permette di coniugare la verità alla fantasia. Con un dato reale, egli descrive un viaggio attraverso un paesaggio dando una conoscenza approfondita di tutti gli elementi che compongono la vita sulla terra e nel cosmo. L’uomo scientifico s’associa allo scrittore (Giuseppe Bonaviri è un chirurgo cardiologo). Questi due aspetti sono fondamentali nella vita dello scrittore.
Bonaviri è uno scrittore che ha la facoltà di dare elementi metafisici e trasmigratorie ad ogni creatura, ad ogni essere vivente una memoria di civiltà antiche seppellite. E giustamente, è in un fiore, in un albero, in un ramo che questi esseri viventi ritrovano il loro legame con il presente. La Sicilia, il suo paese natale, è la terra vivente e mitica dei suoi scritti. Tutto ritorna a questo mondo contadino che l’ha segnato profondamente. La nostalgia della felicità si traduce in lui nelle reminiscenze della sua infanzia, delle sue letture, delle persone care che sono vissute con lui. Franco Zangrilli ci conferma questo fatto:
La divina foresta (1969) apre un’altra fase della attività creativa bonaviriana. Ci presenta la visione cosmica di una natura consapevole a tutti i livelli. Una visione originale, sebbene si possano rintracciare lontani antecedenti nella Bibbia, in De Rerum Natura di Lucrezio, nelle Metamorfosi di Ovidio, e in Dante. E’ una favola che, a differenza di Martedina, persegue un viaggio di scoperta all’interno della natura sviluppando un religioso legame con essa. Si ambienta nel paesaggio naturale dei dintorni di Mineo, trasformato dalla fantasia dell’autore in un paesaggio primordiale. Mineo quindi viene qui scelta come località edenica, i cui primi abitanti anziché uomini sono dapprima il narratore Fermenzio, una particella appena cosciente, poi Senapo, una piantina di borragine, infine Apomeo, un avvoltoio, circondati da personaggi minori altrettanto coscienti. […] Si tratta di personaggi filosofi la cui meditazione si concentra spesso su idee universali.”
Italo Calvino, in una nota introduttiva a Le notti sulle alture di Giuseppe Bonaviri, presenta questo libro come “un delirio multicolore” dove si realizza un complesso e fantasmagorico universo che implica le materie difformi, dall’occultismo all’alchimia, dalla scienza all’etnologia con voli fantastici che non dimenticano mai le dimensioni del vero e del reale.
(…)
Gennaro Savarese nel suo articolo su Giuseppe Bonaviri lo presenta così:
L’interesse principale di Bonaviri non è l’uomo in sé, in chiave psicologica o naturalista o neorealista; ciò che l’attrae è un essere particolare che sente, immagina e indaga, tuffato in una natura scarsa, lontana dalle sue tre dimensioni tradizionali e messa a nudo nelle sue frontiere: quarta dimensione, campo di metamorfosi tra gli elementi ed i regni naturali, spazio tra vita e morte e viceversa.
Bonaviri stesso dice:
I miei orientamenti scientifici mi hanno dato di più la dimensione inquieta di uomo del nostro tempo. Chi conosce la possibilità e i limiti di una interpretazione scientifica del mondo, è preso in un primo momento da una vampa di conoscere quello che c’è oltre il visibile, ne vuole rielaborare i dati ricavati per impastare nuove possibilità; ma in un secondo momento si accorge che la suprema sapienza si trova in un nostro segreto equilibro circolarmente consonante col cosmo.
Certamente, il contatto con i malati gli è servito per entrare nei meandri dell’io, delle paure, dei sogni, delle trepide speranze, a contatto carnale con gli abissi dell’io piagato dal morbo.
Ci poniamo quindi la domanda: perché Bonaviri è uno scrittore che utilizza il fantastico nella sua opera? E’ il fantastico secondo i criteri di Heinrich Heine o Walter Scott. Tanti dibattiti intorno a questo genere sono stati discussi tra gli intellettuali italiani perché non si riesce a dare un’etichetta agli autori italiani di stampo fantastico. Gli scrittori italiani fantastici non sono simili a scrittori fantastici come gli autori americani, tedeschi o francesi (Poe, Hoffman, Maupassant o Kafka). I critici italiani l’hanno sentito e sottolineato nelle loro antologie critiche. Il genere fantastico italiano è diverso degli altri perché è poetico e basato su una cultura diversa e differente. Alessandro Scarsella pensa che si debba analizzare la letteratura italiana da un punto di vista nuovo: quello di una definizione trasversale. A questo proposito, egli dichiara:
A dispetto d’ogni più ragionevole criterio economico, la definizione prevalente del racconto fantastico si propone, nel suo complesso, come una costante di natura metastorica fissata nell’intersezione di più generi e sottogeneri narrativi. Mentre ciò che in qualche modo inibisce il ricorso alla pura storicizzazione è, evidentemente, l’aver identificato nel fantastico l’asse portante di una poetica, o come teoria della letteratura non mimetica ovvero, in ultima istanza, come confutazione dello sperimentalismo. Omogeneo ma divergente, questo atteggiamento si riscontra puntualmente nelle definizioni prodotte, con maggiore o minore incisività, da Calvino, Manganelli, Bonaviri, Sandro Canotto, Roberto Pazzi, in parte da Sgorlon e da Malerba, ed infine, ed a parte questa volta, da Ottieri. Vale a dire che, irriducibile ad una definizione di scuola, il fantastico si afferma trasversalmente come cifra di poetica duttile ed adattabile.
Giuseppe Bonaviri non è stato classificato ancora perché risponde a tutte le attese del lettore.
(tratto dallo studio di Rawdha ZAOUCHI-RAZGALLAH – LA SCRITTURA FANTASTICA DI
GIUSEPPE BONAVIRI in due opere: “La divina foresta” e “Il dottor Bilob”)
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AGGIORNAMENTO DEL 9 novembre 2008
Come promesso, aggiorno il post con un video e foto tratte da un incontro pubblico con Giuseppe Bonaviri (finalizzato ad omaggiarlo) organizzato il 30 maggio 2008 presso la Biblioteca Ursino Recupero della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania.
Nel video (purtroppo la qualità dell’audio e delle immagini non è ottimale) Giuseppe Bonaviri ringrazia per l’organizzazione dell’evento. Nelle foto, oltre all’ottantaquattrenne Bonaviri, sono riconoscibili – tra gli altri – Sarah Zappulla Muscarà e la scrittrice e poetessa Maria Attanasio.
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BONAVIRI CONTROVENTO
di Massimiliano Perrotta
Tutto comincia da Mineo. In questo piccolo paese siciliano Giuseppe Bonaviri era nato nel 1924 e proprio Mineo è il centro dell’universo letterario dello scrittore. Dopo la precoce rivelazione della sua vena poetica, nel 1938 si trasferì a Catania dove conseguì la maturità classica e si laureò in medicina. Nel 1954, scoperto da Elio Vittorini, Einaudi pubblicò Il sarto della stradalunga. Seguirono una trentina di volumi tra narrativa, poesia, teatro e saggistica.Nonostante il grande amore per
la Sicilia, dal 1958 visse a Frosinone esercitando la professione di medico. Sposato con Lina, ebbe due figli e quattro nipoti.
Bonaviri è uno scrittore complesso. In un certo senso è il tipo di autore che riscrive sempre lo stesso libro, in un certo senso è un artista dai volti numerosi. C’è Bonaviri lo scrittore moderno. Bonaviri il nuovista, lo sperimentatore, il romanziere che si diverte a giocare con i codici narrativi.
C’è l’affabulatore bizzarro che inframmezza con notazioni stralunate e con nonsense le considerazioni filosofiche dei suoi personaggi. Un’ironia novecentesca, la sua, che da un lato alleggerisce il testo rendendolo più divertente, dall’altro lo complica aprendo la porta a non univoche interpretazioni.
C’è l’uomo contemporaneo curioso della scienza che verrà e c’è il custode della memoria familiare, ossessionato dai ricordi che chiedono di essere trasfigurati in simboli letterari.C’è il realista magico, il narratore funambolico, il poeta immaginoso…
C’è Bonaviri il siciliano, figlio di una generazione eccezionale: quella di Leonardo Sciascia, di Bartolo Cattafi, di Stefano D’Arrigo, di Angelo Maria Ripellino, di Sebastiano Addamo, di Gesualdo Bufalino… Bonaviri siciliano fino al midollo che come tutti gli scrittori isolani sembra condannato dalla propria terra madre a parlare ininterrottamente di lei.
C’è il Bonaviri dormivegliante. In molte narrazioni, come nel dormiveglia da lui studiato e fantasiosamente romanzato, c’è una realtà riconoscibile i cui contorni progressivamente tendono a farsi malcerti. Ci ritroviamo così in quella dimensione a mezza via tra sogno e veglia nella quale le visioni compaiono capricciosamente e repentinamente svaniscono per lasciare posto ad altre visioni… C’è il Bonaviri nostalgico del tempo che fu, del piccolo mondo paesano nel quale aveva trascorso l’infanzia, della sapienza popolare che rendeva quel mondo umanamente ricco. Come gran parte degli scrittori moderni Bonaviri è in qualche modo un critico della modernità, di questo stadio della modernità. Il suo rievocare la dimensione mitica della Mineo contadina, con gli artigiani filosofi e ogni cosa intrisa di spiritualità, svolge una funzione critica nei confronti del presente fighetto e materialista. Il suo proclamare divina la natura si contrappone a certi abusi della scienza contemporanea nei confronti di essa. E poi c’era l’uomo. Bonaviri l’eccentrico, il timido, il solitario. Il malinconico dai lunghi silenzi interrotti da scoppi di umorismo lunare. Il collezionista di libri rari, il nonno affettuoso, il provinciale cosmopolita… Bonaviri visse a lungo autoesiliato nella bella casa di Frosinone che lasciava malvolentieri, restìo alle frequentazioni mondane. Uno stile di vita, il suo, poco adatto all’era degli uffici stampa e della vita pubblicitaria. L’intervista che segue, realizzata nel 2006 per il documentario Bonaviri ritratto, è stata ampliata con brani di interviste che mi aveva rilasciato precedentemente.Perrotta. Come nasce lo scrittore Bonaviri?Bonaviri. Tu sai che Mineo era un paese ricco di poeti vernacoli, c’era la pietra della poesia a Camuti, quindi sin da bambino il sogno mio era quello di diventare il poeta più importante di Mineo. A quattordici anni già scrivevo tre romanzi e ogni anno cercavo di fare tutti gli esami all’università specialmente per avere il tempo necessario per leggere e scrivere romanzi durante le vacanze. Ma il dato fondamentale, secondo me, resta uno: io sino a venticinque anni sono stato sempre in Sicilia, non mi sono mai mosso dalla Sicilia, per cui il primo contatto col mondo letterario importante l’ho avuto con l’Einaudi e con Elio Vittorini. Vittorini aveva in mano la collana dei Gettoni e gli piacque molto Il sarto della stradalunga. Pensa che quando l’ho incontrato, perché mi scrisse, a Bocca di Magra, pensava addirittura che io ero un operaio anziché un medico, cioè il nostro è stato un rapporto estremamente pulito.
Il sarto della stradalunga, che uscì nel cinquantaquattro ma era stato scritto nel cinquantuno, ebbe un buon successo critico: ricordo le recensioni di Tommaso Fiore, di Gaetano Trombatore… Insomma, questo giovane siciliano che non era mai uscito per venticinque anni dalla Sicilia riuscì a immettersi con facilità nel giro dei maggiori letterati del tempo. Dopo l’Einaudi i miei libri sono usciti con
la Rizzoli, con
la Mondadori, con
la Sellerio.
Perrotta. Il sarto della stradalunga è ispirato alla figura di tuo padre, Settimo Emanuele detto Don Nanè.
Bonaviri. Mio padre da giovane faceva il sarto a Mineo nella stradalunga, ma purtroppo non fu fortunato nel suo lavoro e nel 1938 fu costretto ad emigrare in Abissinia a causa delle tasse eccessive. Scriveva anche poesie molto belle, con una certa capacità di narrazione del mondo, ma le scriveva segretamente, di notte, perché era un uomo schivo, timido. Quando mia madre si metteva a letto e lo vedeva scrivere al lume del petrolio si chiedeva preoccupata: «Ma chi ho sposato, un pazzo?». Quando è morto ho trovato molte cartelle delle tasse sul cui retro aveva scritto delle poesie. Ho raccolto tutte quelle che ho trovato in un volumetto dal titolo L’arcano. Se ne trova una copia alla Biblioteca Nazionale di Roma.
Una delle sue poesie più belle parla della notte a Mineo. Allora l’illuminazione era fatta con pochi lampioncini per cui il paese verso le sei o le sette sprofondava nel buio. Quello che segnava l’arco del giorno, direi un limite quasi spirituale, spiritico, era la mezzanotte che era annunciata da cento colpi di campana. Ti cito alcuni versi: «Terribile la notte / oscura ed infinita; / mentre l’orologio batte / l’ora piu sciagurata».
Perrotta. Parliamo di Mineo, tuo paese natale e centro della tua opera.
Bonaviri. La formazione spirituale di ogni uomo è compiuta per le linee essenziali già a dieci/dodici anni, si è stati come insemenzati. Mineo ha lasciato dentro di me molti semi di memoria.
Il paese ha una lunga storia che rimonta a Ducezio. Io ho conosciuto
la Mineo di settant’anni fa, una cittadina molto povera ma umanamente ricca. La ricchezza maggiore consisteva nei proverbi e nella sapienza innata dei contadini. Molti di questi avevano una propensione alla filosofia e scrivevano poesie dialettali.
Perrotta. A Camuti, dove con la tua famiglia andavate a villeggiare e dove secondo la leggenda c’era la pietra della poesia, ogni anno aveva luogo un importante raduno di poeti dialettali.
Bonaviri. Fino al 1850, sull’altopiano di Camuti, si facevano delle gare poetiche che poi con l’unità d’Italia sono scomparse. Mentre le gare satiriche in piazza contro i partiti, contro il fascismo, si continuarono a fare fino al 1925 circa.
Perrotta.
La Mineo della tua infanzia era un paese povero.
Bonaviri. Ricordo un paese senz’acqua dove si mangiava pane e pane, un paese in cui gli uccelli volavano, specialmente gli sparvieri, sui monti… Ricordo il verde, le campagne, le fave, il grano… Ma anche l’estrema povertà e le condizioni igieniche molto difettose.
Perrotta. Nonostante il grande amore per
la Sicilia, da cinquant’anni vivi in Ciociaria. Come mai hai scelto di vivere qui a Frosinone?
Bonaviri. Mia moglie, che è di Marcianise in provincia di Caserta, ebbe l’incarico di dirigere una colonia estiva a Mineo, mentre io fui incaricato di fare il medico della colonia. Dopo esserci sposati ci trasferimmo a Frosinone perché avevo vinto il concorso di assistente ospedaliero. Allora c’era la divisione dei proventi: un primario prendeva il cinquanta per cento e l’assistente il sei per cento, figurati… È stata una vita piuttosto misera. Ho fatto sei anni di vita terribile, con guardie di trenta ore tre volte la settimana; poi, per la morte improvvisa di mio padre e per il mio grosso esaurimento nervoso, abbandonai l’ospedale ed entrai nell’Unità Sanitaria Locale. Ci sono rimasto trent’anni. Pensa che all’Unità Sanitaria Locale eravamo considerati dei lavoratori autonomi esterni e quindi non ho neppure diritto alla pensione.
Perrotta. Com’è vivere a Frosinone? Per il poco che l’ho visitata non mi ha colpito particolarmente.
Bonaviri. Frosinone è una cittadina a suo modo cosmopolita, ricca a livello agricolo e con un certo sviluppo industriale. Ma letterariamente non è molto sviluppata.
Perrotta. Tu vivi in una zona periferica della città.
Bonaviri. Ho vissuto sempre nella zona periferica di Frosinone perché mi ricordava un po’ la libertà dell’infanzia a Mineo.
Perrotta. In cosa differisce il paesaggio ciociaro da quello siciliano?
Bonaviri. Beh, il paesaggio qua è più ricco, più arboreizzato. Quello siciliano è un paesaggio secco, asciutto, pietroso.
Qua in Ciociaria i contadini, nei loro piccoli campi, hanno sempre accresciuto gli alberi, hanno accresciuto quella che è la civiltà della casa. Anche perché è una zona più ricca.
Perrotta. Come mai scegliesti di studiare medicina e non lettere?
Bonaviri. Verso i sedici anni sognavo di diventare uno scienziato biologico, ma purtroppo eravamo in piena guerra e miseria. Mi iscrissi in medicina per quell’ansia di ricerca tipica dello scorso secolo.
Del resto per me scrivere è anche sperimentare.
Perrotta. Come riuscivi a conciliare il lavoro di medico e la tua intensa attività letteraria?
Bonaviri. Era una vita affannosa, non gradevole, un continuo corricorri. La mattina lavoravo alla mutua, per la letteratura mi restava il pomeriggio. Talvolta mi capitava di scrivere o di leggere tra una visita e l’altra…
Perrotta. Veniamo ai tuoi libri. Come li presenteresti a chi non ti ha mai letto?
Bonaviri. I miei romanzi spaziano dal dato realistico al dato fantastico, dalla cultura mediterranea alla scienza medica della quale uso spesso molti termini cercando di renderli quanto più poetici possibile.
Perrotta. C’è qualcuno dei tuoi libri che ritieni più rappresentativo?
Bonaviri. I libri sono come i figli: di mamma tutti. Ognuno ha la sua storia, o pubblica o segreta.
Perrotta. Diversi critici hanno lodato la coerenza della tua opera. A te, dall’alto dei tuoi ottant’anni, come appare?
Bonaviri. Sento l’insieme delle mie cose come un tappeto persiano in cui fili e segni e intrecci si toccano, si distaccano, si ritoccano…
Perrotta. Mi piacerebbe tentare un’incursione nel tuo laboratorio creativo. Come nasce un tuo libro?
Bonaviri. Ogni libro ha una storia a sé. Può essere un nucleo di memorie che via via s’ingrandisce e diventa poi anche tela linguistica, può essere una cosa immediata che mi viene chiesta, può sorgere dal semplice desiderio di scrivere.
Perrotta. Come nascono i tuoi titoli così suggestivi?
Bonaviri. A volte spuntano da soli, a volte bisogna scegliere fra titoli diversi. Predomina la mutevolezza.
Perrotta. Le tue pagine hanno i colori dell’estate. Esiste un periodo dell’anno in cui scrivi meglio?
Bonaviri. L’estate mi dà più stimoli, è la mia stagione, forse perché sono nato in luglio.
Perrotta. Nella tua opera la dimensione del viaggio è centrale. E nella vita?
Bonaviri. Ti confesso che non amo molto viaggiare. Sono e resto un contadino con l’idea d’un punto fermo: il centro, la casa, il paese. Comunque dopo i cinquantacinque anni ho viaggiato molto.
Perrotta. Uno dei temi a te cari è la famiglia.
Bonaviri. Mio padre era il primo di sette figli, mia madre era l’ultima di ventiquattro fratelli: queste enormi famiglie tuttora me le porto dentro come un muro che ti circonda, che t’abbraccia. Cioè vorrei quasi incarnare in me tutto questo mondo di parenti e farlo diventare carne della mia carne e sangue del mio sangue.
Perrotta. Sei molto legato anche ai tuoi nipotini.
Bonaviri. Gianluigi, Niccolò, Leopoldo e Raffaella per me hanno una grande importanza. In quasi tutti questi ultimi libri scritti sono presenti loro, anzi nel Vicolo blu addirittura li trasporto nel tempo come se fossero vissuti durante la mia infanzia e fossero miei compagni di giochi.
Perrotta. Un altro tema ricorrente è la morte.
Bonaviri. La morte è un’idea ossessiva universale. Poi, io facevo il medico…
Perrotta. A tuo avviso qual è, se c’è, la missione o la funzione dello scrittore?
Bonaviri. Scrivere è un lavoro come un altro, forse più meditato e coordinato e per il quale necessitano fattori predisposizionali. Secondo me le predisposizioni che noi abbiamo verso il mondo e verso noi stessi vengono trasmesse per via di DNA, cioè quell’elemento che si trova nelle cellule e che trasmette i fattori dell’ereditarietà. Oggi si pensa per lo più che la cultura sia un’elaborazione successiva al nostro sviluppo mentale, secondo me invece la base di fondo è e resta cromosomica.
Perrotta. Tu ti sei sempre tenuto ai margini della società letteraria italiana. Negli anni settanta hai perfino rifiutato il premio Campiello per il romanzo Dolcissimo.
Bonaviri. Si sapeva prima chi sarebbe stato il vincitore del superpremio finale. Valgono di più i soldi di un premio o il nostro no diretto contro un sistema di corruzione?
Perrotta. Insomma non ami i premi.
Bonaviri. Possono servire in piccolo (il viaggio, gli incontri, un che di liberatorio), ma non fanno storia.
Perrotta. Da diversi anni i giornali ti accreditano tra i favoriti al Nöbel…
Bonaviri. Il destino, quello che verrà dopo, è nelle ginocchia di Giove.
Perrotta. Quali sono stati i tuoi modelli letterari?
Bonaviri. La mia formazione infantile resta pre-libresca. Poeti contadini e vento di Mineo, fiabe raccontatemi da mia madre… quale miglior libro?
Perrotta. Dimmi allora quali sono i tuoi classici.
Bonaviri. Beh, a me affascinano i frammenti dei filosofi presocratici, quella è la massima espressione della cultura mediterranea. Poi tutto il filone della drammaturgia greca da Eschilo a Euripide. Tra gli italiani Leopardi, Pascoli, Gozzano.
Perrotta. Che te ne sembra della letteratura di oggi?
Bonaviri. Attualmente siamo purtroppo in una fase “filoamericana”, cioè più libri si vendono più l’autore è considerato importante. Si tratta di un grosso errore, anche perché spesso il lettore si trova tra le mani dei libri di una mediocrità assoluta.
Perrotta. Non ami i bestseller…
Bonaviri. Sono fenomeni che sono sempre esistiti. Pensa per esempio all’Ettore Fieramosca di Massimo D’Azeglio, a Le mie prigioni di Silvio Pellico. Ormai per la nostra cultura sono ombre.
Perrotta. Tu sei stato amico di diversi scrittori siciliani della tua generazione, penso a Leonardo Sciascia o a Sebastiano Addamo, ma più volte hai affermato di sentirti estraneo al filone della letteratura siciliana.
Bonaviri. Beh, Leonardo Sciascia è uno scrittore civile, io sono un affabulatore. Tra me e Giovanni Verga ci sono di mezzo millenni, il suo mondo era assolutamente diverso da quello che abbiamo vissuto noi. In quest’ultimo cinquantennio s’è aperta una nuova fase storica per l’umanità: abbiamo messo il piede sulla luna, abbiamo scoperto un universo concreto fatto di astri che poi sono praticamente come la terra, grandi ammassi di pietre e di sostanze come metano, gas e così via. Quindi abbiamo allargato la nostra visione a una visione cosmica dalla quale non ci dovremmo allontanare, una visione secondo la quale l’uomo è una cellula ma è una cellula importante in quanto con la sua intelligenza riesce a entrare nei misteri del mondo.
Perrotta. La scienza oggi è ancora una speranza o è diventata anche una paura?
Bonaviri. La scienza per l’uomo comune è una paura, è una grande paura, perché se non è usata bene può causare dei disastri enormi, com’è successo con la bomba atomica. Nel mio romanzo L’incredibile storia di un cranio, uscito con Sellerio, questo aspetto viene preso in considerazione.
Perrotta. Parliamo dei tuoi estimatori illustri, cominciando da Italo Calvino.
Bonaviri. Di Calvino conservo molte belle lettere. A lui piacquero immensamente Il fiume di pietra, La divina foresta, Notti sull’altura… Altri estimatori sono stati Andrea Zanzotto, Carlo Betocchi, Mario Luzi, Libero de Libero… Tra gli stranieri ricordo il francese Guy Tosi, che insegnava alla Sorbona e via via tanti altri: in Russia, nella Repubblica Ceca, in Tunisia…
Perrotta. So che hai conosciuto Federico Fellini.
Bonaviri. Con Fellini ero in buoni rapporti, scambiammo qualche lettera, però il solo fatto di dover andare la sera a Roma a cena per me diventa un dramma. Per me è un dramma uscire fuori Frosinone, uscire dall’utero materno, dunque a un bel momento i rapporti sono caduti.
Perrotta. Un film di Fellini tratto da un romanzo di Bonaviri non sarebbe stata una cattiva idea.
Bonaviri. Per fare i suoi film Fellini aveva dei soggetti preferiti e incontrava anche difficoltà, sebbene fosse un grande regista cinematografico, a trovare i fondi.
Perrotta. Mi racconti della collaborazione col compositore Ennio Morricone? Insieme, nel 2001, avete scritto l’opera Ode in occasione dell’inaugurazione della nuova sede del Conservatorio di Frosinone.
Bonaviri. Ennio Morricone è una gran brava persona. Mi fu proposto dal senatore Massimo Struffi e dal direttore del Conservatorio di Frosinone di fare un poemetto sulla Ciociaria che sarebbe stato musicato da Morricone, cosa che avvenne. Solo che l’esecuzione, all’aperto, fu fatta in un giorno che c’era vento per cui Morricone non fu soddisfatto della registrazione e, tranne la copia che ho io, di quest’opera non c’è purtroppo altro documento.
Perrotta. Quali pittori contemporanei hai amato?
Bonaviri. Per quanto riguarda la pittura ho apprezzato diversi artisti, non so, Filippo Gentilini o Corrado Cagli, ma rapporti personali non ne ho avuti.
Perrotta. Bonaviri e la politica. Si sa che da giovane sei stato antifascista e comunista.
Bonaviri. Al ginnasio scrivevo temi antifascisti. Non perché fossi un antifascista convinto… era una specie di ribellismo, leggendo che Mussolini aveva sempre ragione o «Credere, obbedire, combattere!» mi disturbai e quindi scrivevo temi antifascisti. In quarta ginnasiale fui rimandato ad ottobre, feci un bel tema e da allora in poi capii che la politica non bisognava toccarla.
Dopo la liberazione fui comunista: fui iscritto al movimento giovanile e al Partito Comunista per molti anni.
Perrotta. Collaboravi all’Unità.
Bonaviri. A Gaetano Trombatore piacque molto Il sarto della stradalunga e m’invitò a collaborare all’Unità. Ho collaborato per quattro o cinque anni alla pagina culturale; in seguito ho collaborato al Messagero, all’Avanti!, al Corriere della Sera e all’Osservatore Romano. La mia collaborazione giornalistica è molto estesa e poco conosciuta.
Perrotta. Anche della tua poesia si parla meno.
Bonaviri. Le mie poesie sono state tradotte in diversi paesi ma dovrebbero essere studiate e approfondite ancora di più perché sono un ramo dello stesso albero. Un ramo forse più vivace, più vivo.
Perrotta. Parliamo del Bonaviri privato. Come uomo godi fama di eccentrico.
Bonaviri. Se essere solitari… significa essere strani, lo sono.
Perrotta. Molti libri li hai dedicati a tua moglie. Leopardi aveva in Silvia la sua musa, per te Lina cosa ha rappresentato?
Bonaviri. Leopardi guardava la povera ragazza malata Silvia dalla finestra del palazzo… sposarsi, convivere, avere figli è un mondo con reazioni diverse.
Perrotta. Ci sono libri che non hai avuto ancora il tempo di scrivere?
Bonaviri. Ho ancora tanti pozzi di memorie, soprattutto dell’infanzia e dell’adolescenza. Bisognerebbe scrivere per secoli e secoli…
Perrotta. Che idea ti sei fatto del dopo?
