“I capolavori di George Orwell” (Newton Compton), nel racconto del curatore e traduttore Enrico Terrinoni
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Il nuovo appuntamento dello spazio di Letteratitudine chiamato “Vista dal traduttore“ (dedicato, per l’appunto, al lavoro delle traduttrici e dei traduttori letterari) è incentrato sui romanzi di George Orwell, ripubblicati in nuova edizione da Newton Compton: “I capolavori” [che include: La fattoria degli animali • 1984 • Senza un soldo a Parigi e a Londra • Giorni in Birmania • Omaggio alla Catalogna], a cura di Enrico Terrinoni e con le traduzioni di Enrico Terrinoni, Andrea Binelli, Francesco Laurenti e Fabio Morotti.
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“I capolavori” di George Orwell (Newotn Compton): La fattoria degli animali • 1984 • Senza un soldo a Parigi e a Londra • Giorni in Birmania • Omaggio alla Catalogna
A cura di Enrico Terrinoni e con le traduzioni di Enrico Terrinoni, Andrea Binelli, Francesco Laurenti e Fabio Morotti.
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TRADURRE ORWELL
Nei dibattiti sulla traduzione ci si è posti per tanti anni un falso quesito riguardante l’impossibilità di tradurre, soprattutto certi tipi di testi, certi generi. Si è detto che tradurre la poesia, ad esempio, è impossibile, oppure che esistono alcuni testi intraducibili.
Io ho sempre creduto necessario rimpiazzare la domanda “tradurre si può?” con l’affermazione “tradurre si deve”. Perché sulla traduzione si basa la civiltà. Sullo scambio, prima di tutto di informazioni, sulla comunicazione, e ogni comunicazione è una forma di traduzione. Non bisogna scomodare i modelli che chiamano in causa la traduzione intra- e interlinguistica per capire che qualunque transfer informativo si basa su dinamiche traduttive, ovvero, su dinamiche di cambiamento. Perché la traduzione è prima di tutto cambiamento: per questo non regge l’idea della sua impossibilità.
Certamente, non si può tradurre lasciando le cose come stanno, o riproducendo un messaggio (o un testo) identico all’originale, perché traducendolo quel messaggio (e quel testo), li avremo cambiati in tutto e per tutto sin nelle minime unità. Linguistiche prima di tutto, ma anche culturali, se è vero che trapiantare un’idea proveniente da una data cultura in una cultura altra, significa per forza di cose adattarla a un nuovo contesto.
Allora, cosa resta, nella traduzione? Cosa rimane tra le pagine chiare e le pagine scure, quando un testo passa dalla sua conformazione d’origine alla sua nuova vita in un’altra lingua e in un’altra cultura? Questo è il vero quesito che dobbiamo porci. Perché è in base alla risposta che si giudicherà buona o cattiva una traduzione, e competente o meno un traduttore.
Anche qui, il giudizio non è facile, perché, al netto di quelli che possono essere gli errori traduttivi, le sviste, le imprecisioni, le deviazioni dovute al passaggio dalla traduzione alla revisione (che comporta inevitabilmente l’ingresso nel testo di altre visioni, di altre interpretazioni, di altre teste), ognuno legge un testo a suo modo, riempiendolo di una gamma di significati secondari che vanno a colorire quello che si pensa intrappolato nel testo di partenza, e che si immagina si sia liberato dalla testa di partenza, ovvero dall’autore.
Tradurre appartiene al genere interpretare, e interpretare significa in primo luogo vivere, esistere, poiché è impossibile vivere senza interpretare. E l’interpretazione dà vita ai fraintendimenti a volte, poiché ci tuffa (e ci truffa) all’interno di una rete di intendimenti vari: ci ritroviamo appunto “fra intendimenti”. E dobbiamo mediare.
Ecco cos’è tradurre: mediare. Mediare tra le teste, tra i testi, tra le possibilità, mai puntando alla fissità di un messaggio, ma comprendendone la sua mutevolezza. Perché in traduzione tutto cambia, tutto scorre. Pánta rheî come dice il peluche che ho sul comodino e che accompagna da sempre le mia traduzioni (per questo l’ho chiamato Panda Ray).