Bonaviri. Siamo nel campo dell’incognito, la vita è un mistero. Tutto lascia pensare, secondo le nostre vedute biologiche (che potrebbero essere errate) che tutto finisce con la fine del nostro corpo biologico. Probabilmente, chiudendosi l’assillo di fuoco della nostra vita, si arriva nel vuoto spazio dove tutto è nulla e dove il nulla forse è il Tutto, ovvero il Dio che cerchiamo.
Intanto mi preme ringraziare Sarah Zappulla Muscarà, Subhaga Gaetano Failla e Rawdha Razgallah per gli ottimi contributi.
Subhaga Gaetano Failla mi darà una mano ad animare e coordinare il post.
Il post, naturalmente, è incentrato sulla figura di Giuseppe Bonaviri e sulle sue opere.
Conoscete Giuseppe Bonaviri? Avete letto qualcuno dei suoi libri?
Vi invito a discuterne insieme.
Comunicherò l’avvenuta pubblicazione di questo post a Sarah Zappulla Muscarà e a Rawdha Razgallah cercando di coinvolgerle nella discussione che (spero) seguirà.
Magari loro stesse potrebbero far partecipare al dibattito gli studenti delle Facoltà dove insegnano.
Come già preannunciato inviterò anche gli amici della “Fondazione Bonaviri”.
Insomma, speriamo in un gran bel dibattito.
Infine, vi giro le domande…
Esiste davvero un potere salvifico della scrittura?
E fino a che punto la scrittura è in grado di curare il disagio vitale?
Vi ringrazio in anticipo per la partecipazione e ne approfitto per augurarvi buonanotte.
Scusate, ma prima di chiudere (per oggi) desideravo ringraziare personalmente, e con tutto il cuore, Giuseppe Bonaviri per le grandissime opere letterarie che ci ha donato.
—
Grazie di cuore, Giuseppe.
Grazie di cuore.
Massimo Maugeri
Questo ”post” me lo voglio leggere con calma, desidero assaporarlo come merita – eh, si’: un ”covo” tale di italianisti non posso lasciarlo privo della mia presenza, seppur di minimo rilievo!
A presto risentirci
Sergio Sozi
A proposito del potere salvifico della scrittura io credo che, sì, essenziale per molti (non per tutti) è la scrittura. Per chi ama spogliarsi delle sovrastrutture e rimanere nudo con le proprie debolezze, per -vederle- coraggiosamente e vestirsene poi con quell’orgoglio che permette di andare avanti senza recedere mai dalla dignità e dalla forza di sentirsi ‘uomo’, la scrittura è imprescindibile dalla propria esistenza.
Di Giuseppe Bonaviri, di cui sto ‘studiando’ 🙂 un saggio che ho avuto generosamente in visione da un amico e di cui forse ne pubblicherò uno stralcio, ho presentato una poesia nel mio blog, che vi invito a leggere:
http://ainsi.wordpress.com/2008/10/22/chi-sono-nel-pomeriggio-giuseppe-bonaviri
Un saluto caro a Massimo e a Gaetano
Rina
Gentile Massimo,
nell’interessante prefazione de “L’infinito lunare” di Giuseppe Bonaviri, Sarah Zappulla Muscarà sostiene che per quanti scrivono non per mestiere, ogni loro libro rappresenta come un’immersione in un labirinto di sé stessi per entrare, mediante le parole, in un disagio salvifico curabile soltanto con la pagina scritta.
Quest’affermazione, che condivido appieno, mi rammenta un’acuta asserzione di Robert Escarpit (v. “Sociologia della letteratura”) secondo cui l’atto della scrittura (e della lettura) è nello stesso tempo sociale e asociale, connaturato a un’insoddisfazione legata alla natura umana (brevità, fragilità dell’esistenza), all’incontro o scontro tra individui (amore, odio, pietà) o alle strutture sociali (oppressione, miseria, noia, paura del futuro). Brevemente, è un ricorso contro l’assurdità della condizione umana.
D’altronde, gli scrittori – nella gran parte dei casi – non fanno che recuperare, esplicitamente o velatamente, i momenti essenziali del proprio vissuto, esponendoli magari in modo ironico o sarcastico, o esorcizzandoli, o sublimandoli, oppure cercando di comprenderli per mezzo di un’implacabile ricognizione interiore così da affrancarsi – appunto – dalle insoddisfazioni, inquietudini, disagi, fantasmi esistenziali.
A mio avviso, però, il potere salvifico della scrittura si esplica non solo nei confronti degli autori, bensì anche dei lettori.
Un saluto cordiale, Ausilio Bertoli
Putroppo, confesso la mia ignoranza, conosco Bonaviri solo di fama, non avendo mai letto nulla di suo. Provvederò, pertanto, a iniziare a dedicarmi alle sue opere e ora chiedo un consiglio: con quale cominciare?
Quante alle domande che ha posto Massimo, dico che, almeno nel mio caso, la scrittura ha un potere salvifico. Sarebbe una storia troppo lunga spiegare perchè sono uscito da una condizione di profonda prostrazione solo iniziando a scrivere e guardando così dentro me stesso. E’ stata un’analisi spietata, che ha messo in luce le contraddizioni sempre presenti in ogni uomo, a volte tali da far perdere il senso dell’esistenza.
La coscienza, tuttavia, di quel che si è finisce con l’essere il presupposto indispensabile per avviare un percorso che consenta di vivere consapevolmente e quindi di poter cogliere quelle opportunità, disponibili per tutti, ma che nella mia struttura solo in parte posso recepire. Ho iniziato con la poesia, prima sempre letta e raramente scritta, e devo dire che sono stati anni di studio sì di tecnica, ma anche di me stesso, scoprendo ogni volta qualche cosa di nuovo del mio “io” che ignoravo.
Ecco, la scrittura può curare il disagio vitale sempre e solo tenendo conto della consapevolezza di ciò che siamo e soprattutto dei nostri limiti, che non sono dei paletti messi lì per dispetto, ma sono il nostro terreno fertile che differisce da individuo a individuo; l’importante è saperlo coltivare.
Perché in questo momento si stanno trattando i temi che maggiormente mi interessano? Spero si protragga il tutto, poiché, come dice Sergio Sozzi, un discorso così gremito di nomi e (aggiungo) sulla scrittura e sulla riflessione sul suo potere salvifico, o meno, non si può trascurare.
Quante tentazioni in questo momento che mi distraggono dalla ‘retta via’… Resisterò? Spero di intervenire e che l’argomento continui per un bel po’.
Un caro saluto a tutti gli amici di Letteratitudine e al caro Mssimo.
In Sicilia lo sappiamo.
Chi vuole fare il poeta deve andare a Camuti, nei pressi di Mineo.
Lì, tra rocce infestate da pale di fichi d’india, da tombe terragne, da nipita selvatica, c’è la “pietra”.
E’ la pietra della poesia, dicono le leggende. La pietra intorno alla quale i letterati d’Italia accorrevano. Quella che sfioravano sotto il sole cocente, tra gorgoglii lontani dell’Etna. E’ la pietra su cui Luigi Capuana si è seduto. Dietro cui Bonaviri si è nascosto aspirandone un odore acre. Di inchiostro. Di versi. Di sogni.
Quella che basta toccare perchè la lingua non sia più lingua. Ma stelle…E perchè un uomo si trasformi in poeta.
Io conosco la pietra. L’ho raggiunta da Mineo dopo aver percorso la strada lunga con il libro di Bonaviri sotto il braccio. Sbirciando i presepi che costellano la via in periodo d’Avvento. Dicendomi: è per questo. E’ per questo che Bonaviri ha potuto scrivere “Il sarto”.Per questa mescolanza di cielo e tempo.
Per questa naturalezza nel concepire il verso nella lingua parlata. Viva. Per questi racconti sovrapposti ai ricordi, che cambiano da bocca in bocca. Ho con me anche il volume delle “Novelle saracene”. Le rileggo ora nei pressi di Camuti senza percepire la lama di caldo che fola da sud. Seguendo la scia delle parole di Orlando e Rinaldo che si sovrappongono a quelle di Giufà. O dei frammenti di versi che si impigliano nella narrazione e rendono vere e vive anche le cose più banali. Quelle che basta guardare perché si trasformino.
Tocco la pietra sperando che una goccia della sua forza trapassi anche me. La sfioro e sento che non è strano che sia un sasso a dar corpo alla fantasia. Alle storie. A uno scrittore.
Che quello stare piantata lì, al centro di un mistero, ci somiglia.
–
@ Proff.ssa Rawdha aouchi-Razgallah che chiede : perchè Bonaviri è uno scrittore che utilizza il fantastico nelle sue opere?
…Credo che sia proprio perchè ha avvertito, fin da bambino, una commistione naturale e quasi necessaria tra mondi. Tra atmosfere. E tra la natura e la vita nascosta che la anima.
Le connessioni fantastiche delle “Novelle Saracene” lo dimostrano. Giufà e Gesù. I paladini di Francia e il paese come dimensione del tempo oltre che del luogo.
Tutto è in tutto.Appunto: il mistero che ci cinge. Quello impossibile da spiegare.
Che si può solo raccontare.
Non ho ancora letto Bonaviri, ma questo post mi dà l’opportunità di conoscerlo e mi stimola a leggerlo.
Lo farò senz’altro.
Grazie.
Io sono tra coloro che credono nel potere salvifico della scrittura.
L’intervento della Lo Iacono meriterebbe di essere affisso su un cartellone e lasciato in bella vista alle porte di Mineo. C’è tanta di quella poesia dentro! E pensare che sono andato un sacco di volte a Mineo e non mi è mai venuto in mente di sedermi sopra la famosa pietra (bestia che sono!). Ormai è troppo tardi, anche se provassi a spremerla con una pala meccanica, non caverei nulla, le ultime goccie se li è prese Simona.
Bravissima Simo!!!
All’ ottantesimo compleanno manca qualche settimana, ma per Giuseppe Bonaviri i festeggiamenti sono già cominciati. Almeno sulla stampa, in parte italiana ma soprattutto francese. «Le Monde des livres mi ha dato la prima pagina, Le Figaro ha scritto che sono uno dei tre grandi scrittori regalati dalla Sicilia al mondo, con Pirandello e Sciascia. Ho preparato tutto, può leggere, e ci sono 2.070 voci su di me su Internet…». Parla con l’ ansia di convincermi, come se nessuno sapesse che è uno scrittore famoso. Tra i viventi italiani, uno dei più grandi: imprevedibile, raffinato, fantastico, ironico, surreale e insieme realistico e consapevole del male di vivere in un suo modo personalissimo che mescola immaginazione e biologia, letteratura e scienza, paese natale e spazi profondi dell’ universo. Più volte candidato al Nobel, Bonaviri è autore di una quarantina di volumi tradotti in 17 lingue. «Anche arabo, cinese e giapponese». La stessa ansia di quindici anni fa, quando venni qui per la prima intervista, e mi colpì per la mancanza di boria e la dolcezza del sorriso, come di un uomo educato dal dolore. Appena arrivati a casa (è venuto a prendermi alla stazione, esile sotto l’ inseparabile coppola insieme al figlio Emanuele) mi conduce in un corridoio zeppo di libri, messi in doppia fila e in orizzontale, e mi mostra la sua collezione di volumi rari e preziosi. Fra gli altri, varie opere del Manzoni («Sì, l’ ho studiato parecchio e ho scoperto che parte di “quel ramo di Como” deriva da alcuni passi di Daniello Batoli»). Ecco la prima edizione dei Promessi Sposi del 1840, «e ho anche quella del 1827, prima che andasse a “risciacquare i Panni in Arno”. L’ ho pagata ben dodici milioni. Sì, ho messo il prezzo e l’ anno d’ acquisto in ognuno dei libri, così se ne accorgeranno quando sarà il momento». Chi? I figli? «Ma no, c’ è la fondazione di Mineo, ora c’ è un convegno di traduttori, ma lui non ci vuole andare», interviene la moglie Lina. «A Catania vogliono dargli la cittadinanza onoraria. E’ un bel riconoscimento, ma nemmeno lì vuole andare, è testardo…». «Nelle pensioni di Catania ho sofferto fame e freddo, ci si andava a scaldare nelle case di tolleranza, e sono stanco, stanco…», mormora lo scrittore più a stesso che a noi. Continua a cercare: «E’ difficile trovare le cose, io poi devo fare tutto da solo, nessuno mi aiuta…». Lina è sempre lì. Si chiama Raffaella Osario e si vanta di avere «un anno più di lui, 81». Allora lui spiega che è pittrice, e mi guida in camera da pranzo, dove sono appesi molti suoi quadri chiari con fiori. «E’ anche poeta, ha pubblicato un libro da Manni, Ombre oblique, perché non glielo dai?». Torniamo nel corridoio bibliofilo, dove lui trova le poesie di suo padre, «Settimo Emanuele, sarto ma anche poeta come tutti a Mineo, dove c’ è la pietra della poesia fotografata da Luigi Capuana e una volta all’ anno tutti venivano lì dai dintorni a recitare poesie~ Le poesie di mio padre, L’ Arcano (vede che parole difficili conosceva) indagano il rapporto misterioso tra padre e figlio. Io le ho raccolte e pubblicate postume. Questa invece è una poesia di mio nipote Gianluigi, diciassettenne. La scrisse a cinque anni dopo aver visto il film La sirenetta, e ora è tradotta in russo: “Acqua vera schiumante/ bianca come questa camicia/ faccio il bagno con la Sirenetta./ Ombrelloni, nel mare/ raccogliete la mia poesia / e portatela a nonno Pippo/ che è il mio grande cucciolo”. Quello che voglio dimostrare è che c’ è una trasmissione cromosomica: da mio padre a me a mio nipote. E’ così che si nasce scrittori». E gli scrittori di prima generazione? «La trasmissione cromosomica l’ avranno avuta anche loro, ma probabilmente è stata deviata e poi si è risvegliata». Insomma, lei non può fare a meno di una spiegazione scientifica. «No. Io volevo diventare medico ricercatore, per questo – primo della mia famiglia a fare l’ Università – nel ’43 scelsi Medicina. Ma c’ erano guerra e miseria, servivano soldi, poi nel ’64 morì mio padre. La vita mi ha trascinato a Sora, dove tre volte alla settimana facevo turni di trenta ore consecutive. Non era un vero ospedale, era un’ infermeria. La gente mi moriva tra le mani. Ho imparato a fare l’ aborto. Sono entrato nei labirinti del dolore umano, ho appreso la caducità unica e sola della vita. Ho imparato che la legge etica che ci dovrebbe dominare tutti è l’ umiltà, l’ affetto verso gli altri. Mentre è proprio il contrario. «Per sei anni ho sofferto di crisi depressive, per dodici anni i pochi letterati che mi avevano letto non mi avevano visto in faccia. Quando pubblicai Il fiume di pietra, in cui dei ragazzi prendono in giro fascisti, tedeschi e mezzo mondo, lo portai a Leone Piccioni alla Rai. Gli piacque. Ma io avevo preso mezza compressa di un farmaco, il “Fobican”, e improvvisamente non ero più io, ero diventato un altro. Da allora ebbi paura a viaggiare, e per tre-quattro anni non mi mossi più. Solitudine, superlavoro, depressione. Ne sono uscito scrivendo e accumulando libri. I libri erano le trincee, al di là dei libri sparavano. Cominciai col mettermi un libro un tasca e fingevo che quel libro fosse mia madre che mi diceva: “Su, Peppino, non ti scoraggiare”. Ora mi è rimasto uno sdoppiamento fra sera e mattina. La mattina sono più giovane, la sera sono sperso fra le stelle, si appannano i fasci elettromagnetici che girano intorno all’ idea di Dio». Oltre alla biologia, lei ha molto presente l’ universo, lo spazio, i buchi neri… «Io penso che la vera linea di displuvio tra il presente e un passato solo apparentemente vicino sia nel 1969, quando l’ uomo mette piede sulla luna. Si affaccia e vede la Terra. Fino ad allora l’ uomo era vissuto con la testa a terra. E infatti le prime divinità erano ctonie, del sottosuolo. Ma se guardi i cieli stellati, o se guardi la Terra da fuori hai una visione diversa: ti senti sradicato dal pianeta, immerso in una realtà elettromagnetica o termonucleare come il Sole. Avere scoperto i buchi neri significa che ora si sa che esiste un universo non visibile, di massa e peso enormi. Ci vuole una visione del tempo diversa dal passato. Io lo chiamo “il tempo a margherita”. C’ è un tempo psicologico (breve, se sei felice), un tempo fisico, misurabile dai fisici con campi di forze attrattive e repulsive, un tempo planetario, legato al sole. Poi ce ne sono altri: una cellula è un cosmo chiuso in sé da una membrana attraverso cui passano ioni elettrizzati. C’ è un tempo dei pesci, uno degli uccelli. Nei buchi neri è un tempo iugulato, ristretto, addensato, misurabile in miliardi di anni». Bonaviri ha tre nipotini che adora, e ai quali ha dedicato Il vicolo blu dell’ anno scorso (ora tradotto in Francia). «E’ un epos familiare dove mescolo il passato al presente, e lo trasferisco ai nipoti come se fossero cresciuti con me. In quel libro c’ è una società libera, i bambini facevano la cacca insieme, stavano con le galline, i millepiedi, gli scarafaggi. Noi vivevamo nel “catoio”, un’ abitazione-stalla dove essere umani e animali si mescolavano. Per la profilassi non è raccomandabile, ma per la vita affettiva sì. Noi maschi ci masturbavamo insieme, e il catoio diventava un salotto letterario: ci raccontavamo fiabe, scherzavamo, ridevamo, ci misuravamo il pene, più lungo, meno lungo. Toccavamo le vulve degli animali. Era anche una conoscenza primordiale della fisiologia. E’ una visione biologica totale della vita, animali e persone. I bambini hanno affetto per una asinella, ma conoscono anche il sesso. Le passano il taglio della mano sull’ apertura vulvare, e lei ci guardava grata». Esseri umani e animali stanno insieme anche nel suo libro di poesie appena uscito, I cavalli lunari. «Sì, e ci sono anche virus e batteri. Credo che nessuno lo abbia fatto fino ad oggi. Io penso che questi esseri microscopici che vivono con noi a milioni fanno parte del nostro corpo, e anche loro hanno il diritto di venire innalzati agli onori della poesia. Così ho scritto poesie sui batteri più comuni che disturbano voi donne, sono andato a vedere come vivono nelle vostre mucose. Una poesia l’ ho scritta sui tampax… non ho mai sentito di nessuno che abbia fatto una poesia su un batteriogramma vaginale. Almeno una strada l’ ho aperta».
LAURA LILLI FROSINONE
(Repubblica — 19 giugno 2004 pagina 38 sezione: CULTURA)
Bonaviri è nato negli anni Venti del secolo scorso. Sarebbe bello leggere qualcosa su come ricorda la Sicilia di quand’era ragazzino. Chissà che testimonianze degne di essere conservate……..
Complimenti per l’iniziativa
Nell’estate del 2006, appena pubblicato da Sellerio, ho letto “L’incredibile storia di un cranio” di Giuseppe Bonaviri.
Conoscevo già l’autore per aver letto, qualche anno prima, “Il vicolo blu”, dono di un caro amico.
Ricordo bene quell’estate e quel libro perché al termine della lettura sentii forte il desiderio di scrivere all’autore, di comunicare a lui l’emozione di quel momento.
A dir il vero mi ero anche procurata il suo indirizzo ma poi, per timidezza e per il timore di disturbarlo, quella lettera non partì mai.
Ecco perché sono immensamente grata per questo “post”. Spero che le mie parole, in qualche modo, giungano – oltre che a voi tutti – anche a Giuseppe Bonaviri e con loro l’eco di quella emozione.
Gentile dottor Bonaviri, amo la lettura, compagna instancabile di tutte le mie giornate.
Attraverso “L’incredibile storia di un cranio” ho vissuto un’esperienza straordinaria e bellissima. Sin dalle prime pagine, qualcosa di miracoloso avveniva in me, mi sentivo avvolta da una rete emotiva. Per la prima volta mi trovavo a pensare al libro anche durante la giornata e desideravo ardentemente ritornare a casa per sdraiarmi e riprendere la lettura, quasi in un rituale magico.
Infatti era di questo che si trattava, la lettura era un incantesimo per entrare in uno spazio senza tempo nel quale galleggiare dolcemente, facendosi trasportare dalle mille suggestioni del suo racconto.
Spero possa giungerle il mio grazie affettuoso e commosso. Custodisco ancora quel libro come un oggetto incantato e mi accosto alla lettura delle sue opere con lo stupore e l’innocenza del “bimbo di Mineo”.
Un caro saluto.
Angela
* Gentile Massimo e cari amici, in queste brevi righe spero di aver indicato un esempio del potere salvifico della scrittura, certamente nei confronti del lettore. Tale è la forza dell’opera di Bonaviri.
Oggi ho ordinato “L’infinito lunare”. Spero che arrivi presto. Ciao.
La scrittura non ha mai salvato nessuno, men che meno chi con la penna in mano per sua distrazione, per professione o per mettersi in mostra come una vecchia puttana di rossetti cipria e belletto. Se la scrittura può far qualche cosa è uccidere chi la pratica; ma può far sì che si parli di certe situazioni, pur non contribuendo concretamente al cambiamento. Nessuno che oggi scriva “stop alla guerra”, per quanto forte il suo nome, potrà fermare la guerra: le parole hanno il loro limite ed è ben definito. Scrivere fa parlare degli effetti della guerra, ma non la ferma. Però tanti libri sono così voluminosi e inutili che li si potrebbe usare come oggetti contundenti, perlomeno servirebbero a qualche cosa.
La scrittura “salva”. E lo fa non perchè leggendo un libro possa cambiare la realtà esteriore. Ma quella interiore.
Il romanziere Josè Manuel Fajardo raccontava sempre di una donna di nome Julia che abitava di fronte ad un convento di monache di clausura. Avendo assaggiato i dolci delle monache e avendoli apprezzati moltissimo, decise di comprarne una scatola ogni domenica e fece perciò amicizia con la madre portinaia. Tanto che un giorno le disse che lei aveva un balcone che si affacciava proprio sul convento e che quindi non esitasse a chiederle aiuto se avesse avuto qualche necessità nel mondo esterno (come imbucare una lettera, fare una commissione o ritirare un pacco).
Passarono trent’anni.
Un giorno Julia era sola in casa quando bussarono alla porta. Aprì e si ritrovò di fronte una monaca piccolina, anziana e grinzosa che sulle prime non riconobbe.
“Sono la madre portinaia” disse.”Una volta lei mi offrì il suo aiuto se avessi avuto bisogno di qualcosa dall’esterno”.
“Ma certo” disse Julia “Dica pure”.
“Ecco, vorrei chiederle – disse la monaca – di farmi affacciare dal suo balcone”.
Meravigliata , Julia guidò la vecchia sul balcone dove rimasero a lungo, insieme, a guardare il convento dall’esterno.
Alla fine la monaca disse :”E’ bello, vero?”
“Sì” rispose Julia “E’ bellissimo”.
Poi salutò la monaca che non disse altro, e fece per sempre ritorno al suo convento, per non uscirne mai più.
Ecco.
Manuel Fajardo raccontava questa storia come un esempio del più grande viaggio che un essere umano possa compiere e come un simbolo di ciò che è la narrativa.
Scrivere implica avere il coraggio di compiere l’immane percorso che ti tira fuori da te stesso e ti consente di vederti nel convento. Nel mondo. Nel tutto.
E – come dice Rosa Montero – “…dopo avere compiuto tale sforzo supemo di comprensione, dopo avere sfiorato per un attimo la visione che completa e abbaglia, ritorniamo zoppicando nella nostra cella, nella clausura della nostra individualità limitata, e tentiamo di rassegnarci a morire”
Iannozzi a te la scrittura non ti salverebbe né ora, né mai.
@ Brava, Simona! Bellissime queste righe di Fajardo.
Di Bonaviri ho letto poco, solo Il sarto della strada lunga e poco altro. Ricordo che “catalogai” (ho questo vizio) il libro, fra quelli da leggere con le labbra; cioè piano piano per non perdere la musicalità delle parole e delle frasi.
Ricopio e incollo, nella mente, il “pensiero” di Simona : Chi vuole fare il poeta deve andare a Camuti, nei pressi di Mineo. E’ già un titolo…
Un caro saluto a tutti, miriam
Da dove cominciare? Da un ringraziamento a Giuseppe Bonaviri, con tutto il cuore, per le sue opere meravigliose. E un grazie di cuore a Massimo Maugeri per aver aperto uno squarcio di conoscenza su un autore che oggi è forse più famoso all’estero che in Italia.
Spesso Bonaviri è sconosciuto – oggi, qui in Italia – perfino a persone molto esperte di letteratura. E nelle diverse iniziative, in questi ultimi anni, di promozione libraria attraverso grandi quotidiani nazionali, non è apparso un solo libro di Bonaviri ad illuminare un panorama editoriale piuttosto scialbo.
Eppure, tra gli anni Cinquanta e la fine degli anni Settanta, si sono occupati della sua opera critici come Salinari, Manacorda, Bo, Gramigna; e le introduzioni a “Notti sull’altura” e a “La divina foresta” sono state scritte, circa trent’anni fa, rispettivamente da Calvino e da Manganelli.
Questa parziale ignoranza odierna dell’opera bonaviriana può essere spiegata da Bonaviri stesso, che a una mia domanda relativa alla vana attesa del conferimento del premio Nobel, così risponde:
“Se si parla del cosmo, di spiriti, di un mondo pieno per l’appunto di presenze, di deità – vero o non vero – loro istintivamente si allontanano.”
Ricordo inoltre, a proposito della notorietà oltre i nostri confini nazionali di Bonaviri, che alcune sue opere, come ad esempio il bellissimo romanzo “Silvinia”, apparso inizialmente in Francia e un anno dopo in Italia, hanno avuto la loro prima pubblicazione all’estero.
E da notizie provenienti dalla Fondazione Bonaviri, ho appreso che, pochi anni fa, l’autore non ha ricevuto il premio Nobel per un solo voto in meno.
Ringrazio tutti per la partecipazione a questo post, e consiglio di visitare il blog di Rina Accardo, da lei indicato, dove, proprio pochi giorni fa, è apparso un post su Bonaviri, con una bellissima poesia in apertura: “Chi sono nel pomeriggio”, tratta dalla raccolta “I cavalli lunari” (Scheiwiller, 2004).
@ Renzo Montagnoli
A proposito delle opere di Bonaviri, chiedi un consiglio: “Con quale cominciare?” Mi vengono in mente molti titoli, ma ti consiglio il romanzo “La divina foresta”, appena ristampato dalla Sellerio (la prima edizione è del 1969), con una eccellente introduzione di Salvatore Silvano Nigro, e una bellissima copertina che riporta il particolare d’un’opera del Beato Angelico.
Un abbraccio,
Gaetano
@Subhaga Gaetano Failla
Grazie, Gaetano.
Renzo
Tra i tanti commenti ricchi di fascino, mi riferisco a quelli di Simona Lo Iacono per riportare – a proposito della “Pietra della poesia”, situata nell’altopiano di Camuti, nei pressi di Mineo – il seguente brano di Bonaviri, tratto da “Autobiografia in do minore” (Manni, 2006):
***
“Evviva l’altopiano di Camuti che mi vide bambino. Cominciai a scrivere poesie all’età di nove anni, adeguandomi alle consuetudini della famiglia e del mio paese, Mineo, dove gli abitanti in maggioranza erano poeti vernacoli, in gran parte analfabeti, contadini poveri, raccoglitori d’ulive, venditori d’acqua, pietraroli, calzolai, barbieri, sarti, guardiani di buoi, o caprai, e camposantari e artigiani che, per il loro mestiere, erano portati a fare delle considerazioni sulla fugacità di ogni cosa.”
Ancora sulla “Pietra della poesia”:
***
I POETI
.
La mattina da levante il sole
cadeva sulle erbe secche, e la campagna
buttava canti di cicale.
.
In bianchezza, trasparenti i fanciulli
sulle alte ripe seguivano nibbi,
e – giù – trasmutarsi in rubini i brulli sassi.
.
Abbassava chiome l’ulivo su tibie
d’onagri morti, uniti a fumi
che si increspavano su lumachelle in vampa.
.
Arrivavano da borghi e rocche, crèmisi
quarantamila aedi per caldissime
arie e sentieri d’allume.
.
Il pettirosso fischiando cercava fruttifero
il cotogno che viola ardeva, le tife
nel torrente soprastavano i ciottoli.
.
Riunitisi gli aedi attorno al masso
da cui si alzava vapore in bolle di lumi,
pensavano all’inarcarsi del tempo.
.
Che andava per metalli arsi; altissimo
ripercuotendosi nei giri planetari,
impietrava foglie, uomini, fronde.
.
Il carrubo, spandeva ombra.
Guardavano i fanciulli sulfurea
la terra lungo il sole andare.
(G. Bonaviri, “L’incominciamento”, Sellerio, 1983)
Due parole infine sulle domande poste da Massimo, su un eventuale potere salvifico della scrittura – domande già affrontate da diverse prospettive nei commenti precedenti.
La letteratura, come qualsiasi arte, espande, nell’atto creativo, la coscienza oltre i limiti inesistenti del nostro futile io, il quale ci separa dal Tutto. L’identificazione con corpo e mente, con il nostro io illusorio, è causa di continua sofferenza. Soffriamo la condizione del prigioniero. L’arte ci concede uno squarcio di libertà assoluta. L’opera di Bonaviri, a mio parere, è proiettata oltre le mura inesistenti dell’io, verso l’armonia cosmica.
@ STE
E chi BIP se ne frega. La scrittura non ha mai avuto un ruolo salvifico.
Chi ha bisogno di essere salvato? E da cosa? Le persone dotate di creatività, capaci di rifugiarsi nell’onirico, in un mondo che va oltre la quotidianità, posseggono, a mio parere, un sistema di autodifesa in più rispetto alle altre. In questo senso la scrittura aiuta, diventa una valvola di sfogo per scaricare il mal di vivere che spesso li attanaglia. Basta chiudere gli occhi e volare con la fantasia, immergersi in un mondo colorato di elfi e di gnomi. In tal senso per me la scrittura ha una funzione terapeutica. Che so: mi alzo di mattina presto, incontro sul corridoio mia suocera con la faccia disfatta. Mi prende un colpo? Basta chiudere gli occhi e con la fantasia la trasformo in una celestiale fanciulla. Mi arrivano astronomiche bollette da pagare? Basta andare nell’altro mondo e le bollette diventano petali di rosa profumati. Certo, poi c’è il risveglio, ma si può rimandare a momenti migliori. Sorridi Iannozzi, sembra che ti è morto il gatto.
Buona serata a tutti. Grazie mille per i vostri commenti.
@ Simona
Su ciò che Simona ha già detto, non aggiungerei più nulla.
Brava Simona! Mi fa sempre un gran piacere leggerti ed estrarre dalle tue righe la gentilezza poetica espressiva. Ciò che scrivi è un balsamo per chi ha bisogno di inebriarsi di serenità ed eleganza di pensiero.
A mio parere, la scrittura è principalmente da considerare un mezzo per scoprire sé stesso, così come l’artista si scopre nell’opera ideata e creata.
Sostenuto da intenti seri e formativi, rappresenta uno stimolo sano, perché aiuta a comprendere e di conseguenza affrontare meglio questa vita.
Ti leggo e già mi sento trasportato nella dimensione dove le anime umane si sentono unite da una stessa origine e uno stesso futuro.
Scrittura diventa così un balsamo appagante i desideri non trasferibili nella realtà giornaliera, un luogo d’incontro per lo scambio fruttifero di pensieri e possibilità di elaborare insieme concetti per una vita migliore.
Scrittura è inoltre una forma di riflessione sulle depressioni, delusioni, illusioni non realizzabili e dolori che trasmessi verso il fuori vengono resi più comprensibili, onde poter avviare il processo del loro superamento.
Scrittura è un comunicare il proprio ego verso gli altri e notare che abbiamo tutti, pur in una forma e intensità differenti, uno stesso destino.
Scrittura unisce quando lo scrittore e il suo lettore si riconoscono nella lettura e sono grati di fare la conoscenza.
L’artista, e quindi anche lo scrittore, abbisognano della riconoscenza esterna, perché solo così viene appagato il desiderio di comunicare od esporre un’opera.
L’incentivazione che ne sorge sprona a continuare sul cammino delle rivelazioni personali, fatto benefico sia per l’artista come per il visitatore o lettore di turno.
Cari saluti.
Lorenzo
@Renzo, Lorenzerrimo, Salvo, Gaetano: un bacio.
Notte a tutti!
Buonanotte a te Simo,
e grazie di cuore per i tuoi interventi. Uno più bello dell’altro, come hanno giustamente sottolineato gli altri amici nei commenti qui sopra.
Vi riporto, di seguito un articolo che Matteo Collura pubblicò su “Il Corriere della Sera” del 6 marzo 2003 (cfr. “Corriere della Sera”, 6/3/03, pag. 37). Il titolo del pezzo è: “La favola dell’ infanzia nella Sicilia perduta di Bonaviri” ed è riferito a Il vicolo blu. Si parla, appunto, della pietra di Camuti.
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«La sera aveva sopravanzato il tramonto di cui restavano righi gialli sulla stradalunga e, fra i tetti, sugli anemometri. L’ aria del vicolo – con meraviglia di mio zio Michele – cominciò a farsi d’ un leggero blu instabile…». In questo brano, tratto dall’ ultimo suo libro, c’ è – oltre al titolo – tutto il mondo narrativo di Giuseppe Bonaviri, a cominciare da quella «stradalunga» che ormai è venuta a far parte dell’ immaginario letterario del secondo Novecento italiano. Con questo suo struggente romanzo, lo scrittore medico siciliano, da anni rifugiatosi in Ciociaria, dove mai l’ abbandonano i suoi ricordi del paese natale, torna ai luoghi dove ambientò il suo felice racconto d’ esordio, Il sarto della stradalunga, che Vittorini, nel 1954, accolse negli einaudiani «Gettoni». Un ritorno, dunque, in quello che possiamo definire l’ aleph di Bonaviri e che nei suoi ricordi è l’ arcaica, arcadica, miserabile e favolosa Mineo, da dove partì la sua vicenda di scrittore e dove ora torna, accentuando, se possibile, la sua vena poetica, magico-lirica, stupefacentemente cosmica. E sono i bambini, ancora una volta, a descriverci il mondo con gli occhi innocenti di chi lo scopre appena creato. Sono lo stesso Bonaviri con Vincenza o Vincenzuccia, Maria o Mariuccin e Salvatore, rispettivamente sorelle e fratello dell’ autore, a muoversi in una campagna lontana nel tempo, dove gli animali sono costretti a condividere le fatiche degli esseri umani: i muli appesantiti dai basti e le capre recanti al collo i campanacci, tutti lì, assieme a vecchi e bambini, in quel luogo primordiale e incantato – l’ altopiano di Camuti – dove si erge la pietra attorno alla quale i poeti orali – quando a saper leggere e scrivere, nella Sicilia interna, era una sparuta minoranza – si riunivano a gareggiare con i loro improvvisati versi. Racconta, Bonaviri, e qua e là incastona la data di una morte, il rimpianto per un’ ulteriore perdita. Già in una nota d’ apertura avverte: «Affinché siano captate certe sfumature, si tenga presente che l’ autore da poco ha perduto due sorelle… e il fratello…». E poi nel bel mezzo del racconto: «Ma sentimmo nostra madre e la signa Concetta che chiamavano da lassù, dalla radura della casa – O figli malacarne, o figlioli perduti, dove vi siete perduti? (Ed ora, 20 ottobre 2002, Pippuzzo, ti sei perso anche tu nella morte. E resto solo io a scavare in queste memorie)». E ancora: «Una volta con mio fratello Salvatore, agile mentre sveglia (ora morto), riuscimmo a prendere con un gancio uno di quei nidi…». Abbiamo già avuto modo di dire che in Bonaviri più il mondo si fa tecnologico, più si globalizza e omologa, perdendo sapore e memoria, più la poesia della parola scritta sgorga a imporre il suo primato e la sua meravigliosa forza evocativa. In questo l’ autore del Dire celeste mostra una coerenza che ci conforta e che, da lettori, ci delizia.
Matteo Collura
Un saluto e un ringraziamento anche a Rina Accardo, a Giuseppe Ausilio Bertoli, Sabina Corsaro, Renzo Montagnoli, Salvo Zappulla, Miriam Ravasio, Marti e le due Angela.
Un grazie speciale, ovviamente, a Subhaga Gaetano Failla.
Io sono tra coloro che credono nel potere “salvifico” della scrittura (mi riferisco a una salvezza interiore) così come anche della lettura, come evidenzia Ausilio Bertoli.
Rispetto l’opinione contraria di Giuseppe Iannozzi, al quale chiedo la cortesia di esprimersi con immutata decisione, ma in maniera un po’ meno “provocatoria” (così evitiamo il rischio delle classiche “risse telematiche”).
Un caldo e forte abbraccio e un altrettanto sentito ringraziamento al caro Gaetano Failla per la pubblicazione della poesia ”I poeti” di Bonaviri – qui sopra. Stupenda, Gaetano. Non serve commentarla, dunque l’ho letta e sentita. Stop.
Ciao
Sergio
@ Angela (del commento delle 12:30 am)
Mi ricordo di un articolo che Bonaviri scrisse sul “Corriere della Sera” e che aveva a che vedere con l’infanzia nella sua Mineo (spero di non ricordarmi male).
Vedrò di procurarmelo.
@ Sergio Sozi
Sergio, qual è l’opera di Bonaviri che prediligi? E perché?
@ Angela (del commento delle 12:52 am)
Carissima Angela,
grazie a te per il tuo bel commento. Sono piuttosto sicuro che le tue parole giungeranno al nostro Giuseppe Bonaviri.
Vedrò di procurarmi qualche contributo anche su “L’incredibile storia di un cranio”, che tu citi.
Il dibattito continua. Domani vi offrirò (spero) nuovi contributi.
Ne approfitto per segnalare che Sarah Zappulla Muscarà, al momento, si trova all’estero… ma spero che avrà comunque modo di intervenire al suo rientro in Italia.
Bonaviri, per quel che ne ho letto – frammentariamente qua e la’, lo confesso – e’ un autore che sento molto vicino in genere (pertanto senza fare troppi distinguo sulle diverse sue opere), per dei motivi di ordine diverso che considero nella sua scrittura estremamente armonici fra di loro: in primis la ricercatezza stilistica e la scientificamente meticolosa cura della ”parola” (poi anche delle ”parole”, certo, cioe’ dell’insieme, ma mi sembra che lui parta dall’atomo per costruire la materia, com’e’ giusto che sia in Letteratura); in secondo luogo per la valorizzazione della dimensione onirico-sacra (e dunque arcaica, o meglio archetipale), sempre presente nelle sue pagine, si prosastiche che poetiche; tertium: per la sua creativita’ linguistica, raramente artificiosa, unita ad una forte letterarieta’.
Insomma, Giuseppe Bonaviri ha in se’ i tre punti di forza che considero indispensabili per l’ottenimento di un raccontare ed un poetare al contempo tradizionale, individuale, affabulatorio-narrativo e lirico. Bonaviri racconta storie anche con le poesie – Dante e Petrarca cosa fecero? – e questa e’ una rara maestria, soprattutto oggi; la sua operazione di cucitura fra, da una parte, simbolo, allegoria, iperbole, concettosita’ e, dall’altra, materia, sasso, albero, vita, storia, Bonaviri dunque la compie senza distaccarsi astrattamente dall’ ”atomo” eppure al contempo librandosi nell’iperuranio. Cio’ significa avere capacita’ di analisi, di introspezione e di attaccamento sia ALLA realta’ che ALLE realta’ – nonche’ bagaglio letterario autentico, non barzellette, alle spalle.
La cultura serve a qualcosa, affermo, parlando di questo autore – e lo affermo io solo perche’ implicitamente lo dimostra lui stesso col proprio lavoro.
Sergio Sozi
Sul ”potere salvifico” della scrittura, devo invece produrre un distinguo: al di la’ della verosimiglianza o meno di tale potere (non entro nel merito perche’ per me la scrittura e’ solamente una ”cosa naturale”: una parte di me stesso come un braccio o mia figlia), credo che esista uno spartiacque netto fra chi scrive esclusivamente per se stesso e chi scrive esclusivamente per chi legge; la via di mezzo fra queste due oceaniche comunita’, ossia lo ”spartiacque” stesso, e’ invece il luogo in cui io colloco i grandi scrittori – i quali insomma sono se stessi e anche di tutti i lettori sensibili e colti esistenti, esistiti o futuri, in ogni era terrena o cosmica. Ecco perche’ Dante e’ Dante e noi siamo… ehhh… cosa siamo?
P.S. per Angela
Un grazie particolare anche da parte mia, sig.ra Angela, per via del suo commento accorato e verace – noche’ acuto e profondo – sull’autore di cui questo ”post” tratta. Secondo me, Lei e’ una scrittrice – o ”latente” o ”manifesta”…
P.S. su Bonaviri
E’ sicuramente l’unico degno erede vivente di Quasimodo. Il premio lo dimostra non piu’ che la realta’ della sua poesia: una poesia ”falsoermetica” che molto ha di quella del Nobel – anche le disturbanti e controproducenti ambiguita’, certo, ma cio’ non toglie niente al loro valore.
bellissimo post. dichiaro solennemente che sarò una nuova lettrice di bonaviri
Credo che Bonaviri sia un autore da ri-scoprire e da ri-valutare. Probabilmente merita più attenzione da parte dei media che si occupano di libri. Avete fatto bene a parlarne qui.
La scrittura ha un potere salvifico?
Forse la parola salvifico
Scusate, è partito il commento incompleto.
Volevo dire: Forse la parola salvifico è un po’ troppo grossa. Ma di certo rappresenta una delle più belle forme di libertà che esista. Senza la scrittura l’uomo sarebbe altra cosa, di certo peggiore.
Lo scrittore siciliano Giuseppe Bonaviri recita la poesia “Annientamento”
http://it.youtube.com/watch?v=kz9k7CeyLh0
Dal documentario:
BONAVIRI RITRATTO
Regia: Massimiliano Perrotta
Voce: Marco Castelli
Fotografia: Luca Corretti
Montaggio: Antonio Casile, Antonio Meucci
Musiche: Emanuele Senzacqua
Produzione: Fondazione Giuseppe Bonaviri
Italia, 2007
Conosco troppo poco Bonaviri (ed è mia colpa) per sentirmi di dire qualcosa di sensato sull’argomento. Ma vi leggo, e con interesse, come sempre.
Sul potere salvifico….. concordo un po’ con Manuela: sono paroloni e a mio parere bisognerebbe intendersi bene. E’ salvifico per chi scrive? per chi legge? Forse può esserlo in alcuni, forse in molti, casi. Ma ognuno è un caso a sè. E poi salvifico da cosa? Anche le esigenze di salvezza possono essere molto diverse tra loro. E in fondo io non mi fido delle generalizzazioni.
Ho letto tempo fa, molto tempo fa, il Fiume di Pietra. e sinceramente, e purtroppo, non ricordo molto. Vorrei riscoprire questo autore. è una pecca mia, così come per Carlo. Rimedierò.
Esiste qualcosa di più salvifico della scrittura?
Rieccomi per dare una mano a Massimo. E per ringraziare tutti dei nuovi commenti.
@ Salvo
Con la speranza di incontrati a Roma per la fiera del libro, e con l’auspicio che il potere salvifico della scrittura trasformi sempre, come tu dici, le bollette astronomiche da pagare in “petali di rosa profumati”…
@ Lorenzerrimo
(Mi sei mancato, nel tuo periodo di assenza da questo blog). Sono d’accordo con il tuo commento, in particolar modo quando affermi che, a proposito delle sofferenze del nostro vivere, la scrittura può “avviare il processo del loro superamento”.
@ Antonio Trovato
Grazie del link! Che emozione rivedere Bonaviri mentre recita una sua poesia! Grazie di cuore!
La scrittura, come ogni forma d’arte, vedi musica, pittura, assorbe una parte di noi, della nostra essenza. E non credo in coloro che scrivono solo per se stessi: l’artista senza riscontro è un artista a metà. Credo invece nel suo potere “salvifico” a cui pongo doverose virgolette perché non intendo nel senso letterale del termine, forse direi più “liberatorio”, almeno come concetto. Una sorta di supporto psicologico, un grosso contenitore in cui vomitare le nostre paure, le nostre angosce, tramutarle in sensazioni da comunicare, in esperienze da tramandare. Forse è una necessaria valvola di sfogo.
La scrittura è il nostro lato immmortale
Mi ricollego all commento di Angela, la quale parla del romanzo di Bonaviri “L’incredibile storia di un cranio” (Sellerio, 2006). Ho letto, e riletto, ad alta voce, alcuni dei brevi capitoli di questo libro, per assaporare meglio il suono delle parole. Miriam Ravasio ricorda la sua lettura de “Il sarto della stradalunga” effettuata “con le labbra; cioè piano piano per non perdere la musicalità delle parole e delle frasi.”
Ho aperto poco fa, a caso, “L’incredibile storia di un cranio”. E ho incontrato questo brano conclusivo d’uno dei suoi capitoli:
***
“Mentre la nave partiva, molti ragazzi la seguivano in barca, o in vecchissime barchette, piene di frutta esotica, che offrivano ai viaggiatori arrampicandosi per certe scalette tuttora libere sulle pareti. C’era un mormorio continuo. La frutta odorava di acqua marina. Le grida dei ragazzi riempivano di sonorità il sole.”
Manuela sottolinea giustamente: “Credo che Bonaviri sia un autore da ri-scoprire e da ri-valutare.”
Facevo notare, nei miei commenti precedenti, la disattenzione nei confronti dell’opera di Bonaviri (già apprezzata da autori come Vittorini, Sciascia, Calvino, Manganelli) a partire dagli anni Ottanta. E a causa forse di tale disattenzione, è anche passato inosservato in Italia il Premio Speciale Europeo Salvatore Quasimodo per la poesia, assegnato a Bonaviri nel 2005 in Ungheria. Bonaviri è stato scelto da una giuria internazionale tra 45 poeti invitati a partecipare, provenienti dai 25 Paesi dell’Unione Europea.
Caro Sergio (sono a metà della lettura del tuo romanzo “Adesso a Roma piove”, scusa la mia lentezza…),
trovo molto pertinente il tuo commento sull’opera di Bonaviri, ed in particolare, voglio citare quel che affermi a proposito della complessità della sua scrittura, la quale si manifesta “… senza distaccarsi astrattamente dall’ ‘atomo’ eppure al contempo librandosi nell’iperuranio. Ciò significa avere capacità di analisi, di introspezione e di attaccamento sia ALLA realtà che ALLE realtà…”
I personaggi di Bonaviri sono coinvolti nella multiformità di realtà sconfinate, la loro vita è animata dalle infinite anime dell’universo. Ed essi, come accade in “Martedina”, intraprendono perfino viaggi verso altri pianeti:
***
“Ebbi una sensazione di strappo violento quando la nave ruppe l’atmosfera. E i miei pensieri si frantumarono.”
***
E Bonaviri però non si distacca mai “dall’atomo”, come tu dici, rimane consapevolmente in intimo e indissolubile contatto con questa nostra terra, con questo nostro corpo, scrivendo, ad esempio, ne “I cavalli lunari”, poesie che si occupano dell’aspetto meramente biologico del corpo umano. E ne “Il vicolo blu” (Sellerio, 2003) – un romanzo bellissimo, ne consiglio caldamente a tutti la lettura – troviamo questo brano, relativo all’infanzia di Bonaviri a Mineo:
***
“Quando arrivavamo in una radura, dove già l’erba senz’acqua si inclinava e ingialliva, accoccolati ci mettevamo in cerchio per fare i nostri bisogni, abbassandoci i pantaloni. Così, mentre facevamo la cacca, ognuno, preso dall’estro, diceva qualcosa. Notavo che ognuno di noi (comunemente eravamo sette o otto) defecava in modo diverso. Pippuzzo, per esempio, emetteva una cacca molliccia, senza sforzo alcuno, per lo più inodore; la mia era più solida, un po’ di prèmiti dovevo farli; mio fratello faceva una cacca più scura, in mezzo vi si vedevano fibre delle bucce di mandorle verdi (minnulicchi) che mangiava; quella di Niccolò, un nostro compagno della quarta elementare, era ben formata, veri cannòli; (…) Là intorno era un barugliare di peti, or piccoli, ora sodi, o spaccarecci, o sfiatati lentissimamente, e da tutta la radura ci veniva l’odore soffice e caldo del sommacco che là cresceva spontaneamente. Difatti, ne toccavamo, o tiravamo, delle foglie per palparne la delicatezza, o, smuovendo le piccole siepi, ne facevamo sprizzare un’onda profumata che ci faceva calar sonno.”
a volte fa bene anche imparare. non ho mai letto alcunché di Bonaviri, ma ho assistito “immobile” a questo dibattito che trovo decisamente istruttivo e completo. in sostanza, dovrò leggere certamente qualcosa di questo autore. vi ringrazio
E ancora da “Il vicolo blu”, assaporate questo squarcio sul linguaggio infantile, parlato in Sicilia, all’inizio degli anni Trenta:
***
“Noi per fortuna eravamo riusciti a farci un nostro linguaggio segreto. Il quale, come mi dice Enzo Zappulla, seppure con altre modalità, era praticato anche nel suo paese, Licodia Eubea. Bastava aggiungere ad ogni sillaba un suffisso in ariki, eriki, iriki, oriki, uriki per avere a nostra disposizione una vera lingua, dissonante, aspra, che disturbava gli altri, ma ci divertiva molto. Faccio un esempio: ‘seirikieriki urikinriki roserikitoriki, eriki serikimpreriki loriki sarikiraikiriki. Furikiorikicoriki! Sorikinoriki starikitoriki erikiterikinarikimerikinteriki sckiarikivoriki’. Capisca chi vuole. Si poteva ricorrere anche alla lettera F. Oppure alla Z che, sebbene più comprensibile, dava una asprura maggiore indicando l’enorme distanza – veri abissi – che ci separava da certe persone. Per esempio, gridando – Oz scuozlaz, erichi marichierichistririchi – e riprendendo col suffisso anzidetto – virichi orichidirichiarichimorichi! Siericteric tutrichitirich strorichinzirich!”
Camuti è parola di per sé evocativa.
Delle sue tre sillabe la prima è aperta alla campagna ed il suono rimbalza saltellando sui sassi, la seconda si imbozzola in un gorgoglio di acque scure, la terza è un cancello che chiude, con scatto fulmineo, l’accesso alle viscere del mondo.
Così, inevitabilmente magica, è la sua pietra, la pietra dei poeti, a Mineo, dove nascono tutte le favole e tutte le lingue.
Essa è la radice prima, profondamente infissa, di quel sasso più grande chiamato Sicilia, che fiuta il parlottare dei venti da ogni direzione e ingoia, con le sue bocche di pietra, acqua di mare e sogni.
La gente che lì nasce, impara dal mare e dai venti, ma anche dalle rocce e dagli alberi, una multiformità di linguaggi e di storie.
L’amore per l’esercizio letterario è, per i Siciliani, un bisogno naturale ed elementare come il nutrirsi, impastato dell’essenza stessa di quella terra e delle “bestemmie di tutte le razze”, per citare Quasimodo, che compongono la millenaria stratificazione culturale di questo popolo.
Così anche in Bonaviri un giorno germogliò la prima parola.
“E’ buona – disse, assaggiandola cautamente con la punta della lingua, – calmerà la mia fame”.
Intanto dal fondo della sua anima ne germogliavano altre ed altre ancora, in forma di favole e grumi di terra e grandi occhi di sapienza.
L’urgenza della scrittura è stata, ed è, in lui niente altro che il frutto di questa fame non saziata che lo ha spinto ad acquerellare instancabilmente il giardino dell’Eden, un attimo prima del suo dissolvimento e dell’eterna dannazione dei suoi ospiti.
Ciao Enrico, bello incrociarsi tra qui e VDBD, e sono molto contento del tuo apprezzamento. Bonaviri lo merita davvero. Spero di incontrarti a Roma alla fiera del libro di dicembre. Un abbraccio,
Gaetano
Nel frattempo è giunta qui per la prima volta Valeria, con un commento che non ha bisogno di ulteriori mie parole.
Sono felice che si parli di Giuseppe Bonaviri… M’interesserebbe avere un aiuto bibliografico per capire in che modo ci si è occupati dello scrittore di Mineo, in ispecie per quanto concerne il suo riconnettersi a una linea estremamente feconda della nostra storia letteraria che da Dante risale all’Ariosto, a Galileo, al Leopardi delle Operette morali, fino al nostro più grande scrittore del Novecento: Italo Calvino. L’idea è quella di una letteratura come “filosofia naturale” che trova due antecedenti esemplari in Lucrezio da una parte e (sul piano della capacità mitopoietica) nelle ovidiane Metamorfosi. Qualcuno saprebbe dirmi se è stata indagata (ed eventualmente da quali critici) tale aspetto dell’opera di Bonaviri? Lo so – come sempre sono troppo, davvero troppo prolisso: scusatemi, scusate tanto!…
Dodozen
@Sergio
Caro Sergio, mi permetto di darti del tu.
Grazie per le tue parole. Non sono una scrittrice. Talvolta scribacchio qualcosa, è solo una tecnica per mettere ordine dentro di me quando il groviglio dei pensieri emozioni sensazioni diventa inestricabile oppure un gioco con cui scherzare quando sono particolarmente allegra, un vero divertimento!
@ Massimo.
Ancora grazie per il post che nel suo svilupparsi si arricchisce di interventi di grande spessore letterario e di sentito omaggio all’opera di Bonaviri ed alla sua meravigliosa terra. Bellissimo l’intervento di Valeria! Complimenti!
Angela (del commento delle 12.52 am)
P.S. non mi era mai capitato di firmarmi cosi!!
Grazie mille per i vostri bellissimi nuovi commenti. E grazie a Gaetano per la splendida collaborazione.
@ Domenico
Trascrivo per te un brano di Manganelli, tratto dalla sua introduzione (pubblicata in quattro pagine) a “La divina foresta”, nell’edizione BUR del 1980 che ho tra le mani in questo momento:
***
“Pochi scrittori sono così totalmente affascinati dalle parole, dalla loro esistenza di fiato melodico, come l’uomo di Mineo. Senza questi suoni il suo mondo sarebbe impossibile, e d’altro canto il suo mondo può nascere solo in grazia di quei suoni. La sua poesia verbale costituisce, letteralmente, un carme, vale a dire una formula ritmica immutabile che agisce. Nella fonicità di questa prosa si avverte una strana, antica vocazione a linguaggi consumati, cioè restituiti alla loro qualità di ‘aria pronunciabile’: sibili greci, gutturali e favolose modulazioni arabe, rapidi splendori latini; non il latino mentale e secco di Ovidio, ma il dotto lirismo di un Properzio, una citazione del quale (I, 12) viene adattata proprio a celebrazione di un transito metamorfico.”
***
Se non dovessero giungerti qui specifiche indicazioni sul tuo campo di approfondimento dell’opera di Bonaviri, potresti forse contattare la Fondazione Giuseppe Bonaviri, linkata nella presentazione di questo post, in attesa comunque di ulteriori suggerimenti da parte di Massimo Maugeri.
Un caro saluto,
Gaetano
Parto subito dal basso e mi rivolgo ad Angela delle 12.52 am, che da questo momento chiamerò Angela Riggio (il cognome è corretto?).