Ora, quel che è vero è che esistono testi e autori tradurre i quali comporta sfide maggiori. Tra loro i classici, e tra questi Orwell. Ma prima di spendere due parole su questo, vorrei dire che per me un classico è un libro che parla al futuro, il cui significato dunque si adatta, si adatterà, non rimane fisso. Altrimenti non ci direbbero più niente i classici.
Se l’Iliade servisse soltanto come documento archeologico per comprendere le condizioni delle guerre nell’antica Grecia, la portata del suo messaggio sarebbe limitata. Prenderlo invece come un testo che rivela la natura dei contesti che portano alle guerre, che descrive le reazioni, le esistenze, di chi è coinvolto nei conflitti, lo rende assai più interessante, utile, e dunque rivelatore.
Così Orwell: bisogna leggerlo con le lenti del futuro. Non per distanziarsi dal suo messaggio e dal suo contesto originario, ma perché dobbiamo comprendere cosa ha da dirci oggi.
E allora, quando ho accettato di tradurre due sue opere chiave (Animal Farm e 1984), e di curare un volume che ne includesse altre tre (Down and Out in Paris and London, Burmese Days, e Homage to Catalonia), coinvolgendo ottimi colleghi e amici traduttori quali Andrea Binelli, Francesco Laurenti e Fabio Morotti, mi sono chiesto in primo luogo cosa potessero quelle opere restituirci, non nei termini statici di un quadro e una fotografia di un passato, ma in quelli dinamici di una profezia sul futuro.
Quando ad esempio, di fronte a 1984 mi sono posto il problema dei problemi, ovvero come risolvere oggi l’impasse creata dal fatto che in passato la locuzione Big Brother, che sta per “fratello maggiore”, sia stata resa con “Grande fratello”, per evitare da un lato l’imprecisione, e dall’altro, sapendo di tradurre principalmente per il futuro, e dunque per le nuove generazioni, l’effetto televisivo (ritengo più probabile che un teenager associ oggi la dicitura al famoso programma, ancor prima che al famoso classico), ho optato per la soluzione inglese. Il mio Big Brother si chiama infatti Big Brother.
Si dirà: ma in questo caso la traduzione non è cambiamento: hai lasciato le cose come stavano! No, perché il nuovo testo, inglese, si incista su un reticolo culturale italiano, e le sue connotazioni cambiano non in quanto cambia il testo, ma in quanto cambia il contesto. Ma lasciando da parte queste considerazioni che trovo noiose, vorrei dire due parole sulla conseguenza di questa scelta.
Infatti, per coerenza anche con il fatto che il libro ha tra i protagonisti una nuova lingua, il Newspeak, che modifica non il linguaggio generale, ma l’Inglese, detto Oldspeak, scegliere di “tradurre” Big Brother ha portato a dover tenere, o ricreare, in Inglese anche le altre parole nuove.
Alcune espressioni ponevano problemi, come quella che era stata tradotta psicopolizia, la thought police. Ora, un italiano anche digiuno di Inglese saprà riconoscere che police è “polizia”, ma non ero certo che potesse individuare altrettanto facilmente che thought sia “pensiero”. E allora, la mia traduzione, dovendo mantenere l’Inglese, ha optato per mental police, più riconoscibile, e anche sottile poiché l’aggettivo mentale in Inglese (e qui mi rivolgo a quanti invece con la lingua hanno familiarità) significa anche “folle” (chi può negare che l’idea di una megapolizia salviniana in grado di entrarci nel pensiero sia qualcosa di folle?).
Stesso ragionamento per Crimestop, ossia la capacità di fermarsi automaticamente prima di commettere un crimine. Qui la parola facile era stop, quella difficile crime. E allora, nella mia “resa” diviene Criminalt: un alt al crimine, ma anche un introiettare questo impulso in una personalità criminale.
Spero che questi esempi servano da raccordo tra la prima e la seconda parte di questo mio breve intervento, inteso a dichiarare urbi et orbi che tradurre è cambiare, perché tradurre è rendere. È una resa, perché ti puoi arrendere, ma quando non ti arrendi (e si spera capiti sempre meno spesso ai traduttori), diviene l’unico modo di veicolare un testo (e un messaggio) cambiandolo per forza di cose, ma consentendo, come dicevo prima, a qualcosa di rimanere, tra le pagine chiare e le pagine scure dei libri che abbiamo letto e leggeremo.