Sono io che ringrazio te, cara Angela. Intervieni più spesso.
Come sono solito dire… considera Letteratitudine casa tua.
🙂
@ Domenico Calcaterra
Caro Domenico, benvenuto a Letteratitudine!
Al commento di Gaetano aggiungo questo link:
http://www.fondazionegiuseppebonaviri.it/Mineo.rtf
Se clicchi si aprirà un file word predisposto dalla fondazione Bonaviri e contenente una nota bibliografica.
Oltre a questo aggiungo che di Bonaviri se ne sta occupando anche Salvatore Silvano Nigro, che di certo conoscerai, che ha anche scritto la prefazione di “La divina foresta”, romanzo appena ri-edito da Sellerio.
Se avrò tempo nei prossimi giorni ti fornirò ulteriori elementi utili.
Desideravo ringraziare tanto Valeria per il bellissimo commento qui sopra.
È la prima volta che intervieni qui, cara Valeria?
E poi un ringraziamento agli amici: Enrico, Silvia, Carlo, Simonetta, Manuela, Luisa, Jean, Antonio Trovato.
Carlo ha riaperto il dibattito relativo al presunto “potere salvifico” della scrittura (grazie Carletto).
Scrive Carlo: “Sul potere salvifico….. concordo un po’ con Manuela: sono paroloni e a mio parere bisognerebbe intendersi bene. E’ salvifico per chi scrive? per chi legge? Forse può esserlo in alcuni, forse in molti, casi. Ma ognuno è un caso a sè. E poi salvifico da cosa? Anche le esigenze di salvezza possono essere molto diverse tra loro”.
Cosa ne dite?
Chi risponde a Carlitos?:)
Avevo promessa ad Angela 1 (scusa, Angela, se ti chiamo così) un articolo di Bonaviri sulla sua infanzia.
Sono riuscito a trovarlo. Ricordavo bene, fu pubblicato sul “Corriere della Sera”.
Potete leggerlo di seguito.
I GIOCHI DEI BIMBI E LA FINE DEI NONNI
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La mia infanzia, essendo io nato nel 1924, si è snodata dal 1928 al ‘ 36 circa. Pochi anni dopo divampava la follia antiebraica di Stalin e di Hitler. A quel tempo, la presenza del buio, prima che arrivasse la corrente elettrica, nel 1931 circa, a Mineo era così intensa da dar luogo a delle curiose circostanze. Ricordo, per esempio, che una volta mia madre mi aveva mandato a comprare dell’ aceto fra i vicoli oscuri delle ultime case del quartiere di Santa Maria in cui abitavamo; al ritorno lei, sentendomi parlare e non vedendomi, mi aveva detto: o figlio, ti ha risucchiato il buio dato che non riesco a vederti? Purtroppo, l’ agire degli uomini e di converso i giochi dei bambini, che ai miei tempi erano turbati da varie malattie oggi scomparse, infastidivano le fantasie che nascevano in noi bambini. Tra le varie malattie c’ era la malaria, che, per la rottura dei globuli rossi ripieni di plasmodi, immetteva sostanze tossiche nel circolo sanguigno dando luogo a un grande brivido di freddo. Personalmente ho una chiara memoria della sensazione sgradevolissima che dava questo grande brivido. Io stavo seduto sul piccolo ballatoio di casa nostra, e quando sentivo questo grande freddo mi coprivo con due mantelli di mio nonno materno, Salvatore Casaccio, padre di ventiquattro figli di cui l’ ultima era mia madre. Lì, piccolo e infreddolito, guardavo salire per il viottolo delle mura decine e decine di contadini a cavallo degli asini, spesso sotto una pioggerella ottobrina, che passavano accanto a un immondezzaio dove, essendo caduti dei semi, nascevano rachitici come bonsai alberelli nani di albicocco, pero, mandorlo, ecc. Ricordo che questa malattia turbava enormemente i giochi di noi bambini. Tra i nostri giochi preferiti vi era quello di prendere della creta bagnata e buttarla sul nudo suolo o sul marciapiede della strada vicina per sentire il rumore di leggero scoppiettio che ne scaturiva. Quando veniva sera, con le sue mille ombre e si accendevano i sette lampioni che esistevano in tutto il paese, noi stavamo ad annoverare le stelle che nascevano via via nel cielo; chi riusciva a contarne di più aveva in regalo dei sassolini luccicanti per l’ intrusione di piccolissimi granuli di corindone, zaffiro, smeraldo. Un altro gioco era quello di cercare Iddio tra le ombre che la sera apportava tra i vicoli del paese; e una quantità di riflessi paurosi si creava nel nostro animo. Andavamo a villeggiare sull’ altopiano di Camuti, dove mia madre, di ritorno da New York, con i risparmi accumulati come emigrante, era riuscita a comprare un pezzo di terra e una casetta. Accadde una sera che a causa di un forte mulinello di vento che ci chiuse nel suo circolare moto, lei, spaventata, ci chiese: «O figli, dove siete? Siete scomparsi?». Insomma, la mia infanzia è legata a delle vicende imprevedibili e direi quasi fantastiche. Più di tutto ci facevano paura, anche se stavamo svegli a letto, i cento colpi di campana che venivano suonati all’ arrivo della mezzanotte. Mio padre, ossia il sarto della Stradalunga, scrivendo come era suo uso, in una delle sue poesie ebbe a dire: «Terribile la notte oscura ed infinita mentre l’ orologio batte l’ ora più sciagurata». Io ho raccolto le poche poesie vergate da mio padre sul retro degli avvisi delle tasse che doveva pagare e le ho fatte stampare con il titolo L’ Arcano; una copia si trova nella biblioteca nazionale di Roma nella zona detta dei Pretoriani. Ormai, con l’ enorme sviluppo della linea mediatico-strumentale in cui dominano sia Internet sia i cellulari, si è venuto a creare il volto più pensoso che mai la civiltà del gioco abbia avuto. Noi nonni difficilmente riusciamo a penetrarvi e l’ immenso bagaglio cultural-ludico del nostro tempo a poco a poco andrà a perdersi.
Giuseppe Bonaviri
(da “Corriere della Sera” – 22 gennaio 2008)
E con questo articolo vi auguro una serena notte. E un buon venerdì mattina.
🙂
Bellissima, Gaetano, la pagina estratta dal ”Vicolo blu” che hai estratto.
Grazie per aver apprezzato le mie quattro parolette. E per aver scelto di leggere il mio ”Adesso a Roma piove”.
Urca, Sergio. Mi ero dimenticato di ringraziarti per il tuo intervento su Bonaviri scritto dietro mia sollecitazione. Grazie. Molto bello.
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(Adesso però vado davvero a nanna… giornata dura, domani!)
Grazie a te, Maugger. Piuttosto mi piacerebbe che qualcuno rispondesse anche al sig. Domenico, il quale sopra sollecitava cortesemente dei chiarimenti su Bonaviri che io non saprei dare – magari la Zappulla Muscara’ o la Zaouchi-Razgallah, immagino…
Buonanotte a tutti
Grazie a Massimo e ad Angela per l’ apprezzamento. E’ la prima volta che intervengo ed, in assoluto, il mio primo post. Sto leggendo commenti meravigliosi su uno scrittore che amo molto e mi commuove questa spontanea gemmazione di bellezza e di emozione raccolta che vi si coglie. Un serena giornata a tutti.
Complimenti. E’ un piacere leggervi.
Grazie a te, cara Valeria. Torna ancora… ti aspetto.
E grazie anche a te, Giulia.
@ Sergio e Domenico
Hai ragione Sergio. Domenico (che peraltro conosco… ve lo presenterò in un successivo commento) merita risposte più esaurienti.
Tenterò di fornire degli “spunti” utili più tardi.
Ora devo andare.
A proposito di approfondimenti dell’opera di Bonaviri (in attesa di indicazioni specifiche che Massimo fornirà a Domenico Calcaterra, il quale, noto con molto piacere, ha pubblicato, tra l’altro, un saggio su Vincenzo Consolo) segnalo un importante volume, di recente pubblicazione, che comprende numerosi saggi e una ricchissima bibliografia in diverse lingue:
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“PAROLE IN VIAGGIO – Traduzioni e traduttori di Giuseppe Bonaviri – Atti del Convegno Internazionale di Studi; Mineo – Catania, 11-12 luglio 2004” (La Cantinella, dicembre 2007).
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Questo l’indice:
Giuseppe Castania, Gli ottanta anni di Giuseppe Bonaviri
Dominique Budor, Letture francesi dell’opera di Bonaviri
Assumpta Camps, Presenza della letteratura italiana contemporanea in Spagna. Per una proposta di traduzione di Giuseppe Bonaviri
Joaquìn Espinosa Carbonell, I miei incontri spagnoli con Bonaviri
Vicente Gonzàles Martìn, Elementi ispanici nell’opera di Giuseppe Bonaviri
Belèn Hernàndez, La traduzione in spagnolo di “Silvinia” di Giuseppe Bonaviri
Franco Musarra, Su alcuni costituenti primari nei “Cavalli lunari” di Giuseppe Bonaviri
Teodora Nicoleta Pascu, Livello fonico-grafico ne “Il fiume di pietra” di Giuseppe Bonaviri. Prospettiva traduttologica
Dagmar Reichardt, Bonaviri in Germania: traduzione, ricezione, prospettive
Franco Zangrilli, L’America di Bonaviri
Rawdha Zaouchi-Razgallah, Bonaviri e il mondo arabo
Ringrazio Massimo e gli altri del blog di Letteratitudine che hanno voluto rispondere alla mia richiesta di “aiuto”. Si è trattato più che altro di un modo per buttarmi nel mare di Letteratitudine e per (dicamo così)… rompere il ghiaccio!… Un modo anche per prendere proficue scorciatoie in quella che si profila essere una promettente e quanto mai interessante direttrice di ricerca non solo per quanto concerne il nostro Giuseppe Bonaviri. Ringrazio in anticipo quanti vorrano aiutarmi in tal senso. Una domanda mi chiedevo, proprio in virtù del mio lavoro di ricerca, è possibile incontrare di persona Bonaviri, c’è qualcuno tra i frequentatori del blog che potremme concretamente aiutarmi in tal senso? Per esperienza quando si ha la fortuna di conoscere l’uomo oltre che lo scrittore, i lavori contengono un supplemento di passione che emerge dalla pagine e che rende la declinazione saggistica meno arida e (si spera più appassionante): così è stato per me quando mi sono occupato della trilogia consoliana; così per il lavoro di un altro scrittore ancora molto sottovalutato e dimenticato, Michele Perriera.
Saluti!
Domenico Calcaterra
Salve a tutti…
Ho avuto il piacere di conoscere Bonaviri in occasione di un incontro a Catania per noi studenti di Lettere, qualche annetto fa… Il mio professore di Letteratura Italiana era Paolo Mario Sipala, che scrisse la prefazione a “Notti sull’altura” dello scrittore di Mineo.
Scrittore immaginifico, grande sperimentatore…
Professoressa Muscarà, si ricorda di me? Era nella mia commissione di laurea, ma ci siamo incrociate spesso a Siracusa in occasione dei vari premi Vittorini e di altre occasioni culturali…
Un altro frammento dell’opera di Bonaviri: una poesia tratta da G. Bonaviri, “O corpo sospiroso” (con introduzione e note di Giacinto Spagnoletti, Biblioteca Universale Rizzoli, 1982):
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ACCOMPAGNANDO MIA MADRE IN MACCHINA A PRAIA AL MARE ASSIEME A EMANUELE
.
Mia madre è già partita,
io piango solo al mondo,
le cento donne opache brucio
(la prima è adatta per filare,
la seconda per baciare,
l’undecima nacque dalla riva del mare,
la trentasettesima si sciolse i capelli
nell’acqua d’oro del ruscello, la centesima
fu stridente uccello sotto
Plutone basso sulla terra.)
.
In corsa per strade a raggiera
a mia madre sorride l’alba
e bianca la salamandra nel fico.
Sulle alture dove fiorisce
l’ombra in smarrimento
il grifone segue cento cavalieri,
e – nei pendii – tra ricino e carpinelle
i poveri in cammino tra numi
violini suonano. In gioco e riso
è in innamoranza la terra.
.
. . “L’altro figlio viene per ulivi dal mare!”
.
Per scintille mia madre inanella
i carrubi trascorrenti e nei burroni i venti,
e a lei mi intrica nella memoria
dell’universo per infiniti effimeri anni.
Mi parla dell’uovo e dell’incominciamento
dell’anima, a me si stempera
nelle mani il tempo. Il sole è alto,
è lumiera, mia madre riparte, e
lontano si inarca in fiorenza nell’aria.
Non mi nutre il fiato, io sono solo al mondo.
Caro Massi,
inserisco qui di seguito un articolo che mi ha inviato Giorgio Nisini su Bonaviri e “I cavalli Lunari”.
Premetto che Giorgio Nisini è uno studioso di cinema e letteratura, professore presso la facoltà di scienze umanistiche dell’università di Roma “La Sapienza”. Ha pubblicato saggi e dialoghi sul cinema (con Alessia Marcuzzi e Gabriele Malvasi :”Geografie Tondelliane”, Guaraldi 2007) oltre che altri scritti e monografie.
E’ redattore del “bollettino di italianistica” e dell'”annuario di poesia”. Ha appena pubblicato con Giulio Perrone il suo primo romanzo “La demolizione del Mammut”, dove unisce a una lingua potente e vsionaria un simbolo arcano, il mammut, l’essere poderoso venuto dal passato…che incarna anche le nostre ferite più nascoste.
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Giuseppe Bonaviri, I cavalli lunari, Milano, Libri Scheiwiller, pp. 136, € 12,50
Difficile inquadrare la poesia di Giuseppe Bonaviri in un preciso e delimitato territorio intellettuale. Meno difficile fotografarne i temi, le ricorrenze, il particolare tratto stilistico, spesso bilanciato tra una colloquiale inclinazione narrativa e la passione per un linguaggio erudito, di matrice tecnico-scientifica.
Con questa sua nuova raccolta di versi, per lo più scritti tra il 2001 e il 2002, l’autore non solo riconferma la presenza di un percorso lirico coerente ed ininterrotto, ma anche – lo scrisse Giuliano Manacorda nell’Introduzione all’antologia mondadoriana del Dire celeste (1993) – l’«imprescindibile necessità» della sua produzione poetica, la sua «riconoscibile autonomia» rispetto alla narrativa.
La Sicilia, l’altopiano di Camuti, Mineo; ma anche il Lazio meridionale, Frosinone, i luoghi della maturità. E poi la memoria, disperatamente ricercata negli episodi minori della propria infanzia, tra i volti e i gesti di persone che il tempo ha proiettato in un passato irrecuperabile. Una galleria di ritratti in cui trovano collocazione i protagonisti della storia familiare: la madre, i nonni, lo Zio Michele, ricordato nel ricordare la «giovane, bionda» zia Pippì, ma anche certe figure più sfuggenti, i compagni Nico Giostra, Carmelo Amoroso, o il «povero contadino» Mucillo.
Mai, come in questi versi Bonaviri aveva osservato se stesso da un punto altrettanto critico, fin quasi ad affacciarsi sul fronte estremo dell’esistenza: «ormai sono in un luogo dove/non nasce il croco né lo spaziotempo». Non importa che sia il fratello morto a parlare. Il luogo è lo stesso: uno spazio assediato tragicamente dalla «solitudine mortale», in cui il rumore più assordante è dato dalla voce inespressa dei bambini («silenzio/ vuoto per assenza di bimbi giocanti»; «non vibran per l’aria le parole/dell’animo dei bambini»). Eppure sono proprio loro, i bambini, ad affollare, con i loro vagiti infantili, la loro pesca sul lago, le loro domande, un’intera sezione del libro (Dolcezza), predisponendo quel coro della consolazione che non solo accompagna la morte, ma anche una metempsicosi possibile: «Morto, mi/ farà rinascere mandorlo alla Giummarra/ con, nei rami, cardelli, e bimbi intorno in girotondo».
(Giorgio Nisini)
Caro Domenico, ho incontrato personalmente Giuseppe Bonaviri nell’estate del 2003, poi ho scambiato con lui alcune lettere e ci siamo sentiti un paio di volte per telefono (telefonicamente ho anche svolto, in collaborazione con mia sorella Valeria, l’intervista riportata nell’introduzione di questo post). Chiedi a Massimo, se può interessarti, attraverso l’indirizzo redazionale di Letteratitudine, il mio indirizzo e-mail, e se ne parlerà eventualmente in privato.
Un caro saluto,
Gaetano
P.S.
Se dovessi nominare cinque autori italiani viventi, tra i migliori della nostra letteratura, due di questi sarebbero di certo Bonaviri e Consolo.
Caro Gaetano,
concordo appieno. Aggiungendo Gadda e il primo Calvino.
Poi anche Bontempelli.
Che spettacolo! Siete informatissimi e perdippiù generosi nel diffondere il vostro sapere. Grazie a tutti
Rina
Eccomi di nuovo qui. Un saluto a Rina.
Ehi, Sergio… i tuoi nomi non sono validi. Gaetano faceva riferimento a “autori italiani viventi”.:)
Domenico Calcaterra si è già presentato. Molto bene.
Io aggiungo che un giovane e brillante studioso di letteratura italiana.
Ha pubblicato il saggio “Vincenzo Consolo: le parole, il tono, la cadenza” (Prova d’Autore, 2007) e la silloge di poesie “Luci basse” (Joher, 2008), con prefazione di Michele Perriera.
Poi desideravo ringraziare Simona e Giorgio Nisini per la bella recensione a “Cavalli lunari”.
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Bella anche la poesia tratta da “O corpo sospiroso” che ha postatoGaetano.
@ Maria Lucia
In questo momento Sarah Zappulla Muscarà si trova all’estero. Spero possa leggere il tuo commento al rientro in Italia.
In un commento sopra Domenico chiedeva quanto segue:
“M’interesserebbe avere un aiuto bibliografico per capire in che modo ci si è occupati dello scrittore di Mineo, in ispecie per quanto concerne il suo riconnettersi a una linea estremamente feconda della nostra storia letteraria che da Dante risale all’Ariosto, a Galileo, al Leopardi delle Operette morali, fino al nostro più grande scrittore del Novecento: Italo Calvino. L’idea è quella di una letteratura come “filosofia naturale” che trova due antecedenti esemplari in Lucrezio da una parte e (sul piano della capacità mitopoietica) nelle ovidiane Metamorfosi. Qualcuno saprebbe dirmi se è stata indagata (ed eventualmente da quali critici) tale aspetto dell’opera di Bonaviri?”
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In effetti l’accostamento della letteratura di Bonaviri al concetto di “filosofia naturale” è molto azzeccato, caro Domenico. Così come sono calzanti i tuoi riferimenti a Dante, ad Ariosto, a Leopardi, a Calvino e alle Metamorfosi di Ovidio.
E non è un caso se, come accennato in precedenza, tra i critici che si sono occupati di questo aspetto (come meglio spiegherò nei commenti precedenti) ho citato Salvatore Silvano Nigro.
Se c’è un libro di Bonaviri che rientra nell’ambito della filosofia naturale, questo è senz’altro il già accenato “La divina foresta”, ri-edito per l’appunto da Sellerio con prefazione e postfazione di Salvatore Silvano Nigro.
Nella bandella laterale (tratta dalla prefazione), leggiamo quanto segue:
“La pubblicazione della “Divina foresta” (1969) fu propiziata da Giorgio Caproni, con un suo dettagliato parere di lettura: «Una suggestiva historia naturalis ambientata in una remotissima Sicilia agli albori della creazione, è il tema, svolto in chiave tra lucreziana e, al limite opposto, perfino kipliniana, di queste pagine che il lettore, da un capo all’altro, segue con mai rallentato interesse e, diciamolo pure, con innegabile incanto poetico. Protagonista è la vita stessa, o, per meglio dire, è un’entità vivente e “cogitante” dapprima indeterminata nella propria larvale forma e quindi, dopo una breve stagione vissuta vegetalmente, sotto la definitiva specie d’un avvoltoio e precisamente d’un filosofico avvoltoio, che nulla ha in sé della ferocia che il nome evoca ma che anzi è nutritissimo di classica saggezza (la greca in primo luogo) e che a suo modo disegna nell’arco della propria avventura (la perdita della compagna lo spinge, fino all’estenuazione, alla ricerca d’un messaggio iperuranico oltre i confini dell’isola d’oro, oltre gli oceani e addirittura verso l’irraggiungibile luna, in un alternarsi di roventi esaltazioni e di nere ipocondrie che rasentano le più moderne nevrosi) l’arco della nostra umana inquietudine di fronte al nostro stesso esistere e morire»”.
http://www.ibs.it/code/9788838922527/bonaviri-giuseppe/divina-foresta
Infatti, Massi.
Anche Italo Calvino nel 1969 in una lettera a Giuseppe Bonaviri, in occasione dell’uscita del libro “La divina foresta”, così scriveva: “Caro Bonaviri, La divina foresta è un bellissimo libro, qualcosa di finalmente nuovo nella nostra letteratura d’oggi, qualcosa di pensato e nello stesso tempo pieno di libera invenzione, tutto poetico e sofferto, con un rapporto vero con la natura e i luoghi. E soprattutto è quanto mai scritto di più tuo, fedele alla tua vena, e nello stesso tempo sviluppando questa tua vena in un senso completamente nuovo. Sono veramente contento di questo risultato, per te per la letteratura italiana che ritrova quella che era la sua vocazione specifica nei suoi primi secoli: letteratura come ‘filosofia naturale’. Spero che la critica si accorga che il tuo libro è qualcosa di diverso dai tanti che si pubblicano, ma anche se non se ne accorge subito non importa, il tuo libro è di quelli che restano”.
Fu proprio Calvino a fare riferimento alla letteratura come “filosofia naturale”.
Ecco cosa Italo Calvino, nel 1969, scrisse a Giuseppe Bonaviri proprio in occasione dell’uscita del libro “La divina foresta”:
“Caro Bonaviri, “La divina foresta” è un bellissimo libro, qualcosa di finalmente nuovo nella nostra letteratura d’oggi, qualcosa di pensato e nello stesso tempo pieno di libera invenzione, tutto poetico e sofferto, con un rapporto vero con la natura e i luoghi. E soprattutto è quanto mai scritto di più tuo, fedele alla tua vena, e nello stesso tempo sviluppando questa tua vena in un senso completamente nuovo. Sono veramente contento di questo risultato, per te e per la letteratura italiana che ritrova quella che era la sua vocazione specifica nei suoi primi secoli: letteratura come “filosofia naturale”. Spero che la critica si accorga che il tuo libro è qualcosa di diverso dai tanti che si pubblicano, ma anche se non se ne accorge subito non importa, il tuo libro è di quelli che restano”.
(Il testo della lettera viene riportato dallo stesso Salvatore Silvano Nigro nella sua monografia allegata all’edizione Sellerio del suddetto libro).
Massi…telepatia?
Accidenti, Simo. Direi proprio di sì 🙂
Dài… le parole di Calvino meritano di essere ripetute 🙂
E ora a nanna, dai.
Notte a tutti
Credo sia importante, Simo, indicare anche i collegamenti a Dante. Che ci sono. E sono evidenti.
Il titolo del libro, infatti, (La divina foresta) è mutuato da Dante.
Il riferimento è al Canto XXVIII del Purgatorio: “Vago già di cercar dentro e dintorno la divina foresta spessa e viva, ch’a li occhi temperava il novo giorno…”
Lo si evince anche dall’incipit della citata prefazione di Salvatore Silvano Nigro:
La “divina vegetazione” è, nel romanzo di Bonaviri, un teatro di natura: una “società” vegetativa e sensitiva, che si mostra nelle attitudini varie del “bosco” e della “boscaglia”; della “foresta” e della “selva”. Interviene la sinossi del titolo a localizzarla, da subito, in una mappa i cui confini combaciano con quelli tracciati da Dante nel suo viaggio. La “divina foresta” è un luogo letterario, dantesco: il Paradiso terrestre, che è “la divina foresta spessa e viva”; la “selva” risonante e “folta”.
Trovo il collegamento a Dante particolarmente bello.
E mi permetto di citare una nota di di Carlo Bertelli relativa al Canto XXVIII del Purgatorio (da “LA NOSTRA COMMEDIA” de Il Corriere della Sera):
Nel canto XXVII sono accaduti due avvenimenti significativi. Dante ha avuto un sogno premonitore e Virgilio si è congedato da lui come sua guida. Il distacco era stato solenne. Virgilio aveva «investito » Dante rendendolo autonomo: io te sovra te corono e mitrio (Purgatorio, XXVII, 140 e 142). È un trapasso decisivo. Ritorna alla mente il primo incontro, quando il poeta latino era apparso a Dante come insperato salvatore. Allora (Inferno, I, 1 e ss.) Dante si era smarrito in una selva da cui non sapeva uscire. Ora invece la foresta, divina foresta spessa e viva, lo attrae e vi si inoltra trasportato da lenti passi, vi procede tanto da non vedere più di dove vi fosse entrato. All’angoscia d’un tempo, quando aveva perso la via, è subentrata una tranquilla sicurezza. In queste simmetrie con il primo canto dell’Inferno cogliamo la portata della nuova situazione. Anche la foresta in cui ora Dante si è addentrato è buia. L’ombra vi è perpetua, non vi penetra raggio di sole né di luna (v. 33).
Tuttavia Dante sa che quel bosco è divino e ha il desiderio di cercarvi dentro e dintorno. La selva selvaggia e aspra e forte del primo canto dell’Inferno è vissuta soltanto come sgomento. La divina foresta ispira invece ventuno versi che sono fra le creazioni più evocative di un paesaggio in tutta la poesia italiana. La poesia di Dante anticipa qui ciò che molto più tardi cercheranno la musica e la pittura. Tutti i sensi sono convocati. I prati sono profumati (lo suol che d’ogni parte auliva), la brezza gli accarezza la fronte, le chiome degli alberi fremono accompagnando il canto che gli uccellini si rimandano da un ramo all’altro. (…)
Massi..sono d’accordissimo!
Ma la cosa più sorprendente della “divina foresta” è che l’io narrante è la natura stessa.
Non un “io ” collettivo. Non un”io” naturalizzato. Ma un corpo che vibra come un essere vivente. Un tutto che contiene. E che parla.
In questo senso non si può solo dire che Bonaviri abbia fatto della letteratura una filosofia naturale, ma anche che abbia fatto della scrittura un’interprete. Di una intera realtà creativa. Dell’intero pulsare di un universo.
Chiudo con un ultimo riferimento a Nigro.
Su “Repubblica” del 2 luglio 2008 (cfr. pag. 42) ha pubblicato un pezzo dal titolo “Specchi e labirinti nella divina foresta”, in merito alla nuova edizione del romanzo di Bonaviri.
In realtà si tratta di uno stralcio della prefazione.
Lo trovate nel commento successivo.
Simona, bellissimo il concetto di “fare della scrittura l’interprete di una intera realtà creativa. Dell’intero pulsare di un universo”.
Davvero bellissimo.
Grazie.
Specchi e labirinti nella divina foresta
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La «divina vegetazione» è, nel romanzo di Bonaviri, un teatro di natura: una «società» vegetativa e sensitiva, che si mostra nelle attitudini varie del «bosco» e della «boscaglia»; della «foresta» e della «selva». Interviene la sinossi del titolo a localizzarla, da subito, in una mappa i cui confini combaciano con quelli tracciati da Dante nel suo viaggio. La «divina foresta» è un luogo letterario, dantesco: il Paradiso terrestre, che è «la divina foresta spessa e viva»; la «selva» risonante e «folta». È dentro la letteratura che la «foresta» di Bonaviri finge se stessa, come selva di dotti inchiostri: danteschi senz’ altro («come uomo preso dal sonno»; «come l’ uom cui sonno piglia»; «non muoveva collo né piegava costa»; «né mosse collo, né piegò sua costa»), e leopardiani («una profondissima quiete»); in un deliramento linguistico, vetusteggiante per lo più, che dalle parole succinte trapassa ai vocabolazzi: dal latino elegiaco al pingue macaronico. In tanta prodigalità linguistica, si riordina e reinventa, con suggestivi giochi di specchi e labirinti di rimandi, tutta una biblioteca del fantastico: che Luciano di Samosata comprende, e l’ Ariosto; e gli utopisti satirici, da Cyrano de Bergerac al Meli del Don Chisciotti e Sanciu Panza, a Swift. Eppure questa «foresta» di carta è lavorata dalla nostalgia e dal desiderio; e dalla mitobiografia dell’ autore, che la ritaglia e l’ adagia sui colli della nativa Mineo: luogo celeste e di felicità originaria e parentale, in una Sicilia remotissima che sta sulle rotte di Odisseo. Il romanzo è una «storia». La sua verisimiglianza, se non veridicità, è garantita dalla teoria fisica del filosofo e poeta Empedocle, siciliano e medico come Bonaviri. Due opposte potenze motrici, la concordia e l’ astio, governano i quattro elementi primordiali (fuoco, aria, acqua, terra). Li aggregano nell’ armonia dello «sfero» e li separano; secondo un ciclo materiale che, tra annullamenti e ricomposizioni, in una incessante commutabilità dei corpi (o metensomatosi), produce sensazioni e pensiero. Il continuo trasmutare e trapassare, nella rapidità delle metamorfosi, dà occasione al racconto e nervatura al romanzo. La «storia» è ab ovo. La racconta un’ entità vivente e cogitante, che dall’ indistinzione primordiale declina le sue prime memorie cromosomiche di cellula dapprima isolata e poi copulata, in uno spazio ancora adimensionale. Si chiama Fermenzio, la cellula; Grumina, la compagna che le ditta dentro, nell’ esperienza di complemento del «due» in «uno»: come da Simposio platonico. –
SALVATORE SILVANO NIGRO
(Repubblica — 02 luglio 2008 pagina 42 sezione: CULTURA)
Grazie a te, Massi.
Ora …Notte( per davvero!)
Auguro una serena notte a tutti.
Simo, ma la vuoi smettere di “anticiparmi” 🙂
Massimo, eh gia’, m’ero dimenticato di quel ”viventi” (forse perche’ certa letteratura ha sangue e carne dentro e si veste di sogni). Allora devo dire che al livello di Consolo e Bonaviri, forse potrei considerare solo Umberto Eco – ma gli manca quell’alone di magia, e’ un’eccellenza scientifica, la sua. E a me invece eccita la grandiosita’ basata sulla classicita’ e con un respiro filosofico-spirituale ampio, un sentimento profondo del divenire e dell’essere, un sentire poetico al contempo liturgico, metafisico e atomistico. Panpsichismo, a stringere, ilozoismo greco – mancanza di distinzione fra mondo animato ed inanimato, ovvero ”animismo” a dirla in soldoni. Quel che ancora i nostri – viventi – avi africani ancora sentono, seppur sempre in minor misura e numero (assediati dalla modernita’ anche loro, gia’…).
Io non credo Che Consolo sia mai stato un grande narratore. Dopo “Il sorriso dell’ignoto marinaio” non ha più prodotto opere che possono collocarlo tra i più grandi in assoluto. Mi inchino di fronte al letterato, alla ricercatezza della sua scrittura ma non ce lo vedo accanto a Bonaviri e a Umberto Eco.
…beh, Salvo… sotto un profilo strettamente narrativo, forse hai un bel po’ di ragione…
…ma allargando l’orizzonte della prosa fino a farlo divenire quell’ibrido lirico-saggistico-cronachistico tipo ”Lo spasimo di Palermo” forse no…
@Sergio. Arte e Accademia seguono due strade diverse, si possono far incrociare grazie all’esperienza, alla maestria dell’uso delle parole, ma il risultato rimane – come hai detto bene tu- un ibrido. Una cosa è il romanzo, un’altra la saggistica, un’altra ancora gli appunti di viaggio. Piuttosto io parlerei di Tabucchi e di Melania Mazzucco.
Solo i migliori riescono a far prosa d’arte o prosa lirica pur raccontando fatti che abbiano una coerenza logica e temporale. Per esempio l’Elsa Morante, ma anche il Tabucchi novelliere, si’… ma solo novelliere e degli anni Ottanta-primi Novanta, non oltre – dopo e’ divenuto paranoico e cervellotico all’estremo, portando alla disperazione il profilo narrativo.
@Un luogo sacro, per anima e corpo:
Durante l’ascesa sul monte della mia vita e prima ancora di raggiungere la vetta, faccio una sosta, là dove il sentiero si allarga e una panca, messa lì apposto, offre la possibilità di un riposo.
È un riposo salutare per la mente e il corpo, dopo anni di lavoro faticoso e impegnativo alla ricerca di valori veri, sentiti e sostenuti perché donano alla propria vita un senso di continuità ed eternità.
La panca, circondata da cespugli in fiore, offre sul lato aperto un meraviglioso panorama della pianura sottostante, tale da far fermare il cuore di ognuno che l’ammira e vuole scoprire i suoi segreti e richiami.
Quale fortuna per noi uomini, ho pensato spontaneamente, vivere in un posto così accogliente e generoso per la sua molteplicità di colori, profumi, attrazioni e per tutti i frutti che ci offre giornalmente per il nostro sostenimento.
A volte, ci rende anche felici, eppure noi non siamo capaci di conservare questa felicità e richiediamo ancora di più, fino a diventare ingrati e usurpatori.
Continuando con le mie riflessioni, mi sono venuti spontaneamente in mente le persone che mi hanno aiutato e rallegrato nella mia vita.
Ogni incontro è un dono della natura, un moltiplicarsi delle energie necessarie Alles Liebe proseguire sul sentiero delle cognizioni ed emozioni per comprenderle meglio e migliorare le nostre qualità, smorzando i nostri difetti derivanti delle nostre debolezze naturali.
In questo stato di unione della mia anima con il resto del creato, riconosco con chiarezza ogni voce, immagine delle quali è ricco questo mondo.
Non faccio distinzione tra quelle incontrate e conosciute e no, vedendole ora tutte simili ed alla ricerca di un qualcosa che li riporti all’origine comune.
Il Creato, prima ancora denso e cupo, da non poterne ricavare un senso del suo essere ed ancor meno sembianza, mi si apre ora limpido e chiaro come il sorgere del sole in una mattina fresca e libera di foschia.
Per ognuno di noi esiste un punto di questa terra, dove riuscire a congiungersi con la dimensione sopra di noi e capire le connessioni con le altre dimensioni ancora più elevate.
È il punto, dove, riuscendo ad immergere il ricavato della vita nel vasto labirinto delle intuizioni, percepiamo un allargarsi dell’orizzonte cognitivo e visivo, come in un sogno, nel quale percepiamo il senso di poter mutare la realtà per il nostro meglio.
In questo stato d’equilibrio ed armonia superiamo i confini della limitatezza che determinano la nostra condizione attuale di vita.
In questo punto della terra, si avvera l’unione fisica e spirituale di coloro che si sentono sorretti dalle stesse cognizioni e percezioni, assumendo così il significato di luogo sacrale e religioso, mentre per un estraneo rimane un luogo comune a tutti gli altri.
Chi non sa o riesce a modificare la sua realtà terrena inebriandosi nella spiritualità e di modo che dalla simbiosi nasca un equilibrio tra la veggenza e la realtà stessa, vivrà sempre al solo scopo di soddisfare i suoi bisogno comuni, mentre gli altri riusciranno a vivere e sopravvivere nel superamento temporaneo ma sempre ripetente dei limiti dimensionali.
Cari saluti.
Lorenzo
Un altro invito ad accostarsi all’opera di Bonaviri. Dal risvolto di copertina del dolcissimo romanzo “Il dottor Bilob” (Sellerio, 1994):
***
“Il dottor Giovanni Bilob, medico, durante i preparativi per le nozze della figlia, sul treno che da Roma lo riporta a casa incontra un giovane fisico che lavora a un esperimento per trasformare in musica i suoni che nascono in ogni angolo dell’universo, e parla di strani ‘cavalli lunari’ “. (…) ‘Il dottor Bilob’ è forse soprattutto un moderno epitalamio, un canto di nozze in forma di racconto.”
***
Ed ecco l’ultima pagina de “Il dottor Bilob”:
***
“Ammesso che esista un minimo di certezza nel mistero della vita, che con le nostre azioni spesso degradiamo, a questo punto, a chiusura di questa operetta, posso soltanto dire che Bilob ormai settantenne, quando il tramonto rende tristi le campagne, si siede al balcone in una seggiola a dondolo, tra i vasi di gerani, basilico, di nepitella e di ruta di Mineo, che Lina amorevolmente coltiva per lui.
Sulle colline vicine guarda i paesi di Torrice e Ripi già immersi nella penombra. E di là sente arrivare il suono delle campane dell’avemaria che dicono che ogni cosa al mondo è vana, ed è inutile ricercare quello che è stato e non sarà più.
– Soltanto se riuscissi a far riemergere la mia infanzia in Sicilia e unirla al ricordo di Angelica, potrei far rispuntare questa ragazza dal tempo che fu.
Ad ogni morir del sole, mormorando si ripete queste parole con un segreto assillo ossessivo. L’età gli ha ormai enfatizzato i sentimenti, e lui sente una ingannevole onda amorosa salirgli dal cuore.
Finita questa storia, verosimile per chi sa meditare, se lettore c’è, ne tragga umori, o suoni, che vuole.
.
Frosinone, 16 giugno 1991 / 28 dicembre 1993”
***
nella mia qualità di Segretario della Fondazione Giuseppe Bonaviri esprimo vivo compiacimento per la brillante iniziativa volta alla valorizzazione del nostro Peppino Bonavir a cui, la città di Mineo, grata per il ricorrente impiego onomastico dei suoi luoghi, ha voluto l’istituzione della Fondazione Giuseppe Bonaviri. La fondazione non ha fini di lucro e mira alla valorizzazione e alla divulgazione dell’opera bonaviriana, in cui Mineo è stata la protagonista in assoluto.
Recentemente la Fondazione ha prodotto un DVD Bonaviri ritratto, con interventi dello stesso Bonaviri e testimonianze di ciritici che hanno valorizzato la sua opera (Pedullà, Mauro, Sarah Zappulla Muscarà, Silvano Nigro ed altri)
Per quantyo attiene l’intervento della Fondazione in campo scientifico ci si avvale della testimonianza della Prof.ssa Sarah Zappulla Muscarà che in atto riveste la qualifica di Vice Presidente del Comitato Scientifico della Fondazione stessa.
Un cordiale saluto a voi tutti
Agrippino Perrotta Segretario ondazione Giuseppe Bonaviri
Correggo, alla fine dell’ottavo rigo del testo de “Il dottor Bilob”: “… e non sarà mai più.”
Ringrazio di cuore il Segretario della Fondazione Giuseppe Bonaviri, Agrippino Perrotta, incontrato questa estate a Mineo, presso i locali della Fondazione. Un caro saluto,
Subhaga Gaetano Failla
Vorrei rappresentare il mio umile parere sulla questione sollevata sul Consolo narratore sì, narratore no e – più in generale – sul “romanzo”.
Mi scuso in anticipo perché, frequentando da poco il blog, non ricordo i nomi di chi ha fatto i vari interventi sull’argomento (ma credo ciò poco importi). Il discorso è cosa intendere per “romanzo” e cosa intendere per “narrazione”, perché è vero: c’è narrazione e scrittura romanzesca; ci sono “scrittori” e “narratori” (si ricordi la distinzione benjaminiana), al di là del fatto di credere o meno che il romanzo nasca come espressione della borghesia; rimane il fatto si diceva che la “narrazione” è sempre il racconto privilegiato di un’esperienza, e in ispecie di un esperienza di viaggio (sia esso reale o metaforico). Altra considerazione: la narrazione va a braccio col poema. E chiedo: al di là del Sorriso dell’ignoto marinaio, cosa sono Nottetempo, casa per casa e Lo spasimo di Palermo se non narrazioni fortemente poematiche (e non alludo solamente alla verticalizzazione della scrittura che si atteggia a canto dispiegato, poesia); anzi, aggiungo: i due romanzi consoliani citati, rappresentano un esperimento letterario tra i più alti e raffinati (sfido a trovare altri esempi assimilabili per costruzione e carica di senso), per quella commistione di forma poematica e tragedia classica (si ricordino, non a caso le impennate liriche poste a mo’ di coro da tragedia: uso che si codifica stabilmente nello Spasimo di Palermo). Il problema per quanto concerne un giudizio avvertito su Consolo, riguarda il mettere a nudo, come grossa ombra che nuoce allo scrittore, la pesante zavorra ideologica che certo influisce sul suo approccio tout-court alla scrittura e che lo ha portato sempre più a inseguire una scrittura “d’intervento” sull’attualità, disperdendo (giudizio questo personalissimo) una vena letteraria tra le più potenti e complesse del Novecento italiano. Una luminosità di pensiero che è negata a Consolo, proprio in virtù del suo soffocante rifarsi a una anacronistica radice marxiana, e che invece ritroviamo nel percoso intellettuale di un isolato purosangue della narrazione (oltre che dell’avanguardia teatrale), il palermitano Michele Perriera. Altro punto: romanzo puro? Romanzo-saggio? Credo che il romanzo o meglio la letteratura sia descrivibile, metaforicamente parlando come “inesauribile palinsesto”, autogerminante: per cui le tangenze cui un romanzo può richiamarsi sono infinite, infiniti i registri, molteplici i generi che possono benissimo coesistire in un progetto unico di scrittura… Basta questa considerazione per comprendere (sempre ribadisco dal mio personale punto di vista), quanto narrazione stia in Consolo… Su Umberto Eco, il mio giudizio è più netto: il suo invidiabile enciclopedismo lo fa (e in ciò concordo con Alfonso Berardinelli), un grande architettore di storie, un alchimista della penna che cuce con sapienza saggismo e gusto dell’accostamento dei più disparati materiali narratologici, il più grande campione del postmoderno italiano, uno tra i maggiori esponenti del postmoderno in Europa…
Bonaviri narratore? Certamente, posso dire (anche se allo stato attuale le mie letture si fermano al solo Sarto della stradalunga). Ma il più grande narratore del nostro secondo Novecento, rimane Calvino, o meglio il “secondo Calvino”, quello delle Cosmicomiche, Ti con zero, Le città invisibili, Palomar… Il suo testamento? Six Memos for the next Millennium.
Vorrei – a fini elogiativi – qui citare il sig. Domenico Calcaterra: ”Il problema per quanto concerne un giudizio avvertito su Consolo, riguarda il mettere a nudo, come grossa ombra che nuoce allo scrittore, la pesante zavorra ideologica che certo influisce sul suo approccio tout-court alla scrittura e che lo ha portato sempre più a inseguire una scrittura “d’intervento” sull’attualità, disperdendo (giudizio questo personalissimo) una vena letteraria tra le più potenti e complesse del Novecento italiano.”
E’ un’opinione che condivido appieno, seppure penso che vada integrata in un giudizio complessivo estremamente positivo dell’opera di Consolo (in tal senso, mi pare, anche l’intervento di Calcaterra, che saluto e ringrazio).
Sozi
P.S.
Anche sulla distinzione fra i generi ”narrativo” (i.e. ”viaggio reale o metaforico) e ”scritturale” (i.e. romanzo et similia) concordo, pur dovendo personalmente prendere atto delle diverse accezioni oggi presenti e tendenti a ”rimescolare le carte” di tale netta e chiara categorizzazione. La chiarezza e’ per me, infatti, presupposto irrinunciabile per un esame limpido della Letteratura di ogni tempo e luogo.
Su Calvino non sono d’accordo: per me la sua migliore musa si ferma col finire degli anni Sessanta, se non alla meta’ di quel decennio.
E la Trilogia e’, dunque, il suo capolavoro.
Caro Sergio, caro Domenico,
apprezzo molto la vostra discussione, però mi dispiacerebbe per Bonaviri, se l’argomento di cui si parla dovesse spostarsi troppo dalla sua opera. Vi ringrazio tanto e vi abbraccio,
Gaetano
Chiedo venia per aver invaso il campo… ma in quanto studioso dell’opera consoliana mi sono sentito naturalmente in dovere di dire la mia. Chiedo scusa nuovamente e… si torni pure al giustamente celebrato Giuseppe Bonaviri. Saluti a tutti!…
Domenico
Ringrazio Calcaterra per aver colloquiato e chiudo qui il discorso, come giustamente raccomanda Gaetano. Scusami, Gaetano, mi son lasciato prendere la mano.
Ciao
Sergio
Ancora a Gaetano,
Nella tua intervista a Giuseppe Bonaviri di quattro anni fa – munita di ottima introduzione e molto bella ed equilibrata nel suo oscillare armonicamente fra domande letterarie e umano-biografiche – emerge anche la sua difficolta’ ad aderire alla ”visione soteriologica cristiana” della morte. Trovi, come avrei osservato io qualche commento sopra, che l’autore sia dominato da una sorta di panpsichismo? Personalmente considero questo aspetto, almeno fino a qualche decennio fa, molto diffuso nell’intera Italia. Infatti non mi pare che si possa fare la netta distinzione – che riferisce Bonaviri stesso e dice anche Savarese in citazione tua – fra l’ ”austriacita’ ” settentrionale e la commistione metafisico-animistica del Sud.
Come la pensi, tu?
Grazie di tutto, caro
Sergio
Caro Sergio,
innanzi tutto ti ringrazio, sinceramente, per i tuoi contributi sempre attenti, e per la tua sensibilità, espressa in una atmosfera odierna in cui delicatezza, gentilezza, sensibilità sono qualità non più “di moda” (basta vedere il livello di “stile” raggiunto dai nostri governanti).
La tua è una domanda cruciale, che coinvolge sia l’opera di Bonaviri sia il retroterra antropologico e culturale dell’Italia (e non solo) contemporanea. E in questa tua domanda sta forse la chiave per comprendere la causa della disattenzione attuale nei confronti dell’opera bonaviriana.
***
Certamente l’opera di Bonaviri è intimamente pervasa di quel panpsichismo che tu nomini. E considera inoltre, per avere un panorama più ampio di comprensione, che l’autore ha un passato di vicinanza sia a un marxismo eterodosso sia a un cristianesimo originario (ha anche collaborato con “L’Unità” e più recentemente con “Famiglia cristiana”), senza dimenticare il suo essenziale contatto con il mondo greco e con quello arabo – quasi inevitabile per un siciliano – che accoglie il nutrimento della Magna Grecia e della cultura araba presente per numerosi secoli in Sicilia.
***
Sì, è vero, l’animismo, il riconoscere un’anima presente perfino nelle cose, era un valore centrale nelle culture di tutta Italia, da Nord a Sud, fino agli anni Sessanta. E grandi studiosi come il folklorista Giuseppe Pitrè, l’antropologo Ernesto De Martino, l’etnomusicologo Diego Carpitella, il musicologo Gianni Bosio, e molti altri, hanno offerto, fino a quel periodo, materiale di studio e ricerca di grande importanza. Le cosiddette “aree folkloriche” avevano ancora una contaminazione e dei sincretismi non distruttivi del nucleo culturale originario. La comunità non era disintegrata. E i riferimenti più incontaminati, nonostante tutto, erano rivolti, già allora, a quelle società a “cultura semplice” (ricordo, uno per tutti, lo splendido saggio “Tristi tropici” di Lévi-Strauss). Una definizione, “cultura semplice”, che non ha una accezione di disvalore (“la semplicità che è difficile a farsi”, diceva Brecht), e che sostituiva quella di “società primitiva” più carica di connotati negativi.
***
Poi è giunto, circa quarant’anni fa, l’impatto dell’onda del “progresso”, e questa onda ha spazzato, come residui insulsi d’un vecchio mondo, animismo, religiosità popolari, proverbi, dialetti, magia. Contemporaneamente, la comunità diveniva più complessa e diversificata nei ruoli sociali e lavorativi, il bambino spesso non aveva più cognizione del tipo di lavoro dei genitori, e del luogo dove esso si svolgeva.
Ricordo che tra noi studenti universitari degli anni Settanta, questa percezione delle “vibrazioni” che ogni elemento del mondo emanava, e delle sue influenze benefiche o malefiche sugli uomini, è sopravvissuta per qualche anno, fino alla fine dei Settanta. Ricordo le frasi che pronunciavamo, in relazione al disagio o al benessere percepito in un luogo o proveniente da una persona: “Sento buone (o brutte) vibrazioni”, così dicevamo.
Oggi il tentativo di recupero di questo mondo, distrutto da quello che erroneamente viene definito razionalismo (e che invece è, secondo me, l’alibi dell’imbecillità), è compiuto talvolta da quella sfera culturale che va sotto il nome di “new age”. Essa però a me sembra semplicemente un “mostro” creato culturalmente, una appendice già imputridita dellla cosiddetta globalizzazione.
***
E dunque, l’opera di Bonaviri, intessuta delle infinite anime del mondo, anime reali e vere, esistenti – come la fisica moderna conferma, a dispetto di tutti gli odierni positivisti d’accatto – ricca di tenerezza e gentilezza, di ricerca d’una armonia cosmica, d’una originaria e pura religiosità, non può essere oggi al centro dell’attenzione della nostra cultura. Tuttavia, tra giovani poeti, narratori e studiosi, ho già notato il seme d’una nuova rinascita, che favorirà, tra l’altro, l’interesse verso l’opera bonaviriana.
Ti auguro una bellissima domenica, caro Sergio, e ti abbraccio,
Gaetano
@ Sergio- Gaetano
Carissimi,
permettetemi d’intromettermi nel vostro interessante discorso.
A mio parere, la rivolta giovanile degli anni sessanta si rivolse principalmente contro ogni forma di autorità formale e conservativa del tempo.
Purtroppo la rivoluzione culturale degli anni sessanta non creò un adeguato sostituto a tutto ciò che fu ritenuto un freno allo sviluppo personale e culturale, e quindi da combattere e superare.
Io non credo che questi giovani intesero rivoltarsi anche contro la cultura greco-romana, al più contro i suoi rappresentanti che la predicavano senza curarsi di trasmetterla nella pratica giornaliera.
Ogni epoca ha i suoi pregi e difetti e lo dimostra la tendenza odierna di riagganciarsi alla cultura degli avi, come dimostrazione che essa era e sarà ancora valida nel futuro.
Dai risultati delle due grandi guerre, disastrosi sotto ogni punto di vista ad eccezione di fungere da monito contro ogni guerra, i giovani tentarono di creare un nuovo mondo fondato sull’amore, equità e libertà.
Non si accorsero che la trilogia del benessere collettivo era ed è sempre da intendere come risultato del processo di maturazione personale e culturale e che quindi non può essere richiesto senza aver sostenuto il processo verso la maturità.
Violenza, anche per rivendicare un diritto, è dimostrazione di immaturità dalla quale può sorgere solamente il caos del vuoto, e in un vuoto finì, ed alla fine aprire le porte ad una nuova dittatura.
Poco o nulla fecero i responsabili di ogni orientamento, anche loro presi dal fanatismo del consumo ad oltranza e godimento senza limite, da non riconoscere la gravità dei pericoli sorgenti. Essi praticarono la dottrina del buonismo e permissismo, come se il giovane non avesse più bisogno di una educazione ferma e salda.
Ritengo, quindi, la società adulta colpevole degli avvenimenti accaduti; avrebbe dovuto intervenire con argomenti chiarificatori e comprensibili ed essere prima di tutto di buon esempio.
Il benessere sociale incomincia con l’ingaggio cosciente di ogni individuo, senza imposizione di un’autorità non preparata ed esperta, perchè finirebbe di essere contraproduttiva, soprattutto quando non è di buon esempio.
Cari saluti ad entrambi.
Lorenzo
Caro Gaetano, cari tutti – autori, lettori intervenuti e lettori non intervenuti in questo bel servizio su Giuseppe Bonaviri,
–
mi riferiro’ adesso a quanto ottimamente precisato da Gaetano Failla qua sopra; ecco: sono dell’avviso che quarant’anni di rincretinimento non possano ne’ potranno cancellare millenni di ” italianita’ culturale” (in senso soprattutto antropologico, ma anche linguistico, letterario, artistico, spirituale, tradizionale, folclorico). Dunque sono certo che la nostra identita’ complessiva presto o tardi rivedra’ la luce anche sotto il profilo delle opere artistiche. Con forme magari un po’ diverse, ma sempre uguali nella sostanza – una sostanza che la cosiddetta ”New Age – Nuova Era” non possiede neanche in minima parte. Ma sara’ la Nuova Era a scomparire al nostro sguardo. Non ne ho dubbi.
Salutoni Cari
La scrittura e la lettura (vorrei non dimenticare la magia della lettura che ha accompagnato la mia giovinezza e accompagna la mia maturità, che spesso mi ha allontanata temporaneamente dai dolori grandi della vita e mi ha indotto a scrivere) credo abbiano la grande forza di tracciare scopi e mete, di accompagnare l’esistenza e in molti casi di salvarla dalle nebbie del nulla e della ripetitività del quotidiano. Forse, come diceva il bardo inglese, siamo fatti della materia dei sogni e forse abbiamo ancora diritto a nutrirci degli stessi. La scrittura può farlo. Grazie a Giuseppe Bonaviri, ai suoi mondi. Un saluto a Massimo Maugeri. Delia Morea
P.S.
Cio’ lo sento e lo constato (ma soprattutto lo sento) dalle nostre ancora attuali caratteristiche intime, profonde (non quelle che ci mostra la tv, insomma): la dolcezza e l’inadeguatezza di noi tutti italiani alla modernita’ e alle sue false regole (di mercato); la nostra unione sottocutanea e mai palese ma esistente, forte, reale. Reale perche’ sentita ed inispiegabile – e, per dire una fesseria: il Presidente Ciampi questa nostra unione tenace ma ”timida” la capi’, la senti’, la colse e manifesto’ senza retorica. E… vedete? Chi non lo ama ancora?
Perfettamente d’accordo anche con Lorenzo Russo.
Lorenzo, Gaetano, Morea,
tutto cio’ che e’ vero non scompare mai: resta sotterrato in attesa. I sogni anche – in attesa di riaffiorare alle penne e da esse alla carta, dunque poi nuovamente rimbalzare nell’animo e nella mente umani. E cosmici, credo io.
Un’ultima osservazioncella su quanto detto da Simona Lo Iacono, che dunque devo citare prima di andare al ”dunque”:
–
”la cosa più sorprendente della “divina foresta” è che l’io narrante è la natura stessa.
Non un “io ” collettivo. Non un”io” naturalizzato. Ma un corpo che vibra come un essere vivente. Un tutto che contiene. E che parla.”
–
Ecco. Simona, io sono figlio di un pittore che esprime figurativamente quanto tu dici di Bonaviri nei suoi olii e ceretti. La stessa ”filosofia della natura”. E’ un ulteriore particolare, questo, che mi fa esser vicino a mio padre anche intellettualmente.
Ve lo avevo promesso…
Ho appena aggiornato il post con un video e foto tratte da un incontro pubblico con Giuseppe Bonaviri (finalizzato ad omaggiarlo) organizzato il 30 maggio 2008 presso la Biblioteca Ursino Recupero della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania.
Nel video (purtroppo la qualità dell’audio e delle immagini non è ottimale) Giuseppe Bonaviri ringrazia per l’organizzazione dell’evento. Nelle foto, oltre all’ottantaquattrenne Bonaviri, sono riconoscibili – tra gli altri – Sarah Zappulla Muscarà e la scrittrice e poetessa Maria Attanasio.
Mi preme salutare e ringraziare Agrippino Perrotta, Segretario della Fondazione Giuseppe Bonaviri, per essere intervenuto.