(Riproduzione riservata)
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La scheda del testo: “I capolavori” di George Orwell (Newton Compton): La fattoria degli animali • 1984 • Senza un soldo a Parigi e a Londra • Giorni in Birmania • Omaggio alla Catalogna
La fattoria degli animali (1945) è una favola in cui gli animali soppiantano gli umani espropriando la fattoria in cui lavorano sotto continui maltrattamenti. Dopo aver cacciato gli uomini la gestiscono autonomamente, fino a quando lo spirito rivoluzionario non sarà tradito e verranno a imporsi altre forme di sfruttamento: un’allegoria delle rivoluzioni trasformatesi in autoritarismi, o anche un esempio di letteratura per l’infanzia in cui si legge in controluce la lotta eterna tra giustizia e ingiustizia. 1984 (pubblicato nel 1949) è l’ultima opera di Orwell e il suo classico per eccellenza. Romanzo distopico, vede la storia di una società futuristica e disumanizzata, rigidamente divisa in classi e dominata da un’ideologia perversa che sovverte i valori basilari della civilizzazione, come anche i cardini della comunicazione, primo tra tutti il linguaggio. È, paradossalmente, sia una visione apocalittica dell’evoluzione del socialismo agli occhi di un autore anarchico, sia una feroce critica di tutti i capitalismi, colpevoli di proporre propagandisticamente visioni distorte della realtà. Senza un soldo a Parigi e a Londra (1933), l’opera prima di George Orwell, è un prezioso scritto che contamina autobiografia, invenzione e reportage, una perla della letteratura della working-class. Ma il primo, vero romanzo è Giorni in Birmania (1934), in cui Orwell demistifica l’imperialismo inglese, denunciandone il razzismo e svelando la falsa coscienza degli europei. Omaggio alla Catalogna (1938) è un resoconto personale della Guerra Civile Spagnola, a cui Orwell partecipò; la sua è una testimonianza diretta e al contempo un’opera di grande interesse storico. È anche il racconto di un’utopia, di quel sogno interrotto che condusse l’autore alla stagione delle distopie che lo avrebbe reso immortale.
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George Orwell è lo pseudonimo di Eric Arthur Blair, nato in India da una famiglia scozzese nel 1903 e morto a Londra nel 1950. Giornalista culturale, saggista, critico letterario, Orwell è oggi considerato uno dei maggiori autori di lingua inglese del Novecento. Partecipò alla guerra civile spagnola contro Franco; da posizioni socialiste, passò in seguito a una dura critica del regime staliniano. La Newton Compton ha pubblicato 1984, La fattoria degli animali e il volume unico I capolavori (La fattoria degli animali; 1984; Senza un soldo a Parigi e a Londra; Giorni in Birmania; Omaggio alla Catalogna).
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Enrico Terrinoni, nato a Gorizia nel 1976, è professore ordinario d’Italia di Letteratura Inglese all’Università per Stranieri di Perugia, e in precedenza Research Fellow alla Indiana University, Visiting Research Scholar e poi Visiting Fellow alla Notre Dame University, e Research Fellow allo University College Dublin, e research Scholar alla Marsh’s Library, Dublin. Ha tradotto numerosi romanzi tra cui Ulisse di Joyce (Premio Napoli per la Lingua e la Cultura Italiana, 2012) e con Fabio Pedone Finnegans Wake di Joyce (Premio Annibal Caro 2017), ma anche L’antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (Premio Von Rezzori Città di Firenze, 2019). Altri autori tradotti includono Nathaniel Hawthorne, Oscar Wilde, Brendan Behan, Bobby Sands, Michael D. Higgins, Alasdair Gray, John Burnside, George Orwell e GB Shaw. Ha scritto numerosi libri tra cui, sulla traduzione, Oltre abita il silenzio. Tradurre l’Ombra (Il saggiatore, 2019). È Presidente della James Joyce Italian Foundation, e scrive su il manifesto, Left, il tascabile.
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