Un saluto a Delia Morea. E un ulteriore ringraziamento a Gaetano, Sergio, Domenico e Lorenzo per gli ulteriori contributi.
Riuscite a visualizzare il video? Fatemi sapere.
Sì Massimo, io riesco a visualizzare il video, e anche l’audio è abbastanza comprensibile. Mi ha molto rattristato vedere le condizioni di salute di Bonaviri. Un caro saluto a te, a Sergio, a Lorenzo.
È vero, Gaetano. Le condizioni di salute non sono ottimali, ma stiamo parlando di un uomo di ottantaquattro anni.
Io trovo commovente che un grande scrittore (in tutti i sensi) come Giuseppe Bonaviri riesca a trovare, a ottantaquattro anni, la forza e l’energia per partecipare a una conferenza pubblica organizzata in suo onore.
Grande, Bonaviri!
invito tutti i partecipanti a questo blog a visitare il sito della fondazione giuseppe bonaviri http://www.fondazionegiuseppebonaviri.it.
di recente è stato aggiornato l’album Mineo e Bonaviri con foto, didascalie tratte dall’opera di giuseppe bonaviri e descrizione tecnico artistica con cenni storici dei luoghi in lingua italiana ed inglese. invito a visitare i luoghi bonaviriani. invito a visitare Mineo la protagonista in assoluto dell’opera bonaviriana. allego una citazione dello scrittore su mineo
“Come altre volte ho detto, Mineo, il mio paese, in provincia di Catania, ha sempre favorito la nascita di poeti e pensatori tra contadini e artigiani: per tradizione, per clima, aure, venti, fasce elettromagnetiche terrestri, lunari, solari, metabolizzati per fantasiose spirali di acidi desossiribonucleici. Mio padre, che fece il sarto sino a trentasei anni, scriveva, con un segreto pudore tutto suo, poesie da me raccolte nel volumetto L’arcano. Quindi, attorno a me avevo i modelli d’un assoluto immaginario, gli specchi simbolici trasfiguranti parole e sensi vitali. Scrivere in proprio, ossia al di fuori d’una lingua corrente e tecnicamente terminologica, forse è un gioco mutevole per pervertire il reale, per farcene una versione fittizia ma alternativa per finzioni d’immagini e aeree trame di suoni. Finito l’imbastimento delle nostre catene significanti, non ci dovrebbe nulla preoccupare, ma un po’ tutti vorremmo che lo smontaggio si inveri in insemenzamenti, in alvei mobili e che il tutto si territorializzi in altri uomini in un diverso topos fantastico. …
Tratto da Follia, Società di Storia Patria per la Sicilia orientale, Catania 1976, pp. 19 – 20”
Agrippino Perrotta Segretario Fondazione Bonaviri
un caro saluto a Massimo Maugeri e a tutti gli intervenuti a qiuesta interessante iniziativa
Castania Dr. Giuseppe, Presidente della Fondazione Giuseppe Bonaviri e Sindaco della città di Mineo
Messaggio per Subhaga Gaetano Failla
La poesia citata “I poeti”, tratta da L’incominciamnento, Palermo, Sellerio, 1983, è stata già scelta per inserirla in una lastra accanto alla pietra della poesia a Camuti.
Spero che in una sua prossimma venuta a Mineo possa essere oggetto di una sua visita.
Agrippio Perrotta
Rinnovo i miei saluti ad Agrippino Perrotta. E saluto e ringrazio moltissimo per l’intervento il dr. Giuseppe Castania.
Verrò a trovarvi presto a Mineo.
Carissimo dr. Perrotta, mi farebbe molto piacere che gli esiti di questo dibattito on line potessero raggiungere il diretto interessato… Giuseppe Bonaviri.
Pensa possa essere possibile?
Nell’eventualità la prego di porgergli i saluti miei e di tutti gli amici intervenuti qui.
Grazie ancora.
Roberta Tiberia, sul sito Italialibri, ha pubblicato qualche anno fa un’intervista a Bonaviri. Ad un certo punto ella gli ha chiesto quale periodo della sua vita ricordasse con maggior felicita’. Ecco: la risposta dello scrittore mi permette ora di contraddire quei tanti poveretti che tuttora pensano che cent’anni fa solo l’uno per cento degli italiani parlasse la nostra lingua:
”La fase più bella per me – dice Bonaviri – è stata senza dubbio l’infanzia. Mi sono trovato immerso, senza volerlo, in un paese povero, contadino ma sapiente, dove su cento contadini o artigiani, come mio padre, cento sapevano l’italiano e scrivevano poesie.”
Bellissimo il video di ringraziamento di Bonaviri. Grazie.
Salve, nel 2007 ho avuto il piacere di realizzare un documentario su Giuseppe Bonaviri.
Lo scrittore mi ha concesso un’intervista e lo stesso hanno fatto alcuni protagonisti della cultura italiana: Walter Mauro, Ennio Morricone, Salvatore Silvano Nigro, Walter Pedullà, Sarah Zappulla Muscarà.
Inutile dirvi che piacere e che onore per me sia stato incontrare tutte
queste straordinarie personalità accomunate dall’amore per l’opera di Bonaviri.
Ma il ricordo più bello a proposito di questo lavoro è stata la prima del
documentario a Roma, alla Cineteca Nazionale, alla presenza di Bonaviri e Morricone (nonché del presidente della Fondazione Bonaviri Giuseppe Castania, della professoressa Zappulla Muscarà e di Franco La Magna).
Per chi volesse dare un’occhiata ad alcuni estratti del documentario “Bonaviri ritratto”:
Trailer
http://it.youtube.com/watch?v=9PqQYazPS60
Bonaviri parla del suo esordio letterario
http://it.youtube.com/watch?v=LCTR9o29pLU
Bonaviri recita la poesia “Annientamento”
http://it.youtube.com/watch?v=kz9k7CeyLh0
“Il bianchissimo vento” di Giuseppe Bonaviri – Videopoesia
http://it.youtube.com/watch?v=5pvL9SXrzBE
Sul mio sito si possono vedere alcune foto della serata romana con Bonaviri e Morricone:
http://www.massimilianoperrotta.it/bonaviri_presentazioni.htm
Un saluto a tutti.
ho parlato con Giuseppina Bonaviri, figlia di Giuseppe Bonaviri e l’ho informata sul dibattito.Credo che in giornata ci potrebbe un intervento del maestro.
Cari saluti
Agrippino Perrotta
Grazie mille, Agrippino.
Sarebbe bellissimo!!!
Intanto ne approfitto per ringraziare Massimiliano Perrotta per gli ottimi contributi video che ci ha offerto.
–
(Tanti saluti anche ad Amelia).
Ne siamo tutti felici! Grazie, dottor Perrotta! – e mi scusino gli altri se mi permetto di parlare a nome di tutti.
Sergio Sozi
Oh, che bellissima notizia!!!
In attesa di Giuseppe Bonaviri la ringrazio tanto gentilissimo Agrippino Perrotta, felice altresì di sapere che la poesia “I poeti” sarà posta accanto alla “Pietra della poesia” a Camuti, sperando che la prossima estate possa io ritornare a Mineo, per visitare Camuti e per visitare di nuovo la Fondazione Bonaviri e poterLa ancora incontrare.
Ringrazio inoltre di cuore suo figlio Massimiliano Perrotta per il pregevole documentario su Bonaviri e per i contributi inseriti in questo importante dibattito.
Un caro saluto,
Gaetano
Sono stata informata della vostra iniziativa dal segretario della Fondazione Bonaviri, dott. Perrotta.
Seguo le vostre iniziative che certamente si distiguono per il buon gusto e l’attenzione al mondo della conoscenza.
Sono felice di sapere che avete attivato una discussione-dibattito su Bonaviri.
Informerò mio padre dell’avvenuto. Certamente vi invierà un suo personale contributo.
Giuseppina Bonaviri
@ Giuseppina Bonaviri
Carissima Giuseppina, la ringrazio molto per il suo intervento e per le belle parole.
Ci saluti tanto suo padre, con grande affetto da parte mia e di tutti gli amici di Letteratitudine. Ricevere un suo contibuto sarà un dono bellissimo per tutti noi.
Carissimo Gaetano Failla. Quanti scrittori sono passati indenni per il traggitto puntiglioso e aspro della letteratura italiana? Bonaviri (come tutti i grandi scrittori ) si è ferito in questo passaggio tra 900 ed inferno ma, basta soltanto la sua “Divina foresta” a risanare tutto il male subito in anni e anni di grande scrittura. Un libro che basta a fare di questo nostro grande mondo invadente un mondo dove si può anche vivere per leggere e rileggere all’infinito Montale, Bufalino e Bonaviri. Sono grato a Maugeri e a te per per avermi dato l’opportunità di dire la mia su Bonaviri. Con Stima Profonda
Gentile Signor Maugeri,
studio all’università di Tor Vergata e sto preparando una tesi di laurea triennale su Giuseppe Bonaviri. Allo scrittore che, come ho potuto notare, anche lei ama, ho avuto il privilegio di fare un’intervista poiché abitiamo entrambe a Frosinone. Mi chiedevo se per lei fosse possibile indicarmi materiale da visionare su Giuseppe Bonaviri, come ad esempio atti di convegni o saggi critici. Se non le chiedo troppo può contattarmi via mail al mio indirizzo di posta. La ringrazio e le faccio i miei più sinceri complimenti per il suo blog.
Camilla
Ringrazio qui di cuore per il suo commovente, importante e appassionato commento il poeta Mario Trapuzzano, mio carissimo amico, dal quale un giorno ho ricevuto in regalo una vecchia edizione de “La divina foresta”.
MESSAGGIO PER CAMILLA PULCINELLI
per la sua tesi potrà visitare il sito fondazionegiuseppebonaviri.it
la fondazione ha tantissimo materiale utile
tel 0933 983344
Agrippino Perrotta Segretario Fondazione Bonaviri
@Massimo-Sergio-Simona (in ordine alfabetico)
Pur non avendo letto la divina foresta e pensando anche a Dante e Virgilio, le mie intuizioni mi portano a pensare allo stato incosciente dell’uomo che cerca di svelare i segreti della sua esistenza.
Siamo e viviamo tutti nella foresta, simbolo della natura della quale siamo parte, o stato d’incoscienza; il compito dell’uomo propulsore delle idee salvifiche è di svelarne la sua natura, onde riuscire a addomesticarla e mutarla, e riuscire infine a trovarne l’uscita, cioè la sua elevazione verso il divino.
Cari saluti
Lorenzo
A Giuseppina Bonaviri: grazie e un caro saluto a lei e a suo padre, che ci farà veramente un onore intervenendo in questo che più che un blog è un salotto letterario d’altri tempi che come una divina foresta si anima di voci e di parole…
Ad Agrippino Perrotta: grazie a persone come lei, appassionate e dedite al lavoro di conservazione e studio di materiali su uno scrittore, la cultura pone un argine alla barbarie dilagante.
Felicissimo che sia giunta in questo blog, mando un carissimo saluto a Giuseppina Bonaviri.
S. G. Failla
E naturalmente rinnovo i miei saluti con tutto il cuore per Suo padre Giuseppe Bonaviri.
S. G. Failla
Un ringraziamento e un saluto a Mario Trapuzzano (e ancora a Maria Lucia e a Lorenzo).
In soccorso di Camilla Pulcinelli è giunto Agrippino Perrotta (grazie Agrippino… Camilla, se hai bisogno di me scrivimi pure a letteratitudine@gmail.com)
Tra breve pubblicherò un nuovo post. Ma la discussione, qui, continuerà nei prossimi giorni.
Spero, infatti, che possa intervenire Sarah Zappulla Muscarà che è rientrata in Italia e che ho avuto modo di sentire oggi.
–
(Ne approfitto per comunicare che domani, 11 novembre ore 18, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania, Auditorium “Giancarlo De Carlo” – Monastero dei Benedettini (Catania), ci sarà la presentazione del romanzo “Il giudizio della sera” di Sebastiano Addamo a cura di Sarah Zappulla Muscarà (appena ri-edito da Bompiani).
http://www.flett.unict.it/internals/forum/viewtopic.php?f=4&t=224
Ho appena inserito questo “post” tra i “post permanenti” di Letteratitudine (colonna di destra del sito) con titolo: A GIUSEPPE BONAVIRI.
Complimenti per questa attenzione per Giuseppe Bonaviri, un autore fra i più grandi che abbiamo e che non compare perché non è uno scrittore-spettacolo. Parteciperò senz’altro a questo dibattito che si è aperto e mi impegno anche a darne notizia nel mio nuovo blog, diverso da quello qui indicato e che sono stato costretto a chiudere per le inadempienze del browser. Franco Romanò.
Grazie mille, Franco.
Volevo ringraziare Agrippino Perrotta. Ho già dato un’occhiata al sito della fondazione e lo trovo molto esauriente. Credo mi metterò in contatto con voi della fondazione Bonaviri. La ringrazio per lo splendido lavoro che porta avanti.
A presto.
Camilla Pulcinelli
Al liceo scientifico G.Seguenza di Messina insegnava negli anni 70-80,una persona meravigliosa :Francesco Prestipino.Era il mio professore di lettere.Ha tracciato molti percorsi,ci ha insegnato a guardare,a vedere oltre le apparenze.Ci ha fatto amare la letteratura,Cattafi e Bonaviri,con il quale oganizzo’ una conferenza negli anni 80.Lessi allora Notti sull’altura,e un altro racconto,ma non lo apprezzai molto,probabilmente non lo capi’.Mi sentivo piu’ vicina a Bartalo Cattafi,lo sentivo piu’ simile a me,lui sapeva scrivere cio’ che io sapevo solo sentire.Pratico yoga da molti anni,adesso la mia percezione del mondo e dell’uomo e’ diversa,e mi sento pronta per capire cio’ che forse un tempo era molto lontano dal mio modo di sentire.Voglio rileggere Bonaviri.Ricomincero’ da Notti sull’altura.Stavolta non mi fermero’ in superficie.Ciao,Liana
Ricopio un elzeviro di Giuseppe Bonaviri pubblicato su “Il Corriere della Sera” di oggi, mercoledì 28 gennaio 2009:
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La pelle conosce segreti che il dormiveglia rivela
IL MONDO INTERIORE E’ SCRITTO SUL CORPO
di Giuseppe Bonaviri
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Alcuni anni or sono, ho pubblicato con Mondadori un romanzo dal titolo “Il dormiveglia”. In appendice al romanzo, era presente un ‘trattato pseudoscientifico’ sulle percezioni sensoriali che precedono la fase del sonno e che sono legate alle varie sollecitazioni cutanee cui siamo sottoposti. Bisogna almeno premettere che, secondo studi medici, dallo stesso foglietto del neo-embrione si formano sia la sfera cerebrale che la cute. Quest’ultima – da certe mie ricerche fatte all’epoca della stesura del romanzo, avendo svolto la professsione medica per cinquant’anni – ha una funzione ‘mini pensante’ per cui possiamo relativamente stabilire una mappa cutanea dei pensieri che ci sopraggiungono nella fase del dormiveglia.
Assai brevemente possiamo accennare al fatto che se una persona ha degli stimoli cutanei sul viso mentre sta per addormentarsi, vede delle luci, delle lampade accese, e tutto ciò che è legato alla luce, perchè viene a essere stimolata una particolare area cerebrale visiva. Se tali stimoli, sotto varie forme, interessano le braccia, colui che sta per addormentarsi crede di vedere degli oggetti in movimento. Se i cosiddetti stimoli sensitivi partono dall’addome si ha una visione di alimenti diversi che, generalmente, partono dal pane e si articolano verso cibi ben più complessi e diversi. Quando lo stimolo, invece, parte dai piedi si visualizzano vie e strade sia terrestri che marine e, in rari casi, aeree; la gola genera visioni di alimenti che arrivano e scompaiono rapidamente.
A mio avviso, però, la zona cutanea più strana e singolare è l’area inguinale dove è localizzata l’idea primordiale di un Dio che ci ha creato e ci ha lasciato dei segni ‘mini geometrici’, così come diceva Platone: se, infatti, tale area è stimolata noi vediamo una successione di elementi geometrizzabili.
Insomma, sulla nostra cute si riflette un mondo interiore che non emergerebbe, anche se solo in forma onirica, se non ci fossero tutte queste successioni di punti stimolati. La nostra sfera onirico-psichica è tuttora tutta da studiare e ci riserverà notevoli e meravigliose sorprese.
Ci vorranno, secondo me, molti anni ancora perchè si possa entrare nel mistero di un organismo e nel mistero di un Dio che si diffonde per miliardi di chilometri fra galassie e sistemi stellari, dei quali non comprendiamo quello che hanno significato nei secoli passati e significheranno nei secoli futuri. I nostri posteri sicuramente conosceranno e vedranno cose che per noi sono impensabili e completamente ignote.
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Ho ricevuto ieri notizia, da parte del gentilissimo Segretario della “Fondazione Giuseppe Bonaviri”, dott. Agrippino Perrotta, dell’importante manifestazione che ha avuto luogo due giorni fa a Catania, presso il Palazzo della Cultura:
OMAGGIO A GIUSEPPE BONAVIRI
con la presentazione della sua opera giovanile “La ragazza di Casalmonferrato” pubblicata in questi giorni dalle edizioni La Cantinella.
Interventi di Maria Lombardo (” ‘La ragazza di Casalmonferrato’, tra letteratura e cinema”), Sergio Sciacca (” ‘La ragazza di Casalmonferrato’, un romanzo giovanile”), Sarah Zappulla Muscarà (“L’universo poetico di Giuseppe Bonaviri”).
Letture di brani del romanzo a cura di Gianni Salvo.
Interventi introduttivi del Sindaco di Catania e dell’Assessore alla Cultura, del dott. Giuseppe Castania, Presidente della Fondazione Bonaviri, del Rettore dell’Università di Catania e del Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia.
Con la presenza dell’Autore, cittadino onorario di Catania.
Caro Gaetano,
ovviamente ero presente…
Aspettavamo anche Bonaviri il quale non è potuto essere presente a causa dell’influenza.
Inserisco di seguito la recensione di Sergio Sciacca (alla riedizione de ‘La ragazza di Casalmonferrato’) apparsa sul quotidiaono “La Sicilia” di ieri.
Torna «La ragazza di Casalmonferrato» di Giuseppe Bonaviri
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da LA SICILIA del 20/3/2009
di Sergio Sciacca
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Giuseppe Bonaviri «La ragazza di Casalmonferrato», (romanzo del 1954) a cura di Sarah Zappulla Muscarà e Enzo Zappulla, La Cantinella.
E’ una ristampa (il libro assieme ad altri scritti di Bonaviri è stato stampato in “Bonaviri inedito” nel 1998, ripubblicato in seconda edizione due anni dopo), ma è soprattutto una riscoperta. Il grosso volume in cui era stato precedentemente incluso era una silloge illustrativa della personalità dello scrittore che con le sue numerose traduzioni (anche in cinese) è tra i più apprezzati degli italiani nel mondo (e più volte è stato candidato al Nobel): il romanzo che è scopertamente autobiografico, vi appariva dunque come un raccolta di riferimenti a fatti e persone direttamente conosciuti.
Ora che esce come libro autonomo (con una vasta e incisiva introduzione editoriale) acquista il suo significato di opera creativa, da considerare in quella particolare fattispecie dell’invenzione che è la memoria di sé. Si affacciano nel ricordo i momenti brevissimi ma indimenticabili di una serata a ballare, di una nottata di pioggia tra desiderio di amore e desiderio di affetto, i molti istanti di attese, speranze, in una Italietta ancora piccina, ma che sapeva scommettere sul futuro e realizzarlo.
A vederlo così il romanzo appare come tale: opera di invenzione sulla base di una esperienza personale, come il Giovannino di Ercole Patti, lo Ulrich di Musil e il dom Casmurro di Machado de Assis che non casualmente vengono richiamati nel saggio iniziale.
Sono vere le circostanze; i sentimenti, come avviene per tutti i moti dell’anima, sono verissimi anche se impalpabili. E le ragazze in fiore di quegli anni difficili, richiamate realisticamente dalle foto in bianco e nero dell’epoca acquistano nell’immaginazione il calore della prima avventura; il tenentino meridionale che si trasferisce nella cittadina piemontese e che, consapevole della propria ispirazione letteraria va animosamente a parlare con Natalia Ginzburg ed Elio Vittorini rende vive le passioni di quei giorni, che durano ancora oggi, nelle emozioni dei libri, nella giovinezza sempre fervida di sogni fantastici dettati dal fanciullino che sa guardare oltre le impressioni dei nervi ottici.
E’ la grande qualità dell’arte che trasforma anche la realtà, anche le persone autentiche in figurazioni affettuose: affetti riservati (la ragazza di Casalmonferrato non è diventata la attuale moglie dello scrittore), come le carezze del ricordo, come i profumi della primavera: che toccano chi sa ritrovarli nel tempo. Per i poeti della parola il tempo non è mai perduto: è sempre contemporaneo.
È MORTO GIUSEPPE BONAVIRI
Come ho già scritto, mi ha comunicato la notizia Massimiliano Perrotta. Pochi secondi fa ho parlato al telefono con Sarah Zappulla Muscarà. Mi diceva che Bonaviri sperava tanto di riuscire a venire a Catania giorno 19. Sapeva che sarebbe stata la sua ultima volta.
Credo che integrerò questo post – che ormai ha la consistenza di un volume cartaceo – con ulteriori contributi che mi perverranno.
Il video che vedete sopra (così come le foto) – nei fatti – restituisce l’ultima immagine pubblica di Giuseppe Bonaviri.
Caro Massi,
forse io e te quel pomeriggio avevamo la quasi certezza che non l’avremmo rivisto.
Quel pomeriggio ha rappresentato un tributo a Bonaviri per il suo onomastico, l’ultimo.
Spero domani di postarvi la poesia che ho scritto proprio quel pomeriggio, tra i flash delle macchine fotografiche, le parole di Sarah Zappulla Muscarà, Sergio Sciacca e degli altri intervenuti.
Omaggio a Bonaviri. Come se presagissi.
Di suo ho letto solo La divina foresta e posso dire che mi ha stupito, ma soprattutto incantato. Ho trovato in quest’opera una visione del mondo simile alla mia, peraltro esposta in un modo veramente di grandissimo livello. Avevo nelle mie intenzioni di leggere almeno altri tre suoi libri e poi di contattarlo per un’intervista, ma purtroppo il sipario del tempo è calato troppo presto e così come per Mario Rigoni Stern non potro più avere il piacere di discutere con lui. Però, restano le sue opere, che senz’altro leggerò e allora sarà un po’ come comunicare al di là di ogni concetto puramente razionale con lo spirito dell’autore, sempre presente fra le righe, un’eredità immutabile nel tempo di cui tutti potremo fruire.
Caro Bonaviri, te ne sei andato, ma ciò che eri è rimasto in fogli di carta inchiostrata sui quali gli uomini potranno meditare e volare fin dove sei tu.
Il vento a Camuti nasceva dai sassi
con un gridolino e sternuti percepibili appena.
Formiche volanti ne seguivano i passi,
cardellini e fior di ginestra con lena.
Circuiva noi fratelli e sorelle tanto che, buffi,
Turi Ida Vincenza Maria me stesso,
ci tramutavamo in ventilanti buffi
misti a pappi, moscerini, granelli di gesso.
Ora essendo noi soltanto mulinelli indefessi,
strisciando sui tronchi ingravidavamo albicocchi,
stinchi di mandorli, ripette di finocchi
selvatici, e nostra madre: “O figli, vi siete dispersi? ”
Giuseppe Bonaviri
Da I cavalli lunari (Scheiwiller, 2004)
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A Bonaviri, mulinello indefesso, un ricordo dal vento di Camuti.
E una folata, leggera, di pianto.
Gaetano, il tuo contributo mi fa pensare al fatto che per la fede cristiana noi siamo membra del corpo di Cristo. Noi siamo disegnati sul palmo delle mani di Dio, e quando una sola cellula del grande corpo soffre, tutto il corpo soffre.
Ancora c’è tanta strada da fare. Domani voglio postare la lectio magistralis che Bonaviri tenne Catania in occasione del conferimento della laurea honoris causa… e in cui parla anche di questo.
Madre, madruzza, madruzza,
fammi morire, ire
ire ire là
dove non fiorisce il croco
e non si sente roco il ruscello.
Madre, fammi diventare fumo
leggero come aria che si trasmuta
nell’ebrioso fior della ruta.
Oh, fammi penetrar nei glomi
del tuo corpo entro cui arde Dio
come dolce lume a petrolio!
Così sarò semplice infittìo
di te stessa esalante Iddio, e caduto
in tenebra, fuor da alberi e sassi,
tu crescerai in me, e la sassìfraga.
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Questa mi sembrava bella.
Dei grandi artisti e scrittori restano le parole a noi perchè tutto possa continuare.
(…)
Sol io son – quasi solo – qui a Frosinone
che vanescente pencola su un burrone.
Iddio (o Dio!), fra galassie, mi guarda con
un lunghissimo telescopio d’oro. Morto, mi
farà rinascere mandorlo alla Giummarra
con, nei rami, cardelli, e bimbi intorno in girotondo.
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(Giuseppe Bonaviri, “I cavalli lunari”)
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tristezza ed emozione mi stanno lacerando; parlavo del nostro caro amico con Enzo e Sarah Zappulla la settimana scorsa a Tunisi. Una parte di me se n’è andata. La sua poetica è universale, piena di fatti nomi di un mondo di pace e di sincera umanità. Ho fatto amare la sua scrittura ai miei studenti perché amavo il suo mondo fantastico e poetico!Che Dio lo benedica!
”(…) un sospiroso e lagrimabil suono
da l’imo poggio odo che grida, e dice:
Ahi! Perche’ si’ mi laceri e mi scempi?
Perche’, di cosi’ pio, cosi’ spietato,
Enea, ver me ti mostri? A che molesti
un ch’e’ morto e sepolto? A che contamini
col sangue mio le consanguinee mani?
Che’ ne’ di patria ne’ di gente esterno
son io da te, ne’ questo atro liquore
esce da sterpi, ma da membra umane.
Ah! Fuggi, Enea, da questo empio paese,
fuggi da questo abominevol lito:
che’ Polidoro io sono, e qui confitto
m’ha nembo micidiale e ria semenza
di ferri e d’aste che dal corpo mio
umor preso e radici, han fatto selva.”
…
(Eneide, Libro Terzo, 64-79 – trad. Annibal Caro)
Vi ringrazio moltissimo per i vostri interventi, così belli e delicati.
Ringrazio e saluto, in particolare, la mia amica Rawdha RAZGALLAH.
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Cara Rawdha, tu hai fatto tantissimo per divulgare l’opera di Bonaviri anche lì in Tunisia. So che eri molto legata a lui, come lui lo era a te (se non sbaglio c’è un suo personaggio che porta il tuo nome).
Condivido la tua tristezza ed emozione.
Di Bonaviri ci restano le parole e le opere di altissimo valore letterario.
A noi il compito di continuare a divulgarle per come meritano.
Ti abbraccio.
Ho ricevuto una mail con un contributo (rivolto a Bonaviri) di Pierfranco Bruni, Presidente del Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi”.
Lo inserisco nel successivo commento.
Grazie mille.
Ho un ricordo molto bello di Giuseppe Bonaviri, da me studiato molti anni fa e inserito, di recente, in due antologie della poesia italiana del Novecento tradotte in lingua spagnola, la prima, e indirizzata al Salone del Libro di Santo Domingo e una antologia in lingua albanese (la seconda) con le finalità di diffondere la letteratura italiana nei Paesi esteri e soprattutto per realizzare un rapporto tra la poesia italiana e le culture di lingua spagnola e albanese.
Bonaviri, che era nato nel 1924, resta una pietra miliare in quei processi lirici il cui intreccio tra cultura adriatica e mediterranea realizza un dato centrale in una visione di lingue che hanno creato dei legami importanti con le realtà etniche. Bonaviri, che veniva dalla Sicilia, ha portato con sé un humus profondamente legato ad un etnhos che ha saputo amalgamare parola, tradizione e cultura popolare.
Trovandomi, per una conferenza sulle eredità etniche dell’Italia, all’Università di Tunisi, nel corso del mio discorrere, mi fu chiesto, improvvisamente, di parlare proprio di Giuseppe Bonaviri. La richiesta mi colse di sorpresa anche perché non rientrava nei miei programmi ma, comunque, intavolammo una bella discussione sia con i docenti sia con gli studenti che erano di lingua francese, tunisina e italiana. Perché mi chiesero di soffermarmi su Bonaviri? Perché Bonaviri era molto amato in quella Università ed era studiato da una docente che costantemente leggeva, durante le lezioni, i versi di Bonaviri.
Proprio in quella occasione scoprii degli elementi non soltanto letterari negli scritti di Bonaviri ma anche degli aspetti ben precisi che avevano connotati antropologici. E su questo intavolammo un vero e proprio discorso. Lessi e commentammo insieme una poesia che porta il titolo: “Valencia”. Ma certamente Bonaviri è uno scrittore e un poeta che ha attraversato una linea letteraria che è quella prettamente contornata da un immaginario profondamente mediterraneo e i suoi personaggi, che raccontano non solo nella realtà ma anche nella metafora, disegnano un preciso tracciato che è quello di una definizione dell’avventura che i personaggi stessi vivono e il senso del destino che cammina sempre dentro un processo che esula la dimensione puramente culturale per farsi esistenza.
C’è in un suo scritto del 1998, “L’infinito lunare”, un percorso che tocca le corde dell’anima sia per lo scenario sia per una atmosfera ben disegnata in una visione in cui la metafora della parola supera ogni ostacolo legato a un realismo mai interpretato nell’opera di Bonaviri. Dalla Sicilia a Frosinone. Un siciliano che era ben consapevole di quell’isola che è sempre stata il nodo – snodo della sua malinconia che traspare lungo le parole annunciate, sottolineate, pronunciate a parole lente.
Ebbene, a Tunisi parlammo di Giuseppe Bonaviri poeta. Come ne parlai a Scutari, a Tetova, a Santo Domingo. Ma gli studenti tunisini sprizzavano gioia quando comincia a leggere: “Sui sassi secchi del tuo fiume/la sera si è spenta in lampeggiamenti./In cielo lenta, spaurita e fùmida/la luna s’alza”.
Siamo in pieno Novecento e quelle “Notti sull’altura” del 1971 sono il percorso di una vita come la misura di un dialogo mai interrotto nei suoi scritti tra spazio e tempo che troviamo in un suo libro del 1976 e ristampato nel 1999 dal titolo: “L’enorme tempo”. Ma tutto diventa “O corpo sospiroso” del 1982 oppure si vive spesso in quell’ “incominciamento” (1983) che porta le rughe nelle parole e il linguaggio è una attesa nella indefinibilità del quotidiano.
Giuseppe Bonaviri, morto il 21 marzo scorso resta un riferimento poetico che ha inciso in quel passaggio tra una letteratura segnata dallo storicismo e una letteratura che ben ha saputo giocarsi la partita all’interno di una eredità metaforica.
Bonaviri, passando attraverso la metafora, ha fatto della sua letteratura una visione magica. E magico è il suo linguaggio a cominciare da uno dei suoi primi libri che risale al 1954: “Il santo della stradalunga” sino ad un tocco di vera alchimia che si trova in “I cavalli lunari” del 2004.
Uno scrittore che passeggiando tra le strade della nostalgia ha recitato e raccontato il “sensibile” di una vita nel tocco di una memoria che è dentro la vita stessa sempre nel segno della tradizione.
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Pierfranco Bruni
Presidente del Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi”
Ho un ricordo personale semplice e prezioso di Bonaviri: poche righe datate 13-7-91, scritte su un foglio strappato dal suo ricettario di medico della Regione Lazio, con tanto di timbro (Dr. Bonaviri Giuseppe – 6012). Ci sono parole caldissime di apprezzamento per il mio primo libro, che all’epoca fra gli addetti ai lavori lessero solo lui, Goffredo Fofi e Pardini, credo – meno di mille lettori in totale, comunque.
E’ stato il primo dei miei genitori adottivi a distanza; poi sono seguiti Pontiggia, Busi e altri. Adoro questi attestati di stima sganciati dalla simpatia che può nascere da un contatto personale, li trovo di una purezza meravigliosa e riflettono un grande credito su chi li pronuncia.
E’ difficile scrivere di Bonaviri dopo interventi di persone così illustri, tuttavia sento l’esigenza di scrivere poche parole di ringraziamento ad un autore che ho molto amato e che continuerà a vivere nei libri che custodisco gelosamente nella mia libreria e che rileggerò con immutata ammirazione.
Cuando uno debe expresar sentimientos´profundos, es obligatorio hacerlo en la propia lengua. Siento una gran pena por la muerte de Bonavir, el Peppino para los amigos y yo me precio de haberlo sido suyo. Tenía un gran amor por España, por Andalucía, Extremadura y Castilla especialmente (de ese amor surgieron los Poemillas españoles) porque las encontraba congeniales con su Sicilia; sentía un gran cariño por su familia -los mencionaba siempre en sus cartas personales) y por sus amigos. La ventaja para tan gran escritor es que los escritores como él nunca mueren. Viven en sus lectores y en la memoria de los que lo quisieron. Descansa en paz amigo.
Si rimane muti nel cuore pulsante del vuoto, al cospetto dell’evento chiamato morte. Poi, lentamente, ritornano le parole, queste meravigliose illusioni, a tentare di comporre la più dolce musica nella trama del silenzio.
Giuseppe Bonaviri mi ha lasciato un dolcissimo sorriso e la musica delle sue meravigliose opere. Sappiamo quanto sia difficile trovare bellezza sia nell’Autore sia nella sua Opera. Giuseppe Bonaviri è uno di quegli eventi rari, dove la bellezza dell’uomo si fonde con la bellezza della sua scrittura. Le opere di Giuseppe Bonaviri sono intimamente connesse all’eterno respiro dell’Universo, al ritmo danzante dei cicli naturali.
La più bella storia che noi possiamo narrare, la più bella poesia, è quella che creiamo con la nostra stessa vita. E sappiamo quanto sia importante – in una storia, in una poesia – la frase finale, il verso conclusivo. Il passaggio terreno di Giuseppe Bonaviri si è concluso il 21 marzo, il primo giorno di primavera.
Così Giuseppe Bonaviri, morto ieri a Frosinone, scriveva il 18 marzo scorso: “Carissimi Sarah e Enzo, vi prego di leggere queste mie poche righe: Mi scuso per l’assenza, ci tenevo moltissimo ad essere presente alla manifestazione nella mia amata terra all’inizio della primavera tra mandorli in fiore ed i tanti profumi che mi ricordano la giovinezza ma sono stato colto dall’influenza con febbre alta. Ringrazio e mando tanti carissimi auguri ai presenti. Mi auguro di potervi incontrare nei prossimi mesi. Giuseppe Bonaviri”.
Ma tutti noi raccolti numerosi il 19 marzo nell’ampia sala della Casa della Cultura di Palazzo Platamone a Catania per festeggiare il suo onomastico e l’uscita del romanzo autobiografico “La ragazza di Casalmonferrato”, edito da la Cantinella col generoso sostegno di Pucci Giuffrida, che tanto gli stava a cuore perché costituiva un tuffo in quegli anni giovanili che s’accampano costanti nel suo immaginario, col vivo rammarico per la sua assenza nutrivamo un’inconfessata consapevolezza che quell’ultimo ritorno nella ‘sua’ Sicilia da tempo fortemente voluto non sarebbe stato più possibile per le precarie condizioni di salute. Sicché con tutt’intorno le immagini della mostra “Giuseppe Bonaviri, la sua opera, la sua famiglia, la sua terra” curata dall’Istituto di Storia dello Spettacolo Siciliano, quell’omaggio di Catania, che gli ha dato la cittadinanza onoraria, dell’Università che gli ha conferito la laurea honoris causa in Lettere, della Fondazione a lui intitolata che ne promuove l’opera, ha costituito l’ultimo affettuoso, ammirato abbraccio di quell’isola che è stata la fonte primaria della sua scrittura.
Peppino è nato l’11 luglio 1924, al canto delle cicale, a Mineo, dove trascorre l’infanzia e la giovinezza, vale a dire, con Freud, gli anni fondamentali per la conquista della propria identità. Muovendo da Mineo, definito “Parnaso siculo” poiché nell’altipiano di Camuti esiste una pietra che la leggenda vuole ispiratrice di energie poetiche, “topos” sacro, “speculum mundi”, l’ “onfalos” dei greci, con la visione cosmica che gli è congeniale, Bonaviri fonde la realtà con un mosaico di sogni dove l’ombrosità esistenziale si stempera nel ricordo del padre don Nanè, della madre, donna Papè Casaccio, dei valori etici ed affettivi forti.
Lamento doloroso e nostalgico, patria incorrotta del cuore, mondo offeso, metafora dell’universo, fonte della vita, della storia, del sogno, insieme reale, fantastica, visionaria, Mineo è il luogo dei confusi primordi, degli umori declinati lungo la corda della miseria e della fatica del vivere. Terra di leggende, usi, costumi, deliranti fantasie, come in un quadro di Chagall “perpetuo inseguimento del desiderio”, spazio d’invenzione. Le aggrovigliate radici di questo affabulatore, votato al travagliato canto dell’epos familiare (lirico modo di recare conforto al dramma di una solitudine irrisarcibile), si perdono nelle oscure stratificazioni e interconnessioni demoantropologiche, sociologiche, culturali della memoria individuale e collettiva.
Vicende biografiche, miti popolari, ebbrezze oniriche, invenzioni fantastiche disegnano una raggera di simbologie, una trama di magico stupore che la professione medica e l’interesse per la scienza sostengono e corroborano. La natura lucidamente speculativa della Sicilia greca e quella superbamente immaginifica della Sicilia araba si saldano nell’inesauribile estro di Giuseppe Bonaviri, la cui fascinosa, creativa lingua asseconda ed esplicita la ricchezza e complessità della cosmica materia. Dai primi romanzi e racconti, dove il realismo si tinge di suggestioni ‘altre’ debordando nella favola, alle opere più recenti, natura, tradizione, memoria, eros, scienza, fantascienza, filosofia, tempo, storia s’intrecciano ricreando il misterioso, pulsante delirio dell’universo. È un farneticare della ragione e della fantasia giacché la scrittura di Bonaviri prende abbrivio dalla cronaca, dalle piccole cose, dai gesti quotidiani, dalle vicende familiari, dai racconti della madre, “Decameron vivente”, che, avvolta in una “cornice di chiarissima luce”, narrava fiabe ai suoi cinque figli.
Dal realismo magico delle origini al favoloso, all’elegiaco, al picaresco, al dionisiaco, al drammatico, al surreale, Bonaviri, intona un canto alla terra-madre nel quale sono evocati l’Ellade e il mondo saraceno, il variopinto e glorioso palcoscenico dell’opera dei pupi e quello umbratile e tenace degli uomini comuni. Scrittore straordinario nella sua unicità, uomo di scienza dotato di “habitus” pragmatico e fanciullo in grado di percepire le segrete energie della natura ed il tenuo alitare delle cose, arroccato alle memorie del natio luogo e insieme proiettato verso una dimensione panica, Giuseppe Bonaviri esorcizza la morte, “asprura nera”, valicando le barriere del tempo e dello spazio, sublimando la materia.
Un perenne trascorrere dalla sofferenza umana alla ricerca dell’essere, dall’individuo alle pietre, alle piante, agli uccelli, al firmamento, dal microcosmo al macrocosmo. Ma la vena fiabesca, la carica ludica, il trastullo erotico, la dimensione magica, la metamorfosi, la trasmigrazione e la trasmutazione nel tempo e nello spazio, l’evasione cosmica, una costante dell’opera in versi e in prosa di Bonaviri, sospinto da un epico e pur fragile ulissismo, non è fuga dalle responsabilità quotidiane, disimpegno politico-sociale, giacché, su Plutone o sulla luna, insistiti sono i riferimenti critici alla contemporaneità e persistono angosciosi interrogativi esistenziali.
Da tempo nella rosa del Nobel, autore di più di quaranta volumi, fra romanzi, racconti, poesie, saggi, opere teatrali, tradotto nelle principali lingue del mondo, Giuseppe Bonaviri, per quell'”allegria fantastica straordinaria”, per quell'”invenzione e libertà continue” di temi e di lingua di cui parla Italo Calvino, è da annoverarsi tra i classici.
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da “La Sicilia” di oggi 23/3/2009
Addio Peppino Bonaviri, figlio del sarto della stradalunga di Mineo. Addio cuore puro della Sicilia. Porti con te nell’aldilà la nostalgia di ciò che è stato e non può più tornare. Nel tuo volto scavato, nel tuo sorriso bonario, nei tuoi occhi quieti e penetranti, nelle tue rughe, c’era la memoria di un mondo offeso. Nella tua figura curva si coglieva la sofferenza di generazioni di contadini siciliani, l’ansia di riscatto ma soprattutto la capacità di cogliere con lo sguardo ingenuo dell’anima l’incanto della natura, la magia del mondo e le segrete rispondenze dei palpiti del cuore con gli animali e le cose. Tutto la tua fantasia di scrittore riusciva ad animare, in tutto sapeva cogliere la linfa nascosta ed auscultarne il lento fluire come un esperto rabdomante.
Uomo senza tempo, riuscivi ad essere coevo della Sicilia antica pur essendo modernissimo cultore della fisica atomica. Quando la tradizione non ti soccorreva per le tue esplorazioni nel cuore dell’isola o nell’universo infinito, eri capace di coniare un nuovo linguaggio. Tutto confluiva a formare una complessa identità umana e letteraria. E mai il tuo spirito, pur facendo tu il medico a Frosinone, è riuscito a staccarsi dalla natìa Mineo, dove ritrovavi la magia del vivere.
Addio… stavo per dire «vecchio Peppino», ma una volta mi rimproverasti dolcemente perché nella didascalia di una foto sul giornale avevo scritto «Bonaviri e la vecchia madre». «Le signore non amano sentirsi definire vecchie». E’ giusto ora anche per te, tu che vivrai nell’eterno presente riservato ai poeti, a coloro che hanno lasciato un graffito di parole sulla faccia della terra.
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da “La Sicilia” di oggi 23/3/2009
Quando ho appreso la notizia della scomparsa di Giuseppe Bonaviri sono andato a leggermi quel passo di Autobiografia in do minore, in cui parla della morte e scrive che essa è “un semplice sperdimento cerebrale dei miliardi di psichiche registrazioni dopo il trapasso”.
Secondo Ariosto, autore oltremodo caro a entrambi come ci siamo detti più volte in oltre cinquant’anni di amicizia molto dialogata, il forte desiderio genera la credenza. In altri termini mi consola credere che Peppino è solo andato altrove, forse in mezzo alle particelle della submicrofisica con cui egli dava valore scientifico alle sue fantasie di eterno bambino che aspira alla sapienza e la conquista. Più empiricamente – lo credo non solo perché lo desidero, ci sono almeno dieci sue opere a confermarlo – Giuseppe Bonaviri ha almeno acquisito l’immortalità che si merita un narratore e un poeta collocato unanimamente dalla critica e dai lettori tra i maggiori del secondo Novecento.
Non ce lo siamo detti abbastanza, ma pochi hanno saputo alimentare come lui la voglia di vivere. Ogni suo testo, anche il più dolente, è una stoica educazione a sperare in un modo migliore di vivere, o almeno di sopravvivere, con un sorriso ammiccante, come per intendersi tra persone che ne hanno viste – per esperienza diretta o per letture – di tutti i colori. Bonaviri credeva nel mutamento, sia pure come metamorfosi del sempreuguale. E tuttavia nella sua narrativa c’è la storia di quanto ci è successo dai miserandi anni Cinquanta a oggi. Anche nel decennio del suo esordio narrativo l’autore del Sarto della stradalunga aveva fame di assoluto. Che è stato sempre il suo irremovibile companatico. Di Verdi si è detto che, presa la musica in cielo, la portò in terra.
Di Giuseppe Bonaviri si dica invece che raccolse in terra la realtà della nostra vita e la sollevò in cielo per trasformarla in una fiaba con la quale narrare le straordinarie avventure quotidiane degli uomini d’oggi da una distanza che li rende piccoli ma irriducibili nell’infinito, uguali nella storia e perenni nel tempo. Oltre alla musica – è sparsa dovunque nella narrativa ma abbonda nelle poesie, specialmente alloppianti nenie arabe, anzitutto in Martedina – ci mise più immaginazione che non cinquanta narratori di vario realismo. Molta alchimia nella sua testa è diventata magia, così per attestare la malia di una prosa che ci prende dall’orecchio per soffiarci dentro impossibili verità. Attenti al libretto: questo lirico sa della vita quanto ha appreso pure per aver auscultato, da cardiologo, il cuore degli uomini.
Quando era un medico povero per scrivere Bonaviri usava il blu di metilene. Così fatta è la sua scrittura: anzitutto il colore, che è adatto a un prosatore non di rado notturno, poi i netti contorni del disegno, la Sicilia è senza dubbio un’isola tangibile ma difficile da smorfiare. E comunque la tintura è una medicina. Bonaviri la dà anzitutto a se stesso, ma sa che terapia efficace è regalare il piacere della lettura di pagine che lasciano il segno in chiunque se le beva.
Nell’infanzia, alle falde dell’Etna, la madre soleva condirgli il poco pane portato in casa dal Sarto della stradalunga con racconti fiabeschi nei quali le novelle saracene si mescolavano con i poemi cavallereschi, magari insaporendo le gesta di eroi con le spezie ironica dell’Opera dei Pupi. Da allora va e viene dalla luna nei romanzi di Bonaviri l’Ippogrifo di Ariosto. Il lettore vede il firmamento stellato ma chi è lungimirante scorge le tracce luminose dell’inconscio del narratore. L’autore della Divina foresta e del Dottor Bilob esorcizza la morte solo raccontandosi le meravigliose imprese nate dai suoi desideri.
L’insaziabile voglia di una realtà concreta in quanto cosmica lo ha spinto lontano dalla Terra e così ha allargato l’orizzonte di tutti, con una narrazione che fa la spola fra la storia e il mito, fra la scienza e la magia, tra il chiaro e l’arcano, fra l’alto e il profondo, fra autobiografia e invenzione, tra Grecia e Sicilia. Non due mondi alternativi comunque, l’oggetto è il soggetto. Bonaviri accettava di invecchiare ma non di maturare. Aveva capito subito che tesoro è l’infanzia. Avrebbe accettato di scriverla come Savinio: in-ansia. Ha la febbre il suo periodo quando deve raccontare con la concretezza documentale di un neorealista come si può sopravvivere nella miseria di un paese meridionale del secondo dopoguerra.
Masticando sogni di un mondo migliore i giovanissimi protagonisti del Fiume di pietra trasfigurano tedeschi, americani e mafiosi. Poi Bonaviri si alzò in volo verso altri mondi dove c’è il tanatouccello o uccello della morte, suo terrore infantile, motivo forte della sua narrativa non meno di quello delle origini. E in Silvinia si fa sentire la nostalgia della madre attraverso il rito dell’addentare la pagnotta che è come succhiare alla mammella materna.
Forse l’ultima opera di Bonaviri è un testo teatrale che si intitola L’oro in bocca. Qui Bonaviri non è più con Ariosto ma Don Chisciotte, cui in una narrazione dove succede tutto quello che lo scrittore desidera vedere, si ricorda che il padre sarto soleva leggere la storia dell’eroe spagnolo. «Sentendo l’inizio della loro storia, l’hidalgo e Sancio si commossero e lacrime brillanti di antiche memorie scendevano, flinc flonc, dagli occhi, in quel momento belli e limpidi, con un’aura di meraviglia, come quelli dei bambini”. Ci sono, impreziosite da una lallazione infantile, le parole essenziali della vicenda letteraria del grande scrittore siciliano: antiche memorie delle tappe del destino umano, occhi limpidi per non lasciarsi sfuggire niente della realtà, e la meraviglia.
Naturalmente la meraviglia del sapientissimo, indimenticabile bambino che ieri ci ha lasciato. “Addio, addio,” dicevano gli amici dalla barca e Don Chisciotte muoveva lentamente la spada perché lo prendeva la tristezza pensando che la sua nuova avventura si stava concludendo.
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da “Il Messaggero” del 23-3-09
“Credo che dopo la morte il pensiero e, quindi, le nostre memorie continuano a sussistere come energia incapsulata, assimilabile ai buchi neri in cui si addensa, fittissima, la massa neutronica delle stelle” (da “Il dormiveglia”).
Le sue opere sono tra quelle che più mi hanno toccato il cuore… addio…
@ Raul Montanari
Caro Raul,
grazie per essere intervenuto e per averci donato questa testimonianza.
Hai avuto “genitori adottivi” di cui vantarti.
Grazie per le tue parole.
@ Vicente González Martín
Caro Vicente,
grazie per le parole commosse che hai deciso di scrivere nella tua lingua d’origine. Grazie davvero.
Avrò la fortuna e il piacere di rivederti nei prossimi giorni.
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Vicente González Martín è docente di letteratura all’Università di Salamanca (Spagna), nonché uno dei massimi italianisti spagnoli e titolare della “Cattedra Sicilia” (sempre presso l’Università di Salamanca).
Un saluto e un ringraziamento a Marika e a Manuela.
E a Sarah Zappulla Muscarà, Enzo Zappulla, Salvatore Scalia e a Walter Pedullà che hanno ricordato Giuseppe Bonaviri sulle pagine di prestigiosi quotidiani.
Domani spero di riuscire a inserire il pensiero di Matteo Collura e l’ultimo elzeviro scritto pochi giorni fa da Giuseppe Bonaviri e pubblicato sul Corriere della Sera del 23 marzo.
Ringrazio tutti e auguro una serena notte.
Il 21 marzo scrivevo parole per Alda Merini che compiva gli anni, felice della sua forza di vivere e nello stesso giorno la morte si portavia via Giuseppe Bonaviri un altro grande della letteratura italiana, ma le sue parole rimangono e rimarranno per tutte quelli che non si stancheranno mai di leggere, sognando e desiderarando sempre.
Non credo
nel cielo stellato
denso di anime festanti
mi perdo nella sua immensità
come uomo, carne, sangue
e desiderio di vita
credo
nella bellezza del sogno
che ogni notte
mi porta nel cuore
attimi di vita condivisa
nella speranza,
in ogni alba nuova,
di essere da tramite
tra ciò che è stato
e ciò che dovrà venire
godendo ogni notte
del cielo stellato
Francesca.
Grazie, Francesca.
Vi avevo promesso che avrei aggiornato il post con il “pensiero” di Matteo Collura e con l’ultimo elzeviro di Giuseppe Bonaviri (che aveva inviato al Corriere poco prima di morire).
L’elzeviro di Bonaviri si intitola: “Primavera, un’ondata di vita in cui rinasciamo”.
Mi sembra un titolo bellissimo.
Come ha fatto notare Gaetano, Bonaviri se ne è andato proprio il giorno di primavera.
In primavera è morto Bonaviri.
In primavera è rinato attraverso i suoi scritti e le sue opere.
Avevamo parlato al telefono due giorni fa. Faceva fatica a esprimersi, ormai allo stremo delle forze. Eppure, in quelle condizioni, cieco da alcuni mesi, la sua esistenza ridotta a un residuo fisiologico, in quei momenti in cui chiaro gli sarà apparso il fatale traguardo, la sua attenzione era rivolta all’ elzeviro che aveva trasmesso al Corriere e che ora potete leggere in questa stessa pagina. Non si giudichi male questo inseguire la pubblicazione di un articolo nei momenti conclusivi di una vita. Per uno scrittore e per gli artisti in genere l’attaccamento al proprio lavoro è l’ attaccamento alla vita stessa. Bonaviri aveva scritto quest’ ultimo articolo ed esso gli avrebbe dato quella certificazione di esistenza in vita che soltanto il frutto del suo lavoro di scrittore poteva dargli. Se le medicine continuavano a mantenerlo in questo mondo, la scrittura gliene dava un motivo degno. Ma a questo forse c’ è da aggiungere la sua insicurezza, il suo sentirsi un intruso, un medico prestato alla letteratura o uno scrittore prestato alla medicina. Certe volte si sarà sentito né questo né quello, mentre sappiamo che era un uomo straordinario oltre che un medico umanissimo e uno scrittore di grande finezza linguistica e originale ispirazione. Quando Vittorini lo conobbe, dopo aver letto il manoscritto de Il sarto della stradalunga, si meravigliò che egli fosse un giovane medico. Secondo il suo modello mentale, costruito sul mito operista, per lui doveva essere un proletario che si era messo a scrivere libri. Ma veniva da più lontano, Bonaviri: da quell’ angolo di Sicilia dove, in un determinato giorno dell’ anno, confluivano i verseggiatori orali di tutta l’ isola per dare vita a una strampalata, geniale gara poetica.
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Il Corriere della Sera – 23/3/2009
Primavera, un’ondata di vita in cui rinasciamo
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La primavera è la stagione in cui tutto rinasce, tutto si risveglia come da un sonno profondo. Etimologicamente vi sono più bracci interpretativi; ne riporto, ad esempio, uno: primus+ver dove primus indica il principio e ver deriva dalla radice vas che in sanscrito significa ardere, splendere e si ricollega anche a Vesta, dea del focolare domestico. La mia prima memoria della primavera è la presenza in tutto il territorio di Mineo di una grande successione di petali che si alzavano dagli alberi e portati dal vento si posavano sui balconi, sulle finestre o con leggiadria estrema sui capelli dei contadini che andavano a cercare, lungo l’ intreccio delle vie, un posto per sedersi al sole mangiando del pane casereccio con una felicità che si diffondeva dai loro occhi. Nel mio ricordo, i petali che avevano maggior fascino erano quelli dei mandorli; per la loro estrema bianchezza davano il senso di un Dio che ci trascendeva e nel nostro animo profondo ci portava il senso di una deità sconosciuta. Ma, al di fuori di queste considerazioni di ordine mitico-religioso noi ragazzi e bambini, in primavera, acquistavamo il senso di una libertà assoluta dentro cui tutto si poteva fare o poteva accadere apportando un gioco e un ritmo a tutte le cose rinascenti. Quando mio padre, conosciuto come «Il sarto della stradalunga», ci portava in maggio sull’ altopiano di Camuti, per godere della nostra libertà che definirei cosmica, essendo io e mio fratello ancora bambini, ci metteva dentro due cofani che l’ asino, chiamato Rondello in onore del paladino Buovo D’ Antona, portava sulla groppa, noi guardavamo meravigliati tutto quanto era sopra di noi: l’ azzurro cielo, gli uccelli che remigavano nell’ aria e perfino i tramonti indorati. Oggi, con l’ avvento delle tecnologie e della «globalità» che ci portano in viaggio continuo per rincorrere le nostre «frustrazioni egocentriche», molti passano alcune settimane della primavera lontanissimi dai loro luoghi di origine perdendo il vero senso del risveglio rigenerativo che gli spazi, che ci hanno visto spensierati bambini giocondi, ci trasmettono. Fortunatamente, colui il quale è appagato dalla quotidianità della vita e trascorre il lento passare dei giorni nella propria dimora, resta incantato guardando fuori di casa questo scintillio di luce e di cromatismi che ci conquistano e ci invadono l’ animo. Se una mattina, appena spunta l’ aurora, ci affacciassimo al balcone di casa avremmo una visione totalitaria di questo risveglio inaudito e meraviglioso. Certo, se le primavere si potessero riprodurre nella loro totalità sui miliardi di galassie che ci circondano, ritorneremmo sicuramente al principio del mondo quando Dio, con la sua forza creatrice, venne a dare origine al creato ancora inviolato entrando in una universalità fatta di luce, di nuclei elettromagnetici, di quasar che da ogni parte ci plasmano e ci danno un senso sconfinato del vivere terrestre e al tempo stesso effimero. Se qualcuno ha una visione panteistica di tutto il creato, si potrebbe dire che miliardi di immaginarie deità entrano in arsione, o per meglio dire, si aprono un’ infinità di vie nuove che investono l’ orbe terraqueo e la sconfinatezza delle galassie che da un lunghissimo tempo ci portano nel pullulare enorme di un risveglio cosmico. Non neghiamo che le altre stagioni hanno le loro aperture, i loro ritmi, le loro straordinarietà e l’ intrecciarsi di vitalismi biochimici ma, l’ arborizzazione italiana e dei Paesi del sud Europa è così sviluppata da dare una magia all’ incanto di questa stagione. Ancora, ricordiamo che gli ammalati cronici di qualsiasi specie spesso migliorano in questa stagione per cui bisogna persino cambiare, modificare o alternare i farmaci che vengono loro somministrati. Insomma, ringraziamo Iddio che ci ha concesso di vivere questa fetta di realtà cosmica e multirigeneratrice. Vivendo noi sotto questa enorme cupola galattica dobbiamo essere felici che arrivi questa ondata di magia, di luce, di petalizzazione che resta, checché si dica, la caratteristica fondamentale della primavera.
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Il Corriere della Sera – 23/3/2009
Caro Massimo, sperando di fare cosa gradita, ti invio l’articolo che ho scritto sulla pagina culturale della Gazzetta di Parma in occasione della scomparsa di Giuseppe BOnaviri
Bonaviri e la Sicilia, un mondo arcano tra ricordi e magie
di Davide Barilli
«… il mio paese, in provincia di Catania, ha sempre favorito la nascita di poeti e pensatori tra contadini e artigiani: per tradizione, per clima, aure, venti, fasce elettromagnetiche terrestri, lunari, solari, metabolizzati per fantasiose spirali di acidi desossiribonucleici…». Così, parlando di Mineo, scriveva – ai confini tra scienza e fantasia, pensiero e immaginazione – Giuseppe Bonaviri. Ed è indubbio che per lo scrittore siciliano, scomparso sabato a 84 anni, la cosmica moltiplicazione del mito e dell’esperienza di quella terra (che diede i natali a molti personaggi di inquieto talento, in primis Luigi Capuana) siano sempre stati il nodo di un legame con le proprie radici fattosi poetica dell’esistente. «La mia formazione infantile – aveva raccontato – resta pre libresca. Poeti contadini e vento di Mineo, fiabe raccontatemi da mia madre…». Ancora troppo poco conosciuto dal grande pubblico, Bonaviri è stato uno dei più autentici scrittori del dopoguerra: ha pubblicato oltre trentacinque opere, di prosa e di poesia, è stato più volte candidato al Nobel, tradotto in molte lingue, perfino in cinese e arabo; di lui hanno scritto Vittorini, Calvino, Sciascia, Manganelli, Gramigna, Manacorda, Pampaloni (solo per citarne alcuni, ma l’elenco è lunghissimo), eppure il suo nome dice poco a chi non si occupa, per passione o professione, di letteratura.
Il suo primo romanzo, «Il sarto della stradalunga», scritto durante il servizio di leva a Casale Monferrato, venne pubblicato nel 1954 da Einaudi nella leggendaria collana «I gettoni». Trasferitosi a Frosinone, dove ha sempre vissuto e lavorato come cardiologo, ha saputo conciliare la sua attività professionale con la scrittura. Nei suoi numerosi romanzi, Bonaviri – inventando una sorta di Macondo della memoria – ha rappresentato l’«universale» attraverso i personaggi del piccolo mondo di Mineo, sempre attento a cogliere la dimensione magica e arcaica della natura: «Il fiume di pietra» (’64), «Notti sull’altura» nel (’71), «L’enorme tempo» (’76), «Novelle saracene» (’80), «L’incominciamento» (’83), «Il vicolo blu» nel 2003, sono alcune delle tappe di questo percorso. Fortemente legato alla sua terra, dopo il romanzo d’esordio, Bonaviri abbandonò l’approccio neorealistico per approdare ad una scrittura fantastica e onirica. Ed è proprio la dimensione magica e arcaica della natura, la cifra dominante di questo autore appartato e schivo. Ma quella di Bonaviri è una Sicilia mitica e magica, senza mai cadute nel bozzetto o nel colorismo fine a se stesso. I suoi romanzi e racconti, da leggersi come un libro unico, sono uno spaccato di un mondo fatto di paesaggi e presenza oniriche. Con «Dolcissimo» (nel ’78) Bonaviri compie poi una surreale discesa agli inferi della città di Zebulonia-Mineo. Quasi tutte le scene dei romanzi e delle poesie ripercorrono le età magiche dell’infanzia e della giovinezza a Camuti, dove sorgeva la casa paterna. Siciliano fino al midollo, per il gusto di una lingua scavata dal di dentro, per cultura e gusto, ha incarnato l’illusione laica di eternità dell’uomo identificabile in più di uno scrittore siciliano. Si può davvero dire che ansia di assoluto e regola della verità si siano influenzate a vicenda e che Bonaviri abbia realizzato l’unificazione delle cosiddette due culture: scientificità e umanesimo, entrambi indispensabili per la sua compiutezza letteraria. Tra gli abissi di un nulla osservato «negli arsi terreni, senza grano nè fave», dove solo il potere salvifico della parola si rifrange tra le onde del sogno.
Gazzetta di Parma 24/3/2009
Grazie mille, caro Davide. Hai fatto cosa graditissima.
Bellissimo articolo.
Consolo ricorda Bonaviri: “Muore la letteratura vera”.
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http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/03/24/consolo-ricorda-bonaviri-muore-la-letteratura-vera.htm
Ho visto adesso che cliccando sull’indirizzo, da me indicato nel commento precedente, si giunge in una pagina di ricerca di “La Repubblica”. Basta digitare nello spazio “cerca” le parole: Consolo Bonaviri. Si aprirà una pagina che riporta l’articolo del 24-3-09 apparso a pagina 10, sezione Palermo, del quotidiano “La Repubblica”. Nell’articolo viene riportata anche la notizia della sezione di Letteratitudine dedicata a Bonaviri.
Grazie, caro Gaetano. Non sapevo di questo articolo.
Sono andato a pescarlo e ne riporto il testo nel commento che segue.
CONSOLO RICORDA BONAVIRI ‘MUORE LA LETTERATURA VERA’
Repubblica — 24 marzo 2009 pagina 10 sezione: PALERMO
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Vincenzo Consolo lo dice chiaro e tondo: con Giuseppe Bonaviri, morto sabato sera, se ne va una stagione di letteratura “vera” ormai sepolta dai mass media, da Internet, dalla pubblicità e dal trionfo dei «dialettalismi di maniera». «Rimpiango molto Bonaviri – dice lo scrittore di Sant’ Agata raggiunto al telefono nella sua casa milanese – È stato uno dei primi autori pubblicati nei Gettoni Einaudi di Vittorini e apparteneva a quella tradizione letteraria siciliana di “dispatriati”, a quegli scrittori, cioè, che non riescono mai ad allontanarsi dal luogo della memoria. Come me, del resto. Ho sempre seguito Bonaviri e ho appreso molto da lui: nel “Sarto della Stradalunga” c’ erano dei moduli neorealistici ma già si intuiva il tono lirico della sua produzione successiva. Bonaviri era uno scrittore lirico, cosmico, veramente un poeta». Il docente di Letteratura italiana Natale Tedesco, che dalle mani di Bonaviri ricevette il premio “Val di Comino” per la saggistica, ricorda la galanteria dello scrittore di Mineo che, proclamato vincitore del Super premio Vittorini, volle chiamare sul palco anche gli altri due autori selezionati. Un episodio di «solidarietà gentile» che la dice lunga sulla sua statura morale «in una società letteraria rissosa». Tedesco si sofferma sulla «speciale nozione del tempo», cifra letteraria di Bonaviri, «immobile e tuttavia storica nella sua dimensione soprattutto paesana e parentale». Secondo Tedesco la «mitografia personale dello scrittore affonda in “pozzi sensoriali” che custodiscono memorie, formati nel tempo-spazio prelinguistico dell’ infinito». Anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, «appresa con tristezza la notizia della scomparsa di Giuseppe Bonaviri», ha voluto ricordare, in una nota diramata dal Quirinale, un «apprezzato scrittore e poeta, intimamente legato alla Sicilia dell’ infanzia, che la sua arte trasformava in terra d’ elezione dei sentimenti e delle passioni umane». Napolitano ha espresso in un messaggio alla famiglia le più sentite condoglianze. «Con Giuseppe Bonaviri scompare una delle figure più prestigiose e nobili della cultura e della letteratura siciliana e nazionale – dice il presidente della Regione, Raffaele Lombardo, commentando la morte dello scrittore – Le simbologie utilizzate da Bonaviri per raccontare la Sicilia greca e quella normanna – ha aggiunto – si coniugano nelle sue opere con l’ estro dello scrittore e del medico. Personalmente tanti ricordi mi legano a Bonaviri, che ho avuto modo di incontrare in più occasioni, rafforzando in me la convinzione maturata, dettata dalla lettura di alcune sue opere, che si trattasse di un personaggio di statura culturale mondiale e che i grandi circuiti letterari forse non hanno valorizzato come meritasse». Il sito Internet “Letteratitudine” invita a scrivere dei pensieri sull’ autore de “Il sarto della Stradalunga”. Il sito dedicato alla letteratura ripropone un “post” pubblicato lo scorso anno e un’ intervista rilasciata dallo scrittore. Per intervenire, basta collegarsi all’ indirizzo: http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/22/giuseppe-bonaviri/
Proprio giovedì scorso, in occasione del suo onomastico, al Palazzo della Cultura di Catania era stato organizzato un pubblico omaggio da Sarah Zappulla Muscarà e Enzo Zappulla in occasione della riedizione del suo romanzo giovanile “La ragazza di Casalmonferrato”, e di cui la stessa Zappulla Muscarà ha scritto su queste pagine.
Oggi (13 maggio 2009, alle 00:08) riporto in primo piano questo post dedicato a Bonaviri.
Ci tengo tanto a ricordarlo ancora…
Sabato scorso – 9 maggio – sono stato invitato dalla fondazione Bonaviri e dal Comune di Mineo a intervenire all’evento organizzato in Ricordo di GIUSEPPE BONAVIRI, tenuto presso l’Auditorium Papa Giovanni Paolo II, Piazza Ludovico Buglio, Mineo
Insieme a me sono intervenuti: Nino Amante (giornalista RAI), Maria Attanasio (scrittrice), Agrippino Pietrasanta (critico letterario), Domenico Trischitta (scrittore).
Ha coordinato Sarah Zappulla Muscarà, vice presidente comitato scientifico.
Io ho parlato dell’ultimo libro pubblicato in vita da Giuseppe Bonaviri: “La ragazza di Casalmonferrato”.
Ho dato una sistemata agli appunti che avevo preso per relazionare… li riporto qui di seguito…
MINEO – 9 maggio 2009
PRESENTAZIONE de LA RAGAZZA DI CASALMONFERRATO di Giuseppe Bonaviri
relazione di Massimo Maugeri
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Sono molto lieto di essere qui, oggi, in una giornata così importante a discutere di Giuseppe Bonaviri e a presentare questo romanzo appena edito dalla casa editrice “La Cantinella”: “La ragazza di Casalmonferrato”. E di questo ringrazio la fondazione Bonaviri, il Comune di Mineo e la professoressa Sarah Zappulla Muscarà.
Una brevissima premessa. Come qualcuno di voi saprà, nei mesi scorsi ho avuto modo di dedicare a Giuseppe Bonaviri un corposo omaggio all’interno del mio blog Letteratitudine. In quel post si sono poi accavallati testimonianze, manifestazioni d’affetto, opinioni, citazioni. Una vera e propria festa letteraria finalizzata a celebrare la figura di questo grande scrittore. So che Bonaviri, essendone stato messo al corrente, ha molto apprezzato l’iniziativa. Poi, subito dopo la notizia della sua scomparsa – avvenuta il 21 marzo – e comunicatami prontamente da Massimiliano Perrotta, ripresi quel post che, in poche ore, si riempì di ulteriori testimonianze, messaggi, ricordi e manifestazioni di affetto da parte di addetti ai lavori (anche noti) e di semplici lettori. Quel post rimane disponibile on line per essere consultato e ulteriormente integrato.
Come ho avuto modo di scrivere nell’ambito in una recensione dedicata a questo volume, spesso mi capita di riflettere sulla circolarità della vita.
Questo libro fu presentato in anteprima a Catania, il 19 marzo, presso il Palazzo della Cultura in Via Museo Biscari 5. A quella manifestazione partecipai pure io: un vero e proprio pubblico omaggio rivolto a Bonaviri. L’autore doveva essere presente. E non è un caso se il giorno dell’evento coincideva con quello del suo omomastico. Bonaviri non riuscì a partecipare per via di una inattesa influenza. Sarebbe morto tre giorni dopo. Il 21 marzo: il primo giorno di primavera. «La ragazza di Casalmonferrato», di conseguenza, – che è uno dei primi scritti di Bonaviri – diventa anche l’ultimo romanzo pubblicato prima della scomparsa (da qui il riferimento alla “circolarità” della vita). Il testo di questo romanzo era già apparso una prima volta nel 1998 in appendice al volume «Bonaviri inedito» (sempre pubblicato da La Cantinella), “grazie all’affettuosa amicizia di Lina” – scrivono Sarah ed Enzo Zappulla – “che, mettendo finalmente a tacere l’antica, mai sopita gelosia, ce ne ha fatto generoso dono”. Ma l’autore aveva sempre manifestato il desiderio di vedere quel romanzo in una pubblicazione autonoma. Quando Pucci Giuffrida gli manifestò l’intenzione di pubblicarlo (appunto, in forma autonoma), Bonaviri ne rimane entusiasta: “telefonò alla moglie Lina che non aveva potuto accompagnarlo, come sua consuetudine”, scrive Giuffrida in una nota al volume, “per informarla della bella notizia. (…) Era emozionatissimo come un bambino ed io più di lui. Infine prese le mie mani fra le sue, le strinse forte forte e me le baciò. Fui grandemente turbato ed emozionato da quel gesto. Era molto felice giacché, mi confessò, parlando di quel romanzo affioravano in lui giovanili, commoventi ricordi”. Ed è proprio così. Ma non solo… come avrò modo di evidenziare.
Questo romanzo è del 1954, ed è ispirato da una esperienza giovanile.
Il volume, però, offre ben più del romanzo e può essere suddiviso in tre parti… tutte e tre di assoluto interesse e precedute dall’ottima prefazione firmata dai curatori del libro: Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla.
La prima parte consiste in una ricca nota redazionale dove affiora un fitto e interessantissimo carteggio tra Bonaviri e i noti consulenti della casa editrice Einaudi (che pubblicherà il primo libro di Bonaviri: “Il sarto della stradalunga”). Mi riferisco a Vittorini, Calvino, Ginzburg. A queste “voci” si uniscono quelle di Carla e di Lina (futura moglie di Bonaviri).
La seconda parte consiste in una vera e propria rassegna fotografica. Una sequenza di circa 30 fotografie in bianco e nero che ritraggono il Bonaviri di quegli anni (siamo nel periodo che va dal 1950 al 1952), impreziosite da ottime didascalie. In molte immagini Bonaviri compare in abiti militari. Accanto a lui, spesso, c’è Carla: la ragazza di Casalmonferrato.
La terza parte, infine, quella fondamentale, coincide con il romanzo vero e proprio.
“La ragazza di Casalmonferrato” è la storia di un viaggio, la narrazione in chiave autobiografica di anni particolari. Il protagonista maschile, Pino, è un giovane meridionale che si trasferisce al Nord, in Piemonte, in cerca di lavoro. E lì incontra Carla, l’altra protagonista del libro.
Il romanzo è suddiviso in due blocchi narrativi. Il primo si intitola, appunto, “La storia di Pino”: «Io sono Pino e debbo pensare alla mia storia, mentre viaggio in questo treno pieno di viaggiatori uguali e magri».
Il secondo ha come titolo “La storia di Carla”: «Sono passati molti mesi dacché Pino è tornato in Sicilia. Sono successe molte cose ed io non lavoro più con l’ingegnere».
Una storia, dunque, raccontata da due punti di vista differenti e impostata su due diversi piani cronologici. Ma, soprattutto, una storia “vissuta” da due angolazioni diverse: quella di un giovane uomo del Sud e quella di una giovane donna del Nord, in un periodo particolare della storia del nostro Paese (quella dei primi anni Cinquanta). Pino racconta la storia a partire dal suo arrivo a Casalmonferrato fino al momento della sua ripartenza. Carla, invece, la racconta dal momento del ritorno in Sicilia di Pino… fino al finale, che rimane aperto… ma perfettamente intuibile.
A differenza degli altri romanzi di Bonaviri, “La ragazza di Casalmonferrato” non è ambientato in Sicilia. Ed è – dicevo – la storia di una migrazione con ritorno. In tal senso offre moltissimi spunti per comprendere le difficoltà sociali degli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale: difficoltà ad affermarsi, a trovare lavoro e – una volta trovato – a mantenerlo.
Ma “La ragazza di Casalmonferrato” è anche il racconto di una storia d’amore. Difficile, perché difficile è il contesto in cui è nata. Perché difficili, appunto, sono le condizioni sociali in cui essa si sviluppa. Ma anche per la diversità caratteriale dei due personaggi.
Carla è una ragazza che (come la definisce lo stesso Pino tra sé e sé) non è né bella né brutta… ma che ha un innegabile fascino. È una giovane donna che lavora e che abita con l’anziana madre. È indipendente, per certi versi libera; per altri, ancora imprigionata in quel retaggio atavico – fortissimo, in quegli anni – che vede la donna in una netta posizione di inferiorità e di sudditanza rispetto all’uomo. C’è dunque questo intrigante frammisto di modernità e tradizione nel personaggio Carla.
Pino, invece, è frustrato dalla difficoltà a trovare lavoro. Ed è proprio Carla che lo aiuta a inserirsi come contabile in un albergo frequentato da prostitute. Ma è un lavoro precario, che volge al termine con la morte del signor Mercoledì: titolare dell’albergo. E allora ritorna la frustrazione. E forse è proprio questa frustrazione che acuisce la gelosia rabbiosa di Pino nei confronti di Carla. Una gelosia eccessiva, spesso irrazionale – insensata – che lo spinge a infuriarsi persino dinanzi al ricordo dell’ex fidanzato della ragazza, ormai morto.
Pino è un personaggio ondivago, per certi versi immaturo, che cerca di navigare tra le proprie mancanze, di trovare un equilibro tra i propri vuoti e le incertezze di una vita precaria. Tanto più che dovrebbe riuscire a racimolare qualche soldo da spedire a casa… ai suoi. Un personaggio che è stato giustamente accostato a “L’uomo senza qualità” di Musil per via di una certa fragilità psichica, della sfiducia, di una sorta di inettitudine di fondo.
Carla – invece – è paziente, innamorata. Tende a giustificare le sfuriate di Pino. A volte è reticente. Certe cose preferisce non dirle, perché si sa come reagiscono gli uomini. Meglio tacere, laddove possibile.
Quando Pino perderà il lavoro, Carla farà di tutto per trattenerlo. Andrà con lui in giro, in cerca di raccomandazioni. Si spingeranno fino a Torino. Nel frattempo il loro rapporto si incrina. Ineluttabilmente. Fino a quando lui non decide di tornare in Sicilia.
Bonaviri riesce a rendere con maestria questo gioco di ruoli, questo scambio di sguardi, questa alternanza di punti di vista che rimbalzano dal primo al secondo blocco del romanzo. Ne viene fuori una storia dolente – a tratti molto dolce -, dove emergono conflitti esistenziali, un amore irrisolto, le incertezze di una piccola Italia ancora molto distante dal boom economico che l’avrebbe rivitalizzata nel decennio successivo. E sullo sfondo: Casalmonferrato… con i suoi luoghi e le sue strade (dove Pino di tanto in tanto si perde): una sorta di mappa cittadina che emerge dal fluire della narrazione.
Lo dicevo all’inizio: Bonaviri ha accolto con grande gioia la notizia della pubblicazione di questo libro. Ma non solo – a mio modo di vedere, almeno – perché in esso confluiscono ricordi giovanili. C’è di più. Credo che, per certi versi, questo libro rappresenti un momento fondamentale della vita dell’autore. Una sorta di bivio. Rispetto a Bonaviri, i ricordi che si innestano nel materiale narrativo di questo libro sono il riflesso di quella fetta di esistenza dove la vita prende una direzione piuttosto che un’altra. Sono gli anni in cui Bonaviri firma il contratto con l’Einaudi (entrando nel mondo della letteratura che conta) e quelli in cui la sua vita sentimentale prende una piega, piuttosto che un’altra (dal momento che sceglie di stare con Lina, lasciandosi alle spalle la ragazza di Casalmonferrato). Anche per questo “La ragazza di Casalmonferrato” assume una dimensione e un ruolo importante all’interno dell’opera omnia di questo grande autore.
Infine la scrittura, dalla quale affiorano (come fanno ben notare i curatori del volume) “future peculiarità bonaviriane, suffissazioni, prefissazioni, diminutivi, metafore, dialettismi, cromatismi e, soprattutto, l’insistitito uso dell’onomatopea, per quella maliziosa inventività linguistica destinata a divenire, nel tempo, sempre più raffinatamente giocosa, ironica (spesso autoironica), umoristica, parodistica”.
Chiudo con un’immagine, che ci riporta dal romanzo alla vita reale (a cui peraltro il romanzo è strettamente legato). E’ quella dell’ultima foto riportata nel libro. Ci sono Pino e Carla che fissano l’obiettivo. Un nugolo di piccioni ai loro piedi. Entrambi reggono una borsa. Sorridono… come facciamo quasi tutti noi di fronte a una macchina fotografica: ignari di ciò che ci riserverà la vita.
E poi c’è questa didascalia, che colpisce: “Se il tempo cancellerà il presente ricordami innamorata e felice come oggi. Carlina. Milano, 3 maggio 1952”.
Grazie.
Caro Massimo, ero in paziente attesa di questo prezioso aggiornamento. Grazie di cuore.
Mi sento un po’ in colpa perché non ho ancora letto nulla di Bonaviri. Rimedierò presto. In una di queste interviste ha detto cose molto importanti e vere, cose che devono far riflettere.
Un ciao ad uno dei grandi.
Sempre per rendere omaggio a uomini straordinari,
il nostro ultimo post su Emanuele Severino.
Bravo Massi,
la tua relazione su Bonaviri gli rende omaggio affondando nella vita.Nella soglia del tempo, dei sogni perduti, del portico che prelude a una storia. E’ bellissima la frase finale (“Se il tempo cancellerà il presente ricordami innamorata e felice come oggi. Carlina. Milano, 3 maggio 1952″), folgorante come il tempo che rimane infisso, trafugato da un unico istante.
Guardando le foto del passato è così. Un gesto fermato per sempre, un sorriso all’obiettivo e noi, gli altri noi, quelli che non siamo più o quelli che siamo veramente stati.
Bravissimo: Bonaviri avrebbe applaudito.
un bacio
Ringrazio Gaetano, Barbara, Gruppoa e Simona per i commenti.
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@ Barbara
Leggi Bonaviri… e non te ne pentirai:-)
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@
@ Simo
Grazie mille.
Un bacio a te:-)
Bravissimo Massi…
Bonaviri, dalla Mineo del cielo, sta leggendo questo post.
Grazie, Mari:-)
Credo che siano caratteri cirillici… il legame di Bonaviri con l’ex URSS, dove era conosciuto e apprezzato, è stato indagato e credo anche discusso qui.
Penso che quelli sopra siano link russi che parlano di Bonaviri…
Cara Maria Lucia,
temo che il commento con caratteri cirillici sia spam bello e buono. Infatti mi accingo a cancellarlo… però ci ha consentito di rispolverare questo post dedicato a Bonaviri 😉
A un anno dalla morte di Giuseppe Bonaviri (21 marzo 2009) è apparso ieri sul Corriere della Sera un articolo molto bello di Matteo Collura intitolato “Giuseppe Bonaviri medico alchimista”.
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Buona primavera a tutti!
Caro Gaetano,
hai fatto benissimo a ricordare l’anniversario della morte di Bonaviri. Ti sono molto grato per questo.
Qui è possibile leggere il pezzo di Collura da te citato:
http://archiviostorico.corriere.it/2010/marzo/20/GIUSEPPE_BONAVIRI_MEDICO_ALCHIMISTA_co_9_100320069.shtml
Buona primavera a te e a tutti (anche da parte mia).
Segnalo, su Tuttolibri della Stampa di oggi, un buon articolo di Piero Bianucci (c’è solo un refuso sulla data di morte di Bonaviri avvenuta il 21 marzo, e non l’11 marzo) relativo alla recente riedizione presso Sellerio di “L’enorme tempo” di Giuseppe Bonaviri. Il volume è curato da Salvatore Silvano Nigro, un esperto dell’opera bonaviriana.
Nel libro è presente anche, in appendice, un inedito che riporta gli appunti su cui lavorò Bonaviri per stilare il romanzo.
L’articolo (nella parte alta della pagina di Tuttolibri) è leggibile qui:
http://www3.lastampa.it/tuttolibri/sezioni/edicola/articolo/lstp/49321/
Fondazione Giuseppe Bonaviri
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Convegno di studi
L’EREDITA’ LETTERARIA DI GIUSEPPE BONAVIRI
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Centro interculturale Papa Giovanni Paolo II
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Mineo 18-19 dicembre 2010
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Con il patrocinio del Comune di Mineo
Copio-incollo da http://WWW.culturaitalia.it
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Parigi: omaggio allo scrittore Giuseppe Bonaviri al Centro Culturale Italiano
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23 marzo 2011
Omaggio allo scrittore e poeta Giuseppe Bonaviri a Parigi; ad organizzare l’evento, previsto per il 31 marzo, il Centre Culturel Italien, in collaborazione con la Fondazione Giuseppe Bonaviri. L’“Hommage à Giuseppe Bonaviri”, medico nato a Mineo, trasferitosi e morto a Frosinone, famoso per aver colto nei suoi romanzi e nelle sue poesie la dimensione magica e arcaica della natura, prevede una conferenza presieduta da Philippe Di Meo, con le letture a cura di Pierluigi Tomasi e la proiezione del video Bonaviri ritratto di Massimiliano Perrotta, prodotto dalla fondazione nel 2007, che raccoglie le testimonianze dello stesso Bonaviri e di Giuseppe Castania, Walter Mauro, Ennio Morricone, Salvatore Silvano Nigro, Walter Pedullà e Sarah Zappulla Muscarà. Di Bonaviri sono stati tradotti in Francia una quindicina di titoli, tra i quali Il sarto della stradalunga, La divina foresta, Notti sull’altura e Il vicolo blu.
Cari amici,
ho il piacere di comunicarvi la notizia che buona parte di questo post/tributo dedicato a Giuseppe Bonaviri è stato tradotto in lingua estone.
Ecco il link: http://blog.1800flowers.com/international/giuseppe-bonaviri-es/
http://www.radiostile.com
Segnalo questo sito perché è il corso un evento speciale dedicato al grande Bonaviri…
la grandezza di uno scrittore sta nel tradurre il suo presente in uno spazio oltre il tempo, e la grandezza di Bonaviri ha colto ,perfettamente questo, questo in modo